Cose turche

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In un suo recente intervento su quanto sta emergendo dalle intercettazioni del cellulare del magistrato Palamara, Giuseppe Buttà, insigne storico americanista delle dottrine politiche, dopo avere evidenziato le ambiguità connesse alla carica di Presidente del Consiglio superiore della magistratura che la Costituzione assegna al Presidente della Repubblica, e dopo avere stigmatizzato sia le “timidezze” dell’attuale Presidente Mattarella nel farsi promotore di una riforma di tale organismo, sia la strumentalizzazione politica delle loro cariche da parte di alti magistrati, così conclude: «Siamo tutti montesquieuviani! Ma, di fronte alla torsione politica di una parte della magistratura, ci permettiamo di dubitare che soltanto lo stato assoluto o quello totalitario o, in Italia, soltanto il fascismo possano interferire con il potere giudiziario: anche nell’Italia repubblicana abbiamo visto dispiegarsi una strategia di occupazione della magistratura in atto almeno dai tempi del Togliatti guardasigilli». Ma proprio perché siamo tutti montesquieuviani si sarebbe potuto risalire molto più indietro, e riferirsi a quelle situazioni che lo stesso Montesquieu aveva già notato quando, dopo avere osservato che tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse i tre poteri di fare le leggi, di eseguire le risoluzioni pubbliche e di giudicare i delitti o le controversie tra i privati, così scriveva: «Nella maggior parte dei regni dell’Europa il governo è moderato, perché il principe, che detiene i due primi poteri, lascia ai suoi sudditi l’esercizio del terzo. Presso i Turchi, dove questi tre poteri sono riuniti nella persona del sultano, regna uno spaventoso dispotismo. Nelle repubbliche italiane, dove questi tre poteri sono riuniti, la libertà si trova in misura minore che nelle nostre monarchie. Così il governo ha bisogno, per mantenersi, di mezzi altrettanto violenti di quelli del governo dei Turchi: lo dimostrano gli inquisitori di Stato e la cassetta dove ogni delatore può, in qualsiasi momento, gettare con un biglietto la sua accusa» (Lo spirito delle leggi, Libro XI, Capitolo VI). Cose turche, dunque, in Italia non da ora accadono, solo forse alla cassetta del delatore si è sostituito il trojan del cellulare. Ma continuiamo a leggere Montesquieu, il quale non contento di avere così foscamente accostate le ridenti repubbliche d’Italia al cupo dispotismo ottomano, così conclude: «Considerate quale possa essere la situazione di un cittadino in queste repubbliche. Lo stesso corpo di magistratura detiene, come esecutore delle leggi, tutto il potere che si è conferito come legislatore. Può quindi devastare lo Stato con le sue volontà generali, e, siccome detiene anche il potere giudiziario, può distruggere qualunque cittadino con le sue volontà particolari. Tutto il potere vi è riunito; e, sebbene non vi sia alcuna pompa esteriore che riveli un principe dispotico, lo si avverte in ogni istante» (Ibidem). Oggi, anche grazie alla tanto contestata Repubblica retta dalla Costituzione del 1948, l’articolazione dei poteri è più rispondente al modello montesquieuviano, ma senza dubbio resta forte la possibilità di “devastare lo Stato” da parte non certo solo della magistratura in senso stretto, ma anche dell’élite in senso ampio di governo, che si riproduce immutata come coacervo di fazioni che piegano ai propri fini particolari i poteri formali, siano essi quelli del legislativo, dell’esecutivo o del giudiziario, per non parlare poi di quello mediatico nel frattempo intervenuto. Se si resta a Montesquieu, il perché questo accada rimarrebbe un enigma, da sciogliere magari con una malcerta teoria del clima. Ma, piaccia o no, il materialismo storico ci ha reso edotti del fatto che la mancata o insufficiente articolazione dei poteri è un effetto dell’asfittico sviluppo nella Penisola dell’organismo capitalistico-borghese rispetto alle altre contrade d’Europa, in cui da tempo per altro il virtuoso modello montesquieuviano è stato stravolto dalla teratologia cui è andato incontro nel suo lento ma inesorabile declino il suddetto organismo capitalistico-borghese, ormai divenuto una caotica macchina produttiva mondiale scossa da crisi che solo una pervicace raffigurazione apologetica può continuare a descrivere come “distruzioni creatrici”. E se si vuole un esempio di tale sconvolgimento dei poteri basta riferirsi a quanto accaduto in Germania con la sentenza di Karlsruhe, in cui il potere giudiziario, sebbene in un ambito di diritto pubblico quale il diritto costituzionale, per respingere l’intrusione di un potere giudiziario di pari rango ma esterno, ovvero la Corte di giustiza europea, intima al potere legislativo e a quello esecutivo interni di recedere da determinate scelte di politica economico-finanziaria – leggi: adesione, per altro interessata, al Quantitative easing della Banca centrale europea – perché non conformi alla Carta fondamentale della Repubblica (prevalenza del diritto interno) e perché in violazione del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (criterio di proporzionalità). Ecco dunque il potere giudiziario tedesco azzannare con quelle due “finzioni” quello europeo e il medesimo potere di fatto annullare la variabilità intrinseca della rappresentanza politica, subordinandola in eterno all’obiettivo del tasso dell’inflazione al due per cento fissato a sua volta dai trattati europei, e tutto ciò grazie ad una misteriosa sostanza giuridica depositatasi in tali trattati di cui i giudici, senza smentire il proprio ruolo, non possono che essere gli arcigni guardiani. E, se ci si riflette, questa sentenza è nella sua logica uguale alla modifica dell’articolo 81 della Costituzione italiana che, qualche anno fa, introdusse l’obbligo del pareggio di bilancio, ovvero una scelta di politica economica che viene consacrata a norma inviolabile – come se, negli anni della Destra storica, Quintino Sella avesse preteso di iscrivere la sua tassa sul macinato nello Statuto albertino. Solo che, mentre la riforma italiana introietta i dettami di Bruxelles, la sentenza tedesca proietta su Bruxelles i dettami di Berlino. Che dire, quella di oggi, non in Italia ma in Europa, non è forse la dittatura, non di Togliatti, bensì di una borghesia che, sotto le insegne della nazione germanica, chiama a raccolta tutte le sue frazioni sparse per il continente, e non ha timore di mostrarsi nella sua cruda materialità? Laddove l’unica emendazione da farsi è sulla parola “borghesia”, nel frattempo scomparsa come ceto a favore di un coacervo di fazioni, pantografato alla dimensione dei monopoli, oligopoli e cricche finanziarie dominanti, divenuto la caratteristica non più delle repubbliche d’Italia, ma dell’intero pianeta “globalizzato”.