Dopo la crisi

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Non che la crisi sia passata, anzi, in alcune zone, per alcuni ceti, in base a qualche indicatore, sembra se non aggravarsi, comunque stagnare e cronicizzarsi. Ma si cominciano ad intravvedere i contorni del nuovo mondo che essa, per il suo stesso accadere e perdurare, sta creando sotto i nostri occhi. Trump annuncia dazi e confini, mette in mora la Nato, apre a Putin. Basterebbe già questo per dire che siamo in una nuova era. Ma il neo-presidente americano, che a volte è così truce da sembrare uno zuzzerellone in vena di scherzi, va ancora messo alla prova, e bisognerà vedere quanto di ciò che annuncia riuscirà a tradurre in pratica. E, poi, tutte le sue mosse conducono al confronto con la Cina, che era già una priorità di Bush jr., appena insediatosi, convertito però dall’11 settembre al democracy building che ha distrutto l’Iraq e destabilizzato tutto il Medio Oriente. No, non bisogna cercare a questi livelli i segni di ciò che la crisi sta cambiando, almeno in Europa, almeno in Italia. C’è invece da chiedersi se le privazioni e i sacrifici imposti dalla crisi economica e dall’austerità non stiano producendo dei cambiamenti dagli effetti imprevedibili in quelle che una volta si chiamavano le “grandi masse”, e se tali masse, in un futuro più o meno prossimo, non vorranno essere in qualche modo artefici del loro destino. È questo il significato, uno dei significati, della rabbia popolare che le élite arroganti stigmatizzano come “populista”? Quali mutamenti nella cognizione di queste masse stanno intervenendo dopo le sofferenze e i rischi condivisi in questi lunghi anni, nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, soprattutto nei luoghi di quel lavoro che non c’è più? Ognuno si sta rinchiudendo sempre più in se stesso, come ci raccontano i centri studi che scandagliano l’opinione comune, oppure si stanno sviluppando sottotraccia degli insospettati sentimenti solidaristici, che potranno emergere quando la crisi lascerà davvero senza più alternative? Una cosa è certa, le rivoluzioni non possono scaturire dalla crisi economica, perché le masse proletarie, sentendosi estranee al complesso cultural-liberista che le disprezza, si volgono elettoralmente verso la più verace reazione capitalistico-borghese. Ed è subito Trump. E un’altra cosa è certa, e cioè che, con la crisi, il capitalismo è ancor più di prima un processo senza soggetto, nel senso che i soggetti che lo gestiscono, banche manager monopoli, non hanno più alcun legame storico-affettivo con la produzione. Se con Gianni Agnelli il profitto era ancora relativamente arbitrario, con i suoi discendenti è salito al livello dell’arbitrarietà assoluta. D’accordo, esistono ora (sono esistiti) i Jobs, i Page, i Zuckerberg, i Bezos e i Bill Gates, così come è esistito Berlusconi, figura di mezzo tra la produzione di cose e la produzione dei sentimenti, ma essi producono la vita stessa affettiva delle masse. Si tratta perciò di una produzione in cui nessuno è soggetto, non le masse estraniate dalla doppia vita di illusori loisirs che quei capitani d’industria loro vendono, né quei capitani d’industria che si devono annullare in quella illusoria soggettività delle masse, se vogliono far andare avanti il loro traffico affettivo. Un tempo ci si sarebbe chiesti in quale luogo potrebbe avvenire l’espropriazione di tale processo senza soggetto. Nei luoghi di lavoro? Di lavoro ce n’è sempre meno, e dove si lavora l’aria è da caserma. In organismi politici creati a tal fine ex novo? Insomma, dopo la crisi, oltre il partito, oltre il sindacato, oltre le istituzioni rappresentative, cosa c’è, l’autogoverno? Se l’uomo solo al comando fallisce, che cosa vuol dire autogoverno? Il Movimento 5 Stelle, che si fa un grande sforzo a prendere sul serio, ha messo in rete il sistema operativo Rousseau. Ma Rousseau è forse auto-governo? Al massimo, è  un legislativo “diretto”, un’implementazione tecnologica dell’ideologia della legge. Il problema che i grillorum nemmeno sfiorano è l’esecutivo, che loro continuano a vedere come presa di Palazzo Chigi. Perché invece i pentastelluti non ci dicono come dovrebbe essere un esecutivo autogovernante? Come dovrebbe essere organizzato? A livello di produzione (fabbriche, unità agricole, uffici, servizi)? A livello territoriale? A livello della mitica rete? A che livello, insomma? Con chi dovrebbe interloquire il giovane Di Maio, dalla batteria di telefoni di Piazza Colonna? Il domani è fosco, non c’è che dire, ed abbondano i venditori di monete false. Ci sarebbe bisogno di un intenso momento di auto-riconoscimento popolare, in cui ciascun individuo, ciascun ceto, ciascuna classe, sfarinate pur come sono, potesse esprimere se stessa. Dopo la crisi, così come dopo la guerra, la Costituente. Ma anche questa soluzione, la si è così tante volte evocata politicisticamente, e da personaggi così politicisticamente squalificati, che ha perso mordente e solennità. Ci si arriverà per vie traverse, con il proporzionale? Sarà l’interesse di bottega del vecchio Berlusconi, l’astuzia della ragione che regalerà agli italiani un momento autentico di riconoscimento politico? O vincerà il tatticismo dei 5S, pronti a saltare su ciò che resta del maggioritario, per annunciare dalla finestra di qualche abbaino di Palazzo Chigi che la “volontà collettiva” si è insediata e, Italiani!, adesso gingillatevi con il sistema operativo Rousseau?