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L’austerità tra fascismo e neoliberismo. Su una recente ricostruzione storica

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«Incomincia adesso la vera storia del capitalismo»
(B. Mussolini, Primo discorso alla Camera, 21 giugno 1921)

 

Il 23 aprile 2024 il Parlamento europeo ha approvato il nuovo Patto di stabilità, che fissa i nuovi meccanismi di riduzione del disavanzo e del debito degli Stati membri. I paesi con un debito superiore tra il 60% e il 90% del PIL dovranno ridurlo dello 0,5% annuo, quelli il cui debito è superiore al 90% saranno tenuti a ridurlo in media dell’1 % all’anno1. Al di là dei tecnicismi, ciò significa che le norme di bilancio dell’UE, sospese per far fronte alla pandemia di COVID-19, sono state riprese e rafforzate. Con il ritorno in scena del debito, però, si riconosce implicitamente che esso è una costruzione artificiale del tutto avulsa dal buon andamento economico. Un evento straordinario come la pandemia ha mostrato, infatti, che si possono violare i vincoli di bilancio senza per questo terremotare l’economia. L’ideologia del debito con i suoi tecnicismi ha un nome ben conosciuto, l’austerità, e i suoi propugnatori appena hanno potuto ne hanno subito rilanciato i dettami, invocando «sacrifici» al prezzo anche di «spargimenti di sangue»2. Questo aspetto sanguinario è un elemento nuovo su cui torneremo alla fine, ma ora dobbiamo chiederci perché questa ideologia, nonostante il suo evidente distacco dai bisogni concreti della vita quotidiana, persista così ostinatamente e a quali interessi risponde. Di aiuto in tal senso è la recente indagine di Clara Mattei sull’origine storica dell’austerità, che mostra l’intreccio di teoria economica, apparati governativi e politiche economiche che l’hanno forgiata3. Mattei ricostruisce in particolare due contesti, quello britannico e quello italiano, nel periodo immediatamente successivo alla fine della Grande Guerra, il biennio 1919-1920, quando sembrò che il sistema capitalistico dovesse crollare da un momento all’altro. L’austerità fu la risposta a questo pericolo mortale e ciò spiega la sua persistenza oltre quella contingenza, poiché l’assetto all’epoca escogitato è nei suoi tratti essenziali quello a cui il capitalismo è ricorso quando lo stesso pericolo si è ripresentato negli anni Settanta del secolo scorso. Dalla fine di quel decennio, l’austerità è tornata in auge e dura ancora oggi. È questo il nesso su cui soprattutto nelle conclusioni ci soffermeremo, scegliendo nell’ampia e articolata ricostruzione storica operata da Clara Mattei gli elementi utili a tal fine, anche per colmare qualche lacuna in essa presente.

L’austerità britannica

Alla fine della Grande Guerra il paesaggio economico era completamente mutato. Si era entrati in guerra convinti da sempre che economia fosse sinonimo di laissez-faire. Se ne usciva constatando che lo Stato era l’imprenditore universale che controllava fabbriche, miniere, terreni. Non solo. All’inizio della guerra si pensava che le leggi della domanda e dell’offerta avrebbero assicurato l’approvvigionamento di quanto era necessario per sostenere il conflitto, ma di fronte all’inefficienza dei privati si dovettero approntare misure che di fatto sospendevano tali leggi e sottoponevano la produzione di ogni genere di merci, compresa la merce lavoro, a un piano centralizzato controllato dallo Stato e dal suo apparato nel frattempo enormemente accresciutosi. Certo, ciò non avveniva per un’improvvisa vocazione dello Stato per il bene comune, ma attraverso patti sia con i capitalisti privati sia con i lavoratori in subbuglio, che assicuravano agli uni (grandi) profitti, agli altri (esigue) concessioni salariali. Nel complesso, però, l’economia non solo marciava, ma si sviluppava attirando risorse sin allora impensabili. Era insomma la dimostrazione lampante che il laissez-faire con i suoi dogmi della proprietà privata e dei rapporti salariali, in cui lo Stato aveva solamente il compito di garantire la convertibilità della moneta e il pareggio di bilancio, non era un dato di natura e che era possibile sostituirlo con un’economia di piano redditizia, finalizzata alla soddisfazione dei bisogni sociali collettivi. Il fatto è che queste convinzioni non erano solo dei lavoratori che, dopo lo sforzo bellico, scorgevano la meta di un maggior ruolo politico, ma si facevano strada anche nel pensiero economico e nelle alte sfere governative. Di fronte al pericolo che si imponesse una nefasta “economia collettivistica” in grado di scalzare le condizioni “normali” dell’accumulazione capitalistica, bisognava allora reagire in fretta e su più fronti, il fronte teorico, quello sociale, quello politico. Nel ristretto circolo governativo del Tesoro, dove confluivano asettici saperi accademici (Ralph G. Hawtrey) e competenze ministeriali sottratte al controllo politico (Basil Blackett, Otto Niemeyer), il punto di coagulo fu individuato nell’inflazione vista come minaccia mortale del sistema economico, che andava stabilizzato attraverso una costante gestione monetaria da parte di un’istituzione centrale, la Banca d’Inghilterra, che, come accadrà poi nell’attuale Unione Europea con la Banca Centrale, guardiana anch’essa dell’inflazione, doveva essere per suo statuto indipendente dal potere politico e finalizzata a disciplinare il consumatore. Ecco, dunque, che dalla considerazione di un’astratta struttura economica si perveniva a una concreta figura sociale e, come l’araba fenice, il laissez-faire risorgeva dalle sue ceneri basandosi su una concezione della società e della natura umana in cui non erano più contemplate le classi e i loro conflitti ma solo individui in sé conclusi che, in base alla loro costituzione morale, si aggregavano attorno ai ruoli economici del risparmiatore/investitore e del consumatore/lavoratore. Il primo con il suo sacrificio precostituiva le condizioni dell’investimento che dava vita al capitale, il secondo dilapidava le sue risorse nel consumo immediato. Per perseguire l’interesse nazionale, concetto in cui le contrapposizioni di classe scomparivano e veniva elevato a interesse di tutti quello particolare dell’accumulazione capitalistica, la teoria aveva allora due compiti, insegnare l’astinenza e imporla attraverso politiche costrittive. Il primo compito venne affidato alla pedagogia sociale del sacrificio, che con una serrata campagna propagandistica predicava di non sprecare nulla e di non dilapidare le risorse in consumi voluttuari. Per inciso, notiamo che l’austerità odierna con la “pedagogia” della pubblicità fomenta i consumi voluttuari, ma al contempo comprime i salari e precarizza gli impieghi. Il secondo compito della teoria prescriveva allo Stato di astenersi dal promuovere politiche di spesa per casa, scuola, sanità, ma gli richiedeva di usare i suoi poteri per tenere a bada i lavoratori (limitazione del diritto di sciopero, di organizzazione, ecc.), in modo che essi si trovassero a dipendere dalle leggi impersonali della domanda e dell’offerta, le uniche ritenute in grado di allocare razionalmente le risorse scarse di cui disponeva la società. Come si vede, la privatizzazione dell’economia fu lo strumento per ricreare la condizione “naturale” della lotta per la sopravvivenza in cui contano non i legami di classe ma la propria dotazione morale che porta, a seconda che si posseggano o meno determinate virtù, o al consumo improduttivo immediato o all’astinenza che preserva le basi della produzione. Sorgeva così la teoria, ancora oggi in auge, secondo la quale essere poveri è una colpa morale. E l’accumulazione capitalistica tornava a essere un fatto “oggettivo”.

L’austerità italiana

Nel suo primo discorso alla Camera, il 21 giungo 1921, Mussolini afferma che se si vuole salvare lo Stato allora «bisogna abolire lo Stato collettivista così come c’è stato trasmesso per necessità di cose dalla guerra e ritornare allo Stato manchesteriano»4. L’austerità italiana è dunque un’austerità fascista sia nel programma che nei ben noti metodi di quel regime, giudicato dagli ambienti economico-finanziari britannici solo come un’«architettura romana barocca», inammissibile in un normale paese «democratico» ma adatta all’Italia e al popolo italiano5. Fra le molte specificità indotte da quest’indole particolare, la più importante consistette in un differente rapporto tra la teoria economica e la sua gestione politica, che fu assicurata non da esperti della burocrazia ministeriale contigui al sapere universitario d’élite, ma direttamente da teorici di un particolare indirizzo della teoria economica, l’economia pura, che con alcuni loro esponenti assursero a ruoli di governo. L’economia pura, che è il contributo italiano al marginalismo, sorse nel ventennio precedente la Grande Guerra attaccando l’economia politica del valore-lavoro, senza trovare una particolare resistenza né nel pensiero liberale, il che non meraviglia, né in quello socialista. Basterà ricordare qui che Benedetto Croce assegnava giustamente al valore-lavoro di Marx una valenza “altra” rispetto al fatto economico, che però dai primi studi marxisti alle opere storiche della maturità si andrà sempre più precisando solo come una valenza “ideologica”, mentre un esponente del pensiero socialista come Antonio Graziadei, per fare opera di scienza a suo dire impedita dallo scontro ideologico tra marxismo e marginalismo, spostava lo sfruttamento del lavoro e il conseguente sorgere del valore dalla sfera della produzione a quella della circolazione. Quest’ultima interpretazione, però, che assolutizzava il mercato, equivaleva ad aprire le porte al nemico, poiché svaniva del tutto quella valenza “altra” che Croce, preso dai ragionamenti formalistici che tanto Antonio Labriola gli rimproverava, aveva però solo formulato in termini di “paragone ellittico”, mancando così anch’egli quel livello storico-genetico del sistema di merci contro cui invece si indirizzava, ben celato nel tecnicismo della dottrina, l’attacco dell’economia pura6. In realtà, il cambiamento di paradigma interno alla scienza economica era il sintomo di una complessiva reazione sociale, politica e culturale che nella guerra e nella successiva edificazione del regime fascista trovò il suo compimento. Non meraviglia perciò che, nell’austerità italiana imposta dal fascismo, la politica economica, come dicevamo, venisse gestita direttamente da suoi esponenti. Infatti, Alberto De’ Stefani, da iscritto al partito fascista, guida il ministero del Tesoro negli anni cruciali dal 1922 al 1925; Maffeo Pantaleoni, suo antico mentore, collabora strettamente con lui, oltre a essere fra i pochi “eletti” che nelle decisive Conferenze di Bruxelles (1920) e di Genova (1922), alle quali Clara Mattei dedica una nuova e attenta considerazione, elaborano l’austerità sul piano internazionale7; Umberto Ricci sino a tutto il 1925 collabora intensamente all’implementazione legislativa dell’austerità; Luigi Einaudi, infine, che pure si pone nella posizione “olimpica” del liberale d’opposizione, dalle colonne del “Corriere della sera” plaude ai provvedimenti che man mano i suoi sodali teorici producono sul terreno politico. L’unico defilato, anche perché vive in Svizzera ed è già anziano e malato, è l’«eclettico» Vilfredo Pareto, come lo appella Mattei8, la quale però nella sua ricostruzione lo lascia sostanzialmente in ombra, attribuendogli solo una generica influenza ideologica e teoretica sugli economisti sopra nominati9. A colmare questa lacuna della sua trattazione, si può dire qui che, certamente, quando il fascismo va al potere, Pareto è già da tempo passato alla “sociologia scientifica”, che però non è da intendersi come un abbandono dell’economia pura, bensì come la sua contestualizzazione in una più ampia considerazione dei moventi dell’azione sociale in cui risalti, rispetto ad altre figure sociali protese verso fini falsi o irreali, la razionalità dell’homo oeconomicus nella sua duplice veste di risparmiatore e di imprenditore, il primo che si astiene dal consumo per trarre vantaggio nel prestare il proprio risparmio10, il secondo che prende in prestito il risparmio per conseguire lo scopo per il quale opera, ovvero ottenere il più grande guadagno possibile di «numerario»11, termine pudico con cui l’economia pura denomina il profitto. Ora, se, come nota Clara Mattei, De’ Stefani e Ricci, restando sul terreno puramente economico, tendono ad assimilare il risparmiatore e l’imprenditore12, Pareto al contrario, spostandosi sul terreno sociologico, li contrappone trasfigurandoli in “speculatori” e “redditieri” che, alternandosi al comando dell’aggregato sociale, danno il tono a intere epoche storiche13. Non è dunque il conflitto tra capitale e lavoro il motore della società, bensì quello interno all’homo oeconomicus che da un lato accumula, dall’altro viene spogliato dei beni accumulati. Non, dunque, la proprietà è un furto, ma è il furto della proprietà che per via di spoliazione genera un nuovo ciclo di accumulazione. In questa proiezione economica dell’homo homini lupus, paradossale è il posto riservato al lavoro. Avendo la «differenziazione economica», idest la divisione sociale del lavoro, separato l’operaio dall’imprenditore14, la razionalità “tecnica” dell’operaio rispetto alla coordinazione del lavoro assicurata dall’imprenditore è “non logica”, cioè priva di consapevolezza del fine dell’azione (il piano produttivo) che diverrebbe “logica” qualora l’operaio la acquisisse15. Non a caso Maffeo Pantaleoni, maestro e sodale di Pareto, sottolinea che «l’imprenditore non dice all’operaio di lavorare, ma di lavorare in un certo modo: vi sapete organizzare senza di lui? Fate pure»16. Compare qui provocatoriamente l’idea, declinata poi “scientificamente” da Pareto, dell’“istinto delle combinazioni” che solo l’imprenditore possiederebbe in sommo grado17. La richiesta del “controllo” del processo di produzione con cui l’operaio raccoglie la sfida di trasformare in “azione logica” il suo agire “non logico”, avanzata in alternativa all’austerità fascista dal movimento torinese dell’Ordine Nuovo con a capo Gramsci, cui Clara Mattei nella sua ricostruzione dedica opportunamente ampio spazio18, resta così solo una figura virtuale dello schema dell’azione sociale, resa impraticabile anche da una parallela critica “scientifica” delle “illusioni” politiche, cui provvede la complementare teoria  delle “derivazioni”19. Nella sua rarefatta astrattezza, la riformulazione sociologica operata da Pareto della già astratta economia pura, che tanto affascinava Umberto Ricci20, si caratterizza allora – potremmo dire, rifacendoci al Lukács di Storia e coscienza di classe – come la neutralizzazione di quel conato di “azione logica” che è la “presa di coscienza” dell’intero capitalistico da parte della classe operaia, protesa dialetticamente verso una forma superiore di organizzazione sociale21. Infatti, occultato il rapporto di sfruttamento e di subordinazione dell’operaio al capitalista, Pareto può trasfigurare quest’ultimo nella neutra funzione sociale dell’imprenditore, di cui pure in limine evidenzia lo sfrenato opportunismo sociale22, e può fare assurgere a capitalista proprio l’operaio, in quanto possessore del capitale personale costituito dalle sue capacità umane di cui vende i servizi23. Se nell’economia politica classica il salario si confrontava da potenza a potenza con il profitto e la rendita, nell’economia pura il lavoratore diviene un rex iudaeorum al quale quasi per scherno si riconosce una parvenza di essenza umana.

L’austerità odierna tra implicazioni teoriche e conseguenze politiche

Le discussioni sul significato dei termini che Pareto dissemina nei suoi scritti, adottando dotti neologismi e faticose notazioni, hanno indotto a vedere in lui un precursore del neopositivismo logico24, e la vasta schiera dei suoi apologeti ha ricompreso questa sua inclinazione nella rubrica del “metodo”. Ma in questo “metodo” vi è poco di metodo, poiché Pareto se ne serve per sfuggire “scientificamente” a difficoltà della dottrina. È questo il caso della celebre “ofelimità”, neologismo con cui Pareto statuisce di indicare la soddisfazione soggettiva che, indipendentemente da criteri morali, l’homo oeconomicus, spinto dal bisogno o dal desiderio, trae dal consumo di una qualsiasi cosa25, salvo poi introdurre ex abrupto non meglio specificati «sentimenti altruistici» quando il suddetto homo oeconomicus, riscoprendo la sua socialità, vuole trasferire, ad esempio, con una disposizione testamentaria, questa soddisfazione soggettiva ad altri26. Ma pur ponendosi sul terreno della socialità, forse che questo individuo egoistico non compie ancora una volta un’operazione economica? E dunque, a parte l’incongruità morale di questo entrare e uscire dall’egoismo a piacimento, perché mai si deve concepire l’economia come la soddisfazione soggettiva dell’individuo isolatamente preso e non sin dall’inizio come la coordinazione collettiva di individui volti a conseguire un vantaggio comune? Pareto teoricamente ammette la possibilità di più regimi economici, ma specifica che nella realtà solo la libera concorrenza costringe gli imprenditori ad assolvere alla loro funzione sociale27. Detto altrimenti, solo la “selezione naturale” economica consente all’istinto innato delle combinazioni di manifestarsi in sommo grado nella figura dell’imprenditore. Ed ecco che un processo storico-sociale viene ridotto a un fatto di adattamento naturale. Le conseguenze sull’ontologia sociale sono distruttive, come abbiamo visto sopra circa la beffarda trasformazione dell’operaio in capitalista. Lo stesso dicasi per l’azione sociale. Il fine dell’imprenditore è quello ofelimo dell’accrescimento del proprio «numerario» ma, al tempo stesso, Pantaleoni docet, è quello cognitivo dell’organizzazione del processo produttivo. Ammassando l’uno e l’altro nell’azione logica, il fine cognitivo incapsula occultandolo quello ofelimo, e poiché la capacità organizzativa dell’operaio è per definizione solamente virtuale, il capitalismo sparisce e al posto delle sue classi subentrano delle caste invalicabili. All’evidenza, allora, le analisi linguistiche, più che a precisare i termini, servono a Pareto per sbriciolare la realtà e sostituirla con una costruzione arbitraria che la scienza sociale matematizzata, che egli invoca a ogni svolta dei suoi paragrafi, dovrebbe un giorno formalizzare28.  

E allora, per tornare alla contiguità dell’economia pura con l’austerità fascista, nelle teorizzazioni di Pareto non v’è niente di specificamente fascista, ma c’è tutto quanto serve ad alimentare il sincretismo ideologico con cui il fascismo restaurò le condizioni necessarie all’accumulazione capitalistica. Quale miglior regalo, infatti, di una “sociologia scientifica” che consente di sostenere che l’operaio, addirittura al livello basico della cognizione sociale, deve stare al suo posto e togliersi dalla testa le ubbie del controllo della produzione? Ma nelle teorizzazioni di Pareto non v’è ugualmente nulla di specificamente neoliberista, ma c’è tutto quanto serve ad alimentare la carica ideologica con cui il neoliberismo si è imposto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Infatti, dissolti i rapporti di produzione capitalistici, la società è descritta da Pareto come un aggregato di individui in competizione tra loro. Non la società, bensì l’individuo è dunque l’unica realtà empiricamente tangibile29. Molti decenni dopo, nelle parole di Margareth Thatcher, iniziatrice con Ronald Reagan, del nuovo ciclo di austerità che perdura ancora ai nostri giorni, questo principio “scientifico” diventerà un esplicito manifesto politico. Risalire alla matrice ideologica fissata un secolo fa dall’economia pura, di cui Pareto, come si è visto, è il pensatore più organico, non è dunque una mera operazione filologica, ma serve a mostrare che con la ricetta dell’austerità fascismo e neoliberismo rispondono allo stesso problema, rinsaldare quando sono messe in discussione le condizioni dell’accumulazione capitalistica. Il fatto poi che ci arrivino con mezzi differenti, non vuol dire che il neoliberismo sia più “pacifico” del fascismo. Come abbiamo visto in apertura, infatti, l’austerità odierna non reclama più solamente “sacrifici” economici ma anche “spargimenti di sangue”, come si vede dalle guerre per procura che il blocco euro-atlantico conduce contro il mondo musulmano e quello ortodosso per tenerli economicamente e culturalmente in soggezione. Dalla scorza levigata della “globalizzazione” riemerge così la natura imperialistica del capitalismo – monopoli, Stati più potenti che fagocitano Stati meno potenti, tendenza al dominio anziché alla libertà30, che nel complesso della civiltà assume però un significato diverso e più sinistro. Se negli anni Venti e ancora negli anni Settanta del secolo scorso l’austerità doveva respingere la “pretesa” del controllo operaio della produzione, oggi appare come lo strumento con cui affermare la visione di uno sviluppo dell’homo oeconomicus così aderente alla natura umana da poterne manipolare gli intimi meccanismi, al fine di generare una nuova specie alla quale la “tecnica”, regno assoluto del rapporto mezzi-fine, conferirà poteri sconfinati. Se il futuro sarà altro da ciò che questi bagliori apocalittici fanno intravvedere, dipende anche da quanto tempo ancora il conflitto di classe resterà soffocato dalla selva oscura di “derivazioni” che stravolgono il discorso un tempo di sinistra, lasciandolo “senza parole”31. Il lavoro di Clara Mattei che qui abbiamo presentato e in qualche punto integrato è fra quei contributi che offrono conoscenze adatte per tornare ad avere voce in capitolo e si può solo sperare che ne seguano numerosi altri di pari livello.

 

  1. Patto di stabilità: i deputati approvano le nuove regole di bilancio, Attualità Parlamento Europeo, Comunicati stampa, 23 aprile 2024, https://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20240419IPR20583/patto-di-stabilita-i-deputati-approvano-le-nuove-regole-di-bilancio. []
  2. «Berlusconi mi offrì la guida del centrodestra. Purtroppo, ora l’Italia è di nuovo a rischio», intervista di A. Cazzullo all’economista ed ex Presidente del Consiglio Mario Monti, «Corriere della sera», 4 maggio 2024, p. 19. Molto esigente è anche lo storico Andrea Graziosi, ex presidente dell’Anvur, l’ente ministeriale di controllo dell’attività universitaria, secondo il quale l’Europa ha bisogno di un’industria militare e di una deterrenza nucleare (W. Marra, Il convegno dei falchi dem, «Il Fatto Quotidiano», 12 maggio 2024, p. 9). []
  3. C. E. Mattei, Operazione austerità, Torino, Einaudi 2022. []
  4. B. Mussolini, Primo discorso alla Camera, 21 giugno 1921, p. 15, https://fondazionefeltrinelli.it/app/uploads/2021/04/Mussolini.pdf []
  5. Achievements of fascismo, «The Times», 31 ottobre 1923, p. 13, cit. in C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 260. []
  6. Secondo Croce, il “paragone ellittico” consisteva nel fatto che Marx, per sostenere la tesi del sopravalore (plusvalore) di cui si appropriano i capitalisti, comparava normativamente la produzione in una società capitalistica classista (B) con quella propria di una società egualitaria senza classi (A). A parere di Croce, era chiaro che solo in (B) si poteva parlare di sopravalore, ma non come appropriazione bensì come reciproca convenienza di un diverso grado di utilità tra capitalisti e proletari (B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica (1900), Bari, Laterza 1978, pp. 125-126). Al che Labriola obiettava che al Croce sfuggiva, a causa della sua concezione formalistica del rapporto tra causalità e teleologia, il processo “epigenetico” reale sfociato nel modo di produzione capitalistico, di cui il valore era la “premessa tipica” che rendeva possibile l’insieme dei fatti economici a esso inerenti (A. Labriola, Saggi sul materialismo storico, Roma, Editori Riuniti 19682, p. 184 e p. 289). []
  7. C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 135 sgg. []
  8. C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 206. []
  9. C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 344, nota 11. []
  10. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), Torino, UTET 1971, § 106. []
  11. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 151. []
  12. C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 214. []
  13. V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), Torino, UTET 1988, § 2233 sgg. []
  14. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 830. []
  15. V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), cit., § 151. L’opposizione di “azione logica” e “azione non logica”, basata sulla consapevolezza del fine da parte dell’individuo agente, mira a fissare delle classi di azione che solo apparentemente sono strumenti neutri d’analisi scientifica. In realtà, come vedremo nel seguito, esse acquistano un carattere reale che si presta a giustificare una certa irreggimentazione dei comportamenti sociali. []
  16. M. Pantaleoni, Corso di economia politica: Lezioni dell’anno 1909-1910 redatte dal Dott. Carlo Manes, Roma, Associazione Universitaria Romana 1910, p. 230, cit. in C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 229. []
  17. V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), cit., § 2235. L’“istinto delle combinazioni”, assieme alla “persistenza degli aggregati”, di cui sarebbero portatori i “redditieri”, fa parte delle sei classi di “residui”, ovvero dei principi d’azione innati che determinerebbero il comportamento sociale degli individui. In particolare, l’istinto delle combinazioni comprende qualità che oggi una vasta area di studi cognitivi indica come curiosità, innovazione, resilienza, attribuendole alla “mente imprenditoriale” additata come il tipo sociale “vincente”. A dimostrazione di come queste contrapposizioni schematiche servono più a scopi ideologici che scientifici. []
  18. C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 101 sgg. Sul parallelismo e lo scambio di esperienze tra i comitati di fabbrica britannici (Workers’ committees) e i consigli di fabbrica torinesi, la ricostruzione di Clara Mattei si può leggere assieme a quella di Guido Liguori, Nuovi sentieri gramsciani, Roma, Bordeaux 2024, pp. 105-107. []
  19. V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), cit., § 1397 sgg. Le “derivazioni” sono costituite da quattro classi di argomenti discorsivi, dai più semplici ai più complessi, che comprendono le giustificazioni arbitrare, rispetto alle motivazioni reali, con cui gli individui rendono conto del loro comportamento sociale. Trattandosi di una “distorsione” cognitiva concepita in modo astorico, tale teoria ambisce a essere una critica “scientifica” del discorso politico, ma si presta anche a essere utilizzata come un manuale di manipolazione ideologica. []
  20. C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 212. []
  21. G. Lukács, Storia e coscienza di classe (1923), trad. it. Milano, Sugar Editore 1967, p. 214 sgg. In quest’opera, come del resto nei Quaderni del carcere di Gramsci, è possibile individuare teorizzazioni intorno all’azione che si sottraggono alla presa neutralizzante delle grandi sociologie “borghesi” sorte all’inizio del Novecento. In particolare, Lukács si contrappone a Weber, Gramsci a Pareto. []
  22. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., Riassunto generale, p. 1095. []
  23. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 91. []
  24. N. Bobbio, Pareto e il diritto naturale (1975), in Id., Saggi sulla scienza politica in Italia, Roma-Bari, Laterza 19962, p. 139.  Come notò Lukács nella sua postuma Ontologia, il neopositivismo, in forza del suo metodo logico-linguistico, si pone in continuità con l’esigenza della più completa manipolabilità della realtà sociale, funzionale al dominio ideologico capitalistico (G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Roma, Editori Riuniti 1976-1981, 3 voll., vol. I, p. 25 e sgg.). Se si tiene conto di quanto diremo appresso nel testo, l’osservazione di Bobbio, sebbene avanzata con altri intenti, è dunque fondata. []
  25. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 5. []
  26. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 418. []
  27. Corso di economia politica (1897), cit., Riassunto generale, p. 1088 e p. 1095 []
  28. Come abbiamo visto prima (cfr. nota 6), anche Croce, sebbene in altro modo, perviene a dissolvere la realtà, quando sostiene che l’appropriazione del sopravalore da parte dei capitalisti in una data società classista è solo la reciproca convenienza tra capitalisti e proletari di un diverso grado di utilità. Ma si può sfuggire a questa nullificazione comparando la funzione del valore nel sistema di merci, così come descritto da Marx, con quella svolta nel sistema dei segni, così come descritto da Peirce e Saussure (è quanto ho cercato di fare in F. Aqueci, Capitalismo e cognizione sociale, Roma, Tab Edizioni 2021). Fatta salva la differenza funzionale fra i due sistemi, il valore torna a essere così la “premessa tipica” di cui parlava Labriola, con cui si chiarisce ad un tempo l’arcano della merce, oggetto sensibile carico di realtà sovrasensibile (K. Marx, Il Capitale [I: 1867], Torino, UTET 1974, p.148), e il rapporto di forza insito nella pretesa “reciproca convenienza” dell’utilità economica pura, che permarrà sino a quando una nuova “epigenesi” non si concretizzerà, con la saldezza del senso comune, in un diverso tipo di società (ivi, p. 136). []
  29. V. Pareto, L’individuale e il sociale (1905), in Id., Scritti sociologici, Torino, UTET 1966, p. 326. []
  30. V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916), in Id., Opere complete, Roma, Editori Riuniti 1966, vol. XXII, p. 299. []
  31. N. Klein, Doppio. Il mio viaggio nel Mondo Specchio, Milano, La Nave di Teseo 2023, p. 198. []

Una gravosa eredità

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Nel 1874, Friedrich Engels, scrivendo a un suo corrispondente, prendeva atto che l’Internazionale, l’organizzazione proletaria in cui aveva prevalso il socialismo “scientifico” ispirato da lui e Marx, nella sua vecchia forma aveva fatto il suo tempo e così preconizzava il futuro: «per poter creare una nuova Internazionale nel modo in cui si è creata la vecchia, un’alleanza di tutti i partiti proletari di tutti i paesi, sarebbe necessaria una generale sconfitta del movimento operaio, come ha predominato dal 1849 al 1864. Ma il movimento proletario è diventato troppo grande, troppo ampio perché ciò possa avvenire. Ritengo che la prossima Internazionale sarà – dopo che gli scritti di Marx avranno agito per alcuni anni – direttamente comunista e che inalbererà apertamente i nostri principi». Sebbene dilazionata dall’interregno della Seconda Internazionale, la previsione di Engels si rivelò azzeccata, poiché la Terza Internazionale sorse su basi interamente comuniste ispirandosi alle teorie sue e di Marx. Ma non è per questo che suscita ancora interesse la sua previsione, quanto per la condizione che egli pone per la rinascita di una nuova Internazionale simile alla Prima, ovvero una ulteriore «generale sconfitta del movimento operaio» che egli però riteneva impossibile perché il movimento proletario era diventato «troppo grande, troppo ampio» perché ciò potesse avvenire. A smentita di tale premessa, il tempo presente è quello di un movimento operaio che, divenuto grande e ampio al punto da dar luogo a una Internazionale interamente comunista, è stato poi sconfitto e rinchiuso in una prigione a cielo aperto dove, da decenni ormai, la “coesione sociale”’ è l’ordine esistente, le “tensioni sociali” danno luogo non a lotte di classe ma a “delicate vertenze occupazionali” e, infine, le “specifiche rivendicazioni dei lavoratori” non devono mai tralignare nella “militanza politico-ideologica”. I più tosti si scagliano contro queste sbarre linguistiche, per la verità, senza molto costrutto, gli altri si abbandonano alla malinconia, un sentimento più reattivo della nostalgia ma che risponde più al narcisismo del proprio io ferito che non a una effettiva volontà d’azione. Si aprono così le porte delle celle a regime speciale, avvengono le bastonature “occasionali” da parte di forze dell’ordine “democratiche”, si moltiplicano le identificazioni delle questure, si alza la canea vociante contro prese di posizione “rivoluzionarie” che però si rivelano incaute anche per chi anela al martirio verbale. Eppure, ci fu un tempo in cui c’era chi, come Norberto Bobbio, poneva l’esigenza di elaborare una teoria volta a chiarire le modalità di inserimento dell’esperienza comunista nello sviluppo della civiltà liberale di cui, egli precisava, «il comunismo è certamente figlio, se pur non ancora a pieno diritto l’erede» (Bobbio, Politica e cultura, p. 131). Il non riconoscimento di tale diritto e addirittura la cacciata di casa del legittimo erede ha finito per compromettere la stabilità dell’intero edificio della civiltà liberale, governato ormai da vecchi dormienti e pazzi esagitati. Ma per restare a quel dovere degli “uomini di cultura” cui lo stesso Bobbio richiamava coloro che hanno a cuore le sorti della ragione, strano parto dell’umana cognizione che ne illumina il cammino al prezzo di qualche tragico errore, la discussione non può che ripartire da quegli snodi la cui mancata o insufficiente elaborazione ha provocato quella fatale rottura i cui deleteri effetti oggi constatiamo. Riflettendo sul rapporto Krusciov, Bobbio considerava la mancata previsione della tirannia di Stalin nel periodo di transizione della dittatura del proletariato come l’indizio di una deficienza della dottrina marxista (Bobbio, Politica e cultura, p. 248). Infatti, posto che si consideri la dittatura personale come il regime che esprime le difficoltà in cui si viene a trovare una classe dirigente in declino, la denuncia del regime di Stalin come una dittatura personale significava ammettere le difficoltà della trasformazione economica nel passaggio dal regime della proprietà privata a quello collettivistico (Bobbio, Politica e cultura, p. 259). Due punti non tornano in questo ragionamento. Anzitutto, le difficoltà non equivalgono al declino. Come si evince dagli indici di sviluppo economico, sociale e demografico, sotto Stalin la società sovietica pur tra grandi difficoltà non declinò, bensì avanzò. Fu piuttosto il rapporto Krusciov a segnalare l’inizio del declino che, dopo la stagnazione brezneviana, culminò nella mortale stagione della perestrojka. In secondo luogo, se la dittatura personale esprime il declino di una classe dirigente, che dire della dottrina liberale che non previde il sorgere della dittatura mussoliniana? Se il buco teorico c’è, ciò vale per la dottrina marxista come per quella liberale. Evidentemente, è la nozione di dittatura di classe che va qui chiarita. Essa non concerne la sfera politica bensì l’ontologia economica. La dittatura di una classe nella struttura può ben convivere nella sfera politica con una democrazia, diretta o parlamentare che sia, oppure con una dittatura personale. Ciò non vuol dire che non vi sia un rapporto tra i due livelli, ma il fatto che vi è una distinzione, storicamente attestata dall’oscillazione tra democrazia e dittatura politica nel regime di dittatura capitalistica nella struttura, significa che la dittatura del proletariato nella struttura, qualora la contingenza storica lo consenta, non necessariamente deve comportare la dittatura personale o comunque politica nella sfera politica. Quindi, benché ai puristi possa dispiacere, un comunismo democratico è possibile (il Venezuela attuale con il suo “costituzionalismo egemonico” è qualcosa che si approssima a questo modello). Il problema è nel trapasso dall’una all’altra ontologia economica. È evidente che il passaggio è violento, ma è stata violenta l’instaurazione dell’ontologia economica capitalistica ed è violenta la sua difesa, affidata com’è alla forza “legale” e al suo simulacro, il consenso. Imputare la violenza solo al progetto “rivoluzionario” di mutare il fondamento dell’ontologia in essere equivale ad affermare che l’unico ordine possibile è quello esistente. Il che è già un atto intellettualmente violento. Il cozzo delle ontologie si può evitare accordandosi a monte circa la legittimità della loro pluralità, almeno per un lungo periodo di transizione. Il liberalismo, dunque, se vuole risorgere staccandosi dall’abbraccio mortale con il liberismo cui ha incautamente affidato le proprie sorti, deve richiamare presso di sé il comunismo e chiedergli di farsi carico della sua gravosa eredità. Su questo sfondo di pluralismo ontologico, la formula della dittatura del proletariato può essere allora ripresa come architrave di una nuova alleanza internazionale che si proponga di riportare all’antico splendore l’edificio non tanto della civiltà liberale, ma della ragione, di cui la civiltà liberale è stato solo il primo, imperfettissimo passo. I detriti della storia non possono più essere un alibi per procrastinare questo accordo. Ogni giorno che passa, i nemici della ragione acquistano terreno, religioni vecchie e nuove, irrazionalismi del passato e del presente rialzano la testa e si propongono come il solo rifugio dell’uomo angosciato, la politica diventa puro confronto di potere e nella struttura ristagna il tanfo di un’antropologia sempre più corrotta. Per l’Occidente, è l’ultima chiamata.

Palestina, un profeta tra follia e realtà

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Un articolo di Guido Rampoldi sulla questione israelo-palestinese, apparso sul quotidiano “Domani” di domenica 22 ottobre, si sottrae alla coltre di plumbea propaganda in cui da giorni è immersa tutta la fanfara mediatica consentendo di discutere qualche aspetto di una realtà che di tutto avrebbe bisogno tranne che di schieramenti manichei. L’autore riconosce anzitutto che è nell’interesse di Israele abbandonare l’illusione di sottomettere i palestinesi con la forza. Infatti, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, è chiaro che le vendicative “punizioni esemplari”, lo strapotere militare e l’esercizio sommario della violenza, producono solo un’ingannevole percezione di sicurezza. Rampoldi poi passa a considerare la posizione dei governi occidentali che, dicendosi convinti che l’unica via d’uscita sia la creazione di uno stato palestinese, si librano solo a un esercizio di futilità diplomatica poiché, non avendo fatto nulla per arginare il dilagare degli insediamenti dei coloni, la situazione ora è di una progressiva integrazione di tali insediamenti nel sistema della difesa e dell’economia d’Israele. Ne consegue, conclude l’autore, che la nascita anche solo di uno “stato minimo” palestinese provocherebbe la rivolta della destra religiosa e di molti tra i 640mila “coloni”, spesso gente armatissima e legata all’esercito da rapporti strettissimi di collaborazione. Se la realtà è quella di uno stato, lo Stato di Israele, il cui insediamento economico e militare non può essere ostacolato da niente e da nessuno, che fare? L’autore è così consapevole della follia in cui è precipitato l’uditorio cui si rivolge, da qualificare folle la proposta che egli stesso avanza. Scrive infatti letteralmente: «resta una soluzione folle, e mai apparsa così folle come in queste giornate: fare di Israele uno stato binazionale, confederale o no, con un percorso circospetto ma progressivo che finisca per attribuire stessa dignità e stessi diritti agli israeliani e ai palestinesi dei Territori occupati». In realtà, questa soluzione folle è il pezzetto di senno dell’Occidente che ancora non se n’è volato sulla luna. Il fatto però è che questa soluzione ragionevole è assolutamente limitata, affidata com’è a un «percorso circospetto ma progressivo» che richiama tanto le categorie diplomatiche della lungimiranza, della moderazione, della disponibilità al compromesso cui ci si affida quando l’analisi della situazione concreta non mette a fuoco quel che pure confusamente viene intravisto come essenziale. Rampoldi ha infatti più volte ricordato che gli insediamenti sono parte del sistema della difesa e dell’economia d’Israele. Detto altrimenti, dovrebbe essere ormai chiaro che il kibbutz non è il germe di una futura società democratico-socialista ma l’imprenditore collettivo di un capitalismo in armi che colonizza la “campagna” e sottomette la “città” in cui sopravvive sempre più marginalmente una “coscienza liberale” cui è concesso al massimo di svolgere compassati ragionamenti su Haaretz. In queste condizioni, allora, lo stato binazionale potrebbe nascere non dal percorso circospetto e progressivo auspicato da Rampoldi, bensì da un vigoroso e prolungato conflitto di classe che dovrebbe vedere alleati il proletariato palestinese con quello israeliano. Trattandosi di figure di difficilissima individuazione e di ancor più difficile composizione, è evidente che siamo alle ipotesi di terzo grado. Si comprende allora che Rampoldi rinunci alla scalata e devii verso sentieri più percorribili. Infatti, dopo avere giustamente richiamato che Israele è già una società binazionale, essendo araba parte della sua popolazione, egli sottolinea che, qualora decidesse di istituzionalizzare tale stato di fatto, dovrebbe accettare di non essere più “lo stato ebraico” costruito dai padri fondatori, ma di tornare all’idea di una parte del sionismo originario che sognava non “uno stato ebraico”, ma una “casa ebraica” nella terra d’Israele, rifugio e spazio in cui il giudaismo sarebbe potuto ringiovanire. In altri termini, ostruito il moderno conflitto di classe da un rapporto di forza brutalmente coloniale, lo stato binazionale potrebbe sorgere sul terreno arcaico dei miti religiosi in cui la “casa ebraica” sarebbe chiamata a convivere con la umma araba. Un processo che non un diplomatico, non un capo politico, non un partito di classe, bensì solo un riformatore religioso potrebbe portare a compimento, fondendo il Dio ebraico e l’Allah islamico in un Tutto nuovo meno tormentoso tanto dell’uno quanto dell’altro senza con ciò accedere all’illusoria bontà del Dio cristiano. Poiché qui perveniamo alle iperboli più spinte, si comprende che Rampoldi devii un’altra volta per sentieri più agevoli. Ed ecco dunque l’analogia storico-politica che, avanzata ancora sotto le vesti della follia, dovrebbe convincere le parti contendenti: «proporre adesso [la] soluzione [binazionale] può apparire delirante: ma quarant’anni fa nessuno avrebbe creduto alla possibilità di un Sudafrica binazionale, in cui bianchi e neri avessero eguali diritti». Anche qui il delirio è in effetti la proposta ragionevole, ma con tutto il rispetto per i bianchi e i neri del Sudafrica, Pretoria non è Gerusalemme dove invece tutte le maggiori divinità che ancora signoreggiano le menti umane non da ora si sono date convegno. Un Mandela quindi non basterebbe e, come abbiamo visto, neppure un Lenin. Sì, realisticamente, ci vorrebbe proprio un profeta…

Palestina, una via senza uscita

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La soluzione due popoli due Stati che, memori dei lontani e alquanto mitizzati Accordi di Oslo del 1993, si continua a prospettare per risolvere il problema palestinese, tradotta nel crudo linguaggio della realtà politica effettuale significa un trasferimento di potenza dal già costituito Stato di Israele, armato di tutto punto compresa la bomba atomica ben celata in qualche rotolo della Torah, all’ancora da costituire Stato della Palestina, implume come un pulcino ma fiducioso della potenza che Allah non vorrà negargli. Le vie di questo trasferimento sono due, o quella diplomatica o quella guerresca. Quella diplomatica, basata sull’avvio mai verificatosi della peristalsi di un capitalismo regionale nelle intenzioni bipartisan, si è cercato di percorrerla in passato ma un colpo di pistola alla schiena di Yitzhak Rabin l’ha interrotta. Quella guerresca in questi giorni vive un suo ulteriore capitolo in cui Hamas ha approfittato trucemente degli ozi di Capua su cui Israele ultimamente si era adagiato, mettendolo davanti all’alternativa diabolica di accettare tale trasferimento, secondo modalità alla cui fissazione poi parteciperebbero le altre potenze regionali supervisionate dalle rispettive potenze mondiali di riferimento, oppure di perpetrare un ennesimo, storico massacro, come sembra intenzionato a fare, che ne macchierebbe per generazioni e generazioni la già discutibile reputazione (ovviamente immacolata a prescindere per i pasdaran del Grande Occidente). C’è dunque in corso in questo momento una prova di forza nella quale come mai in passato Israele può essere costretto a cedere qualcosa della sua supremazia assoluta e i palestinesi possono guadagnare una posizione più favorevole per cominciare a costituirsi in una entità statualmente meno ectoplasmatica. Ciò sta a significare però che la pace in Palestina non è per domani e nemmeno per dopodomani, non solo per le modalità e l’esito in sé di questa prova di forza ma anche e soprattutto perché una volta che si pervenisse ai due Stati essi, come si può facilmente intuire, entrerebbero ben presto in contrasto su tutte le questioni su cui la via diplomatica in tutti questi anni non è riuscita a trovare un qualche accordo. Non si vede perché, infatti, il nazionalismo euro-israeliano e quello arabo-palestinese, rinfocolati già ora dai loro atavismi religiosi, dovrebbero svanire proprio quando la potenza di Stato consentirebbe loro di regolare definitivamente i conti. Se l’attuale realtà politica effettuale in Palestina è senza via d’uscita,  ciò è dovuto al fatto allora che il conflitto, da qualsiasi parte lo si affronti, è imbozzolato in un nazionalismo che, ad un tempo, corrompe le classi ma consente alle rispettive borghesie di continuare a ingrassarsi o con il più sofisticato dei capitalismi agrario e industriale (Israele) o con la corruzione (Palestina) o con la rendita energetica (Stati arabi). La prova di ciò sta nella marginalità politica in cui langue la composita classe operaia dell’area in questione che nella componente palestinese diventa addirittura marginalità esistenziale. Basta informarsi su cosa accade nei valichi di frontiera, dove all’alba passano i lavoratori palestinesi diretti nei campi degli “avanzati” agricoltori israeliani, subendo ogni sorta di umiliazioni e di respingimenti. O basta considerare la sorte dei contadini palestinesi proletarizzati costretti a vendere la propria forza lavoro nei parchi industriali israeliani tirati su, in combutta con imprenditori palestinesi, nelle terre loro espropriate dove Tsahal, vero e proprio braccio armato del capitalismo israeliano, ha costruito quel moltiplicatore economico che è il Muro. O basta non ignorare che un lavoratore palestinese, se ha un’occupazione in Israele, deve avere un permesso di lavoro e di soggiorno che spesso si ottengono solo con l’intermediazione di broker che trattengono anche il 30% del salario, subendo per soprammercato quotidianamente le vessazioni dei check point di cui si diceva prima, iniziando la giornata alle quattro del mattino per finirla alle dieci di sera, versando i contributi in Israele senza avere diritto all’assistenza sanitaria e alla pensione. E un po’ meglio invece va se il lavoro è nella Cisgiordania, dove vi è sì, più “libertà”, ma il salario è un terzo e il sistema sociale è un mero abbozzo. In questi giorni nei talk show sta furoreggiando l’affermazione di Giulio Andreotti secondo la quale se nasci in un campo di concentramento quale è Gaza non puoi non diventare un terrorista. Come tutte le arguzie di questo grande statista dal bacio facile, anche questa è una nebbiolina buona come un suffumigio per ammorbidire le grosse fauci della coscienza borghese. In Palestina, ma in generale dalle parti del Medio Oriente, non si diventa terroristi perché si nasce in un campo di concentramento, ma perché il capitale sfrutta il lavoro nella maniera più brutale, cioè secondo modalità in cui non esiste nessuna prospettiva non tanto di una trasformazione rivoluzionaria di tale condizione di sfruttamento, ma neppure di una sua mitigazione opportunistica o “riformistica” che dir si voglia, com’è nel caso del capitalismo metropolitano di cui Israele nel suo complesso è parte integrante. Perciò assieme al tedio che provoca l’irrancidimento nazionalistico della questione arabo-israeliana, monta soprattutto l’infinita pietà per i tanti esseri umani che nei modi più orribili a causa di esso perdono la vita.

I tre strati della guerra ucraina

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Partiamo da una domanda stupida, come quelle che si fanno chiacchierando davanti a una tazzina di caffè: la Russia ormai da trent’anni è un paese capitalistico; perché allora questa acerrima ostilità con gli Stati Uniti? Qualcuno inviterà già a precisare: in Russia c’è un capitalismo con caratteristiche russe. Certo, è una differenza. Ma a cosa ricondurla? E se tale differenza c’è, basta a spiegare l’acerrima ostilità? Forse che le potenze capitalistiche non si sono mai fatte la guerra? Sorbiamo un sorso di caffè e ripartiamo da capo. Nella guerra in Ucraina vi sono tre strati, lo strato del carnaio, lo strato ideologico e lo strato politico. Lo strato del carnaio è quello in cui un uomo quando è colpito da un proiettile o salta su una mina diventa un pezzo di carne sanguinolenta. La guerra in Ucraina sarà pure ibrida e altamente tecnologica, ma su una salda base di carne maciullata. I video in rete che lo provano non mancano. Lo strato del carnaio, presente in ogni guerra, è quello cui si richiamano coloro che denunciano l’“inutile strage”. Più cresce, più aumenta l’eccitazione di coloro che si esaltano alla vista del sangue ma anche lo sdegno di coloro cui ripugna, sino a quando dietro la spinta dell’istinto di sopravvivenza il parossismo del carnaio non straborda negli altri strati alla ricerca della “pace”. La controffensiva degli ucraini in corso in questi giorni sta facendo crescere il carnaio ma ancora non nella giusta misura da imporre tale ricerca. Che in ogni caso richiede che si passi alla considerazione degli altri due strati. Lo strato ideologico della guerra ucraina è dato dalla guerra civile culturale in corso all’interno del mondo russo che è l’espressione maggiore del mondo slavo a sua volta depositario autentico dell’Ortodossia. La Jugoslavia è stata l’anteprima di tale guerra civile culturale che ora dilaga apertamente nel più ampio contesto russo. Il nocciolo di tale guerra è il processo di secolarizzazione in corso nell’Ortodossia che avanza lentamente ma inesorabilmente. Liberandosi dell’ateismo di Stato della rigida forma di comunismo impiantato dai bolscevichi, l’Ortodossia pensava di aver guadagnato l’eternità ma non aveva visto il vero pericolo che incombeva sulla sua esistenza millenaria, ovvero il ritorno in forze del capitalismo in cui non è più lo Stato che preme per liberarsi di Dio ma la “società civile” per abolire le pastoie morali cui i pope fanno da guardia. Se l’Ucraina è la punta di lancia della secolarizzazione ortodossa, ciò non vuol dire che Putin è il chierichetto di Kirill. Papa Francesco ha ragione a rovesciare argutamente quest’immagine perché così, lo voglia o no, ci introduce al terzo strato della guerra ucraina, quello politico dei rapporti imperialistici. La secolarizzazione ortodossa in corso, con le profonde divisioni che provoca nel mondo slavo, è lo strumento mediante il quale l’imperialismo statunitense cerca di sopraffare l’imperialismo russo per potere perpetuare la propria supremazia mondiale. Lo scontro imperialistico, che da più di un secolo è la modalità di esistenza del capitalismo, si gioca oggi su tre formule egemoniche, l’unipolarismo con la variante multilaterale, il multipolarismo e l’umanità come comunità di destino comune. La prima formula è quella entro cui oscillano gli Stati Uniti e i loro vassalli europei, la seconda è quella per cui si batte la Russia convinta così di poter trasformare il mondo in un consesso oligarchico in cui spartirsi potere e ricchezze, la terza formula è quella della Cina nel suo ancora esitante imperialismo verso cui la sospinge quel capitalismo di cui si serve per sviluppare il suo “socialismo dalle caratteristiche cinesi”. L’acerrima ostilità tra Stati Uniti e Russia non è dunque un’eredità della “guerra fredda” ma un’ostilità imperialistica. La “guerra fredda” fu lo strumento per bloccare il tentativo di modificare la base d’essere del mondo dal capitalismo al socialismo. È una fase conclusa della storia del mondo perché oggi in primo piano è di nuovo lo scontro imperialistico in cui Stati capitalistici più potenti divorano Stati capitalistici meno potenti. Potrà la Cina con il suo pallido marxismo da Seconda Internazionale riprendere il discorso del cambio di base d’essere del mondo? Sarà la “disumanità” del processo di secolarizzazione a imporre tale cambio d’essere? O tale cambio d’essere sarà rimesso all’ordine del giorno dal pericolo estremo della rovina della specie verso cui conduce lo scontro imperialistico nella forma di una guerra atomica? Quale che sia la direzione che prenderanno gli eventi è richiesto però un risveglio della coscienza anticapitalistica di cui la ripulsa del carnaio è solo una premessa.