Archive for Francesco Aqueci

Neoborbonismo, un altro errore di nanismo politico?

Download PDF

Sta suscitando un vespaio la giornata della memoria delle vittime meridionali dell’unificazione italiana, decretata lo scorso luglio dal Consiglio regionale pugliese che, senza voler considerare i fermenti e le iniziative abortite degli anni scorsi, si pensi solo all’MPA di Raffaele Lombardo, in Sicilia, corona analoghi orientamenti variamente espressisi in altre regioni meridionali. Si contano già reazioni di organismi culturali, vedi le proteste della Società Italiana per lo Studio della Storia contemporanea, per l’esclusione di ogni istituzione formativa e di ricerca nel varo dell’iniziativa, e il comunicato della International Gramsci Society Italia, volto a rintuzzare gli usi strumentali delle critiche di Gramsci al processo risorgimentale, nonché gli articoli dei grandi giornali d’opinione, la Repubblica del 5 agosto 2017 con una grintosa presa di posizione storico-politica dello storico Guido Crainz, e il Corriere della sera del giorno successivo con l’opinione fieramente contraria dell’editore meridionale Alessandro Laterza. Che il neoborbonismo più o meno dichiarato da tempo montante sia equivoco e sinora non molto ricco ed elaborato culturalmente, è cosa certa, ma resta aperta la questione a chi appartengano quei combattenti che sino all’ultimo difesero la fortezza di Gaeta, e in generale tutti i caduti dell’altra parte: solo ai Borboni, che in tutto questo tempo non hanno fatto niente di significativo per rivendicarne la memoria, o anche a tutti gli italiani? Discuterne non sembra ozioso, perché in questo momento di forte crisi dell’unità nazionale, di cui il neoborbonismo è un sintomo, potrebbero venir fuori elementi di chiarificazione utili come popolo a conoscersi meglio. Ad esempio, si potrebbe evidenziare che il Risorgimento fu anche lo scontro tra due visioni differenti del capitalismo, se a questo termine si attribuisce il senso non solo di un modo di produzione, ma anche di un modo di vita, lo scontro cioè tra un “capitalismo industriale nazionale”, di cui si fecero interpreti i Savoia, e un “capitalismo paternalistico di Stato” di cui nel regno borbonico i poli siderurgici di Mongiana e Pietrarsa erano embrioni ben avviati, con i loro operai trattati come figli di un precoce Welfare, a fronte ovviamente dei carusi siciliani che nelle miniere dell’isola morivano senza nemmeno essere censiti. Che questo capitalismo fosse destinato a perdere, e con esso tutta la forma di vita “agraria” ad esso legata, caratterizzata da una dinamica evolutiva assai lenta, per altro congelata dal ben noto “patto” risorgimentale tra possidenti del Sud e industriali dal Nord, è un dato storico assodato, dal momento che tale capitalismo non era in linea con gli indirizzi nazionalistici europei, di cui invece Cavour comprese appieno la portata. Da questo punto di vista, ciò che gli odierni neoborbonici non comprendono è che lo Stato del Sud perse non certo perché i piemontesi erano dei nazisti ante litteram, ma perché, pur con tutti i suoi bilanci a posto e le finanze floride, era un nano politico. Ciò non toglie che fosse una realtà economica, sociale e culturale con una sua secolare peculiarità, il cui tono dominante certamente era divenuto via via la “miseria”, ciò che lo rendeva inviso anche a chi, ricco o povero che fosse, vi era immerso, si rilegga Il Gattopardo, e che spiega il facile “tradimento” di cui fu oggetto, ma la cui sommaria soppressione, ad opera anche di rapaci carpetbaggers, vedi sempre le emblematiche vicende di Mongiana e Pietrarsa, non giovò alla stessa costruzione unitaria nazionale, rendendola astratta e precaria non solo per le fratture verticali tra dirigenti e diretti, ma anche per le fratture orizzontali che, nell’interpretazione del capitale, il nuovo signore della vita moderna, come lo chiamava Sturzo, si manifestarono fra le differenti sezioni delle classi dominati delle varie realtà statuali coinvolte nel processo risorgimentale. Sotto l’egida dell’idea di nazione, il Risorgimento fu dunque uno scontro intercapitalistico, che prese la forma di un’invasione, una guerra civile, che vide meridionali combattere contro meridionali, e una lotta di classe, il cui episodio più noto furono i fatti di Bronte.

Oggi che il posto dell’idea di nazione è preso dall’idea di Europa, il neoborbonismo è l’ideologia reattiva delle borghesie meridionali arroccatesi nelle istituzioni regionali. E la giornata della memoria delle vittime dell’unificazione nazionale è la costruzione di una mitologia, la cui base fattuale, i morti dell’invasione e della guerra civile, va però ricondotta alla verità storica, la sola che può premunire da nuovi errori. In questo senso, piacerebbe che i Consigli di tali istituzioni si pronunciassero, e ciò vale in modo particolare per la Puglia, sul lavoro neoschiavile che alimenta il modesto ma non disprezzabile benessere dei loro territori. Potrebbe venirne fuori una presa di coscienza sulle dinamiche capitalistiche contemporanee, dall’immigrazione ai rapporti con la tecnofinanza di Francoforte e Bruxelles, che potrebbe fornire contenuti propri con cui riempire l’idea di Europa. Il silenzio dei Borboni sull’idea di nazione fu il peccato ideologico che minò il loro regno. Interloquire oggi sull’idea di Europa, magari facendo propria la prospettiva di Rossi, Spinelli e Colorni, che nel loro Manifesto delineavano una dittatura federale non capitalistica, potrebbe essere l’ultima occasione per recuperare quanto resta di vivo di quella forma di vita “tradizionale” di cui oggi si vogliono onorare i caduti.

Caracas e le avventure dell’egemonia (2)

Download PDF

L’insediamento della Assemblea nazionale costituente, al di là delle contestazioni sulla regolarità della sue elezione, sinora rimaste affermazioni e voci non provate, formalizza l’esistenza in Venezuela di due centri di potere, quello della vecchia egemonia, raccoltasi attorno al Parlamento nazionale, e quello della contro-egemonia nata e sviluppatasi con Chavez, e che ora prosegue con Maduro, leader per nulla carismatico, che i media occidentali dipingono come un ignorante e un buffone, ma che si sta rivelando un osso duro per coloro che cercano di rovesciare il corso del socialismo bolivariano.

Il nuovo organismo costituzionale da lui fortemente voluto ha un valore simbolico, da un punto di vista storico, che va evidenziato. Anche nella Russia del 1917, con la Rivoluzione di febbraio si venne a formare un dualismo di potere, quello dei partiti anti-zaristi il cui programma non andava al di là di una rivoluzione democratico-borghese, e quello dei Soviet, che spingeva per completare la rivoluzione politica in rivoluzione economico-sociale. La chiusura di fatto dell’Assemblea costituente, nel gennaio 1918, sancì la soluzione di questo dualismo a favore del potere dei Soviet che, nella logica della rivoluzione, era un potere altrettanto legittimo di quello dei partiti democratico-borghesi anti-zaristi. L’Assemblea costituente fu dunque il polo attorno a cui si raccolsero le forze della controrivoluzione, e dovette essere chiusa per portare a termine la rivoluzione economico-sociale, da cui per altro tutto era iniziato (“pace, pane e terra” da tutti indistintamente promessi nel febbraio 1917).

Nel Venezuela del 2017, le cose stanno esattamente al contrario. L’Assemblea costituente è l’organismo, convocato in stretta osservanza della Costituzione vigente, che può permettere di portare avanti la rivoluzione economico-sociale iniziata con Chavez, alla quale si oppongono le forze controrivoluzionarie della vecchia egemonia che, raccoltesi attorno al Parlamento, tentano di bloccarla, combinando la violenza di piazza e paramilitare con gli istituti della democrazia rappresentativa. La rivoluzione economico-sociale non è però un violento contenuto senza forma, ma avanza essa stessa sotto l’egida di una norma, quella della convocazione costituzionale del potere costituente. È questo, se vogliamo, il di più egemonico che rende tanto caratteristica la situazione venezuelana e il suo tentativo di socialismo bolivariano. Socialismo però che vive una fase estremamente critica. Gli schieramenti in campo, che a quanto pare convivono nello stesso palazzo, divisi solo da un cortile, sono infatti tutt’altro che compatti.

La coalizione cosiddetta “democratica”, un coacervo di forze che si spinge sino all’estrema destra, e che, come già detto, pratica proteste di piazza e forme di lotta paramilitari che non sarebbero tollerate in nessuno dei paesi che si proclamano democratici, è divisa sulla partecipazione o meno alle prossime elezioni regionali e municipali del dicembre prossimo, che l’attuale governo sagacemente ha intenzione di far svolgere regolarmente. Né sembra che granché forza le abbia portato il frettoloso sostegno finale del Vaticano, apparso più una concessione alle alte gerarchie locali, che non una convinta presa di posizione anti-chavista. D’altronde, oggi il Vaticano ha spazi di manovra più limitati che in passato. L’accentuazione dei toni anticapitalistici con cui cerca di recuperare la missione evangelica, lo espone al ricatto sull’etica sessuale negli scorsi decenni abbondantemente violata. Non matura così una nuova dottrina sociale, né le radici della perversione sessuale vengono recise. Francesco si muove su questa impossibilità, che lo porta a ricevere Maduro, ma a non rompere con i cardinali del privilegio e del godimento cieco.

Venendo al fronte chavista, benché all’apparenza più compatto della Mud, la coalizione dei partiti della vecchia egemonia, presenta crepe che, senza un’azione decisa coronata nell’immediato da successo, potrebbero divenire voragini. Per ora, da esso si sono staccate singole personalità, come la procuratrice un tempo fedelissima di Chavez, e ora addirittura rimossa dal suo incarico, come primo atto della nuova Costituente. E poca cosa si è rivelata la presunta rivolta militare nella città di Valencia, in realtà, per bocca dei suoi stessi promotori, la sortita di militari già radiati dall’esercito in combutta con “civili”, probabilmente quei paramilitari cui l’opposizione democratica affida parte delle sue sorti. Ma la divisione principale, non manifesta ma sotterranea, del fronte contro-egemonico è tra coloro che vogliono limitarsi a gestire la situazione presente, con i suoi equilibri e i suoi privilegi, per quanto precari, e coloro invece che vogliono approfondire la natura socialista del chavismo, in modi e forme che debbono essere evidentemente escogitate man mano che il processo avanza. Il piano su cui questo confronto avverrà sarà naturalmente l’economia, dove non solo ci si dovrà sganciare dalla ormai insostenibile petroeconomia redistributiva, ma si dovranno inventare politiche che, senza pregiudicare le “missioni” degli scorsi anni, consentano una ripresa dell’iniziativa economica, se non individuale, certo dal basso. Per riprendere il parallelismo con la Russia del 1917, è l’antico dilemma che condusse Lenin al passo indietro della NEP. Non sappiamo cosa avrebbe escogitato la sua fervida fantasia per poi fare i due passi avanti. I costituenti bolivariani hanno pero cent’anni di storia alla loro spalle per non dover commettere gli stessi errori dei successori di Lenin. E il contesto internazionale potrebbe anche aiutarli. Nonostante faccia la faccia feroce, Trump infatti sembra interessato a tutt’altro che a mettere in riga il Venezuela, così come fece Kissinger con Allende. E anche se volesse farlo, non ha più il rutilante know-how del monetarismo della Scuola di Chicago da mettere a disposizione di un Pinochet venezuelano. L’egemonia si gioca anche, se non soprattutto, con le risorse intellettuali, e oggi il fronte capitalistico appare esausto da questo punto di vista, mentre il fronte contro-egemonico ha accumulato non solo una miriade di pratiche variamente “comunitarie”, il cui limite, comprensibile visti i rapporti di forza, è stato però il rifiuto del livello generale del potere, ma anche una grande massa di conoscenze ed analisi, in primo luogo quelle ecologiche. La partita è dunque aperta, e l’Assemblea nazionale costituente potrà dare il suo contributo, se solo la lotta per il potere, su cui continuamente l’attira il fronte rissoso della vecchia egemonia, non assorbirà tutte le sue energie.

Caracas e le avventure dell’egemonia

Download PDF

Compito del dibattito democratico è far deragliare il discorso dal binario morto della chiacchiera. È quanto sta accadendo in Venezuela, purtroppo in forme caotiche e disordinate. La convocazione dell’Assemblea nazionale costituente, in base all’articolo 347 della Costituzione vigente, sarebbe dovuta avvenire molto prima che la situazione degenerasse in scontri di piazza e atti di forza, anche per non lasciare spazio ai “mediatori”, vere volpi nel pollaio, e soprattutto per non caratterizzre la convocazione come un espediente difensivo. Ma la frittata è ormai fatta, e si può solo trarre l’insegnamento che, quando si esita ad usare radicalmente i meccanismi democratici, si finisce sempre in un vicolo cieco. La caduta del prezzo del petrolio avrebbe dovuto essere un’opportunità. Era chiaro che la petroeconomia redistributiva non poteva più essere portata avanti. Se si volevano salvaguardare le misure controegemoniche intanto introdotte nel ventennio precedente, dal “potere popolare” agli “interventi sociali”, e fare piazza pulita delle distorsioni insite nella natura stessa della petroeconomia, dalla corruzione alla “boliborghesia”, bisognava allora procedere prontamente, proprio con un richiamo legittimamente costituzionale del potere costituente, ad una fase nuova, in cui l’economia veniva ulteriormente socializzata, ovvero diversificata, con misure controegemoniche più avanzate, da scrivere nella nuova Costituzione. C’era il rischio di perdere tutto, ma c’era la possibilità di fare un passo avanti. Adesso, il sospetto del dispotismo aleggia su tutta la vicenda, a conferma che la controegemonia è un treno velocissimo che va assecondato attimo per attimo, altrimenti scatta il rosso del giacobinismo. Si può solo sperare che l’inventiva di chi sta ancora azionando le leve, riesca a sincronizzare i movimenti. In questo senso, sarebbe cosa opportuna che, qualora la nuova Assemblea costituente si insediasse e riuscisse a portare avanti felicemente i suoi lavori, i nuovi costituenti non dimenticassero di formalizzare che il contenuto normativo dell’articolo 347 è inviolabile anche per la nuova Costituzione. Infatti, il successivo art. 349 statuisce che «Il Presidente della Repubblica non può opporsi alla nuova Costituzione». Se, perciò, nella Costituente si formasse una maggioranza per eliminare il potere costituente dalla nuova Costituzione, nessuno potrebbe più richiamarsi ad esso in seguito, e ci sarebbe una caduta all’indietro irreparabile, nel binario morto della vecchia chiacchiera egemonica. Altri contenuti, inoltre, non puramente procedurali, andrebbero anche dichiarati come irreversibili, ma questo dipende dai rapporti di forza. Tutto quanto accade a Caracas, comunque, è assai più avanzato di quanto si è visto in quest’ultimo decennio in America latina. Infatti, in Argentina, nonostante lo shock del 2001, e gli elementi di socialità controegemonica da esso sprigionati, non si riesce a venir fuori dal pendolo frustrante tra (residuo) peronismo e ritorni di “reazione borghese”. E, in Brasile, tutta la panoplia dei meccanismi legali dell’egemonia in atto sono serviti a far fuori la presidentessa eletta, con l’unica alternativa di scontri di piazza per fortuna non avveratisi. Il che significa che nel decennio di Lula non si è fatto alcun serio lavoro controegemonico, a cui appigliarsi nel momento della risacca dell’egemonia in atto. C’è la resistenza accanita di Cuba, che stava per cadere nella trappola tesagli da quella volpe di Obama1, e che paradossalmente può ritornare sui propri errori grazie alle nuove “chiusure” di Trump, un presidente “politico” che, non essendo più disposto a leccare il culo alla globalizzazione “a prescindere”, riporta in auge provvidenziali (per la controegemonia) stilemi ideologici del passato. L’egemonia, insomma, vive i suoi bei giorni nell’emisfero americano, mentre in Europa langue, tra la protervia dell’egemonia in atto – il cinismo “socialdemocratico” della Merkel, la decrepita arroganza della May, il neobonapartismo di Macron, il cesarismo plurale di Renzi-Grillo-Berlusconi; e l’impotenza della controegemonia – l’assalto fallito di Corbyn, l’agitarsi teatrale di Mélenchon, il miserevole riallineamento di Syriza, il caos spagnolo, l’inedia italiana.

  1. Federico Rampini, su “la Repubblica” del 16 giugno 2017, spiegava come meglio non si può il senso delle “aperture” obamiane: «oltre mezzo secolo di sanzioni e di embargo non hanno piegato il regime castrista, forse ci riuscirebbe invece la penetrazione del capitalismo, gli investimenti yankee, il business che porta benessere e aumenta i flussi di visitatori» []

Maggioritario o proporzionale: il linguaggio della verità

Download PDF

Un auspicio ragionevole sembrava quello che la prossima legge elettorale fosse quanto più proporzionale è possibile, in modo da rimettere in sintonia sistema elettorale e rappresentanza di classe, unico modo per ridare vita ai partiti, rendendo facile all’elettore distinguere, nelle loro sfumature, tra partiti votati a gestire la macchina produttiva esistente, e partiti che si prefiggono di cambiarla. Ma mai essere ragionevoli, perché si corre il rischio di essere stupidi. La realtà infatti si è incaricata di mostrare che i più sfegatati adepti del proporzionale sono Renzi e Berlusconi, mentre la galassia della sinistra è insidiata dal richiamo delle sirene della “coalizione”. Che dire? La borghesia, anche quella italiana, così provinciale e affaristica, mostra di avere sempre i riflessi più pronti di un rintronato proletariato, imbevuto di falsi discorsi sulla sparizione della classe operaia, sulla morte del lavoro ad opera dell’automazione, sulla necessità del reddito di cittadinanza (leggi: sudditanza), e via degradando verso una totale mancanza di una chiara cultura di classe. È forse morto il plusvalore? Basterebbe rispondere a questa domanda, e tutto quel ciarpame sociologistico a cinque stelle svanirebbe di colpo. Ma l’argomento del giorno resta la legge elettorale, con cui chi tiene l’anello della catena saldamente nelle sue mani cerca di costruirsi un apparato legale per mettere fuori gioco in modo formalmente corretto ogni disegno di porre fine alla crisi economica ormai decennale, andando oltre il modo di produzione capitalistico. Questa è la posta in gioco. Nel ’23-’24, la stabilizzazione fu ottenuta con una legge maggioritaria, la legge Acerbo, supportata dal manganello. La società fu militarizzata, e tutto ciò si autoproclamò fascismo. Oggi la militarizzazione a bastonate non è possibile, ma esiste l’infinitamente più potente obbligo autoimposto del consumo, pur con i redditi che si sfarinano. E poi c’è il bastone del debito, da agitare quando si smantella il Welfare. È un ritorno accresciuto di fascismo che, lo si sarebbe ormai dovuto comprendere, è la tendenza che il capitalismo assume ogniqualvolta l’intensificazione dell’estrazione di plusvalore suscita crescenti resistenze oggettive e soggettive. Resta il fatto che, nel 1924, pur con il manganello Acerbo, i partiti di sinistra riuscirono a far eleggere una sessantina di deputati, diciannove per l’esattezza il solo Partito comunista di Gramsci e Bordiga. Questo per dire che è sciocco impiccarsi alle formule elettorali. L’identità, cioà la corretta declinazione di classe del partito, la si può coltivare sia con il proporzionale, che con il maggioritario. Bisogna solo scegliere il linguaggio della verità e della credibilità. Due virtù che, dai tempi di Gramsci e Bordiga, la sinistra ha smarrito da tempo nel calderone delle coalizioni, Prodi, e nello sfavillio delle chiacchiere televisive, Bertinotti, due emblemi della stessa miseria. Maggioritario o proporzionale, la sinistra invece dovrebbe solo proporsi accanitamente di ricostruire una “minoranza eletta”, capace di offrire l’esempio di una integrale politica di classe, il cui punto fondamentale di programma dovrebbe essere la fine della crisi. Se c’è qualcosa infatti oggi che angoscia uomini e donne è il protrarsi di questa agonia, che i vecchi stregoni del passato vorrebbero protrarre imbellettando la faccia cadaverica del moribondo con i colori di una ricchezza privata che non è più possibile perseguire senza mettere a rischio l’esistenza stessa della società, nel suo lato sociale e in quello naturale. In proposito, il caso Macron dovrebbe insegnare qualcosa: una vecchissima ricetta, il Bonaparte di turno che incita la brava nazione borghese ad arricchirsi, come se ancora le provincie francesi fossero piene di tanti Papà Goriot da mungere per scalare le posizioni sociali nel bel proscenio di Parigi. Di fronte a tanta menzogna, che si sostanzia solo di ulteriori giri di vite sulle condizioni del lavoro, la sinistra allora dovrebbe avere l’elementare ma titanico coraggio di parlare il linguaggio della verità, spiegando che, in Europa, ancora una volta punto di volta del mondo, la crisi finisce se cambia la classe economica che sta al potere. Naturalmente, questa spiegazione tutto dovrebbe essere che una lezione ex cathedra. Dovrebbe essere invece una spiegazione appassionata, capace di colpire la fantasia, e muovere all’azione uomini e donne disillusi, piegati dalla sorte avversa, o anche solo ignoranti. Perché se c’è qualcosa da riportare all’onor del mondo è la vergogna della propria ignoranza, ottenuta mostrando che solo la conoscenza vera, frutto di un costante dialogo tra chi la ricerca, può guidare i sentimenti verso gli scopi che la vita si pone per raggiungere il proprio sviluppo integrale.

Il dolce stil novo della finanza che ha ammazzato la Grecia

Download PDF

Che giornata! Sul Corriere di oggi, sabato 17 giugno 2017, l’informazione sul massiccio sciopero dei trasporti di ieri, venerdì 16 giugno, si riduce alla semplice citazione, quasi en passant, della organizzazione sindacale che l’ha indetto: “la Confederazione unitaria di base (CUB) e sigle minori”. Per il resto, pur ammettendo che lo sciopero ha sconvolto l’Italia, ha cioè avuto una amplissima adesione da parte dei lavoratori, neanche una parola su cosa siano questa CUB e le altre “sigle minori”, e sul perché queste organizzazioni hanno indetto lo sciopero. Resoconto minuzioso, invece, dei gravi disagi patiti dai viaggiatori, intervista al docente di diritto del lavoro per approfondire i possibili, futuri provvedimenti da prendere contro scioperi del genere, e intervista finale alla segretaria generale della Cisl, che da tempo, tra un acquisto e l’altro di sedi faraoniche da parte della sua organizzazione, definisce “populismo sindacale” il sindacalismo cubista e siglo-minoritario. Il Corriere però si riscatta non nascondendo, in un riquadro in taglio basso, che il grande patriarca Helmuth Kohl, morto il giorno prima, aveva un lato oscuro, distribuiva mazzette per assicurarsi il controllo assoluto del suo partito, la CDU.

Lo stesso trattamento informativo, ehm, è riservato allo sciopero dei trasporti da Repubblica, che addirittura dà voce all’anatema del ministro contro le minoranze che prendono in ostaggio il paese, ma il giornale scalfariano si riscatta riportando, in un unico solo rigo su tre pagine di giornale, che “la vendita delle aziende di trasporto ai privati è una delle principali ragioni dello sciopero”. Se a qualcuno è rimasto in mente il debolissimo ricordo della famosa lettera del 2011, di Draghi e Trichet al governo italiano, da quel rigo solitario come il passero leopardiano potrà evincere che questi lavoratori cubistisiglominoritari stanno continuando a combattere l’austerità e le sue politiche, mentre tanti predicatori televisivi si sbracciano dagli schermi a spiegare che la crisi è finita.

Repubblica però ci dà una bella dritta su Kohl: “pensava come de Gaulle e Adenauer che l’economia è subordinata alla politica”, e forte di questa convinzione spinse per il varo dell’euro. Ecco, se non avesse scambiato la politica per la sistematica corruzione degli avversari, avrebbe compreso che l’economia stava entrando in una fase nuova, in cui per dominarla, ci sarebbe stato bisogno di una politica nuova, non mazzettara. Invece scambiò fischi per fiaschi, e mise il bazooka, cioè l’euro, nelle mani degli incendiari, cioè i nuovi samurai del finanzcapitalismo (copyright, Luciano Gallino). Ma qualche pagina avanti, a proposito del memorandum con cui, sempre ieri, venerdì 16 giungo 2017, Trump ha fatto piazza pulita del disgelo con Cuba avviato da Barack Obama, Federico Rampini ci spiega la logica stringente che ispirava tale politica: “oltre mezzo secolo di sanzioni e di embargo non hanno piegato il regime castrista, forse ci riuscirebbe invece la penetrazione del capitalismo, gli investimenti yankee, il business che porta benessere e aumenta i flussi di visitatori”. Ecco, leggendo queste righe dal sen sfuggite, si ha la prova ontologica dell’esistenza della dialettica. Grazie al dietrofront di Trump, infatti, Cuba è salva, anche contro i tentennanti e incauti suoi dirigenti, tentati di seguire le orme del grande pifferaio Deng Xiaoping, colui che ha portato la Cina in bocca al più spietato capitalismo. Ma perché Trump, il miliardario capitalista Trump, si fa strumento di questa felice piroetta dialettica? La sua svolta, ci dice Rampini, “è una conferma che per Trump la politica fa premio sull’economia”. Brutte notizie. Siamo tornati a de Gaulle e Adenauer. Ma Trump sarà di questa schiera o, come Kohl, confonderà fischi per fiaschi? Vedremo se l’establishment democratico-repubblicano, avvezzo a trent’anni di globalizzazione liberal-liberista, gli darà il tempo di manifestarsi in un senso o nell’altro, fremente com’è di sbalzarlo di sella con l’impeachment del fantomatico Russiagate.

La giornata non è finita. Sempre in Repubblica, nelle pagine della cultura, ehm, viene recensito un libro edito dalla Nave di Teseo, novella e birichina casa editrice di ambiziosi progetti, a firma di due buontemponi, l’ex industriale, romanziere da premio Strega, deputato montian-centrista Edoardo Nesi, e il finanziere, scrittore anzitempo di autobiografie, fondatore di boutique finanziarie dal rassicurante nome teologico, Kairos, ovvero il tempo designato nello scopo di Dio, il Dio mammona del qui e ora, Guido Maria Brera, i quali due esternano tutto il loro disagio sulla crisi in corso dal 2007. Ecco alcuni crucciati pensieri del teologo finanziere, riportati nella recensione: “non mi piaceva per nulla impoverire i greci. Lo facevo, certo. Perché dovevo. Lo dovevo ai miei clienti: al mandato fiduciario che mi avevano dato e che consisteva nel farli guadagnare. Se per qualche ragione avessi smesso di farlo, qualcuno avrebbe preso il mio posto”. Guido Maria Brera confessa che, a forza di queste speculazioni teologico-monetarie, “dormire diventò difficile, e raro“, e subito il romanziere discepolo del gran tecnico Mario Monti, premuroso rincalza: “che fine ha fatto la funzione principe della finanza di cui parlavi prima, Guido, la ragione profonda e irrinunciabile per cui era stata creata secoli e secoli fa, e cioè portare soldi a chi vuole investire nell’economia reale?”. Ecco cos’è il dolce stil novo finanziario: Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento / e messi in un vasel, ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio. È proprio un bello spettacolo, questo di Edoardo e Guido, che nel vasel di Teseo vanno incantati per lo liquido mare del denaro. E si stupiscono. Ma, sordi a tanta poesia, ci si chiede se mai sorgerà un’Alta Corte di giustizia che acquisisca come prove irrefutabili le sfrontate, ancorché dolenti, ammissioni circa il genocidio dell’economia greca, e proceda alle doverose condanne.