Archive for Francesco Aqueci

La metafisica del capitalismo di Emanuele Severino

Download PDF

Ad Emanuele Severino, metafisico sommo, bisogna riconoscere il coraggio di essere uno dei pochi che, riferendosi all’odierna realtà del profitto privato, che con la sua dittatura soffoca la ricerca di ogni altra forma alternativa di produzione, non ricorre a perifrasi ed eufemismi, “economia di mercato” e quant’altro, ma usa il termine crudo e veritiero di “capitalismo”.

Nelle sue opere, Severino ha evidenziato quello che potremmo chiamare il paradosso del capitalismo1, e in un suo intervento giornalistico di qualche tempo fa lo ha collegato al fondamentalismo e al terrorismo islamico2.

Secondo Severino, dal punto di vista capitalistico, il fondamentalismo e il terrorismo islamico sono forme degenerate del passato. Il capitalismo, invece, è il tempo intermedio tra il passato e il futuro, in cui esso ristagna per ignoranza filosofica. Infatti, se il capitalismo, spinto dalla sua intrinseca natura utilitaristica, non rifiutasse l’“inutile” conoscenza filosofica, vedrebbe che l’agire non ha alcun limite intrinseco, come invece pretende la falsa conoscenza del passato. D’altra parte, se acquisisse tale nuova conoscenza filosofica, e trapassasse nella pura e incontrollata potenza dell’agire, esso cesserebbe di essere capitalismo e diverrebbe altro da sé, cioè uno strumento subordinato della tecnica.

Per Severino, il paradosso del capitalismo è lo stesso in cui è intrappolato l’Islam. L’Islam identifica il capitalismo con Satana, ma non vede che rispetto a sé, e alla stessa religione cristiana, il vero Satana è la voce filosofica, l’inutile “voce del sottosuolo”, come egli la chiama con una metafora dostoevskiana, la quale chiarisce la potenza della tecnica, mettendo così la tecnica nella posizione di poter abolire tutti i limiti posti dal passato, che la voce ha dimostrato inesistenti, e quindi anche i limiti che l’Islam pone alla tecnica in nome del passato.

L’Islam, però, sostiene Severino, avrebbe un vantaggio rispetto al capitalismo, quando usa terroristicamente la tecnica moderna contro gli infedeli. Tuttavia, esso non solo è in ritardo rispetto alla gestione capitalistica della tecnica, ma, come già detto, pone a sua volta limiti alla tecnica ancora più rigidi di quelli che il capitalismo le pone non ascoltando la voce del sottosuolo in nome dell’utile immediato. Come il capitalismo, dunque, e nel conflitto con il capitalismo, anche l’Islam si avvia all’estinzione.

Certo, conclude Severino, l’Occidente, che è il luogo in cui per prima la voce filosofica del sottosuolo ha fatto conoscere l’illimitatezza della tecnica, può giungere al massimo della sua potenza rispetto all’Islam. Ma quando questo accadesse, quando il capitalismo si imponesse su ogni avversario, sia esso il cristianesimo o l’Islam, in quel momento cesserebbe di esistere, perché a vincere non sarebbe il capitalismo, bensì la tecnica dalla potenza illimitata, liberata cioè anche dai limiti che il capitalismo, in quanto età di mezzo che ignora l’inutile voce filosofica del sottosuolo, ancora le pone.

Come si vede, tutto ruota attorno alla “voce del sottosuolo”. E che cos’è tale voce, se non una trasfigurazione della conoscenza delle leggi oggettive della struttura? Severino probabilmente si ritrarrebbe contrariato da un simile accostamento “storico-materialistico”, ma tutto il suo ragionamento vi converge. La sua concezione della tecnica, suo storico cavallo di battaglia che egli cavalca senza la perfida malafede del mago di Todtnauberg, ne è una prova evidente. Per Severino, infatti, la tecnica non è solo la cultura, il sistema politico e il modo di vita, ma anche il modo di produzione che succederà al capitalismo, mettendo così fine al processo storico, divenuto un eterno presente.

E quindi non appaia fuori luogo opporgli la giustezza dell’affermazione di Gramsci, circa l’egemonia di Lenin come «grande avvenimento metafisico»3, perché organizza la dispersa volontà umana per finalizzarla non allo sviluppo economicistico, cioè tecnico, delle forze produttive, bensì allo stabilirsi di rapporti sociali da cui possa derivare lo sviluppo integrale della cognizione umana. La tecnica è dunque il destino dell’uomo se l’uomo resta prigioniero delle entificazioni produttive generate da un ascolto sbagliato della “voce del sottosuolo”. Al contrario, la tecnica diviene solo uno strumento se l’agire è impostato in modo ontologicamente corretto, cioè non scisso dall’ascolto, ma incorporato nell’organizzazione egemonica. Bisogna quindi distinguere tra agire e organizzazione. L’agire è illimitato, e quindi soggetto alla corruzione della tecnica. L’organizzazione è una potenza percettivo-motoria subordinata agli scopi “inutili” della cognizione umana. L’agire si reifica e ingloba in sé asservendolo l’agente; l’organizzazione è il controllo continuo da parte dell’agente del divenire dell’azione. L’agire è l’essere che si pietrifica, l’organizzazione è il divenire che sfida il nulla in cui l’azione può precipitare se non è istante per istante diretta alla sua “inutile” finalità.

Ovviamente, questa conclusione leninian-gramsciana per Severino è uno scandalo, lui che da una vita nega il divenire. Ma l’essere per il quale egli da una vita si batte è illusorio, poiché, pur scorgendo con le sue lenti metafisiche le condizioni materiali della cognizione umana, Severino rifugge dall’organizzazione egemonica. Si dirà che tutto il corso storico degli ultimi decenni giustifica tale rifuggire. Non è forse fallita in tutti gli scacchieri l’organizzazione egemonica? Non sta addirittura fallendo sotto i nostri occhi, oggi, in quell’America Latina che sembrava avviata verso il socialismo del XXI secolo?

Così, Severino, in suo ulteriore, recentissimo intervento, ha buon gioco nell’affermare che «non funziona l’idea che ci possa essere una forma storica così persuasiva e forte da impedire la dissoluzione delle cose del mondo»4. Ad un certo punto, infatti, la “voce filosofica del sottosuolo”, ovvero i Leopardi, i Dostoevskij, i Nietzsche, intervengono a mostrare «l’impossibilità di ogni eterno, di ogni unità definitiva del mondo»5. Ma, viene qui da obiettare, Severino, come abbiamo già prima ricordato, non ha forse passato tutta la sua vita filosofica a mostrare che la follia dell’Occidente è stata di allontanarsi dall’essere di Parmenide? In questo suo ultimo intervento, Severino illustra la pretesa dell’uomo di divenire altro da ciò che è, con il mito di Adamo che mangia la mela di Eva per divenire, da uomo che è, il Dio che vuole essere6. Con questo mito profondamente radicato nella tradizione occidentale, l’uomo ha allora inscritto tutta la civiltà sotto il segno di una colossale alienazione. E qui si chiarisce, allora, che in realtà Severino vuole emendare questo errore, curare questa follia, non con l’essere, non con un ritorno all’essere, ma con una modulazione tutta sua della “voce del sottosuolo”, ossia con il nulla che altro non è, se non la morte. Con quella morte che, come egli stesso ammette, lo mette di buon umore, e di cui teme solo il dolore e l’agonia7.

Un macabro ghigno, dunque, che Severino ha buon gioco di rivolgere pure all’Europa. Infatti, se tutti i grandi eventi della storia sono un tentativo di superare l’angoscia della separazione delle cose, che il divenire causa rispetto all’unità originaria dell’essere, e se tutte le figure della storia europea sono un tentativo di unificazione per superare la separatezza degli elementi che caratterizzano la terra del tramonto, allora, così come l’Occidente, anche l’Europa è nata vecchia, cioè sotto il segno dell’errore, della follia di voler unificare la dissoluzione delle cose del mondo8.

La scommessa di Severino è dunque che l’alienazione originaria da cui proviene l’Europa, l’Occidente, e ormai la civiltà mondiale, sia reintegrabile non tramite l’infinita e positiva pluralità di una forma che si trae incessantemente dal nulla che vorrebbe inghiottirla, ma nella morte che il divenire apporta alle cose, poiché è tramite la morte che, negando la spinta dissolutrice originaria, si può tornare all’essere. È un viluppo logico che, ogni volta che si attenua la spinta costruttrice dell’organizzazione egemonica, sembra elevarsi a verità storica. Ma la scommessa storica, in cui a ben pensarci consiste la vita dell’uomo, sta proprio nello smentire istante per istante quel viluppo logico che, senza quello sforzo contrario, attirerebbe l’uomo nella spaventevole beatitudine della morte.

  1. Da ultimo, in E. Severino, Dike, Milano, Adelphi, 2015, pp. 189-190. []
  2. E. Severino, Sfida tra Islam e Occidente. Il vincitore è la tecnica, “Corriere della sera”, 10 aprile 2016, supplemento “La Lettura”, pp. 6-7. []
  3. Quaderni del carcere, ediz. cr. Gerratana, 7, § 35, p. 886. []
  4. A. Gnoli, Intervista a Emanuele Severino, “la Repubblica”, 19 marzo 2017, p. 70. []
  5. Ibidem. []
  6. Ibidem. []
  7. Ibidem. []
  8. Ibidem. []

Dopo il PD, c’è ancora vita!

Download PDF

C‘è un’aria di mestizia in giro, ma lo scioglimento del PD, anche se ancora in fieri, è un evento fausto. Finisce la lunga subordinazione politica e culturale della sinistra a un centro liberaloide, di cui è stata espressione per un buon trentennio “la Repubblica”, che ancora domenica, 19 febbraio 2017, in extremis, ha lanciato l’ultima offa, con una celebrazione andywarholiana di Gramsci. Ma non è più tempo, la realtà è ormai troppo reale per poter essere nascosta sotto la tonaca di qualche papa laico. Tutto sta a vedere ora cosa vuole fare questa sinistra della ritrovata autonomia. E qui bisogna essere molto esigenti su alcuni punti che non è difficile individuare.

Primo, la lotta di classe non è finita, l’ha solo vinta il capitale. Copyright, Luciano Gallino. E già Bobbio, benché in modo meno pugnace e più olimpico, aveva segnalato il problema, richiamando la sinistra all’eguaglianza. Ma, anche al giorno d’oggi, in cui produzione e riproduzione sfumano l’una nell’altra, non si può tutto racchiudere in una redistribuzione che getti qualche manciata di sabbia nell’accumulazione, magari via reddito di cittadinanza. Una simile misura non farebbe uscire dalla reificazione economica, ma creerebbe solo una platea di individui, la cui estraneazione avrebbe un prezzo che il capitale si può permettere per salvaguardare la sua ragion di vita, ovvero il comando sul lavoro, che a tal scopo, corazzato di tecnica, oggi frantuma, degrada e distrugge, ma la cui libera fruizione (quindi, lavoro di cittadinanza, no grazie!) proprio per questo deve restare l’obiettivo prioritario. Perciò, e siamo al punto secondo, bisogna liberarsi di tutte le incrostazioni democraticistiche di questi anni. È Altiero Spinelli a distinguersi dai “democratici” e a parlare di “dittatura del partito europeo” nel Manifesto di Ventotene, che va letto in tutte le sue parti. E il contenuto di questa “dittatura” è nettamente anticapitalistico: «la proprietà privata dev’essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso» (p. 30). E ancora: «non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività monopolistica, sfruttano la massa dei consumatori» (p. 31). Google, Facebook, Amazon, Apple, de vos fabula narratur. E quindi non basta più il virtuismo liberal-liberistico del professor Monti, che irrora multe milionarie dal suo scranno di Bruxelles. Ci vuole un’azione più continua, mirata e penetrante. Perciò, e siamo al punto terzo, l’obiettivo di una “dittatura” europea non più del capitale, ma del lavoro, non può che essere l’opera del “partito”. Qui bisogna dire chiaro le cose come stanno, e cioè che, su questo punto, Lenin e Althusser sono più attuali di (una certa lettura di) Gramsci. A lungo ci si è baloccati con l’egemonia, che era un modo per camuffare la propria impotenza. Ma non si può fare la “guerra di posizione” quando l’avversario pratica la “guerra di movimento”. Bisogna dunque strappare di mano all’avversario l’anello federalista europeo per tirare la catena in senso opposto, che è il suo senso naturale. Il federalismo non può essere la maschera a ossigeno che, com’è accaduto in questi sessant’anni, tiene in vita l’esausto spirito del capitalismo cristiano-germanico. Questo accanimento terapeutico sta portando l’Europa dritta in bocca al passato: nazionalismo, qualunquismo, razzismo, fascismo, nazismo.  

Tutto bene, anzi, tutto male, perché queste esigenze passano ancora per il collo di bottiglia elettorale della democrazia in atto. Bisogna perciò premere ed esigere da chi finalmente sta mollando gli ormeggi sbagliati degli anni scorsi che la prossima legge elettorale sia quanto più proporzionale è possibile. Senza questa libertà di scelta, il “partito”, ma in generale i partiti, nascono depotenziati, pure macchine per andare al governo (M5Stelle, da ultimo, docet). Bisogna esigere invece che i partiti tornino ad essere strumenti del conflitto. E non per una mistica del conflitto. Il conflitto deve avere una meta tangibile, che è l’Europa federale non capitalistica. Ma questo obiettivo si può ottenere se ora, subito, l’elettore per primo si libera della cattiva cultura politicistica della “governabilità”, che mani interessate hanno sparso in questi decenni. L’antrace della governabilità è l’introiezione da parte del governato della proibizione di ricercare la propria autonomia. L’elettore, il cittadino, non si deve invece preoccupare della governabilità, ma della sua corretta rappresentanza nel conflitto di classe. Sapere la sera delle elezioni chi governerà sin da domani, è un loisir che abili manipolatori concedono volentieri a masse addestrate allo spettacolo mediatico. Solo che, dopo, c’è il cetriolo. E, invece, Belgio e Spagna dimostrano che gli affari correnti del capitale, che comprende anche la vita economica quotidiana, possono essere egregiamente sbrigati per lunghi periodi dalle burocrazie ministeriali. La nuova sinistra che si sta tanto faticosamente liberando dall’abbraccio del pitone, va messa dunque alla prova su questo punto. E c’è solo da sperare che nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, il coraggio ritrovato non venga sopraffatto da qualche compromesso antistorico dell’ultim’ora.

Dopo la crisi

Download PDF

Non che la crisi sia passata, anzi, in alcune zone, per alcuni ceti, in base a qualche indicatore, sembra se non aggravarsi, comunque stagnare e cronicizzarsi. Ma si cominciano ad intravvedere i contorni del nuovo mondo che essa, per il suo stesso accadere e perdurare, sta creando sotto i nostri occhi. Trump annuncia dazi e confini, mette in mora la Nato, apre a Putin. Basterebbe già questo per dire che siamo in una nuova era. Ma il neo-presidente americano, che a volte è così truce da sembrare uno zuzzerellone in vena di scherzi, va ancora messo alla prova, e bisognerà vedere quanto di ciò che annuncia riuscirà a tradurre in pratica. E, poi, tutte le sue mosse conducono al confronto con la Cina, che era già una priorità di Bush jr., appena insediatosi, convertito però dall’11 settembre al democracy building che ha distrutto l’Iraq e destabilizzato tutto il Medio Oriente. No, non bisogna cercare a questi livelli i segni di ciò che la crisi sta cambiando, almeno in Europa, almeno in Italia. C’è invece da chiedersi se le privazioni e i sacrifici imposti dalla crisi economica e dall’austerità non stiano producendo dei cambiamenti dagli effetti imprevedibili in quelle che una volta si chiamavano le “grandi masse”, e se tali masse, in un futuro più o meno prossimo, non vorranno essere in qualche modo artefici del loro destino. È questo il significato, uno dei significati, della rabbia popolare che le élite arroganti stigmatizzano come “populista”? Quali mutamenti nella cognizione di queste masse stanno intervenendo dopo le sofferenze e i rischi condivisi in questi lunghi anni, nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, soprattutto nei luoghi di quel lavoro che non c’è più? Ognuno si sta rinchiudendo sempre più in se stesso, come ci raccontano i centri studi che scandagliano l’opinione comune, oppure si stanno sviluppando sottotraccia degli insospettati sentimenti solidaristici, che potranno emergere quando la crisi lascerà davvero senza più alternative? Una cosa è certa, le rivoluzioni non possono scaturire dalla crisi economica, perché le masse proletarie, sentendosi estranee al complesso cultural-liberista che le disprezza, si volgono elettoralmente verso la più verace reazione capitalistico-borghese. Ed è subito Trump. E un’altra cosa è certa, e cioè che, con la crisi, il capitalismo è ancor più di prima un processo senza soggetto, nel senso che i soggetti che lo gestiscono, banche manager monopoli, non hanno più alcun legame storico-affettivo con la produzione. Se con Gianni Agnelli il profitto era ancora relativamente arbitrario, con i suoi discendenti è salito al livello dell’arbitrarietà assoluta. D’accordo, esistono ora (sono esistiti) i Jobs, i Page, i Zuckerberg, i Bezos e i Bill Gates, così come è esistito Berlusconi, figura di mezzo tra la produzione di cose e la produzione dei sentimenti, ma essi producono la vita stessa affettiva delle masse. Si tratta perciò di una produzione in cui nessuno è soggetto, non le masse estraniate dalla doppia vita di illusori loisirs che quei capitani d’industria loro vendono, né quei capitani d’industria che si devono annullare in quella illusoria soggettività delle masse, se vogliono far andare avanti il loro traffico affettivo. Un tempo ci si sarebbe chiesti in quale luogo potrebbe avvenire l’espropriazione di tale processo senza soggetto. Nei luoghi di lavoro? Di lavoro ce n’è sempre meno, e dove si lavora l’aria è da caserma. In organismi politici creati a tal fine ex novo? Insomma, dopo la crisi, oltre il partito, oltre il sindacato, oltre le istituzioni rappresentative, cosa c’è, l’autogoverno? Se l’uomo solo al comando fallisce, che cosa vuol dire autogoverno? Il Movimento 5 Stelle, che si fa un grande sforzo a prendere sul serio, ha messo in rete il sistema operativo Rousseau. Ma Rousseau è forse auto-governo? Al massimo, è  un legislativo “diretto”, un’implementazione tecnologica dell’ideologia della legge. Il problema che i grillorum nemmeno sfiorano è l’esecutivo, che loro continuano a vedere come presa di Palazzo Chigi. Perché invece i pentastelluti non ci dicono come dovrebbe essere un esecutivo autogovernante? Come dovrebbe essere organizzato? A livello di produzione (fabbriche, unità agricole, uffici, servizi)? A livello territoriale? A livello della mitica rete? A che livello, insomma? Con chi dovrebbe interloquire il giovane Di Maio, dalla batteria di telefoni di Piazza Colonna? Il domani è fosco, non c’è che dire, ed abbondano i venditori di monete false. Ci sarebbe bisogno di un intenso momento di auto-riconoscimento popolare, in cui ciascun individuo, ciascun ceto, ciascuna classe, sfarinate pur come sono, potesse esprimere se stessa. Dopo la crisi, così come dopo la guerra, la Costituente. Ma anche questa soluzione, la si è così tante volte evocata politicisticamente, e da personaggi così politicisticamente squalificati, che ha perso mordente e solennità. Ci si arriverà per vie traverse, con il proporzionale? Sarà l’interesse di bottega del vecchio Berlusconi, l’astuzia della ragione che regalerà agli italiani un momento autentico di riconoscimento politico? O vincerà il tatticismo dei 5S, pronti a saltare su ciò che resta del maggioritario, per annunciare dalla finestra di qualche abbaino di Palazzo Chigi che la “volontà collettiva” si è insediata e, Italiani!, adesso gingillatevi con il sistema operativo Rousseau?

Lukács o Grillo? Insegnamenti del caso Raggi

Download PDF

La domanda scabrosa è: dietro l’arresto di Raffaele Marra ci sono i poteri affaristici che si vendicano del no dei cinquestelle alle Olimpiadi a Roma nel 2024? Il sospetto viene apprendendo che la prova della corruzione di Marra è saltata fuori da una intensificazione delle indagini giudiziarie su di lui negli ultimi sei mesi, insomma, come a voler frugare in ogni dove per trovare qualcosa di utile con cui ricattare ed eventualmente punire. Ma qui sorge l’altra domanda, altrettanto se non più scabrosa: Virginia Raggi è il terminale di un gruppo di potere che sta usando i cinquestelle, dal canto loro ben contenti di farsi usare? Il sospetto viene osservando non solo la pervicacia con cui la Raggi ha imposto e difeso un personaggio così vulnerabile come il Marra, ma anche l’arrendevolezza con cui Grillo e Casaleggio jr. hanno consentito che ciò accadesse. È verosimile ipotizzare che, al di là dei risibili impegni notarili e relative multe, fumo negli occhi per gli elettori, sin da prima delle elezioni tra la Raggi e il suo mondo di riferimento e i vertici cinquestellati sia intercorso un patto più o meno esplicito in cui i consensi veicolati dalla Raggi venivano scambiati con il via libera al riciclo di pezzi dei poteri affaristici romani, con il retropensiero reciproco che gli uni avrebbero avuto la forza di neutralizzare gli altri, in modo da evitare sputtanamenti elettorali, da un lato, e perdite di potere affaristico, dall’altro. Lo sguardo indecifrabile della Raggi di cui parlano i giornali, forse sta tutto qui, in questo gioco delle parti in cui essa stessa gioca a sua volta una partita in proprio, poiché se riesce al tempo stesso ad essere garante del suo mondo di riferimento e a mantenere l’appoggio interessato dei cinquestelle, cresce la sua statura non tanto di sindaca, ma di capa: altro che figurina inadeguata, ma nemmeno la solita gatta morta, quanto piuttosto una ambiziosa Brunilde. L’avviso di garanzia che ha azzoppato Giuseppe Sala è invece più classico e meno “provinciale”, poiché è l’esito del lungo scontro che ha accompagnato l’Expo, ovvero la “grande opera”, della cui realizzazione egli era il plenipotenziario, che consente alla nazione di partecipare al “consumo vistoso” degli Stati. Le forzature ed irregolarità, che hanno finito per favorire quell’impresa anziché quell’altra, derivavano dalla necessità di portare a termine quella “missione” nazionale, a difesa della quale, come si apprende dalle oneste cronache, si formò un blocco tra vertici dello Stato e frazioni della magistratura che, adesso, anche sull’onda della catastrofe referendaria, subisce il contrattacco di chi all’epoca fu sconfitto ed emarginato. L’impasse in cui sono finite la capitale politica e la capitale morale d’Italia, e sull’aggettivo morale ciascuno la pensi come crede, dimostra sperimentalmente ciò che i libri dicono su che cosa sono i partiti nella società degli interessi economici, anche quando si fregiano della pudibonda etichetta di movimenti: macchine per andare al governo che, alternandosi nel ruolo di chi arraffa e di chi invoca nelle piazze l’onestà, recitano ciò che Vilfredo Pareto, già all’inizio degli anni Venti del secolo scorso, chiamava lo “spettacolo della corruzione”1. Pareto individuò tre “maschere” di politici che recitavano in tale commedia, ovvero gli idealisti, gli uomini di potere e gli affaristi. Il partito in cui predominano gli idealisti non va mai al governo, a differenza dei partiti misti, che costano più o meno alla collettività a seconda che in essi prevalgano gli uomini di potere o gli affaristi. Eh, sì, perché sono gli uomini di potere quelli che costano di più, poiché rendono possibile «ogni sorta di operazioni dirette a togliere altrui i beni, per farne godere le clientele politiche»2. Non dobbiamo qui seguire sino in fondo le classificazioni di Pareto, per le quali egli aveva un debole. Più interessante invece sottolineare che, nello stesso torno di tempo in cui Pareto studiava la morfologia politica della società degli interessi economici, György Lukács, dall’estremo opposto dello spettro ideologico, vedeva nei partiti che vanno al governo l’espressione della “corruzione borghese”, ed esaltava il “partito proletario”, la cui missione ideale non era di sostituirsi ai partiti borghesi nel governo della società data, ma di affrancare l’intera società dall’alienazione economica. Un obiettivo non propriamente a portata di mano, come lo stesso Lukács poté constatare nel corso della sua lunga vita. Ma il suo schema, che sino all’ultimo non si stancò di rendere duttile e flessibile, aveva il merito di trasformare un dato di fatto in una finalità etico-politica: il partito idealista non è che non va al governo, perché il canovaccio di Pareto prevede la maschera dello sfigato, ma sceglie programmaticamente di non andare al governo, perché la sua missione è altra che assicurare alle valchirie di turno delle splendide carriere di potere. Bisogna constatare che, dopo cent’anni, siamo ancora lì: come far sì che il partito idealista raccolga, accumuli, immagazzini forze per costruire un blocco sociale alternativo all’occlusione economica. È un problema filosofico e politico3, ma anche, scartata la rivoluzione come strumento per raggiungere quel fine, di tecnica elettorale. Lo si è visto in questi vent’anni di maggioritario in Italia, dove la vita del partito idealista che non va al governo è divenuta via via sempre più misera e grama. Oggi siamo a un tornante, perché si torna a riproporre il proporzionale, dove non si è costretti a scegliere immediatamente se andare o meno al governo, ma si pensa prima a costruire la propria forza4. Naturalmente, c’è da chiedersi come mai i partiti che vanno al governo, all’improvviso, riscoprono la bontà del proporzionale, che pure non li favorisce. Evidentemente, la politica, e la tecnica elettorale, Mattarellum Porcellum Italicum e via degradando, non sono tutto e non tutto possono contro la società che rifiuta di essere ridotta all’unica dimensione dell’economico. I referendum del 2011, il referendum del 4 dicembre, la nouvelle vague proporzionale, sono allora segnali di una primavera che chi è interessato al partito idealista che accumula forze per un cambio di ontologia sociale, nel senso non comico-grillesco ma filosofico-lukacsiano del termine, dovrebbe saper cogliere. Anche per non sprecare malamente l’occasione storica. In questo senso, si prenda Syriza, in Grecia. Non solo è andata al governo, e passi, perché poteva rivelarsi una feconda contraddizione reale, non solo non ha saputo capitalizzare il referendum del giugno 2015, ma si vanta pure di non avere mai avuto un “piano B”, alternativo alla trattativa con i poteri europei egemonizzati dalla Germania. E la giustificazione è che non si poteva gettare il paese nel caos, capitali in fuga, file ai bancomat, stipendi non pagati e altre calamità. Ma si consideri quel che, l’8 novembre 2016, ha fatto Modi in India, dove nottetempo, sono state dichiarate fuori corso le banconote da 500 e 1000 rupie. L’intera produzione agricola, che si esprimeva in tali banconote, è andata in tilt, e file chilometriche si sono formate ai bancomat. Certo, il provvedimento del governo indiano, con la scusa virtuista della lotta alla contraffazione monetaria, mirava ad intensificare l’estrazione “fiscale” di plusvalore, un caso paretianamente esemplare di “spoliazione”5, ma questo dimostra che la dittatura del capitale è implacabile quando deve far scendere dal cielo in terra la sua morale. Syriza, quindi, avrebbe fatto bene ad avere il piano B, che non sarebbe certo dovuto consistere nell’opporre brutalità a brutalità, ma nel mettere a frutto con mosse strategicamente accorte l’egemonia guadagnata precedentemente nella società. Perché in ciò consiste l’accumulazione di forze per un’alternativa ontologica, nel mostrare che la propria dittatura non è arbitraria o parziale, come quella della finanza, delle banche, dell’impresa, di esercito, chiesa, o Stato come “comitato d’affari”, ma è la dittatura che porta allo sviluppo onnilaterale della ricchezza sociale. E che cos’è la ricchezza, se non «l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive ecc. degli individui, generata nello scambio universale»6?

 

  1. Su questo punto, rinvio a F. Aqueci, Lo spettacolo della corruzione. Élites e partiti in Pareto, in “Politeia”, anno XXIX, n. 109, 2013, pp. 55-64. []
  2. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, (1916), Torino, Utet, 1988, 4 voll, vol. IV, § 2268. []
  3. Per riflessioni più estese su questo punto, cfr. F. Aqueci, Semioetica. Lingua, istituzioni, libertà, Roma, Carocci, 2016, pp. 96 sgg. []
  4. Su questo tema, osservazioni sorprendentemente interessanti, per essere espresse da un politico, genìa oggi dedita a tutt’altre pratiche, in P. Ferrrero, Introduzione a P. Favilli, In direzione ostinata e contraria. Per una storia di Rifondazione comunista, Roma, DeriveApprodi, 2011, fruibile qui on line. []
  5. Su questo punto in Pareto, rinvio ancora a F. Aqueci, Semioetica, cit., pp. 92 sgg. []
  6. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), (1857-1859), trad. it. di G. Backhaus, Torino, Einaudi, 1976, 2 voll., vol. I, p. 466. []

Renzi, il piccolo “a”

Download PDF

«Non credevo che potessero odiarmi così tanto». Questa frase, ormai celebre, con cui Renzi ha accolto la disfatta referendaria, pare che fosse rivolta alla minoranza del partito, pronta a fare fronte comune con gli avversari cinquestelle e forzisti, pur di vederlo nella polvere1. Ma Massimo Recalcati, fresco ideologo leopoldino, ne ha dato l’interpretazione autentica, allargando l’obiettivo a tutto il paese: «Quello che mi ha colpito è la natura autodistruttiva di questo odio. Il suo rifiuto di ogni canalizzazione simbolica»2. Ma in quale canale simbolico si sarebbe dovuto riversare questo presunto odio autodistruttivo? Recalcati richiama lo schema simbolico dell’Edipo, il figlio che uccide il padre. Ma lo interpreta come il padre che accetta di farsi uccidere dal figlio. La mancata simbolizzazione che lamenta, è in questo rifiuto del padre di farsi uccidere da Renzi. È strano, Recalcati appena può, lamenta l’evaporazione del padre come uno dei mali della nostra epoca. Poi, però, tesse le lodi di un parricida mancato come Renzi. C’è qualcosa che non quadra. Davvero Renzi era questo eroe edipico adamantino? Eugenio Scalfari e Giorgio Napolitano non sono davvero due giovanotti, eppure Renzi li ha eletti a suoi mentori, il primo nell’ultima fase della sua avventura referendaria, il secondo sin dal suo esordio di governo. Più che un figlio che vuole uccidere il padre, Renzi sembra un ragazzo viziato che apprende da vecchi zii l’arte degli intrighi. C’è poco di edipico nell’avventura di Renzi, e molto di matriarcato. Il figlio belloccio, esuberante e scapestrato al quale non la madre, ma la mamma permette tutto, perché quello che fa torna utile a tutti: nessun padre, tutti figli, tutti a farsi gli affari propri, in un’orgia di potere. Nei mille giorni di governo, ecco infatti cosa Renzi pensava di aver fatto: «riportare l’Italia al vertice dello scenario europeo e mondiale, al suo posto»3. Nella matrice dei quattro discorsi di Lacan, che Recalcati dovrebbe conoscere bene, Renzi allora non è riuscito ad occupare il posto del padre-padrone perché egli in realtà è l’oggetto piccolo “a”, cioè il posto della produzione, del godimento che rimane al di fuori di ogni significazione possibile. Lacan chiama questo posto il buco inaggirabile, una zona oscura attorno alla quale il soggetto fa il giro senza mai poterla dire, significare4. Ecco, l’azione di governo di Renzi, più che un parricidio mancato, è stata questo girare attorno al buco, senza riuscire a significarlo. Più che penetrare il godimento, Renzi è stato penetrato dal godimento. Il suo iperattivismo era in realtà una furiosa passività. Ma qual è la ragione di questo rovesciamento della matrice discorsiva? Qui la clinica politica va integrata con il discorso dell’egemonia. Nella divisione mondiale della produzione o godimento, l’egemonia appartiene al blocco capitalistico americano e ai suoi vassalli, fra cui spicca l’Unione europea. L’Italia che torna al vertice dello scenario europeo e mondiale significa l’Italia che torna ad essere vassallo produttivamente efficiente, e a ciò dovevano servire le “riforme” del lavoro, della scuola, dell’amministrazione e, suggello finale, della Costituzione. Queste riforme, dunque, non dovevano uccidere il padre, ma elevare l’oggetto “a” del godimento a simulacro del discorso del padre, cioè ad instaurare il regime usurpatore del discorso del capitalista che, per Lacan, come Recalcati dovrebbe ben sapere, è il discorso fondamentale della società contemporanea, dove il consumo degli oggetti è visto come il modo di narcotizzare il soggetto nella ripetizione di un godimento fasullo, che porta l’illusione di un falso riempimento, di un falso soggetto completo5. Il fallimento di Renzi, allora, non è nell’aver mancato di uccidere il padre, che il discorso del capitalista ha già svuotato in partenza, ma nell’aver mancato la missione per la quale era stato ingaggiato, stabilizzare in un’area cruciale del blocco produttivo mondiale l’egemonia del simulacro del discorso del padre, ovvero l’egemonia del godimento infinito, nichilistico, che sbocca nella pulsione di morte. Quello che Renzi e la sua corte, ivi compresi gli ideologi, denunciano allora come odio, odio immane, odio non simbolizzato, è in realtà il rifiuto di una impostura, che è percepito come odio perché il mondo porta la colpa di resistere al proprio delirio mortifero. Si obietterà: ma allora il 60% di No è tutto da ascrivere al rifiuto del discorso del capitalista? Qui non bisogna cadere nella trappola dell’“accozzaglia”. La contro-egemonia ha i suoi spontanei strumenti di consenso, i suoi propri canali di simbolizzazione. Ed è un fatto che tanto nei referendum del 2011, quanto nel referendum del 4 dicembre, l’egemonia produttivistica del godimento cieco è stata battuta dalla contro-egemonia di un discorso del padre autentico, se con ciò si intende la resistenza per aprire ad un ordine nuovo proiettato verso la vita che desidera, un discorso del padre dunque che si fa madre. L’egemonia, spiegava Gramsci, è la capacità di saper attrarre nel proprio campo frazioni del campo avverso, facendo patti nella loro lingua6. Non sembri troppo ottimistico riconoscere che nel 2011 e il 4 dicembre ci sia stata questa capacità diffusa e spontanea di comitati, associazioni e sindacati più o meno di base, di attrarre strategicamente frazioni del campo avverso attorno a contenuti riconosciuti o compresi magari solo in parte, ma che soddisfacevano interessi e bisogni trasversali. E, in proposito, sarebbe interessante un’indagine socio-semantica sulla diffusione di un’espressione ormai quasi usurata come “bene comune”, se è vero, come è capitato di ascoltare a chi scrive, che anche un amministratore di condominio, impegnato nella titanica impresa della sostituzione di un’antenna televisiva centralizzata, per convincere i riottosi condomini, si sia espresso dicendo che “ormai, la televisione è un bene comune”. Non sarà certo questa innocente perorazione a strappare dalle mani della Rai e di Mediaset l’anello decisivo della comunicazione mediatica, ma la sinistra che ricerca il suo basamento egemonico, piuttosto che perdersi nell’infinita ricombinazione dei gruppi dirigenti selezionati dal crisma elettorale, dovrebbe guardare con più attenzione alle spinte contro-egemoniche spontanee che nei due tornanti decisivi sopra richiamati si sono così energicamente espresse.

  1. M. T. Meli, L’amarezza del giorno più lungo: “Non credevo che mi odiassero così”, “Corriere della sera”, 5.12.2016, p. 6. []
  2. D. Cianci, Intervista a Massimo Recalcati: “Un paese vittima dell’odio, che gode nella distruzione”, “l’Unità”, 7.12.2016, p. 4. []
  3. G. De Marchis, La solitudine del premier. “Sotto assedio io non ci sto”. Ma c’è l’opzione rilancio, “la Repubblica”, 5.12.2016, p. 3. []
  4. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicanalisi, Torino, Einaudi, 2001. []
  5. J. Lacan, Du discours psychanalytique, in G. B. Contri (a cura di), Lacan in Italia 1953- 78, La Salamandra, Milano 1978, pp. 32-55 (trad. it. pp. 187-201). []
  6. A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, 4 voll., vol. I, p. 646, (Q. 5). []