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Appunti pre-elettorali

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La campagna elettorale in corso si intreccia con temi che richiedono di allungare il cannocchiale della teoria, vedi il price cap del gas proposto già mesi fa dall’astuto Draghi su cui ora l’UE si sta dilaniando e le cui implicazioni evidenziano ancora una volta gli equivoci di certo ecologismo progressista. Ma è segnata anche da squillanti sondaggi che continuamente segnalano l’arrivo della piena elettorale di Giorgia Meloni. Nel polverone si intravede anche la sagoma ben nota del paese italico con i suoi opportunismi e la sua essenza capitalistica forgiata nei decenni passati e che ora fornisce la base per nuove mistificazioni. Cimentiamoci dunque in questa messa a fuoco con le poche note schematiche che seguono:

1) come insegnano i classici, il capitalismo si compone di rendita, profitti e salari. Con rendita essi intendono la rendita agraria, ma anche aria, acqua, miniere. Quindi, quello che oggi è comunemente chiamato “settore energetico”, carbone, petrolio, gas, è in realtà la rendita nella sua forma odierna di cui con la “tecnologia verde” fanno parte anche il vento, il sole e il mare;

2) la rendita non è solo estensiva (quantità o estensione di elemento sfruttato) e intensiva (tempo di lavoro e capitale investiti in un determinato elemento) ma soprattutto differenziale. Essa infatti sotto l’impulso della maggiore produzione (plusvalore) e riproduzione (incremento demografico) generate dallo sfruttamento degli elementi migra continuamente dall’elemento iniziale “migliore” all’elemento via via “peggiore”, in cui cioè la resa produttiva richiede sempre maggiore investimento di lavoro e capitale. L’esempio classico è quello del terreno vergine fertile e ben disposto, “recintato” da chi ha avuto forza e opportunità di farlo, contrapposto a quello pietroso e scosceso di chi ha dovuto acconciarsi. Se ad esempio si coltiva il grano, il suo valore si forma con riferimento a quello coltivato nel terreno peggiore poiché maggiore è la quantità di lavoro impiegata per produrlo. Come nota Ricardo, il grano non è caro perché si paga una rendita ma si paga una rendita perché il grano è caro1. Nel moderno “settore energetico” il prezzo di riferimento è quello del gas. Indipendentemente da come è prodotto – ed è prodotto materialmente estraendolo dalle viscere della terra, economicamente attraverso strumenti di speculazione finanziaria: rendita + rendita! – si può dire che il gas svolge la funzione di “terreno peggiore”;

3) il progressismo ecologico sembra non capire che la produzione energetica verde non è altro che una nuova forma di rendita che come tutte le rendite gradualmente genera una rendita differenziale. Se oggi per non deturpare il panorama si mettono le pale eoliche a venti kilometri dalla costa, la maggiore domanda di energia derivante dallo “sviluppo” indotto dallo sfruttamento del vento o di consimili elementi imporrà di metterne di nuove a venticinque e poi a trenta kilometri, in un crescendo di rendite differenziali eoliche, solari, geotermiche e quant’altro. Di per sé la “tecnologia verde” non assicura affatto il passaggio diretto “all’uguaglianza alla democrazia e alla pace”, come i progressisti ecologici, con una sintomatica convergenza con i capitalisti “verdi”, invece credono, pensando di poter fare a meno della fatica delle lotte sociali con cui si modificano i rapporti di produzione;

4) il price cap del petrolio e del gas che Mario Draghi da mesi sta cercando di imporre all’Unione Europea è capitalisticamente la mossa giusta. Il problema però è che Draghi, almeno nella sua proposta originaria, intende realizzare il price cap non coalizzando in generale i compratori contro i venditori bensì gli europei contro Putin. Esce dunque fuori dal terreno delle leggi economiche capitalistiche e muove guerra alla Russia con i cannoni dell’economia. Questa natura anfibia dell’idea dell’ex governatore della BCE non meraviglia. Infatti, durante il suo mandato di governatore, ma ancor più quale Presidente del consiglio, egli si è rivelato come l’alfiere più convinto della concezione secondo la quale la BCE, quale metafora bancaria dell’antica potenza militare europea che per ben note ragioni storiche non può essere più perseguita con gli eserciti, deve fare dell’Europa l’armata bancaria dell’Occidente, coordinata con l’armata reale ma anche economica e finanziaria degli Stati Uniti. Un gigantesco esercito  la cui ideologia è l’atlantismo e di cui lui si ritiene ed è considerato dai circoli di potere euro-americani fra i più eminenti strateghi

5) di questo esercito che non ammette indisciplina, l’Italia fa parte quale paese capitalistico che vive comprimendo il mercato interno (salari) per realizzare nel mercato estero il plusvalore (profitti) in catene produttive splendidamente subalterne, dalla meccanica di precisione alla moda al mobilio di design ai cavallini rampanti agli yacht per i magnati dell’Est e dell’Ovest. Recentemente, uno di questi campioni dell’Italia esportadora ha dichiarato che le elezioni del 25 settembre sono «irrilevanti nel contesto mondiale». Infatti, le imprese sono «lontanissime dalle tematiche elettorali italiane e vicinissime a quelle della vita reale dei dipendenti: l’inflazione, il costo delle materie prime». E ha concluso: «siamo controllati da Bruxelles. È come avere il due di spade quando la briscola è denari. Mi interessano di più le elezioni di midterm americane, mi interessa vedere cosa fanno i tedeschi»2. Ecco, capitalisticamente parlando l’Italia è un paese senza patria e senza nazione che i Fratelli d’Italia si propongono di rendere alla patria e alla nazione. Lodevole intento. Non è la prima volta che i fascisti tentano di raddrizzare il legno storto italico. Patria e nazione furono le parole con cui chiusero il Parlamento, imprigionarono gli avversari, vararono il corporativismo e lastricarono il cammino verso il baratro della Seconda guerra mondiale. Ma rinfacciar loro questo passato remoto non serve a niente, perché attuale è invece il loro passato prossimo su cui stanno costruendo il loro futuro. Essi sono infatti gli eredi orgogliosi dei neofascisti del Movimento Sociale Italiano, verniciatura legalitaria di un pulviscolo di soggetti e movimenti in feroce ancorché cameratesca competizione fra loro che nei decenni della “guerra fredda” assicurarono i bassi servizi della “strategia della tensione” di cui sotto le ali dell’atlantismo si nutrì la “lotta per la libertà”;

6) paradossalmente, la sovranità nazionale dell’Italia è oggi molto più limitata che ai tempi della “guerra fredda”. L’antifascismo storico non ha più mordente e quello nuovo non può essere professato perché richiederebbe il disvelamento dei misfatti dell’atlantismo che invece controlla tutti i meccanismi del “dicibile” e del “credibile”, dagli archivi al discorso dominante dei media. Fra gli applausi degli apparati i reggicoda di un tempo vengono così elevati al livello di coloro che di essi si servirono per edificare il potere di cui oggi ancora godono. Da Portella della Ginestra a Piazza Fontana all’Italicus alla Stazione di Bologna, è la grande pacificazione a spese della verità storica e della giustizia per chi ci ha lasciato la pelle. Al di là delle combinazioni parlamentari e dei ruoli di governo, questo è il fondamento indicibile della vera maggioranza politica che già in questi mesi ha fatto le sue prove e che si prospetta per il dopo voto, ovvero l’accoppiata Partito Democratico-Fratelli d’Italia, il primo garante del passato e del presente, i secondi del futuro.

7) Ma le incognite non mancano. Quanto reggerà il produttivismo italico, che Salvini stenta sempre più a rappresentare, nella parte di gregge da tosare per mantenere i sogni di gloria di un’élite politica “democratica” oggi, “conservatrice” domani, padrona in patria per mandato estero? Quanto reggerà l’atlantismo i cui tempi del consenso facile sembrano finiti e che oggi si impone più come dominio che come egemonia? Sulla spinta di quel mondo economico scontento e della debolezza dei vecchi circoli euro-americani non saranno gli stessi Fratelli d’Italia tentati di “sovranizzare la nazione” chiudendo il cerchio dell’onore perduto con la sconfitta in guerra del fascismo storico? Sarà l’inizio di un nuovo, lungo dominio in un mondo tempestoso in cui ciascuno si rinchiude nel suo “mondo a parte”, oppure si tratterà del passo falso che facendo crollare il vecchio mondo, oggi disposto pur di sopravvivere ad ammettere i servi nelle stanze buone, ne mostrerà la falsità e renderà dicibile e credibile ciò che oggi appare solo fantasiosa congettura “complottarda”? Ah, se in tutto questo la sinistra, i cui frantumi si propongono in queste elezioni la titanica meta del diritto di tribuna, si risvegliasse…

 

  1. D. Ricardo, Principi di economia politica e dell’imposta (1817), trad. it. UTET, Torino 1986, p. 229. []
  2. Boom di ordini estivi: la crisi non ferma i super yacht di Ferretti, «Il Giornale», 7 settembre 2022, p. 17. []

Abbaiare

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Con sprezzo del ridicolo si continua a definire “maggioranza di governo” il raggruppamento di partiti che formalmente sorregge l’esecutivo Draghi, mentre quelli di Fratelli d’Italia sarebbero l’opposizione. Di fronte a questi giochini parlamentari, appare più verosimile il miracolo del pane e del vino che diventano, non solo nella sublime credenza religiosa ma anche nell’effettiva realtà fisico-chimica, corpo e sangue di Cristo. In realtà, la “maggioranza di governo” è un carcere dove restringere le forze politiche che volentieri si sottrarrebbero ai vincoli di una passata stagione storica, ma siccome sono forze politiche deboli, deboli nel riferimento sociale, nell’elaborazione programmatica, negli ideali, si sono fatte facilmente catturare da chi ancora controlla gli apparati, e tentano sortite velleitarie, come il patetico progetto di viaggio a Mosca di Matteo Salvini, o le volenterose minacce a vuoto di far cadere il governo da parte di Giuseppe Conte, incapace sinora di cacciare dal suo partito quell’autentica quinta colonna nemica che è il giovin notabile Luigi Di Maio. La vera maggioranza di governo risulta essere invece l’accoppiata Partito Democratico-Fratelli d’Italia che tiene dritta la barra sulle alleanze storiche che – bellezza dei nomi! – ai “democratici” assicurano il governo di oggi, ai “conservatori-europei” quello di domani. Non bisogna farsi impressionare dagli ululati “laici di sinistra” che si levano alle sparate “integraliste di estrema destra” di Giorgia Meloni, che parli il romanesco o lo spagnolo. I Fratelli d’Italia hanno imbroccato la corrente giusta e adesso intendono passare all’incasso politico a ricompensa, nelle molteplici metamorfosi di cui sono stati protagonisti, dei tanti decenni di servizi più o meno bassi resi all’atlantismo. A Giorgia Meloni si rimprovera il vecchio legame ideologico con il fascismo storico e la più recente ripulsa del laicismo dei diritti e dell’accoglienza. Sono tutte fronde per non affrontare la sostanza, ovvero il legame tra il neofascismo e l’atlantismo. Se Giorgia Meloni andrà all’esecutivo, sapremo che un certo mondo è stato elevato al rango di coloro da cui quel mondo riceveva impulsi e suggestioni. I comitati di vittime delle stragi che da anni cercano le verità storiche potranno definitivamente sciogliersi e la pacificazione invocata, parlando d’altro, da un improvvido Presidente della Camera sarà cosa fatta. Ma anche i piani più perfetti hanno sempre qualche punto debole. C’è tutto un mondo economico riassunto dalle mosse oligofreniche di un Salvini che non si rassegna a fare il gregge da tosare per mantenere i sogni di gloria di un’élite padrona in patria per mandato estero. E questo mondo, mentre a Kiev infuriando la guerra si svolgeva il summit dei capi dell’Unione Europea con il performer Zelensky, a San Pietroburgo dialogava con gli esponenti del capitalismo nazionale di Stato russo. Il contrasto tra Lega e Fratelli d’Italia non è solo elettorale o di leadership. La Lega è il corpo economico dell’Italia cui Salvini, che non è però un fenomeno, ha cercato di dare un cervello. Nel centro-destra, dunque, il contrasto è tra forze reali che spingono in direzioni opposte e la cui sintesi non è più a portata di mano come con il berlusconismo. I tempi del consenso facile per l’atlantismo sembrano finiti, ed esso ora dovrà imporsi più come dominio che come egemonia. Draghi è un assaggio e Meloni freme di completare l’opera. Quel mondo che Salvini stenta a rappresentare sino a che punto, spinto dai suoi interessi, si metterà di traverso? Oltre a produrre capitale sarà capace di proporre una visione del mondo adeguata ai tempi nuovi che la guerra in Ucraina lascia intuire tempestosi? Grande assente in tutto questo è la sinistra. La sua vitalità è sempre dipesa dall’antagonismo tra massimalismo e riformismo, che dava voce al lavoro nel suo conflitto con il capitale. Oggi la sinistra è tutta riformista e per questo non è in grado di dare nessun contributo all’Italia di domani. Perciò nell’immediato l’alternativa è tra la prigione occulta dell’attuale pseudo-maggioranza di governo e la soft-dittatura atlantista che i Fratelli d’Italia “abbaiano” sotto il portone di Palazzo Chigi. Coraggio!

Occasione persa

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La lezione più importante che si può trarre dalla pandemia è che solo una concentrazione assoluta di paura e terrore riesce a staccare gli individui dalle loro abitudini e schemi mentali, rendendoli disposti a mutare i propri comportamenti. Nelle giornate più cupe della pandemia, quando il virus sembrava una forza irresistibile più di quanto lo sia ora, faceva impressione constatare questo distacco non tanto nella gente comune quanto in coloro che, detentori di un qualche potere, si erano sin lì catafratti nella sicurezza richiesta dalle loro posizioni che ben volentieri esibivano. Strepitavano, si lamentavano, erano disposti ad ammettere tutte le storture del modo di vita sin allora difeso e procedevano a modifiche cogliendo senza indugio ogni spiraglio che si apriva per un qualche mutamento. Per chi detiene potere provare paura è una esperienza devastante che pur di salvarsi induce a ogni sorta di concessione. Ma, come già detto, sotto lo stimolo della paura anche la gente comune è più disposta a sottrarsi all’imperio dell’abitudine che ottunde ogni critica alle storture della routine in cui si è immersi. Era questa scossa, che si irradiava indistintamente in basso e in alto, la base di quegli ingenui proponimenti che i media proponevano sul “dopo la pandemia, saremo tutti più buoni”. In realtà, poiché tutta questa configurazione è semplicistica quanto un fioretto infantile, i buoni propositi sono svaniti non appena si sono cominciate a prendere le misure al temibile virus. Il problema della concentrazione assoluta di paura e terrore è che, se non accompagnata da una contestuale opera di consapevole messa in discussione delle vecchie abitudini, funziona come una molla compressa che, una volta rilasciata, ritorna con forza maggiore alla sua posizione iniziale. Il PIL, prodotto interno lordo, con i complimenti del Fondo monetario e i battimani di qualche ministro premio Nobel mancato, non sta forse rimbalzando al 6% annuo? La concentrazione assoluta di paura e terrore è un fatto rivoluzionario se c’è una forza uguale e contraria alle abitudini da svellere che svolga un’opera attiva di “pedagogia sociale”. Ma dal virus non si può pretendere tanto. Negli anni, una tale forza attiva si è acquartierata in comodi cubicoli dell’ordine esistente e le persone si sono abituate a essere “individui autonomi” ovvero, secondo una versione popolare dell’etica kantiana, a fare ciò che gli pare rigettando come un’offesa ogni accenno pedagogico-sociale. Se una tale forza, invece di imboscarsi, avesse coltivato gelosamente la propria autonomia, si sarebbe potuto intavolare un discorso innanzitutto sulle cause nient’affatto naturali del virus, e dall’accertamento delle effettive cause economiche, sociali e culturali si sarebbero potuti derivare interventi di riforma del modo di vita corrente. Anzitutto, decomprimendo l’economia, liberandola dai miliardi di ore-lavoro dedicate a produrre merci inutili quando non dannose, buone solo a tenere su gli indici del sullodato PIL. Ma contestualmente si sarebbe dovuto sviluppare il polmone sociale e non certo con le spese in deroga ai vincoli di bilancio, spesso elemosine migragnose di uno Stato, da anni disabituato a fare non tanto politica economica quanto economia politica, a categorie avvezze a ben altri flussi di denaro in chiaroscuro ma ora improvvisamente in difficoltà. E, invece, in quei decisivi frangenti ciò che si è sentito è stato solo l’invito sgangherato a cambiare mestiere rivolto a tali categorie da una esponente assai supponente (altro che commercialista di Bari, come a suo tempo l’altezzoso Andreatta definì il valoroso Formica!) del nuovo che avanza. Questo nuovo a cinque stelle ha così tanto avanzato che nel vuoto creatosi la molla si è ripresa il suo spazio – e con quale maggior vigore. Se l’economia, quell’economia priapica da cui pur con tutte le sue storture dipende l’esistenza delle persone è l’unica effettiva dimensione sociale, beh, quando con la “spinta gentile” del green pass (ah, il genio del paternalismo borghese!)  si riesce con le inoculazioni vaccinali a relegare il virus a un basso continuo della vita quotidiana che, quasi con un brivido di piacere sotteso al rischio di potersi infettare, accompagna gli atti di un nuovo sfrenamento di massa, perché meravigliarsi che sorga e si imponga la figura salvifica del Grande Funzionario novello De Gasperi che sa come manovrarla, questa divina economia del lavoro non-lavoro, dei salari decrescenti e dell’obbligo del maggior consumo, delle crescenti aspettative di vita e delle pensioni a babbo morto? E così, mentre tutto crolla, tutto ancora una volta si tiene, e la nave va, con gli schiavi alla galera cui però è concesso per pochi spiccioli, miracolo dell’economia dei prezzi, di salire in prima classe per una crociera di una settimana. Tanto, se non su uno yacht sempre più grande, c’è sempre un’astronave che può portare in salvo i ricchi scemi su un pianeta very exclusive.

Nuvoloni all’orizzonte

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Mentre questa calda estate culla gli ultimi bagnanti nelle onde di un mare via via più silenzioso, all’orizzonte sono apparsi i nuvoloni degli spropositati aumenti tariffari di luce e gas che rischiano di gravare sulle bollette anche per un 40% in più. I media si sono messi subito all’opera per spiegare questa improvvisa minaccia, e si è incominciato a parlare di cause prossime e cause remote, prezzi all’ingrosso e prezzi al dettaglio, domanda e offerta che non trovano un punto di equilibrio, insomma tutto l’armamentario della migliore scienza economica. In questo profluvio di teorie, la spiegazione più perspicua che abbiamo trovato è la seguente:

«Dal nostro punto di vista, l’alta volatilità e gli eccessivi picchi dei prezzi hanno ragioni più fondamentali. L’industria sa che il nostro sistema energetico sta subendo una profonda e veloce trasformazione. Gli investimenti in fonti fossili non hanno un futuro sul lungo termine. Ma, allo stesso tempo, i governi non si sono ancora impegnati abbastanza chiaramente per un futuro a basse emissioni di carbonio. Quindi, l’equilibrio tra domanda e offerta di energia nell’Ue potrebbe essere molto volatile, a seconda della velocità relativa della graduale eliminazione delle energie fossili e della graduale introduzione delle energie verdi. Impegni più chiari da parte dei governi per introdurre con più forza le fonti di energia verdi – per esempio attraverso il finanziamento delle infrastrutture corrispondenti e l’impegno di prezzi sostanziali per il carbonio in tutti i settori – potrebbero aiutare ad allontanarsi da un equilibrio così precario. Poiché il passaggio alla neutralità climatica implicherà una domanda di elettricità in continua crescita, gli investitori non dovranno preoccuparsi troppo di sovrainvestire in sistemi energetici a basse emissioni di carbonio. A livello dell’Ue, la rapida approvazione e implementazione del pacchetto “Fit for 55” rappresenterebbe quindi la soluzione più strutturale per evitare futuri picchi di prezzo dell’energia e per assicurare una transizione ordinata dal marrone al verde».1

Si dirà, perspicua un corno. D’accordo, bisogna fare qualche piccola parafrasi per rendere più chiaro ciò che nelle parole di questi due onesti corifei è però già abbastanza evidente. Innanzitutto, essi affermano che «l’industria sa che il nostro sistema energetico sta subendo una profonda e veloce trasformazione». Non si capisce perché parlano genericamente di industria, quando dovrebbero parlare di industria connessa alla rendita delle energie fossili (petrolio, gas naturale, carbone, sabbie bituminose, scisti bituminosi). Infatti, della classica trinità, profitto, salario, rendita, qui è di quest’ultima che si tratta, e il futuro a lungo termine è una lotta tra vecchie e nuove rendite per assicurarsi una parte di extra-profitti e determinare il supplemento di spremitura di plusvalore cui dovrà essere sottoposto il salario. Le nuove rendite sono le energie verdi (luce solare, il vento, la pioggia, le maree, le onde, il calore geotermico) che, certo, hanno questo colore rassicurante perché sono rinnovabili, ma quanto terreno bisognerà occupare di pali eolici per sfruttare adeguatamente la rinnovabilità del vento? Essendo la terra limitata, si tratta di una rinnovabilità che un giorno anch’essa si esaurirà, salvo piantarli su terreni sempre più scoscesi, e qui riocchieggia una nuova forma di rendita differenziale. Ma non corriamo. In questo quadro di lotte dentro e tra le classi, nell’onesta prosa dei nostri due turiferari appare l’attore politico, lo Stato, denominato in modo pudicamente liberaldemocratico «i governi». I governi, da bravi comitati d’affari di quell’immenso agglomerato produttivo che è il capitalismo, di cui qui se ancora non lo si è capito si discorre, possono fare molto: pareggiare per tutti i settori produttivi tramite la stabilizzazione del prezzo del carbonio il plusvalore da sottrarre a profitti e salari da girare alla rendita, favorire la sgargiante nuova rendita verde a discapito di quella marrone tristemente penitenziale, foraggiare l’industria legata alla nuova rendita verde. Il tutto naturalmente al nobile fine, sollecitato e magnificato dalla più oggettiva scienza ambientale, della neutralità climatica, ovvero del raggiungimento del punto di equilibrio tra le emissioni di gas serra e la capacità della Terra di assorbirle. Lo abbiamo già detto, a questo scopo, quanti parchi eolici, fotovoltaici, marini e geotermici può assorbire la Grande Madre Terra, delle cui sorti la nuova rendita verde appare così preoccupata, senza entrare in conflitto con le tradizionali coltivazioni alimentari per non parlare di quelle volte alla produzione di biomasse? Beh, per i prossimi cinquant’anni di terra ce n’è abbastanza, poi si vedrà. Così, anche l’avvenire dell’UE, governo di tutti i governi, è assicurato, con il suo “Fit for 55” per il 2030 e soprattutto la “carbon neutrality” per il 2050. Tutto questo per poter rifare quel miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci che è il benessere delle società moderne: usare meno energia per avere la stessa quantità, se non di più, di beni e servizi.2 Al Figlio di Dio ciò riusciva per vie soprannaturali, a noi che non siamo da meno perché finalmente possediamo la tecnologia adatta. E qui vengono in mente le parole del vecchio rivoluzionario:

«Keynes e simili dicono: l’uomo consuma perché e quanto ha desiderato. Noi marxisti diciamo che l’uomo desidera secondo quanto ha potuto consumare, e per tanto il moderno sistema di potere e di falsa scienza borghese lo alleva con le droghe alimentari e ideologiche. La Dittatura sarà necessaria a cavallo della palingenesi del Lavoro oggettivato, del rovesciamento di Praxis del Capitale fisso, non tanto per dominare la produzione, che basterà lasciare cadere a livelli inferiori liberando i servi del lavoro e delle galere aziendali per miliardi di ore, ma soprattutto per capovolgere la prassi consumatrice, sradicare le forme patologiche del consumare, eredi di forme di oppressione di classe. L’uomo singolo, il cittadino, l’individuo, come perderà anche sotto il Terrore rivoluzionario la possibilità di possedere ricchezza e valore, uccidendosene in lui la propensione belluina, così perderà, divenendo una cellula dell’eterno – e saremmo per scrivere “sacro” – Corpo sociale, ogni diritto a ledere se stesso, a rovinare il proprio organismo animale, ad intossicarsi. Con ciò non lederebbe solo il proprio corpo, ma la società. Il rivoluzionario non può essere che un disintossicato, ed è una delle ragioni per cui nelle Rivoluzioni più della massa, che sarà disintossicata in seguito dal marchio di servaggio, opera la minoranza del partito, nutrita nel vivo suo sangue dell’antiveggente e combattente Dottrina Integrale».3

Al bagnante che buon ultimo si fa cullare dalle onde silenziose del caldo mare di questa fine estate, questi tremendi propositi debbono sembrare un nuvolone ben più minaccioso del super rincaro di luce e gas. Meglio pagare alla rendita, vecchia o nuova che sia, un botto di plusvalore piuttosto che acconciarsi a questa furiosa allucinazione.

 

  1. S. Tagliapietra, G. Zachman, Cosa c’è dietro l’impennata dei prezzi in tutta Europa, «Domani», 14.9.2021, p. 9 []
  2. G. Ruggiero, La transizione ecologica nel PNRR: bene, ma ora servono le riforme, https://www.agendadigitale.eu/smart-city/la-missione-ecologica-priorita-assoluta-del-pnrr-occasione-storica-ora-le-riforme/ []
  3. A. Bordiga, Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica, 1957, 3a parte, https://www.quinterna.org/archivio/1952_1970/traiettoria_catastrofe3.htm []

Afghanistan, le ragioni di un silenzio

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L’Afghanistan è un invito al silenzio. Talmente intrecciata e profonda è la tragedia di questo popolo che ogni considerazione rischia di apparire oscena. Forse solo la vicenda del popolo palestinese può paragonarsi a quanto sta passando il popolo afghano. Che in primo luogo è stato tradito molte volte dai suoi governanti. Lo tradirono quelli che tra gli anni Settanta e Ottanta si divisero tra astratti ideologi e nazionalisti opportunisti, e poi quelli che, una volta scoperchiato il vaso di Pandora della guerra di tutti contro tutti, tra i Novanta e i primi due decenni del secolo corrente si divisero ancora tra astratti nazionalisti e cosmopoliti opportunisti. Nell’immenso incendio che intanto si propagava venivano bruciate tutte le idealità offerte dalla scarna faretra di una modernità che si compiaceva di celebrarsi come compiuta o comunque prossima all’ultimo stadio del compimento, i novecenteschi ideali tanto comunisti quanto democratici, e sorgeva dalle profondità di una ruralità che il maldestro rivoluzionamento dell’organismo sociale rendeva inscalfibile la caligine di una religione sotto le cui insegne si rinserravano tutte le reazioni primarie di una società atterrita dalla sua stessa evoluzione che il peculiare contesto storico e geografico già complicava, la sessuofobia, anzitutto, e poi la neofobia, l’iconoclastia e l’avversione per la musica, praticate certo con l’arbitrarietà propria di simili codici morali, quanto mai predisposti a essere utilizzati come strumenti di potere del più forte sul più debole in ogni ramo del vivere sociale, il ricco sul povero, il possidente sul nullatenente, il maschio sulla femmina, l’adulto sull’infante, il criminale sull’obbediente alle leggi. Se si guarda ai provvedimenti governativi e si osserva l’evoluzione dell’organismo economico, si vede come, dopo l’urto dei provvedimenti degli anni Settanta volti a scardinare il predominio della campagna sulla città ma rimasti per tanti aspetti lettera morta per l’improvvisa radicalità che scatenò reazioni furibonde, vi è stata una stasi progressiva in cui, a parte i commerci secolari da una frontiera all’altra con i paesi confinanti, hanno potuto prosperare solo l’economia degli aiuti esteri e quella della droga, forse più la prima che la seconda due stupefacenti che simboleggiano perfettamente l’alienazione in cui è lentamente sprofondato il popolo afghano. Esso, sia che si rifugi nelle pance spaventose ma salvifiche degli aerei delle consunte libertà democratiche, sia che vesta i panni pittoreschi di un violento ma precario emirato settecentesco, in tutte le sue componenti appare scisso dai mezzi della propria autodeterminazione, come dimostra il fatto parziale ma emblematico che le sue già magre risorse economiche risiedono non a Kabul ma a Washington che così, vinto sul terreno, può dare inizio alla sarabanda dei ricatti e delle sanzioni con cui punisce i paesi che non si conformano alla sua sempre più senile paranoia imperiale. Altri paesi nella storia recente si sono trovati a doversi forgiare come nazione intrappolati per interi periodi in scontri internazionali, dalla Corea al Vietnam allo stesso popolo palestinese. Ne sono risultati equilibri più o meno precari e provvisori, e nel caso del popolo palestinese addirittura un disequilibrio permanente i cui contraccolpi arrivano sino a Kabul, che è presa perciò non solo nel grande ma quanto mai stucchevole gioco delle potenze mondiali, il cui ritorno in auge dopo la fine del confronto tra comunismo e liberal-democrazia segna un vero e proprio arretramento dalla via della modernità, ma anche nel piccolo e non meno insidioso gioco delle potenze regionali, Iran, Arabia Saudita, Israele, quest’ultimo sempre più determinato nel suo profilo da un radicalismo religioso che, sommato a quello uguale e contrario delle irriducibili fazioni islamiche, fa gravare su tutta la regione una cappa di oscurantismo potenziato dagli artigli della sempre più rutilante tecnica militare e informatica che i proventi della maledizione del petrolio, di cui si ubriaca il capitalismo mondiale, consentono di pagarsi a pie’ di lista. Il silenzio che impone l’Afghanistan non è dunque solo il silenzio doveroso che si deve osservare davanti alla tragedia di un popolo che appare senza fine, ma è anche il silenzio che dovrebbe accompagnare una profonda e radicale riconsiderazione dei fondamenti della moderna ragione la cui sorte ormai non è più, per fortuna, nelle mani di un Occidente perdutosi nell’aridità della propria forma di vita, ma dipende da una spinta che ha bisogno delle risorse dell’intera specie in tutte le sue più avanzate realizzazioni ideali.