Archive for Francesco Aqueci

Palestina, una via senza uscita

Download PDF

La soluzione due popoli due Stati che, memori dei lontani e alquanto mitizzati Accordi di Oslo del 1993, si continua a prospettare per risolvere il problema palestinese, tradotta nel crudo linguaggio della realtà politica effettuale significa un trasferimento di potenza dal già costituito Stato di Israele, armato di tutto punto compresa la bomba atomica ben celata in qualche rotolo della Torah, all’ancora da costituire Stato della Palestina, implume come un pulcino ma fiducioso della potenza che Allah non vorrà negargli. Le vie di questo trasferimento sono due, o quella diplomatica o quella guerresca. Quella diplomatica, basata sull’avvio mai verificatosi della peristalsi di un capitalismo regionale nelle intenzioni bipartisan, si è cercato di percorrerla in passato ma un colpo di pistola alla schiena di Yitzhak Rabin l’ha interrotta. Quella guerresca in questi giorni vive un suo ulteriore capitolo in cui Hamas ha approfittato trucemente degli ozi di Capua su cui Israele ultimamente si era adagiato, mettendolo davanti all’alternativa diabolica di accettare tale trasferimento, secondo modalità alla cui fissazione poi parteciperebbero le altre potenze regionali supervisionate dalle rispettive potenze mondiali di riferimento, oppure di perpetrare un ennesimo, storico massacro, come sembra intenzionato a fare, che ne macchierebbe per generazioni e generazioni la già discutibile reputazione (ovviamente immacolata a prescindere per i pasdaran del Grande Occidente). C’è dunque in corso in questo momento una prova di forza nella quale come mai in passato Israele può essere costretto a cedere qualcosa della sua supremazia assoluta e i palestinesi possono guadagnare una posizione più favorevole per cominciare a costituirsi in una entità statualmente meno ectoplasmatica. Ciò sta a significare però che la pace in Palestina non è per domani e nemmeno per dopodomani, non solo per le modalità e l’esito in sé di questa prova di forza ma anche e soprattutto perché una volta che si pervenisse ai due Stati essi, come si può facilmente intuire, entrerebbero ben presto in contrasto su tutte le questioni su cui la via diplomatica in tutti questi anni non è riuscita a trovare un qualche accordo. Non si vede perché, infatti, il nazionalismo euro-israeliano e quello arabo-palestinese, rinfocolati già ora dai loro atavismi religiosi, dovrebbero svanire proprio quando la potenza di Stato consentirebbe loro di regolare definitivamente i conti. Se l’attuale realtà politica effettuale in Palestina è senza via d’uscita,  ciò è dovuto al fatto allora che il conflitto, da qualsiasi parte lo si affronti, è imbozzolato in un nazionalismo che, ad un tempo, corrompe le classi ma consente alle rispettive borghesie di continuare a ingrassarsi o con il più sofisticato dei capitalismi agrario e industriale (Israele) o con la corruzione (Palestina) o con la rendita energetica (Stati arabi). La prova di ciò sta nella marginalità politica in cui langue la composita classe operaia dell’area in questione che nella componente palestinese diventa addirittura marginalità esistenziale. Basta informarsi su cosa accade nei valichi di frontiera, dove all’alba passano i lavoratori palestinesi diretti nei campi degli “avanzati” agricoltori israeliani, subendo ogni sorta di umiliazioni e di respingimenti. O basta considerare la sorte dei contadini palestinesi proletarizzati costretti a vendere la propria forza lavoro nei parchi industriali israeliani tirati su, in combutta con imprenditori palestinesi, nelle terre loro espropriate dove Tsahal, vero e proprio braccio armato del capitalismo israeliano, ha costruito quel moltiplicatore economico che è il Muro. O basta non ignorare che un lavoratore palestinese, se ha un’occupazione in Israele, deve avere un permesso di lavoro e di soggiorno che spesso si ottengono solo con l’intermediazione di broker che trattengono anche il 30% del salario, subendo per soprammercato quotidianamente le vessazioni dei check point di cui si diceva prima, iniziando la giornata alle quattro del mattino per finirla alle dieci di sera, versando i contributi in Israele senza avere diritto all’assistenza sanitaria e alla pensione. E un po’ meglio invece va se il lavoro è nella Cisgiordania, dove vi è sì, più “libertà”, ma il salario è un terzo e il sistema sociale è un mero abbozzo. In questi giorni nei talk show sta furoreggiando l’affermazione di Giulio Andreotti secondo la quale se nasci in un campo di concentramento quale è Gaza non puoi non diventare un terrorista. Come tutte le arguzie di questo grande statista dal bacio facile, anche questa è una nebbiolina buona come un suffumigio per ammorbidire le grosse fauci della coscienza borghese. In Palestina, ma in generale dalle parti del Medio Oriente, non si diventa terroristi perché si nasce in un campo di concentramento, ma perché il capitale sfrutta il lavoro nella maniera più brutale, cioè secondo modalità in cui non esiste nessuna prospettiva non tanto di una trasformazione rivoluzionaria di tale condizione di sfruttamento, ma neppure di una sua mitigazione opportunistica o “riformistica” che dir si voglia, com’è nel caso del capitalismo metropolitano di cui Israele nel suo complesso è parte integrante. Perciò assieme al tedio che provoca l’irrancidimento nazionalistico della questione arabo-israeliana, monta soprattutto l’infinita pietà per i tanti esseri umani che nei modi più orribili a causa di esso perdono la vita.

I tre strati della guerra ucraina

Download PDF

Partiamo da una domanda stupida, come quelle che si fanno chiacchierando davanti a una tazzina di caffè: la Russia ormai da trent’anni è un paese capitalistico; perché allora questa acerrima ostilità con gli Stati Uniti? Qualcuno inviterà già a precisare: in Russia c’è un capitalismo con caratteristiche russe. Certo, è una differenza. Ma a cosa ricondurla? E se tale differenza c’è, basta a spiegare l’acerrima ostilità? Forse che le potenze capitalistiche non si sono mai fatte la guerra? Sorbiamo un sorso di caffè e ripartiamo da capo. Nella guerra in Ucraina vi sono tre strati, lo strato del carnaio, lo strato ideologico e lo strato politico. Lo strato del carnaio è quello in cui un uomo quando è colpito da un proiettile o salta su una mina diventa un pezzo di carne sanguinolenta. La guerra in Ucraina sarà pure ibrida e altamente tecnologica, ma su una salda base di carne maciullata. I video in rete che lo provano non mancano. Lo strato del carnaio, presente in ogni guerra, è quello cui si richiamano coloro che denunciano l’“inutile strage”. Più cresce, più aumenta l’eccitazione di coloro che si esaltano alla vista del sangue ma anche lo sdegno di coloro cui ripugna, sino a quando dietro la spinta dell’istinto di sopravvivenza il parossismo del carnaio non straborda negli altri strati alla ricerca della “pace”. La controffensiva degli ucraini in corso in questi giorni sta facendo crescere il carnaio ma ancora non nella giusta misura da imporre tale ricerca. Che in ogni caso richiede che si passi alla considerazione degli altri due strati. Lo strato ideologico della guerra ucraina è dato dalla guerra civile culturale in corso all’interno del mondo russo che è l’espressione maggiore del mondo slavo a sua volta depositario autentico dell’Ortodossia. La Jugoslavia è stata l’anteprima di tale guerra civile culturale che ora dilaga apertamente nel più ampio contesto russo. Il nocciolo di tale guerra è il processo di secolarizzazione in corso nell’Ortodossia che avanza lentamente ma inesorabilmente. Liberandosi dell’ateismo di Stato della rigida forma di comunismo impiantato dai bolscevichi, l’Ortodossia pensava di aver guadagnato l’eternità ma non aveva visto il vero pericolo che incombeva sulla sua esistenza millenaria, ovvero il ritorno in forze del capitalismo in cui non è più lo Stato che preme per liberarsi di Dio ma la “società civile” per abolire le pastoie morali cui i pope fanno da guardia. Se l’Ucraina è la punta di lancia della secolarizzazione ortodossa, ciò non vuol dire che Putin è il chierichetto di Kirill. Papa Francesco ha ragione a rovesciare argutamente quest’immagine perché così, lo voglia o no, ci introduce al terzo strato della guerra ucraina, quello politico dei rapporti imperialistici. La secolarizzazione ortodossa in corso, con le profonde divisioni che provoca nel mondo slavo, è lo strumento mediante il quale l’imperialismo statunitense cerca di sopraffare l’imperialismo russo per potere perpetuare la propria supremazia mondiale. Lo scontro imperialistico, che da più di un secolo è la modalità di esistenza del capitalismo, si gioca oggi su tre formule egemoniche, l’unipolarismo con la variante multilaterale, il multipolarismo e l’umanità come comunità di destino comune. La prima formula è quella entro cui oscillano gli Stati Uniti e i loro vassalli europei, la seconda è quella per cui si batte la Russia convinta così di poter trasformare il mondo in un consesso oligarchico in cui spartirsi potere e ricchezze, la terza formula è quella della Cina nel suo ancora esitante imperialismo verso cui la sospinge quel capitalismo di cui si serve per sviluppare il suo “socialismo dalle caratteristiche cinesi”. L’acerrima ostilità tra Stati Uniti e Russia non è dunque un’eredità della “guerra fredda” ma un’ostilità imperialistica. La “guerra fredda” fu lo strumento per bloccare il tentativo di modificare la base d’essere del mondo dal capitalismo al socialismo. È una fase conclusa della storia del mondo perché oggi in primo piano è di nuovo lo scontro imperialistico in cui Stati capitalistici più potenti divorano Stati capitalistici meno potenti. Potrà la Cina con il suo pallido marxismo da Seconda Internazionale riprendere il discorso del cambio di base d’essere del mondo? Sarà la “disumanità” del processo di secolarizzazione a imporre tale cambio d’essere? O tale cambio d’essere sarà rimesso all’ordine del giorno dal pericolo estremo della rovina della specie verso cui conduce lo scontro imperialistico nella forma di una guerra atomica? Quale che sia la direzione che prenderanno gli eventi è richiesto però un risveglio della coscienza anticapitalistica di cui la ripulsa del carnaio è solo una premessa.

La coscienza di classe a cent’anni da Storia e coscienza di classe

Download PDF

Per una celebrazione non puramente celebrativa del centenario di Storia e coscienza di classe un gruppo di tesi sulla natura della società capitalistica rinvenibile in essa può essere adoperato per chiarire il significato di due rivendicazioni avanzate da odierni esponenti della classe capitalistica, quella dell’uomo d’affari Warren Buffett circa il fatto che nei decenni successivi alla caduta del Muro di Berlino la lotta di classe l’avrebbero vinta i capitalisti, e quella dell’ideologo Francis Fukuyama secondo cui in seguito a quell’evento la storia è finita nel senso che con la vittoria del liberalismo sul comunismo essa avrebbe raggiunto il suo culmine. Le tesi utili a chiarire tali rivendicazioni possono essere così sinteticamente riassunte. La prima sostiene che nella società capitalistica l’essere sociale è lo stesso sia per la borghesia che per il proletariato, nel senso che per entrambe esso è immediatamente economico. La seconda pone che tale immediatezza comporta l’artificiale separazione e isolamento degli oggetti dalla totalità delle loro determinazioni reali al fine della loro quantificazione economica quali valori di merci. La terza afferma che, sotto la spinta degli interessi di classe, mentre la classe borghese dimora nell’immediatezza occultando la tensione dialettica tra gli oggetti e la totalità delle loro determinazioni con categorie astratte come appunto la quantificazione, il proletariato deve oltrepassarla perché solo ripristinando la totalità delle determinazioni reali degli oggetti può risolvere la propria tensione dialettica in quanto esso stesso oggetto, quale forza lavoro mercificata, del processo produttivo. La quarta stabilisce che la conoscenza della totalità sociale e delle sue leggi di sviluppo storico prodotta dalla presa di coscienza di tale tensione dialettica da parte del proletariato pone le premesse rivoluzionarie per la fine dello sfruttamento capitalistico e per il passaggio a una forma superiore di organizzazione sociale1.

Alla luce di questo insieme di tesi, la rivendicazione della vittoria capitalistica nella lotta di classe e l’affermazione che la storia è finita con il trionfo del liberalismo sul comunismo che abbiamo citato sopra, significano che la classe borghese non solo ha trovato il modo di impedire al proletariato di andare oltre l’immediatezza economica neutralizzando così la sua funzione rivoluzionaria, ma ha anche imposto tale immediatezza come modo d’essere esclusivo dell’essere sociale. In altri termini, rivendicare la vittoria capitalistica nella lotta di classe significa dichiarare apertis verbis la dittatura capitalistica, trasformando così il portato spontaneo del processo storico in un contenuto esplicito della coscienza di classe borghese. E poiché ciò avviene non nell’involucro di una aperta dittatura politica, come accadde negli anni Trenta del secolo scorso, ma sotto il regime trionfante della democrazia liberale, ciò equivale a esplicitare il contenuto politicamente dittatoriale di tale regime pur continuando a proclamarlo come il regime della libertà universale.

Di fronte a tale pretesa, non è ozioso allora ritornare ai fondamenti teorici della dialettica storica della coscienza di classe, non solo in riferimento alle prese di posizione sopra discusse ma anche ad ambiziosi sistemi teorici, eretti ancor prima che il trionfo del liberalismo venisse dichiarato, volti a universalizzare la posizione di classe borghese. Al fine di un loro esame, necessariamente limitato agli aspetti essenziali, partiamo da una definizione neutralmente “scientifica” di coscienza sociale, secondo la quale essa è la visione idealmente razionale che i membri di una classe sono in grado di assumere riguardo all’intera struttura sociale al fine di determinare corsi di azione che siano universalmente accettabili dall’intera società. All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso una tale ricostruzione “universale” della coscienza sociale, proposta dal punto di vista liberale, è stata avanzata nei termini di un “velo d’ignoranza” inteso come posizione originaria assunta da individui desiderosi di dar vita a istituzioni giuste, spogliandosi da ogni condizionamento particolare, primo fra tutti il condizionamento di classe2. Ne è risultata una imparzialità astratta con cui statuire sulla distribuzione della ricchezza e del potere, non a caso denominati “beni primari”, in base al principio secondo il quale è legittimo che alcuni possano godere di una maggior quota di essi se il modo in cui li ottengono migliora la condizione di coloro che ne possono godere di meno3. A ben rifletterci, forse è in base a tale “diseguaglianza benefica” che oggi sembra accettabile che un manager possa guadagnare non quaranta volte, come nel 1970, bensì seicentocinquanta volte più di un operaio, a patto che il sistema complessivo consenta al governante di turno di concedere all’operaio un bonus fiscale di trenta euro in più al mese in busta paga.

Comunque sia, al fine di mitigare diseguaglianze simili, dall’attiguo campo liberale cosmopolitico si è levata la richiesta che nella competizione per i “beni primari” la perequazione non sia affidata solo alla tardiva comparsa di misure per “bisogni speciali”, ad esempio quelli di individui affetti da evidenti minorazioni come la cecità, ma che tali misure, anche per impedimenti come il maggior rischio di ammalarsi o vari gradi e tipi di patologie fisiche o mentali socialmente determinate, siano inserite sin da subito alla base dell’architettura istituzionale “giusta”, in modo da consentire che la complessiva dotazione umana degli individui (“funzionamenti”) possa essere messa in opera (“capacitazioni”) per il raggiungimento di una vita degna di essere vissuta (“vita fiorente”)4. Di questa richiesta già in sé limitata si direbbe che nella pratica neanche la parte concernente la perequazione delle minorazioni più evidenti sia stata pienamente accolta, ma ciò che qui importa osservare è che, con grande anticipo circa le pretese di imparzialità della “giustizia come equità” e le limitate richieste ad essa rivolte di un’imparzialità più “aperta”, dal campo teorico alternativo del proletariato proprio in Storia e coscienza di classe erano state avanzate lungimiranti concezioni critiche.

Si è mostrato anzitutto che i cosiddetti “beni primari” non sono oggetti in sé conclusi di cui soggetti isolati gli uni dagli altri possono appropriarsi in una gara in cui può rilucere la loro competenza morale, innata quanto quella linguistica5, ma appartengono invece, come abbiamo accennato già sopra, a un universo reificato in cui gli oggetti, in realtà merci, risultano da un isolamento artificiale dal complesso delle loro determinazioni reali, ad opera delle operazioni produttive del soggetto capitalistico che per i suoi interessi di classe non può andare oltre l’immediatezza economica e deve pertanto tramite teorie ad hoc occultarne il fondamento parziale6. Questa reificazione in cui tale soggetto è irretito si manifesta in una molteplicità di contraddizioni, dalla contraddizione storica, a quella sociologica, a quella ideologica, a quella infine epistemologica7. Ai nostri fini, quest’ultima è quella che qui ci interessa maggiormente. Essa mostra infatti che, essendo il capitalismo l’ordinamento produttivo in cui l’economia assimila l’intera società, la coscienza borghese dovrebbe razionalmente possedere la conoscenza della totalità del processo di produzione, ma a causa dei suoi interessi di classe ciò le è precluso, divenendo così impossibile la gestione teorica e pratica dei problemi incessantemente posti dallo sviluppo capitalistico8. Ora, l’ambiziosa e influente teoria morale della “giustizia come equità”, enunciata ben dopo il quadro critico cui abbiamo accennato, appare oggettivamente ricadere in tale contraddizione, poiché se da un lato con il “velo d’ignoranza” vuole ottenere la conoscenza razionale derivante dall’assimilazione economica capitalistica dell’intera società, dall’altro basa l’assetto morale “giusto” che con tale “velo d’ignoranza” vuole instaurare sull’ontologia economica parziale degli interessi capitalistici, come dimostra la giustificazione teorica delle crescenti sperequazioni derivanti dall’applicazione di principi come quello della “diseguaglianza benefica”.

Tuttavia, poiché contrariamente a quanto si possa pensare il campo teorico del proletariato è tutt’altro che monolitico ma anzi vi dominano contrapposizioni anche sin troppo vivaci, la concezione critica espressa in Storia e coscienza di classe, nonostante i cospicui risultati con essa ottenibili, è stata variamente contestata e rigettata. In particolare, la critica della società borghese da essa sostenuta servendosi della categoria della “contraddizione” è stata giudicata “ideologica”, cioè non “scientifica”, perché determinata dall’ideologia filosofica della contraddizione e dall’ideologia morale dell’uomo onnilateralmente sviluppato9. La nozione di coscienza di classe, inoltre, poiché privilegia la coscienza rispetto all’essere, è stata giudicata di natura idealistica e, con riferimento al proletariato, si è proposto di sostituirla con quella materialisticamente più tangibile di istinto di classe10, per la cui indagine si ritiene necessario indagare non solo i rapporti di produzione e quelli politici ma anche quelli ideologici, che sarebbero costituiti da sistemi di idee-rappresentazioni e sistemi pratici di attitudini-comportamenti (costumi)11.

Qui si può già osservare che più che al funzionamento dei rapporti sociali ideologici si è interessati a una classificazione dei loro contenuti, uno slittamento che, come vedremo, non può non avere conseguenze negative nella teoria e nella pratica. Ma andiamo avanti. In questa visione “scientifica” della coscienza di classe, si afferma che una rivoluzione deve agire non solo a livello delle idee ma anche dei costumi, siano essi politici, tecnici, burocratici, e ciò tramite forme organizzative specifiche12. Ora, posto che in rapporto ai differenti livelli di ogni formazione sociale devono esistere differenti organizzazioni della lotta di classe, al livello economico il sindacato, al livello politico il partito, al livello ideologico l’organismo di controllo ideologico, si richiama il fatto che, storicamente, mentre nella Rivoluzione sovietica Lenin propose di far corrispondere al livello ideologico un organismo emanazione del partito denominato “Ispezione operaia e contadina” che, nell’inedita situazione della dittatura del proletariato, traduzione statuale dell’egemonia del proletariato, doveva regolare i rapporti tra Stato e Partito, nella Rivoluzione Culturale cinese degli anni Sessanta del secolo scorso l’organo di controllo dei rapporti tra Partito e Stato fu individuato in un’organizzazione espressione autonoma delle masse con il compito di denunciare e criticare i dirigenti che, attenendosi ancora ai vecchi costumi, si distaccavano dalle esigenze della nuova vita rivoluzionaria. In questo modo si sarebbe realizzato un avanzamento teorico e pratico, poiché partito, Stato e organizzazione di controllo ideologico risultavano distinti13. Resta il fatto però che, permanendo la concezione dei rapporti ideologici non come ruoli da modificare ma come contenuti da sanzionare, l’azione di controllo di questo platonico Consiglio notturno14 si scaricava sull’esteriorità del comportamento e non sulla matrice soggiacente che lo produceva e riproduceva, sboccando così, com’è storicamente accaduto, nella repressione e nell’autoritarismo anche se esercitati dalle masse.

È qui che può soccorrere l’elaborazione successiva a Storia e coscienza di classe, sia dello stesso Lukács con la proposta di una democratizzazione della vita quotidiana, sia di Gramsci di una nuova egemonia come superamento del rapporto di subalternità. È evidente che il perseguimento di tali scopi comporta un processo di apprendimento che deve potersi riprodurre da sé inserendo nella sua struttura di base il principio cui corrisponde il senso etico-politico che si vuole far acquisire. Ma questo residuo “educativo” si scioglie nel fatto che non viene instillato un contenuto bensì una forma, la forma compiutamente razionale della reciprocità cooperatoria la cui più vivida descrizione, per una volta, si può rinvenire in una fonte del tutto indipendente dai dibattiti marxisti, quella dell’onesta critica conservatrice del modo di produzione capitalistico:

 

quando un governo ha preso possesso di tutti i mezzi di produzione e del controllo di tutte le imprese non può distribuire in salari e servizi pubblici più di quanto l’industria, così organizzata, sarà in grado di produrre; probabilmente, e forse beneficamente, produrrà piuttosto meno di quanto prima è stato prodotto da capitalisti privati e rivali, dal momento che ci sarà meno ardimento nel correre rischi e minore ansia di ottenere salari più alti. La società sarà forse più felice ma più debole e più rassegnatamente tradizionalista. La febbre del diciannovesimo secolo per l’improvvisa ricchezza e del ventesimo per le meraviglie della meccanica avranno ceduto ad una saggezza classica, ad un nuovo livello industriale della vita. Penso che un tale governo, se razionalmente guidato dalla scienza e dalla storia, potrebbe rivelarsi un custode più sicuro di tutti gl’interessi naturali e quindi moralmente più rappresentativo sia del governo tribale che di quello patriarcale nonché di quello elettivo. I governanti e gli amministratori sarebbero nominati non per mezzo di elezioni popolari, ma per cooptazione tra i membri di ciascun ramo dell’amministrazione, come una sorta di promozione quale quella in uso nell’esercito, nelle banche, nelle università o nelle gerarchie ecclesiastiche15.

 

Solo una lettura superficiale potrebbe scorgere qui il vagheggiamento romantico della “decrescita felice”, quando invece vi è il riconoscimento politico che un piano razionale fondato sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e guidato dalla scienza e dalla storia è ciò che può dare luogo al nuovo livello industriale della vita ispirato a una saggezza classica. Per gli apologeti dell’esistente, che da tempo immemorabile spendono le migliori energie per scacciare questo spettro, si tratta di offrire sempre nuovi alimenti alla febbre delle vecchie tendenze secolari. Alle ricchezze improvvise e alle meraviglie della meccanica ora si sono aggiunte le mirabilie della scienza cognitiva, dalle reti neurali alla robotica all’intelligenza artificiale, con tutti i benefici per il corpo e per l’anima che promettono di arrecare. Ma se scatta l’allarme per qualche loro possibile conseguenza indesiderata, allora arruolando Gödel e Aristotele si rassicura che l’intelligenza umana non potrà mai essere assorbita da quella artificiale né logicamente, stando ai teoremi di incompletezza algoritmica, né antropologicamente, data la determinazione affettiva dei ragionamenti umani che l’intelligenza artificiale potrà solo simulare ma mai effettivamente provare16. Ma la mente desiderante, la sola che provando dolore e piacere produrrebbe religioni e ideologie, non la si mette in salvo magnificando le caratteristiche che la natura le avrebbe conferito dall’eternità. Non è la mente umana in astratto che produce religioni e ideologie, ma sono i modi di produzione, con cui i bisogni umani vengono soddisfatti, che estendendosi lungo le ere producono la storia. E i modi di produzione non sono semplici classificazioni ad uso degli storici ma modalità d’esistenza dei rapporti sociali. Bisogna capire allora cosa accade nei rapporti sociali capitalistici se l’esigenza di profitto intrinseca al capitale si afferma sostituendo progressivamente il lavoro vivo manuale e intellettuale con il lavoro artificiale robotico e algoritmico. E la conseguenza principale non può che essere, da un lato, la rarefazione dei rapporti produttivi e, dall’altro, il rigonfiamento di quelli ideologici in cui masse sempre più vaste di piccoli signori, divenuti tali dopo l’espulsione dai rapporti di produzione, soddisfano bisogni sempre più artificiosi comandando legioni di schiavi logico-meccanici per definizione incapaci di quella “presa di coscienza” di cui invece sono state storicamente capaci le masse salariate. Di fronte all’evenienza di un simile parassitismo, anziché adeguarsi alla presunta forza irresistibile dell’“innovazione”, appare invece sempre più necessario perseguire quel nuovo livello industriale della vita il cui governo non più tribale, non più patriarcale, non più elettivo, ma semplicemente “amministrativo” l’onesto critico conservatore del capitalismo addita come il sistema che meglio può garantire tutti gli interessi naturali. Con le sue vittorie e le sue disfatte, con le sue acquisizioni e i suoi errori, sinora l’interprete più coerente di questa prospettiva è stata la coscienza di classe proletaria così profondamente indagata in Storia e coscienza di classe, che nella politica secolare può però allargarsi a coscienza di specie per tradurre finalmente quella prospettiva in una forma di vita universale.

 

  1. G. Lukács, Storia e coscienza di classe (1923), trad. it. Sugar Editore, Milano 1967, p. 214 ss. []
  2. J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), trad. it. Feltrinelli, Milano 20083, p. 142 []
  3. Ivi, p. 104 []
  4. A. Sen, L’idea di giustizia (2009), trad. it. Mondadori, Milano 2011, p. 240 ss., p. 270 []
  5. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 64 []
  6. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, cit., p. 85, p. 216 []
  7. Ivi, pp. 80-83 []
  8. Ivi, p. 83 []
  9. L. Althusser, Socialisme idéologique et socialisme scientifique (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, Puf, Paris 2022, pp. 67-68 e p. 97 []
  10. Ivi, p. 99 e nota 2 []
  11. L. Althusser, Sur la révolution culturelle (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, cit., pp. 302-03; Id., Sur l’idéologie. Fragment inédit de «Sur la révolution Culturelle» (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, cit., p. 320 []
  12. L. Althusser, Sur la révolution culturelle (1966), cit., pp. 303-04 []
  13. Ivi, p. 307 []
  14. Platone, Leggi, XII, 960-966 (Tutte le Opere, Sansoni, Firenze 1974, p. 1389 ss.). []
  15. G. Santayana, Dominazioni e Poteri (1951), trad. it. a cura di G. Buttà, in corso di pubblicazione, pp. 555-556 []
  16. F. Lo Piparo, Rassicurazioni utili per i catastrofisti e gli apocalittici. Tranquilli, l’intelligenza artificiale non soppianterà mai quella umana, «Il Foglio», 19 maggio 2023, p. 2 []

Politica secolare

Download PDF

Nel sesto cerchio dell’Inferno di Dante, la legge del contrappasso condanna gli eresiarchi epicurei che vi sono rinchiusi a non conoscere nulla del presente, mentre vedono oltre un certo limite nel passato e nel futuro. Nell’epoca di transizione in cui viviamo, potremmo paragonare la nostra condizione a quella di questi dannati. Archivi, documenti, ricostruzioni e interpretazioni storiche ci fanno conoscere con una certa approssimazione un passato più o meno remoto, e del futuro più o meno lontano intravediamo anche se vagamente qualche contorno, ma il presente, il passato e il futuro immediati sono immersi in una fitta nebbia che la nostra vista non riesce a penetrare. Parlare quindi di politica secolare, la politica del XXI secolo che giorno dopo giorno prende corpo nella “mala luce” del nostro sguardo offuscato, può avere un senso se almeno fissiamo alcuni criteri che ne elevino l’analisi a qualcosa di più che una vuota convenzione cronologica. Il primo di questi criteri è che obiettivo dell’analisi siano questioni rappresentative delle tendenze mondiali; il secondo, che l’analisi teorica sia ancorata a questioni storiche anch’esse di livello mondiale; il terzo, che le questioni analizzate abbiano un ruolo essenziale nelle modificazioni possibili della realtà avvenire. Con una scelta certamente soggettiva, dovuta a quell’oscura visuale di cui dicevamo prima, le questioni che ci sembrano soddisfare tali criteri sono la guerra mondiale endemica che ancora una volta ha il suo epicentro in Europa, i nuovi centri di potere mondiali che a causa e per effetto della guerra emergono nell’arena internazionale, i nuovi rapporti di classe, infine, che intrecciati con i nuovi rapporti internazionali delineano il corso politico complessivo del secolo. Dunque, l’Europa in guerra, l’egemonismo come fase ulteriore dell’imperialismo, il socialismo come terreno su cui ricercare le soluzioni delle nuove contraddizioni secolari – questi i tre nomi delle questioni che sembrano soddisfare i criteri sopra enunciati. Può sembrare strano che in un periodo in cui si proclama a gran voce la dissoluzione delle classi, si scelga il criterio di classe per l’analisi della politica secolare. In realtà il problema non consiste nelle classi il cui divenire sociologico scorre incessantemente, bensì nella coscienza di classe che fluisce più lenta e richiede la cura continua dei suoi argini. Negli ultimi decenni, l’incuria di chi avrebbe dovuto manutenerli e l’opera interessata di chi voleva arrestarne il corso, l’ha rinsecchita facendola ristagnare in piccole pozze non comunicanti tra di loro. Si prenda il caso delle ondate di emigrati italiani che negli ultimi decenni, circonfusi dalla destinazione glamour, si sono riversati su Londra e altre località inglesi alla ricerca di occupazione. Molti di essi, specie i meno istruiti, dapprima sono approdati nei casermoni di periferia zeppi di “negri” in cui già alle cinque della sera ci si barrica negli appartamenti; in seguito, indirizzati da efficienti uffici dell’offerta verso mansioni spesso rifiutate in patria – camerieri di bar e ristoranti, personale di servizio, baby sitter e dog sitter per la buona borghesia inglese, personale delle pulizie e della reception negli alberghi, ecc., hanno poi avuto accesso alle più sicure case a schiera della vecchia working class indigena e con il prestito iniziale assicurato loro dall’astuto governo inglese hanno messo su l’impresa di pulizie o la pensione per i cani quando i loro padroni vanno a svernare nell’assolata Italia, paese in cui questi lavoratori, quando vi ritornano in visita ai parenti, constatano l’inefficienza dell’avvio al lavoro, la mancanza di una politica della casa, la precarietà e l’arbitrio dell’impiego e della paga, finendo così per sentirsi a casa propria più nella nuova patria, che in quella vecchia di cui diventa inutile persino ricordare le lotte per il lavoro che pure le precedenti generazioni vi hanno combattuto. Ma, nella nuova patria, quando anche i “negri” dei casermoni di periferia hanno cominciato ad affiorare nei quartieri delle case a schiera adattando magari a moschea un umido garage, allora il proletariato indigeno, che già aveva mal tollerato l’intraprendenza degli immigrati bianchi di provenienza UE, ha protestato e ha votato per la Brexit, nel frattempo che in Italia ondate di “negri”, fortunati di non essere annegati nell’attraversamento del Mediterraneo, si accalcavano malvisti nelle periferie delle città, senza neanche la prospettiva delle terraced houses e del gruzzolo iniziale offerti dal più efficiente governo inglese. E tutto questo sommovimento è avvenuto senza che la “sinistra”, né quella inglese né quella italiana, si ponesse più il problema di tenere viva in questo proletariato, inglese italiano o “negro” che fosse, la consapevolezza dei rapporti di produzione in cui era immerso, impegnata com’era ad acquisire rispettabilità presso l’establishment. Questo esempio che, variando nazionalità e destinazioni, si potrebbe riscontrare in altre realtà europee e occidentali, si pensi all’ormai proverbiale idraulico polacco, mostra chiaramente come la coscienza di classe da totalità organica si sia rinsecchita in tanti bracci separati e in conflitto tra di loro, la questione di classe, quella nazionale, quella migratoria, quella razziale, quella religiosa, lasciando sulle mappe politiche il vuoto di un luogo incognito, la cui realtà di sfruttamento addirittura aggravatasi è divenuta invisibile agli stessi sfruttati che la assumono nella sua irreversibile fatticità. E, tuttavia, se all’operaio inglese che ha votato per la Brexit o all’italiano che ha messo su l’impresa di pulizie è cresciuto un figlio gay e al “negro” affiorato nei vecchi quartieri operai o sprofondato nelle periferie urbane o nei casolari dell’agricoltura intensiva è capitata in sorte una figlia ribelle conquistata dai liberi costumi occidentali, allora il silenzio che grava su quel deserto della coscienza di classe sembra sgretolarsi e il clamore con cui vengono rivendicati i diritti civili trascina con sé anche i negletti diritti sociali. Anche perché ricerche sui non-binary workers, cioè i lavoratori che rifiutano di essere classificati in base allo schema binario maschio/femmina, attestano che essi sono più numerosi nelle fasce basse delle retribuzioni – servizi di vendita, agricoltura, che in quelle alte – cultura, spettacolo, giornalismo. Anche questo, però, è solo un dato sociologico che l’irruenza dalla questione sessuale non basta a trasformare in fatto di coscienza. Se è un diritto civile l’unione tra individui dello stesso sesso, se è un diritto civile l’adozione da parte di una coppia omosessuale, sarà anche un diritto incontestabile accedere alla GPA, cioè alla maternità surrogata o, più crudamente, all’utero in affitto? Una pratica, tra l’altro, che viene strumentalmente collegata alla questione omosessuale ma che, come dicono le statistiche, riguarda principalmente le coppie eterosessuali che possono scegliere fra costi diversi. Problemi simili, allora, di ordine morale ma anche economico e sociale, evidenziano un altro e più profondo significato della politica secolare. La forma di vita di merce, infatti, si estende su nuovi territori come quelli della nascita, ma anche quelli della morte, se è vero che in alcuni paesi la “buona morte” è una merce al pari della maternità surrogata. La politica secolare è dunque anche un passaggio di testimone con il secolo scorso sul terreno della mercificazione e dei connessi fenomeni di reificazione e alienazione, in cui emergono nuove contraddizioni per di più in presenza di scelte solo apparentemente alternative. Infatti, nella lotta contro la vecchia morale repressiva, da un lato, sembra imporsi un’etica “libertina” che coronerebbe la società capitalistico-borghese nel suo stadio globale; dall’altro, avanza un’etica “sociale” per la quale le distinzioni di genere sono effetto delle pratiche oppressive di potere messe in atto da quella stessa società. Entrambe però sfociano nella esaltazione della “volontà assoluta” di un individuo che, in assenza di legami con una cerchia più vasta distrutti dalla forma di vita di merce, è alla ricerca spasmodica di una qualche salvezza, la quale però quando è in qualche modo raggiunta ribadisce la base esistenzialmente negativa del volontarismo assoluto. È l’alienazione come effetto e causa dei disequilibri con cui la società in atto alimenta la propria esistenza. La lotta per una rinnovata coscienza di classe, di cui la politica secolare vuole chiarire alcune condizioni di realizzazione, concerne quindi il significato del divenire, se deve permanere come antinomia incomponibile o mirare a una ricomposizione della totalità. Nel primo caso continueranno a succedersi generazioni di homo sapiens la cui brutalità sarà uguale alla presunzione di essere moralmente superiori agli altri esseri viventi; nel secondo caso germinerà un essere sociale nuovo, cavalli sapienti o cervi fatati, dal cui legame razionale però potrà sorgere una società finalmente umana.

Ricominciare daccapo

Download PDF

Con l’elezione di Elly Schlein alla segreteria del Partito democratico, il secolo in Italia finalmente ha preso il largo. Non che all’orizzonte ci siano chissà quali novità di idee e di metodi. Siamo ancora alle attenuazioni e alle sfumature e, quanto al metodo, al leaderismo più spinto, come non può che essere con le primarie. Ma il fatto è che la Schlein con tutte le storie della sinistra dal 1921 a oggi non c’entra più nulla. Da questo punto di vista, la Meloni è ancora Novecento puro, legata com’è da mille fili al mondo catacombale del Movimento Sociale Italiano e dintorni di cui ha la missione di riscattare l’onore – così si esprimono. E, infatti, da quando è apparsa la Schlein, la Meloni è come invecchiata di colpo e nel ruolo che ha voluto a tutti i costi appare sempre più inadeguata. La Schlein non deve, non può e non vuole riscattare nulla perché da Occhetto a Letta tutto è stato dissipato e la sinistra non esiste più. Questo non vuol dire che la Schlein è post. La Schlein è di sinistra ma in un contenitore vuoto. Sì, certo, transgenderismo, ecologia, pace e salario minimo sono i contenuti che ha mitragliato con l’occhio sbarrato quando è stata interrogata, ma al momento sono pensierini. Se la Schlein vuole durare e non fare la fine di un Veltroni, se vuole davvero prendere il largo e condurre la nave verso una rotta sicura, bisogna che affronti le due questioni che, da quando è nata, fanno della sinistra la sinistra, ovvero la scelta tra sinistra riformista e sinistra rivoluzionaria e la questione del partito. Dicevamo che lei con tutte le storie della sinistra dal 1921 a oggi non c’entra più nulla. E per forza. La sinistra rivoluzionaria negli anni Settanta è finita nella trappola del terrorismo. E, nei decenni successivi, la sinistra riformista si è esaurita nell’ignominia del potere per il potere. Basterà dunque che quale che sia la via che imboccherà non si abbia nessuno dei due esiti. Riforme e rivoluzione dovranno essere parole vecchie con un significato nuovo. L’orizzonte è fosco e molto poco dipenderà da lei. Ma stanno finendo un’epoca e un impero, e le opportunità potranno esserci. Quanto al partito, non esiste una sinistra senza il partito e la prova inconfutabile si ha in questi ultimi anni in cui, avendo teorizzato un partito allegramente penetrato dalla società civile, la sinistra ha smesso di esistere. Certo, il riformismo era così spinto che il partito non serviva. Ma di riformismo spinto si muore, altrettanto quanto di settarismo rivoluzionario. D’altra parte, senza il partito aperto e leggero dei dottor Stranamore la tabula rasa della Schlein non sarebbe arrivata. Ma questo non vuol dire che bisogna continuare su questa strada, anche perché dallo stesso popolo che va a votare alle primarie sale la richiesta di una Assemblea costituente che riunisca tutta la sinistra in un nuovo organismo. Strada asperrima ma indicativa di un’esigenza. Dunque, la missione è chiara, ricominciare tutto daccapo. E perciò può essere che la Schlein, con il suo profilo sghembo e il suo fare dinoccolato, si ritrovi un domani sopra un palco con un berretto in mano ad arringare le masse rivoluzionarie guidate da un grande partito. Così come può essere che senza volerlo si ritrovi a Palazzo Chigi a complimentarsi al telefono con Trump per la sua rielezione. I tempi sono fluidi e l’avventura è bella.