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Bensoussan le spara grosse

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Nel giorno della morte di Henry Kissinger, costruttore di un mondo di pace attraverso guerre, intrighi e assassini infiniti (pace alla grande anima di Salvador Allende), è giusto prendere in considerazione le dichiarazioni che lo storico franco-marocchino di origine ebrea Georges Bensoussan ha rilasciato il 28 novembre scorso a Giulio Meotti, giornalista presso una delle più petulanti gazzette del coro mediatico filo-israeliano, ovvero “Il Foglio” fondato da Giuliano Ferrara, la spia che venne da Washington. Dopo un inizio in cui viene servito un frullato di grandguignol e di chiagni e fotti, Bensoussan arriva al dunque e rivela quanto segue:

“Gli ebrei sono accusati di essere intrusi, ‘colonialisti’. La realtà storica dice il contrario: assistiamo, nel XIX secolo, all’interno della minoranza ebraica continuamente presente su questa terra, a un movimento di rinascita nazionale ebraica. Un movimento che intende emanciparsi dal diritto ottomano (lo fece nel 1918) e soprattutto dalla dhimma, abolita per legge nel 1856, ma che di fatto persiste nelle mentalità. Liberarsi di questa secolare oppressione che rende gli ebrei (e i cristiani) cittadini di seconda classe è ciò che rende il sionismo, fin dalle sue origini, un movimento di emancipazione e una lotta anticolonialista contro una condizione dominata dall’islam. È questa lotta che, nata dall’interno della Palestina e alla quale si unisce il movimento sionista dall’esterno, intende rifondare uno stato-nazione nella terra dei nostri antenati”

Ora, nell’Impero ottomano la dhimma, che comportava una subordinazione al potere musulmano ma assicurava anche dei diritti, era una condizione giuridica che riguardava non solo gli ebrei ma molte altre minoranze etniche e religiose tra cui, appunto, i cristiani. Di qui l’ammiccamento di Bensoussan. Non risulta comunque che nessuna di tali minoranze abbia avviato un movimento teso a fondare uno stato-nazione nel territorio in cui vivevano da (presunti) oppressi. Non risulta nemmeno che sia mai esistito un movimento di emancipazione della minoranza ebraica autoctona in Palestina che abbia poi chiamato in soccorso, per così dire, il movimento sionista europeo, il cui fulcro era costituito da ebrei ashkenaziti, a differenza di quelli che vivevano in Palestina, che erano sefarditi ottomani e arabi ebrei. Nella multietnica e plurireligiosa realtà palestinese dell’epoca, gli ebrei ashkenaziti europei che cominciarono ad affluire alla fine del XIX secolo furono ben accetti, anzi furono ammirati per la tenacia e i progressi da loro prontamente conseguiti. La tensione invece si innescò quando cominciò a manifestarsi il progetto sionista di cui gli ebrei ashkenaziti erano portatori, ovvero la trasformazione della Palestina nella sede di uno Stato che potesse accogliere la rinata nazione ebraica. Insomma, il sionismo non portò alcun aiuto agli ebrei autoctoni ma, per la sua carica aggressiva, probabilmente peggiorò la loro condizione come quella, d’altronde, di tutte le altre minoranze, nonché della maggioranza araba musulmana ridotta allo stato di intrusa a casa propria. È veramente penoso che sull’onda di contingenti contrapposizioni politiche uno storico come Bensoussan si debba ridurre a sparare balle come un Marco Travaglio qualsiasi passato dai mattinali di procura alla storia del conflitto arabo-israeliano.

Purtroppo, nell’intervista in questione le balle sparate sono state numerose. Dopo avere invocato un’analisi culturale, antropologica e psicanalitica per venire a capo dell’intricata questione israelo-palestinese, e dopo avere reso omaggio alla modernità e all’Illuminismo, Bensoussan afferma:

“Sappiamo che il legame speciale degli ebrei con Gerusalemme è oggi contestato. Ma allo stesso modo in cui possiamo, con la stessa sicurezza, assicurare che la terra è piatta e che il sole gira attorno al nostro pianeta. Queste sciocchezze ideologiche non impediscono che Gerusalemme venga nominata più di 600 volte nella Bibbia”.

Dunque, il legame speciale degli ebrei con Gerusalemme, cioè il preteso diritto di Israele di farne la propria capitale, è una verità scientifica al pari del giramento della terra attorno al sole. Per la verità, qui girano altre cose poiché è veramente contro ogni spirito della modernità, pur reiteratamente invocato, pretendere di fondare sulla Bibbia un diritto politico contemporaneo. Con quale faccia poi si può rimproverare ai musulmani di porre la sharia a base della loro attuale condotta morale e giuridica? Ma Bensoussan continua:

“Il principio della sovranità ebraica e quello della liberazione da uno status discriminatorio sembrano difficilmente accettabili in un mondo arabo-musulmano che, nonostante alcuni tentativi hanno mancato il movimento illuminista occidentale”.

Si pregano l’esimio Bensoussan e i gazzettieri del Foglio che gli reggono il moccolo di non immischiare il movimento illuminista occidentale con i deliri di potenza dello Stato israeliano nato da un’ideologia nazionalista come il sionismo, mortifero come tutte le ideologie nazionaliste. Il giornalista Meotti però non è ancora soddisfatto e rilancia: l’attacco del 7 ottobre è stato costellato da atti di barbarie. Bensoussan non aspetta altro:

“L’efferatezza di cui parli non è un’operazione militare, è una ‘caccia agli ebrei’ in una violenza che è implicitamente la risposta alla rivolta degli ebrei dominati contro la sua condizione di dhimmi, la risposta all’‘arroganza’ dal sottomesso di ieri che pretende di fondare uno stato-nazione in Palestina. È la sua ribellione che intendiamo far pagare all’ebreo con questo sfogo di crudeltà. Tuttavia, gli occidentali oggi sono incapaci di comprendere questa economia dell’odio, sognano da woke una società pacifica ed edonistica, dimenticando che la forza principale dei popoli, come diceva Raymond Aron, non risiede tanto nella ricerca dei propri interessi razionali quanto piuttosto nella ricerca del trionfo delle loro passioni arcaiche”.

Naturalmente, il memorabile detto di Raymond Aron è diretto contro gli arabi lanciati alla folle ricerca del trionfo delle loro arcaiche passioni. Quelle israeliane invece sono così moderne e illuminate che, come abbiamo visto, per dimostrare il diritto di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele ci si rifà a un recentissimo instant book qual è la Bibbia. Ma godiamoci le conclusioni di Bensoussan che il Meotti riporta compuntamente in ginocchio e con le mani giunte:

“Il nazionalismo è capace di negoziare con la realtà anche a costo di maledirla perché è consapevole dei suoi limiti. Per esso la politica è un mezzo. Questa concezione si ispira alla modernità dell’Illuminismo e più precisamente allo choc intellettuale e politico delle guerre di religione in Europa nei secoli XVI e XVII, che portarono per la Francia all’Editto di Nantes e per l’Europa ai trattati di Vestfalia (1648). Il mondo arabo-musulmano ha conosciuto diversi tentativi di modernità. Ma questo promettente vento di liberalismo, dal Cairo a Baghdad, si esaurì negli anni Trenta sotto il peso delle ideologie totalitarie provenienti dall’Europa, e si perse definitivamente con la sconfitta araba del 1967 che, di conseguenza, conferì all’islam un peso maggiore nel 1979 con la vittoria degli islamisti sciiti a Teheran. Tuttavia, l’orizzonte islamico cui Hamas partecipa è il jihad che separa il mondo tra la terra dell’Islam e la terra della guerra (Dar el Harb) combattuta per la conquista. Una concezione del mondo evidentemente in contrasto con lo spirito dell’Illuminismo e che rende impossibile qualsiasi soluzione politica”.

Al netto dell’erudizione, della supponenza e della disonestà con cui ci si assolve delle proprie colpe (impagabile quanto si afferma a proposito del nazionalismo!), colpisce il richiamo alle ideologie totalitarie provenienti dall’Europa che avrebbero stroncato il profumato vento di liberalismo che spirava prima degli anni Trenta dal Cairo a Baghdad. Egregio Bensoussan, il sionismo socialista, benché minoritario, vogliamo classificarlo anch’esso tra le ideologie totalitarie?

Quel che viene fuori da una simile intervista è un Medio Oriente come discarica dell’Europa in cui i nativi sono delle statuine come i pastorelli del presepe e tutto lo sdegno che si ostenta non sembra diretto contro i crimini commessi il 7 ottobre da Hamas, dagli jihadisti o da gruppi sparsi di banditi, ma contro la pretesa dei pastorelli di poter dire la loro su come il presepe del Medio Oriente deve essere costruito. Ma sì, in fondo, tutta la colpa è dei Romani…

Napolitano e lo sterco dell’Elide

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Nella primavera del 1984, con la scusa dell’alto tasso di inflazione, il capitalismo italiano dette la disdetta alla classe operaia e, per mano di Craxi, presidente del consiglio socialista, procedette con un decreto legge al congelamento di tre punti di scala mobile che si tradussero in un salasso di 20mila lire per i lavoratori. Né poche né molte, ma il punto è che i tre punti erano il segnale politico che la festa del salario variabile indipendente era finita e che si tornava all’ordine. L’opposizione comunista guidata da Berlinguer, un rivoluzionario sin troppo gentile, raccolse la sfida e nel voto segreto in Parlamento il decreto fu bocciato. Craxi da ardimentoso menscevico lo ripresentò tale e quale e qui veniamo all’oggi perché da questo momento in poi entra in scena Giorgio Napolitano, all’epoca presidente del gruppo comunista alla Camera dei deputati. Ecco come il futuro Presidente della Repubblica da poco defunto ricorda quegli eventi di cui fu protagonista anche la sua amica e sodale Nilde Iotti, all’epoca Presidente della Camera: «Iotti arbitra difficili accordi tra maggioranza e opposizione per permettere a quest’ultima di dispiegare le proteste e il dissenso ma, insieme, per evitare che decada anche il secondo decreto. Per garantire cioè – punto cardine della concezione di Nilde Iotti – il diritto-dovere della maggioranza di legiferare». Diritto-dovere, è qui il caso di ricordare, che la stessa Iotti, nel suo discorso d’insediamento alla presidenza, nell’estate ’79, aveva enunciato sottolineando l’esigenza di «tutelare in primo luogo i diritti delle minoranze ma anche il diritto-dovere delle maggioranze, qualunque esse siano, di legiferare». Da notare che la clausola “maggioranze, qualunque esse siano” nella rimembranza di Napolitano scompare. Ma ecco come egli, scrivendo in terza persona nella prefazione ai discorsi parlamentari della Iotti, editi nel 2003 dalla Camera dei deputati, rappresenta lo scontro in corso: «la leadership del Pci preme perché l’iter del provvedimento non sia contenuto nei tempi e nei modi concertati in conferenza dei capigruppo con l’adesione anche del capogruppo comunista il quale è solidale con Iotti dinnanzi ad una pressione che mette a repentaglio la presidenza. Ella non cede, supera la prova, conduce la Camera al voto di conversione del decreto il 18 maggio 1984». Con questa prosa da De bello gallico il “capogruppo comunista” evoca un passaggio cruciale della sua carriera politica che lo vede passare da generale dello stato maggiore comunista a grand’ufficiale dello Stato borghese che nei decenni avvenire servirà con disciplina e onore. In queste giornate di commemorazioni funebri succedute alla sua dipartita si è molto sottolineato il suo rigore morale. Ma nella vicenda che lo stesso Napolitano senza alcuna reticenza ricostruisce è proprio una questione etica che si pone. Egli era uno dei massimi dirigenti dell’opposizione, ma non persegue gli interessi economici, politici e ideologici della parte che gli aveva dato tale mandato, bensì si mette al servizio del principio dell’imparzialità delle istituzioni. Qui non è neppure il caso di aprire una discussione sull’astrattezza di tale principio in un regime borghese, né vale più la pena di rimarcare che l’imparzialità di tale principio di per sé dubbia era già stata ampiamente violata dal decreto craxiano, cosa che la stessa Iotti sembra non voler vedere. Qui si vuole solo rilevare che il “capogruppo comunista” se riteneva che la strategia del suo partito cozzasse contro la sua concezione delle istituzioni avrebbe dovuto dimettersi e andare allo scontro aperto con l’allora leadership comunista. Invece egli, che pure scrive come l’autore del De bello gallico, non varcò il Rubicone e se ne stette al caldo nelle stalle di Augia aspettando che i tempi fossero maturi per divenire il magistrato supremo di una repubblica in cui grazie anche al suo comportamento la classe operaia di cui aveva succhiato la forza politica non esiste più quale organo politico di una società non più ammorbata dallo sterco dell’Elide. Solo il guazzabuglio di cui consiste lo spirito borghese può tirare in ballo la morale per celebrare un sì grand’uomo.

P.S. Naturalmente, da questo discorso resta esclusa tutta la vociferante plebaglia che al colmo della confusione mentale inveisce contro Napolitano il “comunista”.

Giuliano Amato sulla strage di Ustica

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Non sembri macabro, visto l’argomento, ma l’intervista di Giuliano Amato sulla strage di Ustica è come tutte le cose del dottor sottile un missile a testata multipla. Mostra a chi ancora non l’avesse capito che in un mondo imperialistico retto dai bruti rapporti di forza la verità non esiste. Accoltella alla schiena (vecchio schema) l’imperialismo francese morente ora che in Africa lo schifano anche i più fedeli vassalli (colpo di Stato in Gabon). Descrivendo Craxi come uno spione a favore delle nobili cause (Arafat, Gheddafi) spiega perché l’inchiesta Mani pulite fu così impietosa nei suoi confronti. Rende noto il motivo per cui a lui, Giuliano Amato, fu preferito Mattarella per la Presidenza della Repubblica: il menestrello dello zio Sam non poteva consentire che chi nutriva simili sospetti su Ustica potesse accedere a quella carica. Meglio dunque un personaggio shakespeariano come il buon Sergio. Smaschera la Nato, un apparato omertoso dove l’imperialismo più grande calpesta quello più piccolo con il solo fine di dominare il mondo. Altro che promuovere la pace e la giustizia fra i popoli! Dà voce all’anti-atlantismo di tanta parte degli italiani nella contingenza della guerra in Ucraina. Mette del peperoncino sotto le terga di una certa smargiassa che sta tentando in tutti i modi di riscuotere il credito atlantista dopo tanti anni di onorato servizio della sua parte politica nei bassifondi della criminalità politica come miliziani della strategia della tensione. Mostra cos’è stata l’Italia in tutti questi decenni, un paese senza sovranità dove i militari spalleggiati dalla Nato potevano farsi beffe dei politici. Dà un bel calcione negli stinchi ai generali scriventi e non che si stanno ergendo a ultimo baluardo di un paese allo sbando, loro che per anni hanno mentito sulla fine di ottantuno italiani colpevoli di aver preso un aereo tra Bologna e Palermo nel momento sbagliato. Segnala la sua vigile presenza nel caso che l’attuale Presidente per un qualche motivo dovesse non poter più svolgere le sue funzioni. Accende infine senza volerlo una lucina su quella verità negata dai rapporti di forza imperialistici ma in una società che a questo pur tenue chiarore preferisce gli spettri e i fantasmi con cui alimenta il suo cinismo.

Niger, notizie dal futuro

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Che con la guerra in Ucraina la storia si fosse rimessa in moto era evidente, anche se le macerie del passato gravavano sul nuovo che lentamente prendeva forma, ma ora il cambio di regime in Niger è uno di quegli eventi che riorientano tutto lo sguardo su quanto accaduto sin qui e su quanto può d’ora in poi accadere. Il motivetto era che per toglierseli di torno bisognava, se non bombardarli, almeno aiutarli a casa loro, ma ora che gli africani mostrano di sapersi aiutare da soli, la reazione è sconcertata. Ma come, inneggiano a Putin? Con tutti i dollari e gli euro che gli abbiamo dato, con tutte le ospitate nelle nostre migliori accademie militari, con tutte le lezioni di democrazia elettorale che gli abbiamo impartito, ci cacciano via come appestati, si mettono a dire che non vogliono più essere le marionette dell’imperialismo occidentale, si avventurano addirittura a profetizzare che fra non molto i loro ragazzi non partiranno più per morire annegati nel Mediterraneo? A questo punto dovremmo evocare le miniere d’uranio di cui è ricco il Niger, ma scadremmo nell’economicismo di tutti coloro che trascurano le mediazioni che esistono tra l’uranio e il possibile benessere dei nigerini. Anche un osservatore acuto come il vegliardo socialista Rino Formica parla senza mezzi termini di ritorno dell’autoritarismo in Africa, ma i “golpe” in Mali, Burkina Faso, Niger sono tali nella forma, poiché nella sostanza stanno avviando a soluzione il problema principale di questi paesi, ovvero l’allargamento della base popolare dello Stato che invece sinora era stato o un padre padrone che vegliava sulle giovani nazioni appena decolonizzate o una signoria al servizio di potenze straniere. E se il padre padrone finiva per diventare un arbitro sempre più capriccioso man mano che invecchiava, le signorie erano incapaci di procacciare tanto la sicurezza quanto lo sviluppo dei loro rispettivi paesi. Oggi, in Africa, vi sono due “agenzie” che forniscono soluzioni a tali problemi, ovvero la Cina con i suoi larghi investimenti per quanto attiene allo sviluppo, la Russia con le sue discusse milizie per ciò che concerne la sicurezza. Le loro pretese, almeno al momento, sono moderate, offrono un saper fare efficace, non hanno un passato colonialista da scontare, e tutto ciò permette un gioco politico relativamente libero in cui le classi popolari da sempre escluse dallo Stato cominciano a identificarsi in esso. Se questo processo va avanti, se l’Occidente, scontento di quanto sta accadendo, non interviene con le modalità ben conosciute per ripristinare la “democrazia’, se non si traveste per boicottarlo di jiadista, alquaedista o comunque di terrorista islamico, tutti fantasmi che combatte o con cui si allea a seconda delle sue convenienze, non è azzardato pensare che in poco tempo l’emorragia migratoria che da quei paesi si indirizza verso l’Europa possa affievolirsi sino a cessare, e ciò senza che il lagnoso europeo abbia tirato fuori un centesimo per “aiutarli a casa loro” ma semplicemente per uno di quei miracoli della “politica” quando si pone i problemi veri, cioè la base popolare delle istituzioni e la perequazione della lotta di classe che in quei paesi in questi decenni ha assunto forme mostruose. Non si dimentichi che dietro ogni migrante ci sta qualcuno che ha razziato i suoi beni in cambio della somma esosa che va allo scafista. Perciò, che si determini una situazione politica in cui cessi questa feroce “accumulazione primitiva” può essere uno scandalo solo per un Occidente che ormai da tempo immemorabile ha tacitato la propria coscienza morale. E le elezioni democratiche? E i diritti umani? Sono stati questi doni di cui non si è avuto abbastanza timore – come dimenticare il fascinoso discorso di Obama all’Università del Cairo nel 2009? — a scatenare le rivoluzioni arabe del 2011, ma essi indicavano una via troppo stretta non perché non riuscissero a calmierare il prezzo del pane, ma perché non riconoscevano alcuna dignità politica alle classi popolari concepite appunto come mere mangiatrici di pane che si incazzano se gli aumenti il prezzo dell’alimento di base della loro vita animalesca. E per converso, quei diritti apparivano così astratti a quelle classi popolari che presto esse divenivano la base non di un nuovo Stato popolare ma di una setta anti-modernista da tempo celata nell’ombra che tramite i formalismi democratici si impadroniva del potere di Stato. È in forza di questa “cattiva” egemonia con il volto rivolto verso l’oppressione del passato e non verso l’autodeterminazione del futuro che l’Egitto è passato da Mubarak a Morsi per tornare al punto di partenza con Al Sisi. Qui ci asterremo dal contrapporre i diritti umani per i quali è stato imprigionato Zaki a quelli sociali su cui indagava Regeni. L’Egitto è un paese troppo complesso per simili contrapposizioni e la costruzione in esso di uno Stato popolare dovrà passare ancora per prove molto impegnative. Su queste vicende che osserviamo da lontano attraverso il filtro deformante di un’informazione protervamente imperialista resta da dire qualcosa sull’Italia e sui suoi patetici, attuali governanti che, quando si confrontano con l’Africa, non hanno di meglio da fare che andare in giro a vendere pacchetti di fumo intitolati a Enrico Mattei, l’uomo che si vantava di trattare i partiti come dei taxi, pace all’anima sua. E dire che una strada la si era individuata, con quella denuncia del franco francese come moneta di riferimento obbligatoria dei paesi del Sahel quale chiave del loro “sotto-sviluppo”. Ma ad agitare questi temi era quel Movimento 5 Stelle che con la sua demagogia e il suo istrionismo mutuati dal suo nefasto artefice ha fatto tanto male alla sinistra di questo paese, già di per sé attinta da un divorante opportunismo. E se la demagogia e l’istrionismo, l’improvvisazione e il pressapochismo non fossero stati la cifra di quella forza politica, l’Italia a quest’ora sarebbe all’avanguardia nel nuovo mondo che si profila. E invece il patto commerciale con la Cina fu siglato con l’allegra noncuranza con cui si beve un bicchier d’acqua, senza predisporre nulla che potesse rendere non traumatico il distacco dall’euroatlantismo. E che dire delle relazioni con la Russia affidate alle ambigue amicizie dell’ormai defunto magnate brianzolo e ai papocchi di certi leghisti in fregola di sovranismo? Il nuovo mondo grande e terribile è una cosa troppo seria per un paese che ogni anno sempre più pomposamente celebra sé stesso dividendosi tra i lustrini sanremesi e le giacche a pinguino della lirica milanese. Perciò affonderemo con beata incoscienza attaccati alla mammella americana mentre sul ponte garriscono le Sorelle Bandiera.

Berlusconi

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La figlia maggiore di Berlusconi lamenta che il padre anche da morto venga infangato e diffamato con notizie e indagini che da tempo si sono dimostrate essere più teoremi che fatti provati. Sulle indagini dei magistrati inquirenti c’è stato, c’è e ci sarà il vaglio dei collegi giudicanti nel cui merito non entriamo. Quanto al resto, si spera che non diventi obbligatorio il servo encomio e che sia possibile esprimere un libero giudizio su un uomo che con tanta pertinacia per tanto tempo ha voluto essere presente nella vita quotidiana di un intero paese e oltre. E, dunque, anzitutto Berlusconi è stato un capitalista monopolista nel significato esatto del termine, cioè un capitalista che tramite la leva della pubblicità si è inserito come una discreta potenza nel livello più “astratto” del capitalismo, quello finanziario. Quale sia stata la sua personale “accumulazione originaria” che gli ha consentito di raggiungere questo obiettivo è oggetto di controversie, ma bisogna considerare che in qualsiasi “accumulazione originaria” capitalistica vi sono sempre due elementi, il privilegio e il banditismo. Il privilegio di cui ha goduto Berlusconi sono stati i decreti di Craxi a salvaguardia delle sue televisioni, volano indispensabile dello sfruttamento pubblicitario. Sul resto, non ci pronunciamo. Berlusconi è stato poi un imprenditore dell’egemonia. Con le sue televisioni, infatti, ha creato un pubblico che con la “discesa in campo” ha trasformato in elettorato. Egli ha così applicato diligentemente la parte più facile della lezione gramsciana, quella secondo la quale, se si vuole conquistare il potere politico, bisogna prima essere dirigenti e poi dominanti. Il resto della lezione gramsciana, quella più impegnativa, l’ha lasciata volentieri a una sinistra in disarmo che aveva finito con il confondere l’egemonia con l’egemonia degli intellettuali. Berlusconi è stato poi un uomo politico che per far largo a un capitalismo monopolistico di cui era il maggior esponente ha messo a soqquadro un attardato Stato di diritto. Egli ha portato avanti questa azione eversiva inveendo contro il pericolo comunista, ma il vero obiettivo erano le fazioni borghesi avverse che, in nome di una ideologia liberale così astratta da poter essere rivendicata dallo stesso Berlusconi, reclamavano le guarentigie costituzionali per arginarne la prorompente carica competitiva. Si trattava dunque di uno scontro intercapitalistico in cui le classi popolari che ambivano sempre più flebilmente a riscattarsi politicamente erano uno schermo illusorio su cui proiettare una paranoia di comodo. La vera battaglia anticomunista Berlusconi l’ha combattuta nella sua ulteriore veste di uomo di raccordo dello Stato occulto in cui si ritrovavano, ora in concordia ora in discordia, ora alla luce del sole ora negli oscuri palazzi, legittimità atlantiste, neofascismo più o meno rispettabile, settori reazionari del potere ecclesiastico, massoneria, mafia anche nelle sue velleità separatiste specchio di quelle del Nord, tutti distaccamenti di un unico esercito votato a mantenere l’Italia saldamente ancorata alla potenza americana. Le indagini su cui insistono le procure hanno questo mondo come sfondo che, essendo ancora al potere, ha tutti gli strumenti per rendere “incredibili” e “indicibili” determinate verità la cui evidenza però in alcuni casi è accecante. Quale punto di riferimento di questo mondo, che è poi l’infrastruttura nel quadrante italiano dell’Occidente imperialista, Berlusconi ha potuto proporsi come uomo di pace in grado di mettere d’accordo a Pratica di Mare l’America di Bush Jr., trionfante benché assetata di vendetta per le Torri gemelle, con la Russia col cappello in mano del primo Putin, ma porta anche la responsabilità politica della repressione poliziesca del G8 di Genova del luglio 2001, abilmente scaricata su Gianfranco Fini che per altro non l’ha mai rifiutata, e della liquidazione sommaria di Gheddafi, per la verità non scelta ma subita come imposizione, tramite il presidente Giorgio Napolitano, del suo caro nemico Barack Obama di cui dileggiava l’abbronzatura. Berlusconi insomma è stato un fedele pretoriano dell’imperialismo occidentale di cui però ultimamente non capiva le dinamiche, tanto è vero che non si rassegnava a ripudiare la (Hillary Clinton sospettava lucrosa) amicizia con Putin, un altro giunto al potere sull’onda di una fra le più rapinose “accumulazioni originarie” della storia, quella ad opera di un pugno di avventurieri impadronitisi delle immense ricchezze del popolo sovietico, lasciato indifeso dalla insulsaggine dei suoi ultimi dirigenti.  Berlusconi, infine, è stato l’artefice della diffusione in Italia del capitalismo come “forma di vita”, adattandolo alla temperie spirituale di un paese avido e sessualmente represso. Con una organicità ignota alla sonnacchiosa ed elefantiaca televisione di Stato, dagli anni Ottanta in poi il d*naro e la f*ca sono stati i simboli cui alludeva lo sguardo pecoreccio di tutte le trasmissioni delle sue televisioni ma anche della sua stessa vita. Egli infatti è stato l’autore del copione e l’interprete di questa forma di vita sino ai titoli di coda, celebrati enfaticamente da un mondo che negli ultimi tempi aveva cominciato a mal sopportarlo. Per tutti questi importanti aspetti, Berlusconi è stato dunque l’uomo di un’intera epoca che, quando i libri di storia potranno essere scritti senza la costrizione del vecchio pensiero ancora in auge, sarà probabilmente ricordata come fra le più spregevoli di questo capitalismo morente.