Archive for Francesco Aqueci

L’individualismo proletario e il realismo sofistico del «Fatto Quotidiano»

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«Il Fatto Quotidiano» di oggi, martedì 19 giugno 2018, pubblica l’articolo in forma di lettera, qui sotto riprodotta, di un rider che lavora per Deliveroo, il quale prega Di Maio di non distruggere la libertà assicuratagli dal suo lavoro «flessibile», con i buoni propositi del M5S di renderlo stabile, cioè permanentemente subordinato. Solo due osservazioni, prima di cedere il passo alla lettura.

Prima osservazione. L’articolo-lettera è probabilmente fasullo, ma importa poco. Esso sta nelle corde del «Fatto Quotidiano», che si compiace di immedesimarsi nella perfidia della realtà quando le intenzioni soggettive sono stucchevolmente buone, soprattutto se portate avanti da personaggi non più nelle simpatie del giornale. Una forma di realismo interessato più alla polemica contro qualcuno, che alla realtà effettiva. Oggi ne fa le spese Di Maio, che appare in grossa difficoltà nei confronti di Mangiafoco Salvini, ed è il caso quindi di cominciare a scaricarlo, lui e il M5S. Così «Il Fatto Quotidiano» può continuare ad accreditarsi come il tempio dell’imparzialità giornalistica. Esercizi di manipolazione molto sottili, ma anch’essi assai stucchevoli.

Seconda osservazione. Benché al «Fatto Quotidiano», nella sua sofistica quotidiana non gliene importi nulla della realtà capitalistica, con la sua operazioncella anti-dimaiana è costretto ad evidenziare un aspetto saliente dell’odierna mentalità operaia. C’è infatti abbastanza diffuso un individualismo proletario o, per dirla al rovescio, un mini-capitalismo della propria forza lavoro. Il salario viene accumulato dal lavoratore imprenditore di se stesso, prendendo in contropiede le molteplici occasioni di mercificazione della propria forza lavoro. Tanti pezzetti di alienazione, tante piccole subordinazioni al capitale, per un “piano di vita” che si vuole “autonomo”, ma che può essere giocato solo dentro la grande alienazione capitalistica del godimento, ovvero del consumo in tutte le sue forme, anche quelle del non consumo, com’è proprio di quegli stili di vita minimali e intellettualizzati, la cui sofisticazione è sostenibile solo se continua ad esistere la condizione della gran massa di coloro che, per quanto sempre più angariati, hanno un normale lavoro, con un capo che dà i turni, ecc. ecc. La condizione, quindi, che il rider di cui sotto, vero o finto che sia, rifiuta, disprezzando quella gran massa di subordinati, e introducendo così nella condizione subordinata il virus dell’individualismo che annichilisce la solidarietà da cui può nascere una “coscienza di classe”. Espressione che sicuramente farà sorgere un ghigno sulla faccia del nostro rider nichilista, o del redattore che l’ha inventato, a conferma che i nemici dei subalterni non stanno solo nel fronte opposto dei dominanti, ma anche tra le proprie file, ben mascherati da poveri sfruttati che il damino di San Vincenzo Luigi Di Maio vorrebbe inopinatamente trarre dalla loro felice miseria. Invano, perché siamo già oltre il M5S, ed è bene sintonizzarsi sull’orco Salvini. Ma contro quest’ultimo quali pieghe sofistiche della realtà andrà a scovare «Il Fatto Quotidiano»?

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“Caro ministro, occhio: col lavoro subordinato perderò la mia libertà”. Lettera di un fattorino a Luigi Di Maio

 Spettabile ministro, mi chiamo Piercarlo e faccio il rider per Deliveroo, le scrivo perché faccio parte di quelle migliaia di rider silenziosi che fin qui si sono limitati a guardare, mentre altri protestavano e si autoeleggevano rappresentanti di questa professione. Ho letto la bozza del suo decreto, e personalmente, credo sia sbagliata. Il nostro non è un lavoro subordinato, ma soprattutto se fosse un lavoro subordinato non potremmo avere la flessibilità di cui disponiamo oggi. Cerco di spiegarle come funziona, almeno per Deliveroo, la piattaforma per cui io lavoro. Oggi posso scegliere (con anticipo di una settimana) quando lavorare, se lavorare un’ora, zero, o 50 (previa disponibilità). Posso ridurre, a un minuto prima dell’inizio, una o più di una delle ore che ho prenotato, senza ricevere né ammonimenti, né richiami, né danni di reputazione nel rating. Posso inoltre, in caso di necessità, aggiungere un’ora non prenotata, per esempio per sostituire qualcuno, o per aumentata necessità. Con un contratto subordinato la mia libertà sparirebbe, diventerebbe un normale lavoro, con un capo che mi dà i turni, e io che devo accettarli, mi piaccia o meno. Deliveroo applica un sistema di cottimo (che lei vuole abolire) con garanzia di minimo orario. Deliveroo paga 5 euro lordi a consegna (4 netti), con garanzia di fornire al rider 1,5 ordini ogni ora. Se, per mancanza di ordini non ci si arriva, Deliveroo riconoscerà comunque l’equivalente: 7,5 euro lordi (6 netti). A maggio ho lavorato 58,4 ore, in base alle mia disponibilità, cancellando alcune ore prenotate per motivi personali (Deliveroo è il mio secondo lavoro). Ho incassato 574,58 euro lordi (459,67 netti), a fronte di 76 ordini consegnati (1,3 consegne di media ogni ora). In sostanza ho ricevuto una paga di circa 10 euro lordi l’ora (7,85 netti). Paga che, le posso assicurare, è superiore a molti lavori. Giusto ieri alla mia migliore amica è stato offerto un full time di 8 ore per 5 giorni a settimana, più reperibilità weekend, per 400 euro, ma non fa notizia: non era un rider, era un lavoro di segreteria. Ieri sera ho fatto 10 ordini in tre ore e ho percepito 48 euro netti, mance comprese, ossia più di 15 euro l’ora. Con un pagamento a ore, mettiamo 6 euro l’ora, avrei preso solo quelli, che mi impegnassi o meno. Esiste un mondo di ciclofattorini che vive davvero di un precariato intollerabile, ma non sono le app, è il nero. Spesso i ristoranti per cui consegno per Deliveroo mi chiedono se voglio fare anche le consegne per loro autonomamente, e la proposta è sempre quella, 2 euro in nero a consegna, disponibilità 24/7, ti chiamo, vieni, e consegni. Servono miglioramenti anche per le app di delivery, certo che sì: serve garantire assicurazione infortuni, e RC per tutti, con premi uguali per tutti. Serve garantire un minimo orario, serve togliere quel vergognoso tetto di 5.000 euro lordi l’anno che oggi la legge impone per le prestazioni occasionali. Bisogna valutare con l’Inps una soluzione per riconoscere le ore lavorate. Serve garantire trasparenza sull’eventuale rating del rider (come già oggi fanno alcune app), ma la prego, non snaturi ciò che è, ovvero un lavoro flessibile, che permette a migliaia di persone di poter aumentare le proprie entrate in assoluta e totale libertà. Ho creduto molti anni fa nel Movimento di cui lei oggi è capo politico, proprio perché era diverso, non era ipocrita, sapeva capire più di altri i cambiamenti della società, le nuove esigenze e le nuove professioni, perché non tutti vogliono stare in catena di montaggio sotto un capo che detta ordini, ci sono anche persone che nella vita fanno e hanno fatto scelte diverse, e suo compito è tutelare anche noi, non solo i dipendenti.

 Piercarlo, fattorino di Deliveroo

L’Università e il nuovo governo Lega-M5S. Fatti, non opinioni.

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Nella sua replica alla Camera, affrontando il «tarlo» del conflitto di interessi, ai deputati che lo contestavano, il presidente Conte ha rivolto le seguenti parole: «Vedere anche i vostri interventi volti a interrompere il mio discorso dimostra che ognuno di voi ha il suo conflitto o pensa di fare male»1. Al grido di «Casaleggio, Casaleggio» è partita subito la contestazione dell’opposizione, ma che cosa voleva dire Conte con quella frase? Intervistato da Floris, in una puntata della sua trasmissione diMartedì, nel corso della recente campagna elettorale, Conte ebbe a dire che la sua formazione ideale era di sinistra. A volerlo prendere sul serio, non è ultronea, quindi, come direbbe Conte con il suo eloquio professorale, l’interpretazione di quella frase, secondo la quale nella società borghese ciascuno è intrinsecamente portatore di un conflitto di interessi. Ma la formazione ideale di Conte appartiene al passato, una formazione evidentemente a braccio, come il suo discorso di replica alla Camera. Inoltre, egli, da don Abbondio quale appare essere, difficilmente sarebbe riuscito a strappare l’autorizzazione a Don Rodrigo e l’Innominato di poter esprimere apertamente il suo già di per sé confuso pensiero. Così, la frase che correttamente avrebbe dovuto essere «Vedere anche i vostri interventi volti a interrompere il mio discorso dimostra che ognuno di voi, in quanto portatore di interessi borghesi, ha il suo conflitto», è divenuta una sgangherata accusa morale: «ognuno di voi pensa di fare male». Ci mancava solo l’invito a confessarsi, e sarebbe apparso Padre Pio, santo di cui si dice il neopresidente sia fervente devoto.

Che il professor Conte sia assurto alla massima carica di governo del paese, è comunque fonte di speranza per i tanti professori universitari bistrattati in questi anni di ristrettezze e occhiuti controlli. Così, da apparato ideologico di Stato, preposto alla Bildung del Geist dello Zeit, l’Università si avvia ad essere più modernamente un apparato politico tout court, cioè un dipartimento della pubblica amministrazione che fornisce quadri intellettuali per le più diverse bisogna della classe politica di governo. Nel caso di Conte, necessitava una figura che consentisse alla Lega e al M5S di portare avanti il loro gioco politico, ovvero, come ha detto Grillo con elevato pensiero, di portare avanti «il confronto fra interessi diversi con mezzi diversi dalla violenza»2. Nel sottointeso, evidentemente, che la politica è violenza senza spargimento di sangue. È così fatto salvo l’orrore borghese per le arterie squarciate, senza per questo dissolvere l’aura di rivoluzione di cui si inebriano in questo periodo i cinquestelluti.

Il caso, invece, della ministra Trenta, offre un altro squarcio diversamente interessante. Qui siamo nel campo delle Università private, la Link dell’ex-ministro democristiano Scotti, dove la Trenta è stata vicedirettore del master in «Intelligence e sicurezza», sapere accademico in servizi segreti che la Trenta ha accumulato lavorando sin dagli anni Novanta per la Sudgest e Sudgestaid. Su tali società ci ragguaglia il suo attuale direttore generale Maurizio Zandri, ex Democrazia proletaria negli anni belli, un altro cui essere di sinistra ha girato in un certo modo. Lo Zandri, che è anche docente presso la stessa Link di «Cooperazione internazionale», ci informa che Sudgest e Sudgestaid hanno come compito «la formazione di dipendenti pubblici dove occorre superare un clima di guerra o retaggi di dittatura»3. Tra i tanti paesi in cui questi esperti hanno potuto dare il meglio di sé, oltre all’Italia del Sud con la gestione di beni confiscati alla mafia e recupero della legalità in zone di guerra come Corleone, c’è la Libia dove, su mandato del Ministero degli Esteri, hanno portato avanti programmi funzionali a politiche di “cooperazione”, ovvero, per dirla in chiaro, di messa in ordine del disordine che i bombardamenti francesi e i successivi scazzi tra le potenze europee avevano causato. Grande politica, Università, meglio se privata ma finanziata con fondi UE, affari, vengono così a costituire un vorticoso sistema di porte girevoli, dove trovano modo di inserirsi anche le società che arruolano mercenari che vanno a combattere o hanno combattuto nei paesi in cui la “cooperazione” va poi a mettere in ordine ciò che essi hanno sfasciato. È il caso dell’esecuzione di un progetto di disarmo in Libia, affidato tra gli altri a Gianpiero Spinelli, noto «per aver arruolato i quattro italiani rapiti in Iraq, vicenda segnata dall’uccisione di Fabrizio Quattrocchi nel 2004»4. Ma, a questo proposito, il buon ex demoproletario Zandri precisa che «per quanto so Spinelli era uno dei soci dell’azienda che incaricammo di individuare le aree per i nostri progetti», incarico a lui affidato «grazie alle relazioni con militari e le strutture di sicurezza dell’Eni». Legittima perciò la domanda finale di Zandri: «sarebbe questo reclutare mercenari?»5. No, effettivamente si tratta solo di mettere a frutto tutto un complesso di conoscenze teoriche e pratiche ai fini superiori della pace. E che male c’è a sfruttare, in ogni senso, i processi di pace in un mondo in cui tutti i giorni ci sono degli Spinelli, e i loro dante causa, che fanno la guerra?

Non sempre poi questi progetti di pace vanno per il verso giusto. Nel caso del progetto di disarmo in Libia, la felicemente ora ministra Trenta e il fu demoproletario Zandri compresero presto che «la consegna delle armi non veniva accettata. Con la nostra ambasciata, ci dicemmo: riconvertiamo il tutto per formare ex combattenti a diventare guide turistiche di Leptis Magna, Sabrata, Cirene. Elisabetta riuscì a far stringere un accordo tra ministeri libici di Interno e Cultura per assumerli»6. Ecco, questo sì che è ingegno. I soldi del progetto non vanno sprecati, e fa niente se le guide turistiche dei luoghi libici della grandezza romana nascondono sotto il materasso dei kalashnikov. Tutto ciò può solo aggiungere un pizzico di avventura per gli amanti di pietre antiche che si spingono sin laggiù, e fornire ulteriori spunti per l’intreccio di questo romanzo di guerra e pace, dove le risultanze della “cooperazione” vengono riversate nei corsi e nei master di Università in cui ex politici di lungo corso svezzano rampanti guerrieri dell’anti-casta. E quindi, come disse von Clausewitz, «la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi», ovvero nella già vista ed ispirata parafrasi di Grillo, «la politica è il confronto fra interessi diversi combattuto con mezzi diversi dalla violenza». Anche qui, è tutta una questione di porte girevoli. A seconda di come la infili, ti può portare in un disadorno camerino di un teatro di periferia, o in un fastoso salone della presidenza della repubblica, carica alla quale, da buon comico, celiando ma non troppo, l’Elevato Buffone si è già candidato. Congiunto di Piersanti Mattarella, fatti più in là!

  1. D. Martirano, Fiducia a Conte, l’opposizione attacca, scontro sul conflitto di interessi, «Corriere della sera», 7 maggio 2018, p. 2. []
  2. B. Grillo, “Stiamo calmi, è solo la Politica e finalmente si torna a parlarne”, «Il Fatto Quotidiano», 29 maggio 2018, p. 5. []
  3. M. Caprara, L’ex capo di Trenta che militava in Democrazia proletaria, “Ecco cosa facevamo”, Zandri: in Iraq e Libia ci occupavamo di cooperazione, «Corriere della sera», 7 giungo 2018, p. 8. []
  4. Ibidem. []
  5. Ibidem. []
  6. Ibidem. []

Cesarismo plurale, verifiche e aggiornamenti (3)

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Nei manuali di scienza della politica si parla di cesarismo come di un regime politico di transizione, che sorge in risposta alla decadenza di istituzioni politiche preesistenti, ed è fondato su un rapporto emotivo fra leader e cittadini. Ma il cesarismo è anche un conflitto di classe. Nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Marx, che tratta del cesarismo sotto il termine di bonapartismo, mostra che esso si afferma quando c’è uno stallo nel conflitto fra le due principali classi sociali, la borghesia e il proletariato. Poiché il terzo attore, i contadini, non riesce ad organizzarsi come soggetto collettivo, essendo disperso sul territorio e privo di legami organizzativi stabili, il leader che emerge sfrutta la forza degli apparati dello Stato (burocrazia, forze armate, corpi di polizia, ecc.), e riesce ad operare come forza autonoma. A questa analisi marxiana, Gramsci apporta la ulteriore distinzione tra cesarismo “progressivo” e cesarismo “regressivo”. Il cesarismo, ovvero la soluzione “arbitrale” di un “equilibrio catastrofico” fra classi in lotta tra loro, è progressivo quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare, regressivo quando aiuta a trionfare la forza regressiva. Progresso e regresso restano evidentemente da definire, ma qui possiamo mettere da parte la teoria, e volgerci direttamente alla realtà politica, la quale, in questa momento, in Italia, ha caratteri così particolari, che è impossibile ridurla entro le categorie delle teorie stabilite.

Infatti, 1) negli anni scorsi, al vertice della politica ci sono stati non uno, ma tre cesari in competizione tra loro, specialisti nel rapporto emotivo con i propri seguaci, ovvero Renzi, Berlusconi e Grillo. Salvini sgomitava, ma a lungo non è riuscito ad assurgere al loro rango. Adesso, con abili mosse, ha rigettato in un’opposizione rancorosa i primi due e, via Di Maio, ha addomesticato il terzo. Da plurale, il cesarismo sembra avviarsi alla sua normale condizione di un capo solo al comando. Sarà così? Staremo a vedere; 2) il regime politico continua a ristagnare in una transizione infinita, in cui si succedono Prime, Seconde e Terze Repubbliche. La Terza Repubblica non si capisce bene in che cosa si differenzi dalle altre due, se non nella formula politica, una bizzarra alleanza tra forze che sino a non molto tempo fa si contrapponevano. Si uscirà dall’euro? Cambieranno le alleanze internazionali? Anche qui, staremo a vedere, mentre sempre incombe la Costituzione del ’48, che sinora nessuno riesce a svellere dal suo fondamento storico. Questa dovrebbe essere una buona cosa per le forze non cesaristiche, nelle cui bande però ancora imperversa l’alieno Matteo Renzi. La prima misura per la loro rinascita dovrebbe essere di espellerlo formalmente dal loro seno, ma questo richiederebbe una metamorfosi di cui pardossalmente esse stesse hanno il terrore; 3) ognuno dei leader cesaristi rappresenta un segmento degli interessi non di due classi contrapposte, ma di un’unica grande classe media, divisa e frammentata al suo interno. Una sorta di moderno “contadiname”, disperso sul territorio e privo di legami organizzativi stabili, che riscatta la propria  “ruralità” con la “modernità” dello “stile di vita italiano” – mangiare, vestirsi, abitare, nel trionfo del corpo e dei sensi. I leader diventano allora avventurieri che scalano lo Stato e lo occupano con le bande al loro seguito. Il “Giglio magico” di Renzi ha fatto scuola, ed ora qualcosa di simile tenterà la Casaleggio Associati; 4) quest’ultimo punto rinnova la vexata quaestio del “conflitto di interessi”. La società borghese è in conflitto di interessi per definizione, dal momento che lo Stato è il suo consiglio di amministrazione. Ma con la democrazia rappresentativa, dove anche chi era contro poteva avere formalmente voce in capitolo, essa ha cercato di diventare una società universale. Da qualche decennio la società borghese non ha più questa ambizione, e di volta in volta si staccano da essa singoli esponenti che volgono a loro esclusivo favore l’intrinseca parzialità dello Stato. Questo avviene soprattutto nei settori nuovi della produzione sovrastrutturale, la televisione e le reti sociali, dove la merce da trafficare è il consenso, utile ad alimentare il cesarismo. Politica ed economia sprofondano in una sorta di rallentamento cellulare che si traduce in una microcefalia sociale, il cui sintomo è l’emergenza dell’uomo comune, un idiota che reclama l’onestà come difesa dalla guerra di tutti contro tutti che lo opprime, ma che è la conseguenza del suo cieco individualismo; 5) tra Berlusconi e Casaleggio c’è tuttavia una bella differenza. Il primo modificò prima il costume, con la televisione commerciale degli anni Ottanta, poi si servì della infrastruttura di Publitalia per costruire un partito fedele e disciplinato. Casaleggio è un’agenzia di reclutamento di personale politico, su parole d’ordine e linee politiche labili e sognanti, quanto basta per mandare illustri nesci, battezzati da micro-plebisciti informatici, ad occupare cadreghe impensabili. Perciò, mentre Salvini può contare su un partito rodato da un ventennio di governo intermedio e pronto ad assorbire Forza Italia, il M5S è un torrente alluvionale in piena che può prosciugarsi non appena cessino le pioggie “rivoluzionarie” che il malcontento della suddetta classe media alimenta. Ciò vuol dire che alla fine il cesarismo si rivelerà un’offensiva del Nord, cui il Sud fornisce truppe che combattono per scopi immaginari. Un altro inganno “regressivo”, che richiederà un buon numero di anni per essere amaramente compreso dalle creduli genti meridionali.

Israele, l’Occidente e le colpe dei palestinesi

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Di recente, in una riflessione di Wlodek Goldkorn, a proposito di quanto successo a Gaza, si trova scritto quanto segue: «tra i palestinesi ancora e spesso si sente parlare dello Stato degli ebrei come di un prodotto del colonialismo europeo, un’entità con cui (nel caso del Fatah) si può fare un accordo ma temporaneo, provvisorio, in attesa che gli ebrei se ne tornino da dove sono venuti. Non è così. Intanto perché ci sono ormai quattro o cinque generazioni di ebrei israeliani, nativi del luogo e desiderosi di vivere da israeliani. E poi, proprio perché Israele è parte dell’Occidente e dell’Europa in quanto conseguenza della catastrofe dell’Occidente e dell’Europa, l’Occidente e l’Europa non possono rinunciare a Israele, pena la rinuncia alla propria storia e identità»1.

Primo argomento, la forza autoritaria del fatto: «Intanto perché ci sono ormai quattro o cinque generazioni di ebrei israeliani, nativi del luogo e desiderosi di vivere da israeliani». Il diritto a risiedere che nasce dalla brutalità dell’occupazione, poco importa se avvenuta comprando terra o occupandola militarmente.

Goldkorn continua: «E poi, proprio perché Israele è parte dell’Occidente e dell’Europa in quanto conseguenza della catastrofe dell’Occidente e dell’Europa». Qual è questa catastrofe? Lo sterminio nazista? Ma Israele non nasce a causa dello sterminio nazista. Lo sterminio nazista semmai accellera ciò che era in atto da cinquant’anni, cioè la colonizzazione sionista della Palestina, che data dalla fine del XIX secolo. Israele e il sionismo sono bensì europei, ma in quanto espressione del vecchio nazionalismo europeo. Il sionismo infatti è la forma ebraica del nazionalismo europeo. Ideologia che molti ebrei europei all’epoca rifiutarono.

Sulla base di questo falso storico, Goldkorn può però concludere che «l’Occidente e l’Europa non possono rinunciare a Israele, pena la rinuncia alla propria storia e identità». Quindi, tradotto, i palestinesi debbono pagare il fio degli errori degli europei, siano essi il nazionalismo colonizzatore o lo sterminio nazista.

Questo sì che è pensare! L’esistenza di Israele la debbono pagare i palestinesi. E di che si lamentano, se il destino ha loro riservato la nobile missione di preservare l’identità dell’Europa?! Ci sarebbe un modo per uscire da queste stantie dispute ideologiche? Ci sarebbe. Basterebbe osservare come funziona la spesa mondiale delle carte di credito. Analisi condotte da American Express

mostrano che i big spenders globali tendono ad avere una spiccata concentrazione geografica nei paesi del Medio Oriente. Qui la spesa per beni di lusso è circa il quadruplo di quella che si registra tra i consumatori del Vecchio Continente. Un dato particolarmente interessante che emerge dalla lettura del database delle carte di credito Amex è che l’ammontare speso dai residenti mediorientali in loco è molto basso e raggiunge appena il 14% del totale. I ricchi della regione preferiscono realizzare all’estero i propri desideri: qui impiegano ben l’86% del budget destinato ai beni di lusso2.

Il problema dei palestinesi, in particolare dei palestinesi di Gaza, è che sono il proletariato di una regione dalle diseguaglianze sociali enormi, a causa di un blocco storico, di cui Israele fa parte per fini suoi, le cui classi dominanti si servono del conflitto etnico e religioso per imporre in loco un capitalismo deforme e subalterno al capitalismo mondiale. La colpa di Hamas non è di essere un’organizzazione terroristica, ma di condurre una lotta di liberazione in nome della religione, e non di un sano e laico conflitto di classe, che potrebbe benissimo svolgersi nella cornice di un unico stato plurietnico. Questo assetto sociale purtroppo non è stato scalfito dalle primavere arabe, e la sua messa in discussione richiederà ancora l’impegno di molte generazioni, che dovranno combattere sul doppio fronte degli oppressori interni e dei profittatori esterni, che dall’alleanza con gli oppressori interni traggono i vantaggi ben conosciuti in campo energetico, economico e politico.

  1. L’Espresso, n. 21, 20 maggio 2018, pp. 14-15 []
  2. M. Sabella, “Il lusso? Cresce quattro volte più del mercato”, “Corriere della sera”, 3.6.2018, p. 34 []

Marx, il populismo e il nuovo governo Lega-M5Stelle

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Nel giorno dell’insediamento del governo Lega-M5S vale la pena leggeere la pagina di un grande storico delle idee dedicata al populismo. Ognuno può trovarci le analogie e le differenze che vuole con quanto accade ai nostri giorni.

 

tratto da N. Merker, Filosofie del populismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 171-173

 

Una costante del populismo è il Capo carismatico che afferma di rappresentare il Popolo perché egli sa che cosa, seppur massa incolta, esso profondamente vuole: sicché egli è l’unico che per proprio intuito guida quel popolo agli alti Destini a esso connaturati. Tale rapporto tra Capo e Popolo è stato chiamato cesarismo e bonapartismo, termini nati entrambi nella Francia dell’Ottocento in riferimento al regime di Luigi Bonaparte che, approfittando del passato carisma dello zio Napoleone I, si proclamò presidente della repubblica con il colpo di Stato del 2 dicembre 1851, e un anno dopo “imperatore dei francesi” con il nome di Napoleone III, facendo sancire entrambe le cariche da un plebiscito pilotato. Marx analizzò quell’ascesa in un noto saggio del 1852, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte. Descrisse Luigi Bonaparte per quel che era, un «personaggio mediocre e grottesco» al quale le circostanze della storia avevano permesso «di far la parte dell’eroe»1. Liberalismo e parlamentarismo sono la bestia nera del bonapartismo che li attacca da destra e li taccia di “socialismo”. «Ogni rivendicazione della più semplice riforma finanziaria borghese, del liberalismo più ordinario, del repubblicanesimo più formale, della democrazia più volgare, viene a un tempo colpita come “attentato contro la società” e bollata come “socialismo”»2. L’antiparlamentarismo si appellò «al popolo contro le assemblee parlamentari», mobilitò «contro l’Assemblea nazionale, espressione costituzionalmente organizzata del popolo, le masse del popolo inorganizzato»3. Strumentalizzare nei plebisciti masse arretrate, favorire la Chiesa cattolica, ampliare burocrazia ed esercito per creare un ceto di sostenitori del regime, fare concessioni a gruppi politici se questi hanno un certo rilievo (ma essendo contrastanti i loro interessi, ne veniva anche endemica instabilità del regime, il quale doveva compensarla esibendosi in una azione estera e coloniale da grande potenza): furono queste le linee della politica di Luigi Bonaparte. Egli, demagogicamente, «vorrebbe apparire come il patriarcale benefattore di tutte le classi», trasformare «tutta la proprietà, tutto il lavoro della Francia, in un’obbligazione personale verso di sé»4. Sicché della sua corte e tribù si può unicamente dire che essa, «in nome dell’ordine, crea l’anarchia, spogliando in pari tempo la macchina dello Stato della sua aureola, profanandola, rendendola ripugnante e ridicola»5. Per un verso il demagogo blasonato «concepisce la vita storica dei popoli, le loro azioni capitali e di Stato come [ … ] una mascherata in cui i grandi costumi, le grandi parole e i grandi gesti non servono ad altro che a coprire le furfanterie più meschine». Per un altro verso pretende di «rappresentare, in maschera napoleonica, il vero Napoleone», e si trasforma allora «in un pagliaccio serio, che non prende più la storia per una commedia, ma la propria commedia per storia universale»6. Nello stesso anno del pamphlet di Marx il libro di Victor Hugo Napoleone il piccolo coniò fin dal titolo l’irrispettoso nomignolo che, sommando livello politico e statura fisica dell’autocrate, correrà per l’Europa. A metà dell’Ottocento né Marx né Hugo potevano conoscere il termine “populismo” che entrerà nel lessico politico solo alla fine di quel secolo, negli Stati Uniti. Eppure, descrivendo il bonapartismo, sia Marx che Hugo avevano già tracciato una fenomenologia del populismo, e il loro ritratto del demagogo si attaglierebbe pure a populisti odierni di casa nostra e di case vicine. In quella fenomenologia dominano antiliberalismo e antiparlamentarismo (ne erano emblema i plebisciti come strumento di consultazione del “popolo”, oggi il demagogo ricorre ai “sondaggi”); l’idea dello Stato come concertazione di interessi è sostituita dall’onnipresenza anarchica di interessi settoriali e localistici il cui arbitraggio spetta al Capo carismatico che camuffa il clientelismo con solenni richiami a una sua propria “missione” di progresso e salvezza. Infine, c’è l’inevitabile immagine schizofrenica che il Capo disegna di se stesso: di essere cioè, in un mondo di furfanti che coprono con gesti magniloquenti le loro mascalzonate, l’unico che con le proprie grandi parole e gesta rappresenta invece realmente la “storia universale”.

  1. K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, in K. Marx, F. Engels, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1972 sgg,, vol. IX, p. 614 []
  2. K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, cit., p. 116 []
  3. Ivi, p. 126 []
  4. Ivi, pp. 203-4 []
  5. Ivi, pp. 205 []
  6. Ivi, p. 156 []