Sud, struttura e sovrastruttura

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La letteratura sul Sud è un enorme cumulo di statistiche economiche, finanziarie, istituzionali, sanitarie, scolastiche e ambientali, in coda alle quali ricercatori di ogni orientamento appongono buoni propositi che grosso modo si possono raggruppare in due tipi, il Sud giardino turistico europeo e il Sud piattaforma logistica dell’Europa nel Mediterraneo. Naturalmente, perché almeno uno di questi scenari si avveri, i meridionali debbono finalmente acquisire il “capitale sociale” di cui continuano a difettare, qualità delle relazioni fra le persone, rispetto delle regole, senso della comunità e dell’interesse generale. Quando poi si vuole vivacizzare questo quadro quaresimale, ci si slancia sul collegamento tra Sicilia e terraferma, prospettando ponti o tunnel, a seconda la stagione e il colore, ormai peraltro indistinguibile, dei governi in carica. Qui non si vuole minimamente sminuire questo lavorio di conoscenze, riflessioni e proposte, che merita anzi il massimo rispetto. Si vuole semplicemente evidenziare un fatto che resta sempre alquanto in ombra in tutto questo ammasso di dati, ovvero che il Meridione non si riduce solo a dei rapporti di produzione, arretrati o meno che siano, ma vi è in esso, come in tutte le società, una dialettica di struttura e sovrastruttura che segna la sua storia e il suo presente. Anzi, segna il suo presente al punto che paradossalmente oggi si ha difficoltà a individuare e descrivere la sua sovrastruttura, a fronte di una struttura analizzata sempre più dettagliatamente con la precisione delle scienze statistiche. Per portare avanti questa breve e temeraria riflessione, non c’è modo migliore che rifarsi al testo fondativo in cui la società è descritta come una base economica su cui si eleva l’edificio ideologico, ovvero la Prefazione di Marx a Per la critica dell’economia politica (1859). I brani salienti di questo testo, interpretati liberamente, si alterneranno quindi con la ricapitolazione di momenti e passaggi storici e attuali del Mezzogiorno d’Italia. 

Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali.

Nel Mezzogiorno, i rapporti di produzione, rimasti per lunghi secoli immobili, subirono una scossa con l’Unità d’Italia. Ne seguì uno sviluppo delle forze produttive che, se riguardato solo in termini di banche, fabbriche, macchinari, infrastrutture, fu nullo o minimo. Ma le forze produttive non si esauriscono in tali aspetti con cui il capitale impone il suo sviluppo determinato. Anche il lavoro è una forza produttiva, la cui materialità consiste nello sviluppo alternativo di una differente e più larga socialità rispetto al rapporto di dominio in essere. Da questo punto di vista, si può dire che la scossa dell’Unità d’Italia sviluppò nel Mezzogiorno il lavoro, come si evince non solo dalle tante rivolte duramente represse, ma soprattutto dalle più mature manifestazioni rivoluzionarie dei Fasci siciliani, con cui si arrivò ad imporre patti agrari che, qualora quella rivoluzione avesse vinto, avrebbero sviluppato, assieme alla socialità del lavoro, anche la produttività economica dei rapporti di produzione nelle campagne.

L’insieme di questi rapporti di produzione, che sono rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla volontà di chi in essi si trova preso, costituisce la struttura economica della società.

Certo, questo sviluppo del lavoro non riuscì ad abolire il vecchio dominio feudale, nel frattempo entrato a far parte del nuovo blocco nazionale tra rendita agraria e capitale del Nord. Anzi, tale blocco dominò nel Mezzogiorno sino al secondo dopoguerra. Per un concorso di cause esterne ed interne, riguardanti le premesse politiche dello sviluppo delle forze produttive (integrazione del mercato nazionale negli scambi esteri a seguito della sconfitta in guerra, presenza con forti ramificazioni interne di un “blocco” internazionale alternativo del lavoro), tale blocco solo all’inizio degli anni Cinquanta del XX secolo venne sostituito dall’intervento diretto dello Stato imprenditore. Perciò, mentre il lavoro con le occupazioni delle terre si batteva per lo sviluppo sociale alternativo, “altrove” in maniera necessaria e indipendente dalla sua volontà si decideva che il Sud si sarebbe dovuto sviluppare in modo capitalisticamente determinato, divenendo lo strumento per accrescere la quota di capitale variabile dell’intero processo produttivo nazionale.

L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.

Tramite questa maggiore estrazione nazionale di plusvalore, presentata come un generoso trasferimento di risorse, nel Sud finalmente venivano ad instaurarsi rapporti di produzione “moderni”, la “modernità” di un vasto deposito a cielo aperto di capitale fisso, fabbriche, macchinari, infrastrutture che, nei successivi vent’anni, avrebbe effettivamente fatto convergere gli indici di “sviluppo” tra Settentrione e Meridione, ma avrebbe espulso e annientato al Sud le forze sociali del lavoro. La sovrastruttura politica nazionale che si ergeva su questa base reale si riduceva ad un ambiguo gioco di cooptazioni nella gestione dello sviluppo determinato. La sovrastruttura politica internazionale inglobava invece la sovrastruttura giuridica formale e sostanziale generatasi nel corso del processo unitario risorgimentale, trasfigurandola e proiettandola in compiti nuovi. Il processo unitario risorgimentale aveva dato luogo ad una sorta di schisi sovrastrutturale, che aveva impedito la “chiusura” completa della corazza giuridica attorno alla figura monocratica dello Stato. Fallito il tentativo di portare a termine tale chiusura con la grossolana chirurgia fascista, tale assetto polistatuale venne integrato nello Stato profondo (deep State), assieme a nuovi segmenti occulti del tipo stay behind. Fu l’epoca del ruolo politico della mafia.

Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.

Con la mafia assisa al tavolo della sovrastruttura dello Stato, il Sud politicamente risplendeva. E intanto, mentre imputridivano i rapporti di forza internazionali, nella sua base materiale strumentalmente edificata dall’intervento dello Stato imprenditore si infiltrava un “capitalismo nero”, mix di giganteschi traffici di droga e di più domestiche aggiudicazioni di appalti, che preparava il domani. La forza produttiva materiale del capitale, infatti, stava per schiantare sul piano internazionale il campo alternativo della forza sociale del lavoro, e presto si sarebbe slanciata nell’unificazione mondiale della base produttiva già in incubazione da qualche decennio. E allora, com’è scritto, subentrò un’epoca di rivoluzione sociale. Una rivoluzione sociale guidata dal capitale.

Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione.

La conseguenza di tale rivoluzione fu per il Sud il crollo della gigantesca sovrastruttura in cui si trovava politicamente inserito nelle forme sopra accennate, e la sua mancata sostituzione con qualcos’altro. La base materiale sopravvisse grazie a flussi diretti con il Nord, alimentati sia da produzioni “in chiaro” di ristrette aree industriali, sia da servizi “in nero” offerti da spezzoni del vecchio assetto polistatuale. Per il resto, salvo un’agricoltura divisa tra nicchie ipermoderne e plaghe schiavistiche, tale base evaporò rapidamente negli invisibili circuiti finanziari della corruzione politica e del narco-traffico. Immensi capitali furono creati e gestiti da “uomini del sottosuolo”, il cui nichilismo non poteva esprimersi altrimenti, che nelle precedenti forme “popolari” di coscienza sociale. Il Sud, che come un sinistro rubino aveva brillato nella sovrastruttura politico-giuridica del mondo, di colpo ripiombò nel folklore delle forme artistiche, filosofiche e religiose di un popolo le cui nervature erano state spezzate dalla lotta del capitale contro il lavoro. Accanto ai “papelli”, richieste di salvaguardia da parte di chi riteneva di aver combattuto la “buona battaglia” e ora si vedeva dato in pasto agli apparati repressivi dello Stato, vennero i deliqui filosofici, le immaginette sacre, gli altarini dei grandi boss scaraventati nella discarica delle carceri. E la nuova base materiale degli “uomini del sottosuolo” si creò la sua sovrastruttura con il linguaggio più a portata di mano, quello che il popolo indistinto pratica spontaneamente da sempre, il linguaggio religioso. In questa forma di egemonia parassitaria (in altro contesto operata dall’Isis nei confronti della religione musulmana) si produssero così gli “inchini” dei santi alle dimore dei ricchi nullatenenti, l’estrema e più beffarda incarnazione del “proprietario assenteista” che per secoli aveva tiranneggiato il Sud.

Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.

Che cosa può proporsi il Sud se anziché verso nuovi e superiori rapporti di produzione ricade nelle sue condizioni materiali più arcaiche? È evidente che è proprio questa regressione che rende chimeriche le proposte di farne un giardino turistico o una piattaforma logistica. Né la soluzione può essere una rinnovata intensificazione dell’estrazione nazionale di plusvalore tramite un ulteriore accrescimento di capitale fisso, sub specie ponte o tunnel dello Stretto. Si è visto invece che va sciolto l’equivoco dello “sviluppo”, stabilendo in anticipo politicamente se si vuole proseguire nello sviluppo capitalisticamente determinato o in quello socialmente alternativo del lavoro. Basti solo pensare al caso dell’Ilva, dove la salvaguardia dei posti di lavoro, cioè la riproduzione del capitale, è in contraddizione con il risanamento di tutto un ambiente. Al Sud va dunque resa la sovrastruttura, come luogo della presa di coscienza delle condizioni materiali della propria esistenza, per enucleare le condizioni materiali che consentano l’introduzione di nuovi e superiori rapporti di produzione e quindi di coscienza sociale. Non dunque semplicemente un luogo di “dibattito pubblico”, ma una ricognizione pratica che trasformi già lo stato di cose presenti.

A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana.

La storia del Sud deve ancora iniziare. Sinora esso è stato strumento dello sviluppo altrui. Non sarà certo la mitologia del passato borbonico a permettergli di perseguire il suo proprio sviluppo autonomo. Ma quanto accaduto in questi decenni mostra che il suo destino non può nemmeno compiersi nello spazio di quest’Italia ostinatamente esportadora. Il titolo di una recente pubblicazione recita: Una questione nazionale. Il Mezzogiorno da «problema» a «opportunità»1. Ma il “problema” non è il Mezzogiorno, bensì i rapporti di produzione dell’intero paese. Tutto un mondo che sembrava inattaccabile sta crollando sotto i colpi di antagonismi sociali e naturali incomponibili. L’“opportunità” sta nel riconoscere che, in questo nuovo contesto, lo sviluppo determinato, che esige uno sviluppo strumentalmente economicistico del Sud, confligge con lo sviluppo sociale dell’intera nazione. C’è quindi un conflitto tra forze produttive e forma antagonistica del processo di produzione sociale. Esistono le condizioni materiali concretamente storiche per la soluzione di questo antagonismo? Se ne possono indicare almeno tre: 1) priorità alla domanda interna non come semplice cambio di politica economica rispetto alla esportadoridad dei decenni trascorsi, ma per conformare l’economia ai bisogni del lavoro liberato dalla schiavitù di dover vivere in funzione della riproduzione del capitale; 2) gestione da parte del lavoro, quali che siano le sue concrete figure sociali, lavoratori, utenti, cittadini, di tutte le imprese di interesse generale riguardanti servizi pubblici essenziali, fonti di energia, situazioni di monopolio; 3) rifiuto dei “vincoli esterni” ereditati da un passato in dissoluzione, con le conseguenti misure diplomatico-politico-finanziarie da tradurre in una realistica politica di interesse nazionale. Si tratta di potenzialità della crisi la cui attuazione richiede di uscire fuori dell’inerzia dei vecchi schemi e dall’immaturità delle nuove visioni. Se questa paralisi della sovrastruttura politica sarà superata, la preistoria del Sud finirà, e l’intera nazione potrà dare il suo contributo alla corrente principale della storia. Altrimenti…

 

  1. G. Coco, C. De Vincenti (a cura di), Una questione nazionale. Il Mezzogiorno da «problema» a «opportunità», Bologna, il Mulino, 2020. []