In morte di Papa Francesco

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Quando Francesco fu eletto Papa, le aspettative erano che, come annunciava il riferimento al santo di Assisi, egli si concentrasse su una riforma delle strutture economiche e di potere della Chiesa e che non smuovesse niente sul fronte della morale sessuale, nella previsione di una bancarotta del capitalismo che consegnasse alla Chiesa la guida mondiale dei poveri senza dover più combattere la morale libertina di cui il neoliberismo era portatore e contro la quale si era infranto il pontificato di Benedetto XVI. Solo in parte le cose sono andate così, perché Francesco è stato costretto quotidianamente a occuparsi di morale sessuale che era il terreno su cui il neoliberismo lo attaccava ogniqualvolta egli si ergeva a denunciare le sue ingiustizie. Bastava leggere i giornali, in cui le sue intemerate contro il profitto andavano in settima o in ottava pagina, mentre le prime pagine erano occupate dalle denunce dei costumi corrotti di preti e cardinali. Di qui le sue colorite uscite su temi secolari che erano sempre delle concessioni al libertinismo, anche se le giustificava come espressione dell’amore di Dio per tutte le sue creature. La morale secolare è stata dunque il migliore scudo contro le velleità anti-capitalistiche di Francesco il quale, alla fine, ha illuso i poveri, scandalizzato i retrogradi e offerto il pretesto per essere additato come un cripto-marxista. Un Papa dunque intrappolato in un ginepraio di contraddizioni ma deciso a non soccombervi perché ha sempre avuto coscienza della condizione di “nave sballottata” in cui si trova la Chiesa odierna. Ed è questa coscienza che lo avvicina così tanto all’odierna condizione umana, anche se lui non ha avuto nessuna soluzione da proporre che non fosse la testimonianza di una indomita volontà.

Dazi, austerità e fine dell’americanismo

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Spaventati dalle bordate di dazi sparate da Trump, molti si sono concentrati sui loro effetti sull’economia mondiale ma pochi hanno considerato le loro conseguenze interne agli Stati Uniti. Come nota Jeffrey Sachs in vari suoi interventi, se si prende il caso dell’industria automobilistica, le tariffe aumenteranno i prezzi delle automobili e i salari dei lavoratori del settore automobilistico, ma per effetto complessivo dei dazi questi aumenti salariali non serviranno a compensare l’abbassamento complessivo del tenore di vita degli americani. Sempre Sachs si sofferma sul nesso tra deficit commerciale e deficit di bilancio e mostra che il deficit totale risulta dalla differenza tra la spesa totale dell’America nel 2024 (30,1 trilioni di dollari) e il suo reddito nazionale (29,0 trilioni di dollari). Conclusione, l’America spende più di quanto guadagna e prende in prestito la differenza dal resto del mondo grazie alla forza del dollaro e al suo ruolo di valuta di riferimento. Qui Sachs si ferma, ma è chiaro che la forza del dollaro non deriva solo dalla sua funzione economica ma da fattori politici, altrettante voci del deficit di bilancio, quali le spese di guerra dirette e indirette, quelle per le agenzie di intelligence e da una fiscalità favorevole ai ricchi. E siccome il commercio globale erode la base produttiva dell’America, che così rischia di montare la guardia a un sistema produttivo mondiale che non la rafforza ma la indebolisce, si vede come i costi dell’impero sono dei circoli viziosi che non è folle ma saggio interrompere, proprio quello che sta cercando di fare Trump con il mix di dazi esterni per rinvigorire la base produttiva industriale interna e tagli interni per ridurre la spesa pubblica come quelli avviati da Musk con il suo DOGE. Il fatto però è che il DOGE ha licenziato migliaia di impiegati pubblici, stretto i controlli su chi è rimasto, tagliato fondi per istruzione, ricerca e sviluppo, ma si è guardato bene dal revocare i tagli fiscali per i ricchi e dall’avviare controlli sull’elusione e sull’evasione fiscale, anzi pare che il DOGE, con la scusa di tagliare la spesa pubblica, abbia svuotato la capacità di controllo dell’IRS, l’agenzia governativa per la riscossione dei tributi. Insomma, mentre i dazi sono una guerra inter-capitalistica, il risanamento del bilancio, cioè i costi interni dell’impero, sono tutti a carico delle classi lavoratrici. E siccome i miglioramenti salariali che dovrebbero derivare da un rinvigorimento della base produttiva industriale saranno annullati, come detto prima, dall’abbassamento complessivo del tenore di vita degli americani, cioè dalla riduzione dei loro consumi, tutta l’operazione di Trump si configura come una gigantesca manovra di austerità introdotta nel paese che, grazie al suo ruolo imperiale, non aveva sinora conosciuto questa lebbra del capitalismo. Ma c’è dell’altro. Abbiamo detto che il DOGE di Musk ha tagliato le spese della CIA e di agenzie di intelligence come l’USAID, che per decenni ha distribuito fondi a ogni sorta di amici dell’America, compresi i preti ortodossi ucraini scismatici per la stampa, a questo punto di necessità sospesa, dei loro nuovi calendari liturgici. Inoltre, è stata chiusa Voice of America, la stazione radio simbolo della Guerra fredda. Questi tagli, sommati alla svolta dal consumo all’austerità imposta surrettiziamente alle classi lavoratrici, segnalano sol che lo si voglia vedere che l’America sta iniziando a sganciarsi dall’americanismo, cioè da quel modo di vita libertino e appariscente promosso da ogni sorta di prodotto culturale per la cui suggestione tutto il mondo si identificava con l’America. Intendiamoci, al consumismo, all’edonismo, alla morale libertina dovranno rinunciare non i ricchi, invitati anzi ad arricchirsi di più, bensì i salariati, ma i ricchi, non si sa se per giustificare la svolta che i vincoli della struttura loro impone o perché effettivamente c’è stato un cambiamento nella loro grassa sovrastruttura ideologica, sono entrati in modalità cupa tipica di quando il rimosso si risveglia materializzandosi in inattese inversioni dialettiche. Prendi la lettura a controsenso nei circoli dei miliardari hi-tech, di cui Musk è la figura più in vista, del vecchio libro di James Burnham, The Managerial Revolution, con la quale lo scontro fra capitalisti e manager si trasforma in quello tra capitalisti tecnologi, tornati grazie alla tecnologia smart a mettere le mani nella produzione, e i loro manager e dipendenti soggiogati dall’ideologia Woke con cui insidiano il loro potere. O prendi le analisi, tenute in gran conto sempre nei suddetti circoli, di Alexander Karp e Nicholas Zamisky avanzate nel loro recente libro The Technological Republic: Hard Power, Soft Faith, and the Future of the West, con cui, rifacendosi a Irving Kristol, il troskista che divenne il papa del fondamentalismo “liberal”, si sostiene che compito odierno della nostra civiltà non è quello ormai impossibile di riformare l’ortodossia secolare e razionalista, ma di dare nuova vita con spirito profetico alle ortodossie religiose tradizionali. È tutta la ben nota disperazione un tempo provocata dalla minaccia comunista che oggi si traduce in una funerea morale in cui l’edonismo delle masse viene sostituito dal ritorno del patriottismo quale si espresse nella Seconda Guerra Mondiale, il ruolo dello Stato si rafforza con espulsioni e deportazioni, una nuova etica della partecipazione si afferma tra i talentuosi della scienza e degli affari, l’innalzamento costante degli standard di vita della popolazione a tutti i costi viene abbandonato, e ci si prepara a una dura sopravvivenza nelle condizioni di crescente turbolenza globale, di riduzione delle risorse, di peggioramento delle sfide ambientali e naturalmente di aggressione demografica dall’esterno. Ma nell’attesa che, come vuole Musk, un’avanguardia di cotali eletti voli su Marte per scongiurare la fine dell’umanità, che fare? Anche qui, a capirlo aiuta un dettaglio. Trump freme di abbandonare la NATO e di poter tagliare le spese di guerra in Ucraina (e forse in Medio Oriente). Come mai? È così sciocco da voler abbassare il ponte levatoio permettendo così ai suoi nemici di penetrare nella fortezza occidentale? No, è che la NATO e avventure come il sostegno all’Ucraina (e forse a Israele) non servono più, poiché molto più utile appare, ad esempio, un’Alleanza del Nord tra America e Russia al posto di un’Europa morente, contro Cina musulmani e resto del mondo. Al posto dello “scontro di civiltà”, dunque, un “patto di civiltà” con cui, come pensano i rispettivi circoli dirigenti, per quanto grandi possano essere le rispettive differenze, in quanto ortodossi e protestanti si può rinvenire un terreno comune nei valori della tradizione propri della comune matrice cristiana. E poiché sia cinesi che musulmani, i primi con il loro confucianesimo, i secondi con il loro comunitarismo autoritario, guardano alla tradizione come al modo di vita più sicuro per conseguire la ricchezza, il cristianesimo dell’Alleanza del Nord finirebbe per essere il tempio sconsacrato in cui al posto del tabernacolo potrà essere reinstallato il vitello d’oro che tutto il mondo adorerà. Se così sarà, non sarebbe insensata l’attesa di un nuovo Mosè che, raggiante di due fasci di luce, scende a profligare questi sfacciati sfruttatori che spacciano per civiltà il loro vile commercio.

P.S. La revoca per 90 giorni dei dazi non cambia nulla agli effetti interni sopra descritti perché le trattative tra gli USA e i paesi colpiti dalle misure protezionistiche avranno esito positivo solo se si tradurranno in una ripresa del tessuto industriale americano.

L’oceano delle nostre speranze

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Nella ormai celeberrima conferenza stampa finita a pesci in faccia, Trump dice a Zelensky più o meno così: «tra noi e l’Europa c’è un oceano, eppure siamo lì molto coinvolti con tutto quello che ci costa. Se siete interessati alla sicurezza, facciamo l’accordo economico, noi veniamo a lavorare da voi e scava, scava, scava, saremo impegnati a difendere la nostra presenza, e questo basterà a calmare la Russia e assicurarvi la pace. Se non volete fare l’accordo, ve la dovrete vedere tra di voi, e voi ucraini avrete la peggio perché, senza il nostro aiuto militare, Putin vi schiaccerà. Se volete essere forti, dovete fare l’accordo». Zelensky più o meno ribatte così: «certamente, voi grazie a Dio avete l’oceano che oggi vi protegge, ma domani anche voi avrete da temere dalle mire espansionistiche della Russia. Putin non si ferma perché l’unica cosa che capisce è la forza militare. Per noi quindi la sicurezza è un esercito forte che ci difenda e questo ce lo potete assicurare solo voi in collaborazione con gli europei. Quindi dateci armi e truppe, con annesse Nato e UE, da schierare ora e sempre ai confini della Russia». Tutta la conferenza stampa si è giocata attorno a quest’immagine dell’oceano, introdotta da Trump e ritortagli velenosamente contro da Zelensky. Trump, che con questo suo secondo mandato vuole passare alla storia come il pacificatore del mondo, voleva dimostrare il suo relativo disinteresse: «potremmo restarcene a casa, ma veniamo per difendere un nostro interesse economico che creiamo con l’accordo, così facendo però otteniamo la pace nel mondo che è quello che mi interessa». Zelensky voleva dimostrargli l’illusorietà di questo piano: «la Russia assassina e terrorista non mantiene la parola data come dimostra tutto ciò che ci ha fatto dal 2014 a oggi, e un giorno aggredirà anche voi». Questa profezia ha fatto uscire Trump dai gangheri e i due hanno cominciato ad altercare addirittura più volte sfiorandosi. Una scena tragica e penosa, in cui Zelensky sembrava davvero il bifolco che litiga con il proprietario del fondo da cui prende in prestito le sementi e gli attrezzi di lavoro. Eppure un simile personaggio tiene testa all’America e riesce a sobillare l’intera Europa compresa l’Inghilterra. Come mai? Intendiamoci, il legame economico offerto da Trump non è cooperazione economica ma uno scambio economico-politico sotto cui si nasconde una spoliazione: «le vostre risorse ci servono per sviluppare le nostre tecnologie e quant’altro, condizione essenziale per continuare a essere la Great America, il demiurgo del mondo che io Trump voglio incarnare e che può darvi pace e sicurezza». Il legame economico invece offerto dai globalisti europei rinserrati a Bruxelles, cui si accodano a corrente alternata i londinesi della City, è in apparenza cooperazione economica, ma in realtà è il classico scambio economico-finanziario ineguale la cui conseguenza macroscopica è, oltre alla corruzione endemica, l’immigrazione di massa che distrugge la coesione sociale dei paesi di partenza e di quelli di arrivo. Ora, lo scambio economico-politico di spoliazione di Trump è un attacco diretto alla falsa cooperazione economica globalista. Trump parte dal presupposto che a lungo andare il traliccio a cui è attaccato il pallone sempre più gonfio della globalizzazione crollerà e, prima del disastro che gli europei invece si ostinano a ignorare, mira a ridisegnare lo spazio economico riconducendolo dentro i confini degli Stati. Di qui i dazi, che magari nell’immediato non hanno logica economica, ma sono il prezzo pagato volentieri per riprendere il controllo politico dell’accumulazione. Quindi Trump da un lato con Musk, l’utile idiota a libro paga NASA, combatte la superfetazione burocratica dello Stato che ai globalisti à la Biden serviva per acquisire consenso sociale, dall’altro rafforza lo Stato come guardiano politico del capitale al punto che i monopolisti di Internet, padroni del campo con i globalisti, da un giorno all’altro hanno abiurato tutto il ciarpame ideologico del globalismo e ora sono tutti inginocchiati ai suoi piedi, lui che forte del pieno mandato elettorale ricevuto può schiacciarli quando vuole. E questo è la campana a morte per i globalisti di Bruxelles i quali ciechi e sordi come sono si accodano ed esaltano il buzzurro ucraino, il quale però ha capito che tiene per gli attributi Trump, perché se lui non firma l’accordo economico tutta la costruzione con cui Trump intende restituire all’America lo scettro di arbitro del mondo non parte. Di qui la sua tracotanza che traspare in ogni istante della conferenza stampa, specie nei confronti del vicepresidente americano, ma anche nei confronti di Trump verso cui ha l’atteggiamento insofferente del nipote sveglio che sopporta a stento il nonno un po’ stupido. Che dire? Per le sorti del mondo, l’umanitarismo affaristico di Trump è più desiderabile del falso vittimismo ucraino che si traduce in una paradossale idolatria della forza militare. Oltretutto, con la sua strategia Trump reintegrerebbe la Russia nel tessuto capitalistico occidentale, e Putin che non è stupido e per ovvie ragioni non teme lo scambio economico-politico gli ha subito offerto di sfruttare insieme le sue risorse minerarie. Questo naturalmente è benzina sul fuoco per i globalisti di Bruxelles, perché dovrebbero andare a Canossa, e per i nazionalisti ucraini, perché dovrebbero finalmente cessare dalle paranoie con cui intossicano il mondo dal 1991 a oggi, se non da prima. Ma trasportato nel quadrante medio-orientale che ne è dell’umanitarismo affaristico di Trump? Mentre l’Ucraina potrebbe anche rifiorire, sebbene in una situazione di vassallaggio a parti rovesciate (prima la Russia, ora gli Stati Uniti. Bel risultato da fessi!), i palestinesi verrebbero semplicemente deportati, rendendo eterno il loro risentimento contro Israele in cui trionferebbero le peggiori tendenze razzistiche. Nella strategia di Trump, comunque, se non ci si fa traviare dalle stupidaggini dei social su Gaza trasformata in resort di lusso di cui si pascono i nostri media, il quadrante medio-orientale appare molto meno elaborato di quello europeo, e potrebbe riservare delle sorprese in riferimento al torvo e ormai anacronistico regime iraniano degli ayatollah. La situazione dunque è in movimento e non si starà qui a rievocare le scoppiettanti sparate del tycoon su Groenlandia, Panama e lo sbarco su Marte, per non parlare della Cina che incombe sfuggente sullo sfondo. In fin dei conti, sono i primi trenta giorni, e chi vivrà vedrà. E l’Italia? Mentre Giorgia Meloni come una faina sta acquattata prudente per capire quale maschera indossare non appena la situazione si chiarisce, l’Italia se la passa come l’Ucraina. Infatti, abbiamo un ex comico, Michele Serra, che convoca sotto casa sua i sindacati, i sindaci e chi ci sta, e da lì si mette alla testa di una manifestazione per… l’Europa (grasse risate dal pubblico). Insomma, stante la situazione attuale e stante la perdurante paralisi cerebrale di qualsiasi forza anticapitalistica di sinistra, l’unica cosa che ci si può augurare è che almeno ancora per un po’ Dio, di là dell’oceano, salvi l’America e soprattutto salvi Donald Trump.

L’impasse liberale e la prospettiva rivoluzionaria

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Mentre il liberalismo agonizza, il liberismo celebra il suo sabba. Eppure, agli esordi, Adam Smith riusciva a tenere assieme i due estremi. Se da un lato esaltava la divisione del lavoro, dall’altro auspicava che l’atrofia mentale che essa provoca nel lavoratore fosse contrastata da programmi di istruzione pubblica. Oggi la mente del lavoratore è un campo arato dai magnati della rete che fanno e disfano secondo le convenienze i regolamenti che stabiliscono come, quando e quali contenuti essa deve assumere. Le metastasi di questa disumanizzazione si propagano in ogni dove. Si pensi al denaro. Il liberalismo-liberismo dell’economia politica classica partiva dal proverbio che “il denaro fa denaro”, ma nel suo onesto realismo non nascondeva affatto che il denaro è solo il sostituto del lavoro con il cui valore si acquistano tutte le ricchezze che gli infiniti scambi produttivi consentono di accumulare. Nel liberismo della scienza economica che subentra all’economia politica classica, la necessità di occultare questo riferimento umano-sociale fa del denaro, ormai moneta, una delle tante possibili attività nelle quali i risparmiatori possono detenere la loro ricchezza. La scienza economica allora non deve fare altro che scoprire le regole che ne consentano la manipolazione economicamente più redditizia. Questa tendenza feticistica raggiunge il suo culmine nell’odierno capitalismo informatizzato che si propone di strappare allo Stato il monopolio dell’emissione di moneta, salvo esigere che faccia la guerra e imponga i dazi, e magnifica la produzione di criptovalute (bitcoin) ottenute con una vera e propria attività industriale privata basata sulla potenza di calcolo di computer su cui gira la tecnologia blockchain. Le speculazioni monetarie che tale “decentramento” rende possibile, addirittura all’interno della coppia presidenziale che l’altro giorno si è insediata al comando degli Stati Uniti, demoliscono ogni residuo di “ragione” che il liberalismo-liberismo delle origini, con il suo richiamo “umanistico” alla sostanza del lavoro, assicurava al capitalismo. Questo è un chiaro segno di debolezza che però non riesce a suscitare un grande fronte anticapitalistico. Le lotte si svolgono a ranghi sparsi e la loro direzione è usurpata da organizzazioni in cui dilaga l’opportunismo. Le grandi masse che un tempo la “coscienza di classe” trasformava in un esercito potente e disciplinato, giacciono nella sfiducia e nella disillusione che le induce a prestare orecchio ai discorsi falsamente rivoluzionari in cui la nuova destra tecnopatica, sovranista e anarco-capitalista è esperta, tanto quanto lo era quella fascista e nazista del tempo che fu. Eppure, è proprio la riconquista di queste grandi masse alla “politica della ragione” che, ancora una volta, può salvare tutti da un destino di distruzione. Ma come e dove deve avvenire questa riconquista? Lo si deve ammettere a malincuore, ma tutto lascia pensare che l’innesco non possa che essere opera di realtà come la Russia di Putin, l’Iran degli ayatollah, la Cina della crescita spasmodica. Come in uno specchio in frantumi, tali realtà riflettono moltiplicandolo il mondo cui si oppongono. È l’illusione che il multipolarismo possa essere la soluzione del problema. Ma pretendendo di far valere stratificazioni culturali e ideologiche del passato, il colpo di maglio che possono infliggere può solo suscitare il caos ma non avviare il futuro. Arroganza e disperazione di un capitalismo morente, da un lato, brama di spartirsene le spoglie, dall’altro, questi dunque gli estremi tra cui è stretta la prospettiva rivoluzionaria, il cui bisogno è però dimostrato dall’esistenza di quei milioni di individui che, costretti nell’economicismo della vita quotidiana, non si rassegnano a esso e aspirano a liberarsene. È questo rifiuto ancora prepolitico ma profondamente umano che deve essere raccolto da nuove organizzazioni da cui già traspaia finalmente chiara la finalità della rivoluzione, quella di generare da un popolo sparso un corpo politico in cui non vi siano più le millenarie divisioni tra ricchi e poveri e tra dominanti e dominati.

Feticci e simulacri

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La forma di vita capitalistica produce di per sé feticci. Il feticcio per eccellenza è la merce, i cui rapporti sociali di produzione vengono occultati in una cosa percepita attraverso il prezzo. Nel suo scorrere, però, la vita sociale preme da ogni lato sulla reificazione e così capita che il commerciante faccia una “carezza” al cliente, sorta di sconto sul costo del tempo di lavoro del produttore transitato lungo i vari passaggi sfociati sul suo banco di vendita. Ma la strumentale e involontaria critica del feticismo della merce contenuta nella “carezza” del commerciante evidentemente non può bastare. C’è stato un momento in cui tale critica era la bandiera di un potente movimento sociale, il movimento operaio. Quando lo si è cominciato a chiamare “movimento dei lavoratori” la sua forza già declinava, ma nel frattempo il capitalismo aveva preso una tale paura che, oltre ai feticci, ha cominciato a produrre simulacri la cui funzione era di impedire che i feticci venissero distrutti. Simulacri ideologici, organizzativi, della vita quotidiana, su cui “spostare” la critica rivolta contro i feticci. Una prima grande produzione di simulacri si ebbe con il fascismo e il nazismo, i cui partiti civetta convogliavano la rivolta contro la forma di vita borghese e la indirizzavano verso falsi obiettivi. Gli ebrei furono l’obiettivo preferito. Ma in quel tempo gli stessi ebrei, mentre venivano sterminati nei luoghi, nei tempi e nelle forme ben conosciute, producevano a loro volta dei simulacri e, in fuga dall’Europa in fiamme, li introducevano in quella che la loro ideologia di “spostamento”, cioè il sionismo, definiva la “Terra promessa”. Il sionismo comprendeva principi e pratiche socialiste. Il suo arricchimento in uranio lo ha trasformato nel simulacro nazionalsocialista dello Stato d’Israele che conduce in Palestina una guerra di sterminio su cui si discetta se configuri o meno un genocidio. Contando solo dal 7 ottobre 2023, il rapporto è di millecinquecento israeliani circa tra assassinati e sequestrati da Hamas contro cinquantamila palestinesi di Gaza massacrati dall’esercito israeliano in un anno e passa di bombardamenti e mitragliamenti che, secondo la denuncia di Papa Francesco, non ha risparmiato neanche gli infanti. È evidente ormai che l’Olocausto avvenuto in Europa ad opera del nazifascismo è divenuto a sua volta un simulacro che neutralizza ogni critica verso i misfatti del simulacro sionista. Quanto a Hamas, una questione a sé stante è la produzione di simulacri nel mondo musulmano. Le dinamiche politiche interne al nazionalismo palestinese e in generale mediorientale sono complesse e poco conosciute. Avanzare giudizi e valutazioni fondate è quanto mai azzardato. Resta il fatto però che in quel mondo da troppo tempo ormai si odono solo richiami a un passato religioso prodigo a sua volta di simulacri a difesa di feticci posti all’incrocio tra una deformazione della già deforme forma di vita capitalistica e le peculiarità più truculente di quella particolare civiltà. Tornando all’Occidente, una seconda e più potente ondata di produzione di simulacri che arriva sino ai nostri giorni si è avuta con l’americanismo, ideologia ovviamente da ascrivere alla ristretta cerchia imperialista che grava ormai da tempo su tutto il popolo americano. Un simulacro particolarmente efficace prodotto in tale solco ideologico è il marchio pubblicitario, sorta di feticcio di secondo grado: la merce va in giro a volto scoperto ma nessuno la riconosce perché il simulacro la avvolge in sé rendendola invisibile. Questa magia “sposta” dalla merce al marchio la critica dei “consumatori” i quali, riuniti in “associazioni” a loro volta simulacri dei partiti, si rivolgono ai tribunali dove entra in campo il diritto, simulacro sommo dei conflitti sociali, tramite le cui procedure si sanzionano eventuali pratiche fraudolente nella produzione di simulacri. Questa stratificazione di simulacri, che rende praticamente inscalfibile il feticismo capitalistico, appare particolarmente evidente nel caso della Ferragni, esponente di spicco del mondo degli influencer, ultima incarnazione dei produttori di simulacri dopo attori, sportivi, membri del jet set. È ormai osservazione comune che, mentre queste ultime categorie producevano simulacri come attività a latere, gli influencer sono capaci solamente di produrre simulacri, una merce che, essendo un simulacro, nessuno più si ricorda che è una merce, salvo appunto quando qualcosa va storto nella sua produzione. In tal caso, interviene il pentimento operoso dell’influencer che, rinnovando un’antica pratica medioevale, con somme di denaro compra l’indulgenza dei consumatori. Prende vita così un totalitario Mondo dei Balocchi al quale si accede lavorando molto e guadagnando poco. Nella sua produzione di simulacri, l’americanismo ha ottenuto formidabili risultati anche nella politica. In una prima fase si è ricorso a formule come i partiti di centro che guardano a sinistra o i partiti socialdemocratici. Erano pratiche dispendiose e poco efficaci, che richiedevano periodicamente l’ausilio di potenti cariche di esplosivo che simulacri di anarchici facevano saltare nei treni o in banche affollate. La svolta si è avuta quando, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, il capitalismo, approfittando del momento di massima debolezza di quel movimento operaio portatore della critica del feticismo della merce, è passato dalla guerra di posizione a quella di movimento. Dapprima si è ricorso ai “partiti democratici”, i quali però presto si sono rintanati nei parlamenti e nei governi lasciando scoperta la falla sociale della critica ormai divenuta pura rabbia. Sono nati allora i simulacri del populismo, talmente efficaci nella loro opera di “spostamento” della critica anti-feticistica, da inoculare nelle vaste masse la convinzione della scomparsa della distinzione tra destra e sinistra proprio quando la destra più estrema stava vincendo. Così, mentre il capitalismo rinnovava le proprie pratiche monopolistiche (i monopoli sorti su Internet), avviava una nuova sequela di guerre imperialistiche (dalla Jugoslavia all’Iraq, all’Afghanistan, alla Palestina, all’Ucraina), demoliva stati più deboli per ingrossare i più forti (è quello che si sta cercando di fare con la Russia e che forse si cercherà di fare con la Cina), il populismo ammansiva le masse depredate e impoverite da questo nuovo, disperato ciclo volto a rallentare l’inesorabile caduta tendenziale del saggio di profitto. L’Elevato Buffone, che ha fondato e ispirato il populismo italiano, ha più volte rivendicato il merito di aver impedito che la rabbia si trasformasse in consapevole rivolta sociale. È il simulacro che mostra il deretano e proclama beffardo: qui è la merce, qui devi saltare!