Ormai comincia ad essere storicamente acclarato che il debito pubblico che grava sull’Italia non dipende dalla presunta spesa pubblica esplosa, nel secolo scorso, durante i crepuscolari anni Ottanta della Prima Repubblica, ma è stato il risultato della scelta politica, operata all’inizio di quel decennio, di rimanere ancorati all’allora Sistema monetario europeo (SME), cosa che comportava per l’Italia di adeguare i propri tassi di interesse a quelli vigenti nei mercati europei (soprattutto tedeschi), e di ridurre il differenziale inflazionistico tra l’Italia e gli altri paesi europei. D’altra parte, il differenziale inflazionistico era causato, anche qui, non dalla monetizzazione del debito, che tale scelta rendeva non più fittizio ma reale, bensì da fattori precedenti, quali lo shock petrolifero del 1973, da un lato, e, dall’altro, da ciò che pudicamente gli storici dell’economia chiamano il «duro scontro distributivo in corso nel paese». Detto in chiaro, la dura lotta di classe, che in quel periodo faceva pendere la bilancia dal lato del salario, anziché del profitto. La scelta di restare nello SME, e poi nell’euro, fu dunque sin dall’inizio una brutale operazione interna di compressione salariale, come vide lucidamente Luciano Barca, padre del non meno lucido ma non sempre altrettanto efficace Fabrizio, all’epoca fra i principali collaboratori di Berlinguer. L’Europa perciò fu il nome seducente di una guerra che il capitale condusse contro il lavoro, al prezzo di un debito pubblico che, da allora, non potendosi rimuovere la causa scatenante, non fa che crescere. Ma, bisogna essere onesti: c’erano alternative? L’acuta analisi di Barca conteneva una alternativa politica? No, l’alternativa all’Europa del grande gioco capitalistico, i cui costi sarebbero stati pagati dal lavoro, era una lenta agonia inflazionistica, i cui costi anch’essi sarebbero stati pagati dal lavoro. Insomma, i ceti subalterni non avevano scampo, e l’unica zattera loro offerta fu un chimerico “nuovo modello di sviluppo” che l’allora sinistra, il cui nerbo era costituito da un sempre più stanco PCI, concretizzò in una serie di sterili documenti. La sinistra togliattiana, insomma, che dal dopoguerra perseguiva il progetto egemonico di una via italiana al socialismo, giunta all’appuntamento decisivo, si accorse di avere perso le chiavi di una lotta di classe nazionale-popolare, in grado cioè di unire alle lotte del lavoro la salvezza della nazione. Fu un facile gioco, allora, per le élites capitalistiche del tempo, denunciare la “deriva argentina” e far rilucere il miraggio di un’Europa dalla cui virtù tutti avrebbero guadagnato.
Il grande gioco capitalistico europeo, però, come un motore affannato dagli anni, batte ora in testa, con il duo franco-tedesco sempre più incapace di garantire un dividendo ai vari settori capitalistici nazionali confederati nel progetto dell’UE. È insomma la volta del capitale a non essere più egemone, a non sapere più declinare il nesso nazionale-popolare che, nel progetto europeo, è il nesso tra i molteplici settori nazionali capitalistici, i quali portano in dote ciascuno l’egemonia sui ceti subalterni di propria spettanza. È dalla crisi di questa doppia articolazione del nesso nazionale-popolare, esemplificato dal declino del partito popolare e del partito socialista europei, che nasce la fiammata populista e sovranista, una disperata ritirata del capitale europeo nei singoli ridotti nazionali, dove si ingegna come può ad “ascoltare il popolo”, a cercare di rinsaldare, cioè, una egemonia perduta, con provvedimenti che, come i salassi di un tempo, non fanno che debilitare ulteriormente il malato. Con i redditi di cittadinanza, le flat tax e le quote cento, infatti, il debito pubblico non fa che crescere ulteriormente, e si inasprisce perciò lo scontro intercapitalistico tra gli “spendaccioni” che vogliono partecipare comunque al grande banchetto europeo, e i “rigoristi” che non intendono fare regali a frazioni del capitale che non sanno competere secondo le “regole”. È, insomma, la storica debolezza del capitalismo italiano che grava su tutta la società italiana, ma che, ancor più che negli anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso, non innesca l’alternativa di una “riforma economica”, capace di far pendere dal lato dei subalterni il nesso nazionale-popolare. E, allora, domanda: è questa gracilità del capitalismo italiano che, rendendo asfittica la dialettica di capitale e lavoro, deprime politicamente gli stessi ceti subalterni, oppure c’è intrinsecamente nei ceti subalterni italiani una insufficienza complessivamente “culturale” che impedisce loro di trovarsi pronti agli appuntamenti storici? La penosa vicenda del M5S, con tutti i suoi velleitarismi, e con tutte le sue ambiguità, non mostra infatti in maniera eclatante tale insufficienza? E, d’altra parte, il capitale, con la Lega Nord divenuta Lega Italia, dando voce alla paura securitaria, alla xenofobia e al razzismo che nei subalterni riemerge quando la loro coscienza di classe è distrutta, il capitale, dicevamo, mostra tutta la sua ferocia, ma anche tutta la sua astuzia poiché, volgendo in senso populistico il concetto di Stato-nazione, arriva a proporsi come il baluardo della sovranità. Una partita, anche questa, però, condotta confusamente, dibattendosi convulsamente tra Russia, America e Cina, nel tentativo di sottrarsi alla pressione delle frazioni “rigoriste” del capitale europeo, da cui per altro dipende, così come stanno le cose, la possibilità per l’Europa di competere con gli altri continenti-mondi. Una competizione che appare, se non persa in partenza, sicuramente assai incerta, quando invece, per l’Europa, com’è ormai chiaro da un secolo a questa parte, la salvezza sarebbe, non di rinserrarsi nel suo fascismo perenne, così come fa ogni qualvolta è all’ordine del giorno la fuoriuscita dalla sua cupa alienazione capitalistica, ma di valorizzare finalmente quella critica dell’economia politica che, accendendo tante speranze nel mondo, l’ha resa unica ed universale.