Archive for Francesco Aqueci

Cesarismo plurale, aggiornamenti.

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Nei manuali di scienza della politica si parla di cesarismo quando al vertice di un regime non c’è un gruppo più o meno ristretto che esercita il potere, ma un solo leader, i cui rapporti con i suoi seguaci sono di tipo plebiscitario. Il cesarismo, allora, viene definito come un regime politico di transizione, che sorge in risposta alla decadenza di istituzioni politiche preesistenti, ed è fondato su un rapporto emotivo fra leader e cittadini. In aggiunta a questa definzione di base, continuano i manuali di scienza politica, il cesarismo come bonapartismo introduce il conflitto di classe. Nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, infatti, Marx assume che il bonapartismo si afferma quando c’è uno stallo nel conflitto fra le due principali classi sociali, la borghesia e il proletariato. Poiché il terzo attore, i contadini, non riesce ad organizzarsi come soggetto collettivo, essendo disperso sul territorio e privo di legami organizzativi stabili, il leader che emerge sfrutta la forza degli apparati dello Stato (burocrazia, forze armate, corpi di polizia, ecc.), e riesce ad operare come forza autonoma. A questo quadro marxiano, dicono ancora i buoni manuali, Gramsci apporta la distinzione tra cesarismo “progressivo” e cesarismo “regressivo”. Il cesarismo, ovvero la soluzione “arbitrale” di un “equilibrio catastrofico” fra classi in lotta tra loro, è progressivo quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare, regressivo quando aiuta a trionfare la forza regressiva. Progresso e regresso restano evidentemente da definire, ma qui possiamo mettere da parte i manuali, e volgerci direttamente alla realtà politica, la quale, in questo momento, in Italia, ha caratteri così particolari, che i manualisti difficilmente riuscirebbero a farli entrare nelle loro categorie: 1) al vertice dell’organizzazione politica ci sono non uno, ma tre cesari, specialisti nel richiamo emotivo-plebiscitario, in competizione tra loro, ovvero Renzi, Berlusconi e Grillo. Salvini sgomita, ma non riesce ad assurgere al loro rango; 2) c’è un regime politico di transizione, il cui emblema è il maggioritario, variamente denominato in latino maccheronico, sorto in risposta alla decadenza di istituzioni politiche preesistenti, la cosiddetta Prima Repubblica; 3) ognuno di questi leader rappresenta un segmento degli interessi non di due classi contrapposte, ma di un’unica grande classe, divisa e frammentata al suo interno (grandi banche, finanza, grande industria privata e di Stato // vecchia e nuova industria “protetta”, alto parassitismo di Stato, economia illegale // piccola e media impresa, economia sommersa); 4) non c’è né progresso, né regresso, poichè, essendo state abolite le ideologie, sono rimasti solo i fatti bruti; 5) lo Stato va con il pilota automatico, mentre la democrazia è ridotta ad una “messa in scena” in cui i tre leader tentano e ritentano patti e contropatti, con l’intento di farsi fuori a vicenda. Come definire questa bizzarra composizione? Ai manualisti si potrebbe suggerire il termine di cesarismo plurale1, con ciò appunto indicando una situazione in cui il gioco politico, libratosi in cielo come un pallone sfuggito di mano, fluttua nell’aria senza più un riferimento alle cose reali. Ma perché, si potrebbe obiettare, parlare di cesarismo plurale, e non semplicemente di triumvirato? La storia, si pensi alla fine della repubblica romana, offre esempi illustri di terne di politici che si contendono le spoglie di istituzioni morenti. Ma il triumvirato prelude, se così si può dire, al cesarismo singolare. C’è la catastrofe di un equilibrio da cui si esce con una catarsi. Il nostro, invece, è un triumvirato bloccato, in cui l’intreccio non si scioglie mai. A tratti, Renzi e Berlusconi tentano una diarchia, prima con il “Nazareno”, ora facendo intravedere la “grande coalizione”, la quale però presuppone un PD divenuto definitivamente PdR, partito di Renzi. Ma la minoranza degli Orlando e degli Emiliano starà a guardare? E se Forza Italia si rivelasse un pilastro friabile? Grillo potrebbe incassare tutta la posta, ma quali sarebbero i sobollimenti di quell’unica grande classe che al momento ristagna come un grande blob? L’accordo sul proporzionale “tedesco” fotografa tutti questi calcoli e retropensieri, ognuno, ancora una volta, essendo convinto di poter fregare l’altro. Ma senza sciogliere i nodi politici, da tutti invece elusi, il risultato potrebbe essere solo un definitivo blocco del triumvirato, tre signorie in perpetua guerra tra loro, con un’Italia completamente assorbita in un’Europa sinonimo di Germania.

  1. Una precedente nota su questo argomento è stata pubblicata su questo sito il 12.9.2014 []

Trump e il Tao G7 dell’Europa che verrà

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Il G7 di Taormina, come quelli che lo hanno preceduto, e quelli che lo seguiranno, è stato la solita passerella delle case regnanti democratiche, supportate dagli odierni cicisbei, le aziende di moda che colgono l’occasione per celebrare il cattivo gusto di questa sfrontata società dei ricchi. Tuttavia, non è stato un vertice inutile, perché ha messo in evidenza, come mai in passato, le contraddizioni che attraversano il gruppo di testa del capitalismo mondiale, identificato per figura retorica come Occidente. Contraddizioni che, diciamolo subito, fanno ben sperare in un prossimo futuro. Chi maggiormente incarna queste contraddizioni è Donald Trump. Un presidente detestato da tutti i sinceri democratici, cioè da tutto l’establishment che, globalizzando e liberalizzando, ha condotto il mondo nell’attuale palude. Ma detestato anche da tutti i sinceri regimi autoritari, a cominciare dalla Cina, che vede come il fumo negli occhi ogni misura antiglobalizzatrice che possa mettere in pericolo i suoi floridi commerci. La politica di Trump, che con accuse traballanti i sinceri democratici americani vorrebbero far fuori quanto prima, nei suoi chiaroscuri si sta cominciando a delineare, e il G7 è stato un proscenio ideale per una sua prima rappresentazione.

Come ha mostrato a Taormina, con tutti i suoi atteggiamenti verbali e non verbali, Trump non è affatto contento del crescente peso economico della Germania che, squassando l’Europa, (scandalosamente, la Grecia continua a gemere), non solo mette in difficoltà il suo paese, ma getta la Russia nelle braccia della Cina. Quest’ultima è il secondo attore mondiale di cui Trump vuole contenere l’aggressività economica. La Germania ha avvertito immediatamente il pericolo, e infatti la Merkel, in chiusura del G7, ha già chiamato l’Europa a non fare più affidamento sull’America, e a prendere in mano il proprio destino. Che cosa ciò voglia dire non si sa bene. Sembra solo il monito rabbioso di chi non ha piani alternativi. È facile prevedere che per la Germania si stia avvicinando il tempo in cui dovrà uscire dalla sua comoda posizione di potenza egemone riluttante. Se vorrà essere tale, dovrà farlo a viso scoperto, e le risposte che riceverà non saranno tutte positive, innanzitutto al suo interno, dove la grande coalizione rischierà di trasformarsi in una tomba di ghiaccio, dalla quale i superstiti socialdemocratici alla fine dovranno scappare per non estinguersi del tutto.

Lo stesso si può dire della Cina, le cui merci, spesso dall’infimo valore d’uso, incorporano nel loro valore di scambio uno dei più alti tassi di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, da parte di una “classe proprietaria”, debitamente allargata, che identifica l’“armonia sociale” con l’eternizzazione del proprio potere assoluto. Se la politica di Trump servirà a scuotere lo Stato che, dopo avere imbalsamato Mao, imprigiona in una nuvola di divieti il “grande spazio” sino-asiatico, avviando uno storico decentramento dalle possibili forme federali, sarà tutto di guadagnato non solo per la libertà, ma anche per l’uguaglianza, che non sia un orpello per promuovere una classe media dai comportamenti (a proposito di ambiente) ancora più consumistici di quella dello storico capitalismo metropolitano.

Tutte queste cose ovviamente Trump non le porta in dono come Babbo Natale. Trump è il plutocrate demagogo che sappiamo, e il suo scopo è di riportare in auge il complesso militare-industriale, di cui in questo momento è il commesso viaggiatore. Un accordo con la Russia, che Trump in ogni modo cercherà di chiudere, verterebbe sicuramente anche su “condivisioni” militari, e altrettanto ai paesi del sud Europa verrebbe offerto su questo terreno una via d’uscita dall’asfissia austeritaria. Ciò ovviamente preoccupa, altrettanto quanto preoccupano gli inarrestabili trionfi in Borsa della Silicon Valley, i cui imprenditori della sovrastruttura hanno fittamente mercificato la vita quotidiana dell’intero pianeta. È innegabile però che il capovolgimento delle priorità globalizzatrici che Trump intende operare riapre, con i suoi “effetti indesiderati”, la partita per tutti gli attori in gioco, grandi e piccoli. Certe dinamiche sarà difficile poterle controllare, e se ne vede già l’esempio in Inghilterra, dove i postumi della Brexit stanno avviando la May, come dicono gli ultimi sondaggi, allo stesso destino di Cameron.

In tutto questo, quale dovrebbe essere il ruolo della nostra cara Italia? L’Italia, che a Taormina ha così diligentemente svolto il ruolo di padrona di casa, dovrebbe staccarsi dalla crescente integrazione economica (manifatture per l’esportazione) e ora anche politico-istituzionale (proporzionale “tedesco”) con la Germania, se avesse una classe governante che ha a cuore l’interesse nazionale. Ma dov’è la borghesia italiana? E mancando la borghesia, si capisce che manchi anche una sinistra degna del nome. Bisogna aspettare dunque che la spinta venga dall’esterno. Dalla Francia, dove Mélanchon ha raccolto una forza che può mettere in crisi il fragile equilibrio cristallizatosi attorno all’esile Macron, la cui unica carta, come si è visto a Taormina, è di baciare la pantofola a Frau Merkel. Dall’Inghilterra, dove la tracotanza dei conservatori può regalare a Corbyn la più onorevole e più salutare delle sconfitte. Dalla Spagna e dal sorprendente Portogallo. L’Europa, insomma, è in fermento, e che l’Occidente tramonti, francamente è affare di Oswald Spengler e dei suoi nipotini. In ogni caso, il domani non sembra risiedere nei paesi dalle colossali economie emergenti ma, senza perciò essere eurocentrici, in quell’Europa dei Gramsci e degli Spinelli, solo per nominarne alcuni, che appare come l’unico posto al mondo dove la ripresa della “guerra di movimento” non sarebbe il grand guignol di massacri e teste mozzate, ma un effettivo avanzamento di forme economiche sociali e politiche realmente nuove.

Renzi, Macron, Trump, anzi Trumpon

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Dialogo carpito al bar, tra due compiti signori, probabilmente disillusi elettori della disastrata sinistra italica:

A: Rallegriamoci per Macron. Un Renzi, con una sola grande differenza: viene dall’ENA invece che da Rignano.

B: Su Macron dovrei un po’ argomentare per mostrare che è il Trump di Francia. Le vere elezioni sono state quelle del primo turno, dove la sinistra ha avuto quasi il venti per cento. La nequizia non sta dunque in Marine Le Pen, ma in un sistema elettorale che la fa divenire un polo d’attrazione. Per questo spero che da noi prenda piede un saggio proporzionale.

A: Affermazione della sinistra in Francia. Sì, ma quale sinistra? 

B: Quale sinistra? Quella che se non c’è nessuno che se ne curi, vota Le Pen, e senza la quale, la sinistra non esiste, ma esistono solo i demagoghi di turno, che ne carpiscono il consenso e la asserviscono alla… “borghesia”. Absit iniura verbis.

A: Ma perché Macron sarebbe il Trump di Francia?

B: C’è un termine antiquato, che si usava negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, ma che può servire ancora oggi a descrivere la situazione: plutocrazia. E i vari Renzi, Macron, Trump sono i demagoghi di questa plutocrazia. Il loro modo d’agire è lo stesso. Come delle crisalidi, distruggono il vecchio involucro dei partiti cosiddetti “tradizionali”, e prendono il volo come “nuove” farfalle sgargianti. I loro dialetti sono differenti, globalisti gli uni, protezionisti gli altri, ma la lingua è la stessa. La lingua delle élites ricche, alle quali essi, con la loro sfrontata demagogia, portano in dono il consenso delle sterminate classi povere o che si vanno impoverendo. Trump si è rivolto alla decaduta classe operaia dell’acciaio e delle vecchi produzioni novecentesche, Renzi e Macron parlano all’impaurito ceto medio europeo che nell’euro aveva visto il suggello del proprio raggiunto “benessere”. In francese, trumper significa ingannare. Trump, Renzi, Macron, in una parola un gran trumpon.

Scroscio di tazzine ritirate dal bancone. Occhiataccia del barista. Un cliente offre il caffé a tutti per festeggiare una vincita di venti euro al gratta e vinci.

Trump e i problemi dell’egemonia

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L‘ideologia nazionalista, neoisolazionista e primatista, cioè centrata sulla superiorità dell’etnia bianca, ha consentito a Trump di essere eletto con il voto decisivo dei proletari destrificati dall’ultima tornata di globalizzazione capitalistica. Ottenuto il potere, dopo alcune mosse puramente dimostrative, come il decreto sugli immigrati rigettato dai tribunali e l’attacco fallito alla riforma sanitaria di Obama, ha cominciato ad appoggiarsi a ex generali per la difesa e la sicurezza interna, e a governare insieme ad imprenditori e finanzieri come i ministri del Tesoro, degli Esteri e del Commercio, Mnuchin, Tillerson e Ross, e a banchieri ex Goldman Sachs, come Gary Cohn e Tina Powell, nominandoli consiglieri per l’economia e la politica estera. E tutto ciò, sicuro come sempre che, come lui stesso disse durante la campagna elettorale, «potrei sparare a qualcuno in mezzo alla Fifth Avenue e non perderei nemmeno un voto»1, ovvero sono il grande stregone di una politica ridotta a circo mediatico-pubblicitario, in cui mi si crede a prescindere. Trump, insomma, ha portato a termine con il suo brand la missione di perpetuare il periclitante dominio del complesso affaristico-militare2 che, in quella “grande disgregazione” etnica che è la società americana3, ha ancora il suo asse egemone nell’America wasp. Egli, adesso, può anche riposarsi, dedicandosi alle relazioni pubbliche, le sole in cui veramente eccelle, mentre i generali testano rabbiosamente i loro ordigni in territori che la ormai cronica mancanza di un governo centrale degrada a comodi poligoni di tiro, come in Afghanistan, in cui gli innocenti possono morire senza che nessun timorato di Dio debba temere di dover pagare i suoi crimini nel giorno del giudizio, anche perché è giusto ai fini di una sempre più faticosa pax mondiale a stelle e strisce andare a vedere il bluff atomico della Corea del Nord. C’è però chi pensa che i venti di guerra siano solo refoli delle grandi correnti commerciali. Tra questi, Romano Prodi, che vede in Trump il solito fasso tuto mi che la realtà si incarica di mettere a posto: «ma cosa vuoi fare e brigare con un paese come la Cina? Guardate come sta usando appunto la Corea del Nord: alla grande!». «Alla grande?», chiede il giornalista sbigottito. E Prodi, con l’allegria del commesso viaggiatore della grande globalizzazione: «La Corea del Nord vive perché la fa vivere la Cina. Materie prime, cibo. Gli americani lo sanno e vogliono che i cinesi si muovano. La verità è che per i cinesi la Corea del Nord vale un niente del commercio estero. E quindi possono anche chiudere il confine senza sacrifici: ma facendo così agli americani un favore enorme. E qui scatta il do ut des. Adesso, diranno, tocca a voi pagare: state buoni, per esempio, sulle restrizioni commerciali»4. E se la juche, questa ipertrofia dell’autonomia, fosse per la Corea del Nord non solo la garanzia della propria indipendenza, ma anche lo strumento della propria psicotica potenza? E se l’egemonismo cinico di Trump, costringendo la Cina ad un confronto con la Corea del Nord da cui uscirebbe perdente, la precipitasse in una nuova povertà, questa volta non più quella antica delle campagne, espressione di una arcaica stagnazione che aveva una sua sostenibilità sociale, ma quella di un urbanesimo industriale e terziario dai costi via via più grandi, e perciò tanto più degradata? Costringendola così a mettere in discussione il denghismo che l’ha retta sino ad oggi, e a riscoprire un maoismo ridotto ormai solo al collante nazionalistico? E il quadro diventa ancora più fosco se si considera la coda di paglia della Russia connection che il magnate americano assurto a uomo di Stato si porta dietro. Perché, nonostante la scaramuccia in Siria, è molto probabile che il suo egemonismo cinico faccia blocco, bon gré mal gré, con l’affarismo putiniano, cui è visibilmente subalterno. Ma che ne sarà di questo blocco quando entrerà in contraddizione con i “valori eurasiatici” – Dio, patria, famiglia tradizionale – tanto cari ad Aleksandr Dugin5, ascoltato consigliere di Putin? Saranno questi valori destinati alla stessa fine dei “valori cristiani”, di cui negli ultimi due secoli è stata custode nel blocco euroamericano la Chiesa di Roma, cioè a divenire foglie di fico di un mondo dominato solo dalla “non-etica degli affari”? Oppure, i dominati dell’Est e dell’Ovest, scoperto l’inganno degli infimi miglioramenti materiali derivanti dalla rivitalizzazione di produzioni “novecentesche” (auto, infrastrutture stradali, e tutto quanto legato a petrolio e cemento), si solleveranno selvaggiamente nella sovrastruttura, parlando il violento linguaggio degli antichi valori profanati6? Tutto ciò per dire che quando l’egemonia non è decentramento strategico ma cinismo elettorale, ovvero semplice forza corazzata di consenso, le cose non possono che prendere una brutta piega. E che contro questa reductio dell’egemonia alle arti magiche della persuasione, tipica dell’attuale dittatura del capitale, sbrigativamente denominata nelle sue multiformi manifestazioni come “populismo”, l’unica ricetta non può che essere il perseguimento della contro-dittatura. Lo dimostra il fatto che le deviazioni tattiche, da Tsipras a Sanders, non aprono vie per il futuro, ma demoralizzano e disperdono gli eserciti che dovrebbero condurre la battaglia contro-egemonica.

  1. M. Gaggi, “Sorprese e dietrofront: ma Trump non cambia la sua visione tribale della politica (e della vita)”, Corriere della sera, 15 aprile 2017, p. 2. []
  2. P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, (1966), Torino, Einaudi, 1968. []
  3. F. Aqueci, Il lupo per le orecchie. La questione meridionale al di qua e al di là dell’Atlantico, «Il Contributo», gennaio/dicembre 2014, pp. 29-61. []
  4. M. Aquaro, “La risposta di Pechino non ci sarà gli Usa cederanno sul commercio”, la Repubblica, 16 aprile 2017, p. 4. []
  5. F. Aqueci, Tra Dugin e Huntington. Epistemologia dello scontro di civiltà, «Politeia», n. 119, settembre 2015, pp. 10-23. []
  6. P. Cherchi, Il tramonto dell’onestade, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017. []

Il coro greco della tecnologia onnipotente

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Davide Casaleggio ci informa che «la velocità con cui si sta evolvendo la tecnologia è impressionante: il problema per la società è proprio questo. Non abbiamo mai dovuto affrontare uno stravolgimento cosi repentino e massiccio. Lo shock più forte sarà nel mondo del lavoro. Avremo milioni di disoccupati in tutto il mondo perché ci saranno software e robot intelligenti molto più efficienti. Certo: ci saranno nuove esigenze, nuove competenze saranno richieste, ma un’intera generazione di lavoratori rischia di essere esclusa da un giorno all’altro perché non saranno più necessari e non potranno riadattarsi, nel giro di così poco tempo, per le nuove mansioni di cui ci sarà bisogno»1.

Purtroppo, questa visione della tecnica come potenza inarrestabile non è solo di questo imprenditore del consenso che, desideroso com’è di espugnare un Palazzo Chigi sempre peggio presidiato, non esita a promettere il miraggio del reddito di cittadinanza. Se si escludono i balbettii della destra, a sinistra si odono accenti simili, quando si constata che la nuova economia delle macchine intelligenti, se vive di poco lavoro, crea però una nuova classe di imprenditori e investitori super ricchi. E, allora, se «le nuove tecnologie portano con sé un aumento della disoccupazione e della disuguaglianza, e se la tendenza è che i giganti digitali decuplichino i profitti con un decimo dei dipendenti, solo la tassazione di questi profitti e la loro redistribuzione col reddito minimo può salvare il meccanismo produzione-consumo su cui si regge l’economia»2.

Come si vede, fine del lavoro, avanzata travolgente della tecnica, società robotizzata, disuguaglianze crescenti, reddito minimo o di cittadinanza, sono tutti temi che trapassano l’uno nell’altro e dissolvono confini politici e distinzioni culturali. Di più, la sinistra si fa forte di vedere nel M5S il sintomo del cambiamento epocale, ma finisce per parlare il linguaggio del sintomo.

In questa discussione su un futuro che la dura condizione presente rende ancora più nevrotica, prendono corpo allora vaticinii circa un mondo prossimo venturo in cui le decisioni verranno prese da intelligenze esterne alla specie umana, che non sarà più in grado di comprendere i motivi o le catene di ragionamenti che le hanno determinate3. Ma è davvero pensabile che il mondo decisionale diventerà per noi opaco, e che ci fideremo di quello che faranno le macchine per noi fino a che non avremo la più pallida idea di ciò che hanno in serbo per la specie umana? È realistica la prospettiva che il padrone, delegando sempre più lavoro al servo tecnologico, in realtà diventi sempre più dipendente da lui e incapace di svolgere il lavoro da sé, producendo così un ribaltamento del rapporto tale che il padrone si subordina e il vero padrone diventa il servo?

Già il fatto stesso che si evochi la dialettica hegeliana di servo e padrone, mostra che la questione non è la tecnica, ma la sfida politica posta da una società neo-signorile, in cui il lavoro morto delle macchine artificialmente intelligenti alimenta una rinata classe schiavistica che, per mantenere il proprio dominio, concede volentieri alla massa esclusa dalla produzione viva il panem del reddito di cittadinanza o minimo che dir si voglia, e i circenses di una società del consumo degradata però a merci vendute a un costo marginale spesso vicino a zero.

Il rimedio, allora, non può consistere nella spoliazione dei giganti digitali per ricavarne una illusoria redistribuzione di ricchezza, un po’ l’equivalente della parcellizzazione dei grandi feudi, per la quale si batté nella prima metà del secolo scorso l’agonizzante mondo contadino, ma nel lottare contro un dominio politico riformulato in chiave neo-schiavistica, da cui, se non contrastato, non potrà che derivare una nuova glaciazione sociale, analoga a quella che colpì il colosso imperiale romano.

E nella scelta di questa lotta politica, che rientra pienamente nell’ispirazione culturale della sinistra, cui il M5S è estraneo, prigioniero com’è di una corta cultura che si esprime in un infantile fantapolitichese, la tecnica non diventa affatto un nemico da cui guardarsi, ma un alleato di cui giovarsi. È un nemico se si parte dal presupposto che la battaglia contro la nuova società signorile alle viste è persa in partenza. Allora, avanzerà inarrestabile l’automazione, ovvero l’eliminazione della presenza umana dai processi produttivi, che confermerà la profezia dell’inevitabilità dell’avvento della nuova società signorile, cui non resterà che acconciarsi. Se, al contrario, si giudica che quella lotta è aperta, e ci si attrezza politicamente per combatterla, allora avanzerà non l’automazione, ma l’interazione tra gli uomini e le macchine4, al cui centro non starà il profitto, ma la soddisfazione di bisogni la cui quantità e qualità dipenderà dal processo interattivo stesso. E qui ci si potrà approssimare a quella onniproduttività che Marx ed Engels espressero con l’ideale dell’individuo che la mattina va a caccia, il pomeriggio pesca, la sera alleva il bestiame, e dopo pranzo critica, cosí come gli vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico5.

A Mark Zuckerberg, cui piace tanto atteggiarsi, perfino nella pettinatura, a novello Cesare Augusto, e che rivendica orgogliosamente il proprio status di capitalista, ivi compreso il diritto di eludere le tasse, bisogna dunque strappare non i profitti, ma il comando sociale impugnato, assieme ai Bezos, Page, Gates, Jobs, e tutto il corteggio di questi nuovi dei, reificando la tecnica, della cui oggettiva e inarrestabile potenza il coro greco di filosofi, sociologi e futurologi, vuole convincerci.

  1. D. Casaleggio, “Noi M5S come Netflix. Il candidato premier? In autunno il nome”, Corriere della sera, 3 aprile 2017, p. 6. []
  2. N. Rosa, “Il lavoro nell’era dei robot”, 3 aprile 2017, http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=28517 []
  3. A. Moroni, “Facebook, Intelligenza artificiale e punto di singolarità”, http://www.angelomoroni.com/2016/01/18/facebook-intelligenza-artificiale-vicina/ []
  4. J. Lojkine, J.-L. Maletras, “Faut-il avoir peur du numérique?”, l’Humanité, 17 maggio 2016, p. 12. []
  5. K. Marx, F. Engles, L’ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 24. []