Archive for Francesco Aqueci

Cesarismo plurale, verifiche e aggiornamenti (3)

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Nei manuali di scienza della politica si parla di cesarismo come di un regime politico di transizione, che sorge in risposta alla decadenza di istituzioni politiche preesistenti, ed è fondato su un rapporto emotivo fra leader e cittadini. Ma il cesarismo è anche un conflitto di classe. Nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Marx, che tratta del cesarismo sotto il termine di bonapartismo, mostra che esso si afferma quando c’è uno stallo nel conflitto fra le due principali classi sociali, la borghesia e il proletariato. Poiché il terzo attore, i contadini, non riesce ad organizzarsi come soggetto collettivo, essendo disperso sul territorio e privo di legami organizzativi stabili, il leader che emerge sfrutta la forza degli apparati dello Stato (burocrazia, forze armate, corpi di polizia, ecc.), e riesce ad operare come forza autonoma. A questa analisi marxiana, Gramsci apporta la ulteriore distinzione tra cesarismo “progressivo” e cesarismo “regressivo”. Il cesarismo, ovvero la soluzione “arbitrale” di un “equilibrio catastrofico” fra classi in lotta tra loro, è progressivo quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare, regressivo quando aiuta a trionfare la forza regressiva. Progresso e regresso restano evidentemente da definire, ma qui possiamo mettere da parte la teoria, e volgerci direttamente alla realtà politica, la quale, in questa momento, in Italia, ha caratteri così particolari, che è impossibile ridurla entro le categorie delle teorie stabilite.

Infatti, 1) negli anni scorsi, al vertice della politica ci sono stati non uno, ma tre cesari in competizione tra loro, specialisti nel rapporto emotivo con i propri seguaci, ovvero Renzi, Berlusconi e Grillo. Salvini sgomitava, ma a lungo non è riuscito ad assurgere al loro rango. Adesso, con abili mosse, ha rigettato in un’opposizione rancorosa i primi due e, via Di Maio, ha addomesticato il terzo. Da plurale, il cesarismo sembra avviarsi alla sua normale condizione di un capo solo al comando. Sarà così? Staremo a vedere; 2) il regime politico continua a ristagnare in una transizione infinita, in cui si succedono Prime, Seconde e Terze Repubbliche. La Terza Repubblica non si capisce bene in che cosa si differenzi dalle altre due, se non nella formula politica, una bizzarra alleanza tra forze che sino a non molto tempo fa si contrapponevano. Si uscirà dall’euro? Cambieranno le alleanze internazionali? Anche qui, staremo a vedere, mentre sempre incombe la Costituzione del ’48, che sinora nessuno riesce a svellere dal suo fondamento storico. Questa dovrebbe essere una buona cosa per le forze non cesaristiche, nelle cui bande però ancora imperversa l’alieno Matteo Renzi. La prima misura per la loro rinascita dovrebbe essere di espellerlo formalmente dal loro seno, ma questo richiederebbe una metamorfosi di cui pardossalmente esse stesse hanno il terrore; 3) ognuno dei leader cesaristi rappresenta un segmento degli interessi non di due classi contrapposte, ma di un’unica grande classe media, divisa e frammentata al suo interno. Una sorta di moderno “contadiname”, disperso sul territorio e privo di legami organizzativi stabili, che riscatta la propria  “ruralità” con la “modernità” dello “stile di vita italiano” – mangiare, vestirsi, abitare, nel trionfo del corpo e dei sensi. I leader diventano allora avventurieri che scalano lo Stato e lo occupano con le bande al loro seguito. Il “Giglio magico” di Renzi ha fatto scuola, ed ora qualcosa di simile tenterà la Casaleggio Associati; 4) quest’ultimo punto rinnova la vexata quaestio del “conflitto di interessi”. La società borghese è in conflitto di interessi per definizione, dal momento che lo Stato è il suo consiglio di amministrazione. Ma con la democrazia rappresentativa, dove anche chi era contro poteva avere formalmente voce in capitolo, essa ha cercato di diventare una società universale. Da qualche decennio la società borghese non ha più questa ambizione, e di volta in volta si staccano da essa singoli esponenti che volgono a loro esclusivo favore l’intrinseca parzialità dello Stato. Questo avviene soprattutto nei settori nuovi della produzione sovrastrutturale, la televisione e le reti sociali, dove la merce da trafficare è il consenso, utile ad alimentare il cesarismo. Politica ed economia sprofondano in una sorta di rallentamento cellulare che si traduce in una microcefalia sociale, il cui sintomo è l’emergenza dell’uomo comune, un idiota che reclama l’onestà come difesa dalla guerra di tutti contro tutti che lo opprime, ma che è la conseguenza del suo cieco individualismo; 5) tra Berlusconi e Casaleggio c’è tuttavia una bella differenza. Il primo modificò prima il costume, con la televisione commerciale degli anni Ottanta, poi si servì della infrastruttura di Publitalia per costruire un partito fedele e disciplinato. Casaleggio è un’agenzia di reclutamento di personale politico, su parole d’ordine e linee politiche labili e sognanti, quanto basta per mandare illustri nesci, battezzati da micro-plebisciti informatici, ad occupare cadreghe impensabili. Perciò, mentre Salvini può contare su un partito rodato da un ventennio di governo intermedio e pronto ad assorbire Forza Italia, il M5S è un torrente alluvionale in piena che può prosciugarsi non appena cessino le pioggie “rivoluzionarie” che il malcontento della suddetta classe media alimenta. Ciò vuol dire che alla fine il cesarismo si rivelerà un’offensiva del Nord, cui il Sud fornisce truppe che combattono per scopi immaginari. Un altro inganno “regressivo”, che richiederà un buon numero di anni per essere amaramente compreso dalle creduli genti meridionali.

Israele, l’Occidente e le colpe dei palestinesi

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Di recente, in una riflessione di Wlodek Goldkorn, a proposito di quanto successo a Gaza, si trova scritto quanto segue: «tra i palestinesi ancora e spesso si sente parlare dello Stato degli ebrei come di un prodotto del colonialismo europeo, un’entità con cui (nel caso del Fatah) si può fare un accordo ma temporaneo, provvisorio, in attesa che gli ebrei se ne tornino da dove sono venuti. Non è così. Intanto perché ci sono ormai quattro o cinque generazioni di ebrei israeliani, nativi del luogo e desiderosi di vivere da israeliani. E poi, proprio perché Israele è parte dell’Occidente e dell’Europa in quanto conseguenza della catastrofe dell’Occidente e dell’Europa, l’Occidente e l’Europa non possono rinunciare a Israele, pena la rinuncia alla propria storia e identità»1.

Primo argomento, la forza autoritaria del fatto: «Intanto perché ci sono ormai quattro o cinque generazioni di ebrei israeliani, nativi del luogo e desiderosi di vivere da israeliani». Il diritto a risiedere che nasce dalla brutalità dell’occupazione, poco importa se avvenuta comprando terra o occupandola militarmente.

Goldkorn continua: «E poi, proprio perché Israele è parte dell’Occidente e dell’Europa in quanto conseguenza della catastrofe dell’Occidente e dell’Europa». Qual è questa catastrofe? Lo sterminio nazista? Ma Israele non nasce a causa dello sterminio nazista. Lo sterminio nazista semmai accellera ciò che era in atto da cinquant’anni, cioè la colonizzazione sionista della Palestina, che data dalla fine del XIX secolo. Israele e il sionismo sono bensì europei, ma in quanto espressione del vecchio nazionalismo europeo. Il sionismo infatti è la forma ebraica del nazionalismo europeo. Ideologia che molti ebrei europei all’epoca rifiutarono.

Sulla base di questo falso storico, Goldkorn può però concludere che «l’Occidente e l’Europa non possono rinunciare a Israele, pena la rinuncia alla propria storia e identità». Quindi, tradotto, i palestinesi debbono pagare il fio degli errori degli europei, siano essi il nazionalismo colonizzatore o lo sterminio nazista.

Questo sì che è pensare! L’esistenza di Israele la debbono pagare i palestinesi. E di che si lamentano, se il destino ha loro riservato la nobile missione di preservare l’identità dell’Europa?! Ci sarebbe un modo per uscire da queste stantie dispute ideologiche? Ci sarebbe. Basterebbe osservare come funziona la spesa mondiale delle carte di credito. Analisi condotte da American Express

mostrano che i big spenders globali tendono ad avere una spiccata concentrazione geografica nei paesi del Medio Oriente. Qui la spesa per beni di lusso è circa il quadruplo di quella che si registra tra i consumatori del Vecchio Continente. Un dato particolarmente interessante che emerge dalla lettura del database delle carte di credito Amex è che l’ammontare speso dai residenti mediorientali in loco è molto basso e raggiunge appena il 14% del totale. I ricchi della regione preferiscono realizzare all’estero i propri desideri: qui impiegano ben l’86% del budget destinato ai beni di lusso2.

Il problema dei palestinesi, in particolare dei palestinesi di Gaza, è che sono il proletariato di una regione dalle diseguaglianze sociali enormi, a causa di un blocco storico, di cui Israele fa parte per fini suoi, le cui classi dominanti si servono del conflitto etnico e religioso per imporre in loco un capitalismo deforme e subalterno al capitalismo mondiale. La colpa di Hamas non è di essere un’organizzazione terroristica, ma di condurre una lotta di liberazione in nome della religione, e non di un sano e laico conflitto di classe, che potrebbe benissimo svolgersi nella cornice di un unico stato plurietnico. Questo assetto sociale purtroppo non è stato scalfito dalle primavere arabe, e la sua messa in discussione richiederà ancora l’impegno di molte generazioni, che dovranno combattere sul doppio fronte degli oppressori interni e dei profittatori esterni, che dall’alleanza con gli oppressori interni traggono i vantaggi ben conosciuti in campo energetico, economico e politico.

  1. L’Espresso, n. 21, 20 maggio 2018, pp. 14-15 []
  2. M. Sabella, “Il lusso? Cresce quattro volte più del mercato”, “Corriere della sera”, 3.6.2018, p. 34 []

Marx, il populismo e il nuovo governo Lega-M5Stelle

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Nel giorno dell’insediamento del governo Lega-M5S vale la pena leggeere la pagina di un grande storico delle idee dedicata al populismo. Ognuno può trovarci le analogie e le differenze che vuole con quanto accade ai nostri giorni.

 

tratto da N. Merker, Filosofie del populismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 171-173

 

Una costante del populismo è il Capo carismatico che afferma di rappresentare il Popolo perché egli sa che cosa, seppur massa incolta, esso profondamente vuole: sicché egli è l’unico che per proprio intuito guida quel popolo agli alti Destini a esso connaturati. Tale rapporto tra Capo e Popolo è stato chiamato cesarismo e bonapartismo, termini nati entrambi nella Francia dell’Ottocento in riferimento al regime di Luigi Bonaparte che, approfittando del passato carisma dello zio Napoleone I, si proclamò presidente della repubblica con il colpo di Stato del 2 dicembre 1851, e un anno dopo “imperatore dei francesi” con il nome di Napoleone III, facendo sancire entrambe le cariche da un plebiscito pilotato. Marx analizzò quell’ascesa in un noto saggio del 1852, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte. Descrisse Luigi Bonaparte per quel che era, un «personaggio mediocre e grottesco» al quale le circostanze della storia avevano permesso «di far la parte dell’eroe»1. Liberalismo e parlamentarismo sono la bestia nera del bonapartismo che li attacca da destra e li taccia di “socialismo”. «Ogni rivendicazione della più semplice riforma finanziaria borghese, del liberalismo più ordinario, del repubblicanesimo più formale, della democrazia più volgare, viene a un tempo colpita come “attentato contro la società” e bollata come “socialismo”»2. L’antiparlamentarismo si appellò «al popolo contro le assemblee parlamentari», mobilitò «contro l’Assemblea nazionale, espressione costituzionalmente organizzata del popolo, le masse del popolo inorganizzato»3. Strumentalizzare nei plebisciti masse arretrate, favorire la Chiesa cattolica, ampliare burocrazia ed esercito per creare un ceto di sostenitori del regime, fare concessioni a gruppi politici se questi hanno un certo rilievo (ma essendo contrastanti i loro interessi, ne veniva anche endemica instabilità del regime, il quale doveva compensarla esibendosi in una azione estera e coloniale da grande potenza): furono queste le linee della politica di Luigi Bonaparte. Egli, demagogicamente, «vorrebbe apparire come il patriarcale benefattore di tutte le classi», trasformare «tutta la proprietà, tutto il lavoro della Francia, in un’obbligazione personale verso di sé»4. Sicché della sua corte e tribù si può unicamente dire che essa, «in nome dell’ordine, crea l’anarchia, spogliando in pari tempo la macchina dello Stato della sua aureola, profanandola, rendendola ripugnante e ridicola»5. Per un verso il demagogo blasonato «concepisce la vita storica dei popoli, le loro azioni capitali e di Stato come [ … ] una mascherata in cui i grandi costumi, le grandi parole e i grandi gesti non servono ad altro che a coprire le furfanterie più meschine». Per un altro verso pretende di «rappresentare, in maschera napoleonica, il vero Napoleone», e si trasforma allora «in un pagliaccio serio, che non prende più la storia per una commedia, ma la propria commedia per storia universale»6. Nello stesso anno del pamphlet di Marx il libro di Victor Hugo Napoleone il piccolo coniò fin dal titolo l’irrispettoso nomignolo che, sommando livello politico e statura fisica dell’autocrate, correrà per l’Europa. A metà dell’Ottocento né Marx né Hugo potevano conoscere il termine “populismo” che entrerà nel lessico politico solo alla fine di quel secolo, negli Stati Uniti. Eppure, descrivendo il bonapartismo, sia Marx che Hugo avevano già tracciato una fenomenologia del populismo, e il loro ritratto del demagogo si attaglierebbe pure a populisti odierni di casa nostra e di case vicine. In quella fenomenologia dominano antiliberalismo e antiparlamentarismo (ne erano emblema i plebisciti come strumento di consultazione del “popolo”, oggi il demagogo ricorre ai “sondaggi”); l’idea dello Stato come concertazione di interessi è sostituita dall’onnipresenza anarchica di interessi settoriali e localistici il cui arbitraggio spetta al Capo carismatico che camuffa il clientelismo con solenni richiami a una sua propria “missione” di progresso e salvezza. Infine, c’è l’inevitabile immagine schizofrenica che il Capo disegna di se stesso: di essere cioè, in un mondo di furfanti che coprono con gesti magniloquenti le loro mascalzonate, l’unico che con le proprie grandi parole e gesta rappresenta invece realmente la “storia universale”.

  1. K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, in K. Marx, F. Engels, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1972 sgg,, vol. IX, p. 614 []
  2. K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, cit., p. 116 []
  3. Ivi, p. 126 []
  4. Ivi, pp. 203-4 []
  5. Ivi, pp. 205 []
  6. Ivi, p. 156 []

Le false promesse del partito digitale

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Mentre un governo fascista, generato con modalità democristiane, tenta di insediarsi, forzando la mano al Presidente della Repubblica, continuano a fiorire le riflessioni sul partito stimolate, come per il cane di Pavlov, dal campanello del successo del M5S. La concezione che le ispira è in tutte pressoché uguale. Basta dunque prenderne una, per avere l’idea del tutto, come in questo articolo1, il cui titolo immagina un possibile incontro tra Lenin e Casaleggio.

Si parte dal presupposto che siamo nell’era digitale, la quale impone «processi di trasformazione organizzativa di respiro globale, finalizzati alla re-invenzione della formapartito nel ventunesimo secolo». E già in questa roboante terminologia c’è tutto l’ingenuo futurismo che ispira queste riflessioni. L’era digitale è il fatto feticcio con la freccia rivolta verso un generico ma irresistibile futuro che non potrà che divorare il passato. Perciò le formazioni politiche tradizionali o si adeguano o finiranno nell’irrilevanza. Non è una critica, ma un memento. Ancor prima di pensarlo, l’oggetto è già morto, perché la vita è altrove. Dove? Nel partito digitale. Posta la premessa, segue la tautologia: se siamo nell’era digitale, il partito deve essere digitale. Non può esistere dunque il partito che si interroga sull’era digitale, la mette in discussione, la critica e le si rivolta contro. No, questo significa votarsi all’irrilevanza. E come deve essere, allora, questo fatale partito digitale? «Il partito digitale, o più propriamente partito-piattaforma, traduce nello spazio politico la logica delle piattaforme digitali dell’era delle app e dei social media, con il loro modello di iscrizione gratuita, finalizzata alla raccolta di dati e alla misurazione costante della temperatura dell’opinione pubblica; la loro offerta di disintermediazione radicale nella comunicazione pubblica; e la loro costruzione di uno spazio di interazione collettiva sostenuto da algoritmi sempre più complessi».

Ecco incosapevolmente enunciato, in un linguaggio neutro, febbrile e luccicante, il fascismo del XXI secolo. Gli iscritti, che non pagano nulla perchè ci pensa la pubblicità a irregimentarli nel partito digitale, diventano una sfaccettatura dell’opinione pubblica, la quale non ha bisogno di apparati per formarsi ed esprimersi, poiché lo spazio digitale consente la connessione immediata tra base e vertice. Dalla “connessione sentimentale” dei partiti tradizionali, alla “connessione algoritmica” del partito digitale. Da Gramsci a Grillo. Dal dramma alla farsa.

Un’osservazione più ravvicinata merita lo spazio di interazione collettiva. Qui sembrerebbe ancora sussistere un residuo filtro democratico. Ma non è così. Il cambiamento è rivoluzionario. E quindi «l’assemblea nazionale dei delegati del vecchio partito massa viene sostituita dalla piattaforma, ovvero dall’assemblea diretta e permanente di tutti gli iscritti». Inoltre, «le unità di base non sono più spazi di decisione», come nelle vecchie sezioni del defunto partito massa, ma piuttosto «spazi di dibattito e azione, che si fanno carico di sostenere praticamente la linea collettiva decisa dal partito e di adattarla alle condizioni locali».

Come si vede, di interazione non c’è un bel nulla, e dibattito è una parola usata a sproposito. C’è bensì l’algoritmo, ma che sostiene un flusso unidirezionale dal vertice alla base, la quale deve solo agire entro i confini fissati dall’alto, altrimenti scatta l’espulsione, sancita ovviamente dalla consultazione on line. Assemblea diretta e permanente, dunque, come attivismo del tutto subalterno al vertice del partito in cui, come si ammette, «un iperleader, un leader eccessivo, carismatico e plebiscitario, diventa l’hub del sistema-rete, luogo di ancoramento organizzativo e di sintesi politica della volontà cangiante della superbase, degli iscritti digitali chiamati di volta in vota a esprimersi nelle consultazioni online».

Anche qui, linguaggio frenetico e iperbolico che, sotto le spoglie di una pseudo-critica, non riesce a nascondere il fascino verso forme autoritarie sperimentate nel passato, ma che la tecnologia digitale rende di nuovo attraenti e irresistibili. Non meraviglia perciò che le conclusioni siano una esaltazione dell’esistente: «il sistema di consultazione adottato dai 5 Stelle sarà pure limitato e talvolta anche manipolato indirettamente dalla leadership e dal famoso “staff”. Ma quanto meno è un sistema che prefigura la possibilità di una nuova forma-partito che faccia i conti con le trasformazioni radicali della nostra società». E ancora: «il partito digitale offre un modello per ripensare che cosa significa la democrazia delle organizzazioni e ridurre la distanza tra cittadini e i loro rappresentanti».

È un pensiero senza uscita, una stanza dove non ci sono porte e finestre. Il partito digitale porta alla morte della democrazia, al rapporto fideistico e unilaterale tra base e vertice, alla dittatura di uno pseudo-leader manovrato da un’azienda che manipola la rete, ma è il nuovo, il nuovo che ha successo, e questo basta. In realtà, l’algoritmo, il digitale, la rete, sono solo giustificazioni di un nuovismo che si esaurisce nella considerazione ossessiva dei mezzi, ma vive nell’incultura completa dei fini. Non siamo infatti oltre la destra e la sinistra? Come se destra e sinistra fossero un fatto di natura, e non una scelta con cui orientare il proprio agire. Il partito digitale si riduce perciò all’organizzazione, che non ha bisogno di una presa di coscienza critica, ma si nutre di tecnica organizzativa, poiché il suo scopo è afferrare il potere. La prova è che il M5S, nato proclamando istericamente di voler stare per sempre all’opposizione, alla prima curva ha puntato dritto al governo. Al governo di una società, il cui cambiamento strutturale, roba da vecchia sinistra defunta, non rientra nel suo programma. Perciò, se Lenin incontrasse Casaleggio, gli chiederebbe beffardo: Gianroberto, ma quando la farai mai questa rivoluzione?

  1. P. Gerbaudo, Se Lenin incontrasse Casaleggio: il partito digitale oltre i limiti dei 5 Stelle, http://temi.repubblica.it/micromega-online/se-lenin-incontrasse-casaleggio-il-partito-digitale-oltre-i-limiti-dei-5-stelle/ []

Nazionalismo convergente

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In un accoratissimo editoriale, apparso qualche giorno fa sul Corriere1, Ernesto Galli Della Loggia ha descritto impietosamente il passato e il presente di un’Italia di cui preoccupano le sorti future. Per Galli della Loggia, in tutti questi anni, noi abbiamo dimenticato che la nostra democrazia nasce da una guerra perduta, e che la sconfitta ha annichilito il nostro rango internazionale e ha cancellato la nostra sovranità, lasciandoci subalterni a poteri stranieri. Inoltre, le modalità della sconfitta, l’8 settembre, sono valse a incrinare l’immagine già non molto solida dello Stato, della sua autorità e del suo comando. A ciò si è accompagnato un gigantesco fenomeno di camaleontismo di massa dall’antico al nuovo regime. Infine, la Resistenza ha promosso il fascino della fazione e dello scontro e la facilità del ricorso alla delegittimazione e all’inimicizia assolute in nome dell’antifascismo, ma anche la perdurante suggestione dell’«organizzazione» e delle «reti» più o meno occulte. Sia pure a dispetto della buona volontà di molti, ha continuato Galli della Loggia, è accaduto così che dopo il ‘45 la dimensione della nazione si sia rapidamente eclissata. E in assenza di essa, per forza di cose non ha potuto neppure esistere l’idea dell’autonomia e del valore superiore dei suoi interessi generali. Cioè degli unici fattori che rendono possibile l’esistenza di una vera classe dirigente. Sicché abbiamo dovuto contare solo sulla politica, ma una politica senza fondamento. Siamo diventati perciò un Paese che non sa cosa è né cosa vuole essere; senza idee, senza strategie, senz’anima, sempre più terra di diseguaglianze e di povertà. Un Paese senza Stato, perlopiù sporco e malandato, spesso invivibile, incustodito e inerme di fronte a chiunque voglia prenderselo. Di fronte a questo sfacelo, all’ordine del giorno va messa, allora, secondo Galli della Loggia, la rifondazione della Repubblica. Come? Ripensando senza inganni compiacenti la sua origine storica, per costruire una sua nuova memoria rispondente alla verità: ecco il primo compito di questa rifondazione.

Ci si potrà chiedere, e il secondo? Il terzo? Il quarto compito? Galli della Loggia non li delinea, e lo comprendiamo, dopo la fatica di quell’affresco storico, era giusto riposarsi. Ma facciamo un esperimento, che ci viene suggerito dalla pressoché contemporanea pubblicazione di un comunicato di Potere al Popolo, questo raggruppamento di sinistra che sta facendo grossi sforzi per uscire da una iniziale condizione goliardica. In questo comunicato, tra le tante cose giudiziose che vengono dette, si enuncia la seguente: «Vanno respinte al mittente le ingerenze della tecnocrazia e degli organi della UE e della NATO. Il popolo italiano deve riconquistare il diritto alla piena applicazione dei principi contenuti nella prima parte della Costituzione repubblicana, continuamente messi in discussione dalle politiche di austerità della UE e guerrafondaie della NATO»2. Il linguaggio è crudo, e non è certo fatto per chi bada alle sfumature, ma diamolo da leggere a Galli della Loggia. Lui lamenta, come abbiamo visto, che la sconfitta del ’45 ha annichilito il nostro rango internazionale e ha cancellato la nostra sovranità, lasciandoci subalterni a poteri stranieri. L’UE e la NATO sono l’espressione di tali poteri stranieri? Sicuramente Galli della Loggia prenderebbe a spiegare che l’UE è un destino che abbiamo scelto noi, e la NATO serve a garantire la nostra libertà. Ma allora chi sono questi poteri stranieri cui siamo subalterni? Il nazionalismo borghese, di cui l’editoriale di Galli della Loggia è una perfetta espressione, è fatto così, si fanno grandi analisi apocalittiche, ma appena ci si riferisce a qualcosa di concreto, c’è il fuggi fuggi. E il nazionalismo che generosamente definiremmo proletario, com’è fatto? Beh, l’abbiamo visto dal tono del comunicato di Potere al Popolo, gli piace abbaiare alla luna. Per l’uno e per l’altro nazionalismo, l’importante è delineare il primo compito. Poi subentra la stanchezza, e ci si riposa. Nel frattempo, il popolo italiano in carne ed ossa ha scelto, e i sondaggi che tutti i giorni gli massaggiano la mente, dicono che sei italiani su dieci sono favorevoli al governo Lega-M5S che si delinea. È il solito consenso di massa che, dal 1924, giusto per risalire indietro nel tempo, gli italiani non negano a nessuno.

  1. Un paese che va rifondato, «Corriere della sera», 18 maggio 2018, pp. 1 e 34 []
  2. Potere al popolo e il governo che verrà, http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=34036 []