Un auspicio ragionevole sembrava quello che la prossima legge elettorale fosse quanto più proporzionale è possibile, in modo da rimettere in sintonia sistema elettorale e rappresentanza di classe, unico modo per ridare vita ai partiti, rendendo facile all’elettore distinguere, nelle loro sfumature, tra partiti votati a gestire la macchina produttiva esistente, e partiti che si prefiggono di cambiarla. Ma mai essere ragionevoli, perché si corre il rischio di essere stupidi. La realtà infatti si è incaricata di mostrare che i più sfegatati adepti del proporzionale sono Renzi e Berlusconi, mentre la galassia della sinistra è insidiata dal richiamo delle sirene della “coalizione”. Che dire? La borghesia, anche quella italiana, così provinciale e affaristica, mostra di avere sempre i riflessi più pronti di un rintronato proletariato, imbevuto di falsi discorsi sulla sparizione della classe operaia, sulla morte del lavoro ad opera dell’automazione, sulla necessità del reddito di cittadinanza (leggi: sudditanza), e via degradando verso una totale mancanza di una chiara cultura di classe. È forse morto il plusvalore? Basterebbe rispondere a questa domanda, e tutto quel ciarpame sociologistico a cinque stelle svanirebbe di colpo. Ma l’argomento del giorno resta la legge elettorale, con cui chi tiene l’anello della catena saldamente nelle sue mani cerca di costruirsi un apparato legale per mettere fuori gioco in modo formalmente corretto ogni disegno di porre fine alla crisi economica ormai decennale, andando oltre il modo di produzione capitalistico. Questa è la posta in gioco. Nel ’23-’24, la stabilizzazione fu ottenuta con una legge maggioritaria, la legge Acerbo, supportata dal manganello. La società fu militarizzata, e tutto ciò si autoproclamò fascismo. Oggi la militarizzazione a bastonate non è possibile, ma esiste l’infinitamente più potente obbligo autoimposto del consumo, pur con i redditi che si sfarinano. E poi c’è il bastone del debito, da agitare quando si smantella il Welfare. È un ritorno accresciuto di fascismo che, lo si sarebbe ormai dovuto comprendere, è la tendenza che il capitalismo assume ogniqualvolta l’intensificazione dell’estrazione di plusvalore suscita crescenti resistenze oggettive e soggettive. Resta il fatto che, nel 1924, pur con il manganello Acerbo, i partiti di sinistra riuscirono a far eleggere una sessantina di deputati, diciannove per l’esattezza il solo Partito comunista di Gramsci e Bordiga. Questo per dire che è sciocco impiccarsi alle formule elettorali. L’identità, cioà la corretta declinazione di classe del partito, la si può coltivare sia con il proporzionale, che con il maggioritario. Bisogna solo scegliere il linguaggio della verità e della credibilità. Due virtù che, dai tempi di Gramsci e Bordiga, la sinistra ha smarrito da tempo nel calderone delle coalizioni, Prodi, e nello sfavillio delle chiacchiere televisive, Bertinotti, due emblemi della stessa miseria. Maggioritario o proporzionale, la sinistra invece dovrebbe solo proporsi accanitamente di ricostruire una “minoranza eletta”, capace di offrire l’esempio di una integrale politica di classe, il cui punto fondamentale di programma dovrebbe essere la fine della crisi. Se c’è qualcosa infatti oggi che angoscia uomini e donne è il protrarsi di questa agonia, che i vecchi stregoni del passato vorrebbero protrarre imbellettando la faccia cadaverica del moribondo con i colori di una ricchezza privata che non è più possibile perseguire senza mettere a rischio l’esistenza stessa della società, nel suo lato sociale e in quello naturale. In proposito, il caso Macron dovrebbe insegnare qualcosa: una vecchissima ricetta, il Bonaparte di turno che incita la brava nazione borghese ad arricchirsi, come se ancora le provincie francesi fossero piene di tanti Papà Goriot da mungere per scalare le posizioni sociali nel bel proscenio di Parigi. Di fronte a tanta menzogna, che si sostanzia solo di ulteriori giri di vite sulle condizioni del lavoro, la sinistra allora dovrebbe avere l’elementare ma titanico coraggio di parlare il linguaggio della verità, spiegando che, in Europa, ancora una volta punto di volta del mondo, la crisi finisce se cambia la classe economica che sta al potere. Naturalmente, questa spiegazione tutto dovrebbe essere che una lezione ex cathedra. Dovrebbe essere invece una spiegazione appassionata, capace di colpire la fantasia, e muovere all’azione uomini e donne disillusi, piegati dalla sorte avversa, o anche solo ignoranti. Perché se c’è qualcosa da riportare all’onor del mondo è la vergogna della propria ignoranza, ottenuta mostrando che solo la conoscenza vera, frutto di un costante dialogo tra chi la ricerca, può guidare i sentimenti verso gli scopi che la vita si pone per raggiungere il proprio sviluppo integrale.