Archive for Francesco Aqueci

I cannoni di Scalfari e la morale di Napolitano

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Vada come vada, questo referendum ha già avuto il risultato di far cadere un po’ di veli. Si prenda Eugenio Scalfari. Il 3 ottobre scorso, avendo letto e meditato sulle visioni politiche dei grandi classici, se ne uscì con un editoriale che inneggiava all’oligarchia in quanto sola forma di democrazia, con l’argomento che «l’oligarchia è la classe dirigente, a tutti i livelli e in tutte le epoche»1. Seguiva una messe impressionante di fatti storici, da Platone alla Democrazia cristiana, che dimostravano che «oligarchia e democrazia sono la stessa cosa»2. Ora, tutti abbiamo studiato a scuola che, per Platone, l’oligarchia, detta anche da lui timocrazia, era il governo di pochi malvagi. Per non parlare di Aristotele, per il quale l’oligarchia era la degenerazione dell’aristocrazia. Ma Scalfari aveva letto e meditato, e quindi si poteva permettere una simile innovazione, perché in fondo ciò che voleva affermare era che il governo è un affare dei dominanti, che sono tutto, mentre i dominati  sono solo un… – ma Scalfari alludeva a Pareto o al Marchese del Grillo? Come che sia, egli ha martellato con questo argomento durante la sua campagna elettorale a favore del sì, sino all’editoriale del 1° dicembre, con il quale ha completato l’opera, scrivendo che il sì era necessario per l’Europa: «il capitale è una forza fondamentale della storia moderna e può essere una forza positiva o sfruttatrice. Lo dimostrò Marx alla metà dell’Ottocento: riconosceva la forza positiva del capitalismo che era in quel momento il motore della rivoluzione industriale e al tempo stesso delle libertà borghesi, premessa della rivoluzione proletaria. Ecco perché l’Europa federalista è indispensabile e deve essere il principale obiettivo della sinistra moderna»3. Quindi, l’Europa federalista è borghese e capitalista, e siccome il capitalismo borghese è la premessa della rivoluzione proletaria, la sinistra moderna, se vuole la rivoluzione, deve sostenere l’Europa federal-capitalista. Pareto, che era uno scienziato, di fronte a simili ragionamenti, si faceva beffe degli “intellettuali”, definendoli produttori di cannoni dipinti4. Benché dipinti, però, i cannoni di Scalfari non sparano a salve. Con ragionamenti come quello sopra citato, egli a far data almeno da Razza padrona, il massimo della critica dell’economia politica cui i sui profondi studi l’hanno condotto, ha preso in giro la sinistra, una sinistra ovviamente che aveva tutto l’interesse a farsi prendere in giro da un così abile fabbricatore di “derivazioni”, giusto il termine tecnico di Pareto, ovvero di ragionamenti manipolatori con i quali assopire i governati. Prendiamo Giorgio Napolitano. Tutto si può dire di lui tranne che sia uno che si fa manipolare, ma il 2 dicembre scorso, tre mesi dopo l’editoriale con cui Scalfari sconvole la scienza politica, e un giorno dopo in cui Marx fu da lui arruolato per la vittoria del sì, ha testualmente dichiarato che «non esiste politica senza professionalità come non esiste mondo senza élite»5. E qui si capisce a cosa servono le derivazioni: senza di esse Napolitano sarebbe rimasto un forbito compagno della Direzione del fu Partito comunista italiano, invece dipingendo cannoni è salito al Quirinale. Ma Napolitano, che ha una coscienza, cerca anche il conforto della morale. Così, in questi anni si è recato molte volte a Ghilarza, paese natale di Antonio Gramsci, e da ultimo anche a Milano, dove nel maggio scorso gli originali dei Quaderni del carcere sono stati esposti accanto ai quadri di Renato Guttuso. Non siamo certo alle reliquie, perché c’erano anche i dipinti, gli onnipresenti cannoni dipinti, uno dei quali questa volta è servito a Napolitano per emettere i canonici sette colpi a salve, in onore del Gramsci «monumento morale»6. Bene, ma con le élite come la mettiamo? Ecco cosa ne pensava Gramsci, prima di essere moralmente cannoneggiato da Napolitano: «ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico‑morale»7. E se non fosse chiaro, ecco come si esprimeva ancora in proposito il grande sardo: «si vuole che ci siano sempre governati e governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca? cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni?»8. Gramsci, che era un socratico, poneva domande. E Napolitano, che si fa prestare i cannoni da Scalfari, complice il referendum, la risposta finalmente l’ha data: «non esiste mondo senza élite». Domani, vinca il sì o vinca il no, almeno questo, alla faccia di Gramsci, l’abbiamo chiarito.

  1. E. Scalfari, Zagrebelsky è un amico ma il match con Renzi l’ha perduto. Il primo errore è stato la contrapposizione tra oligarchia e democrazia, “la repubblica”, 2.10.2016, http://www.repubblica.it/politica/2016/10/02/news/zagrebelsky_renzi_scalfari-148925679/ []
  2. Ibidem. []
  3. E. Scalfari, Il Quirinale tra Waterloo e Ventotene, “la Repubblica”, 1.12.2016, p. 1 e 31. []
  4. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, Torino, UTET, 1988, 4 voll. vol. IV, § 1923, nota 1, p. 1892 []
  5. “Corriere della sera”, 2.12.2016, p. 6 []
  6. http://www.corriere.it/cultura/16_maggio_23/gramsci-guttuso-gallerie-d-italia-milano-intesa-san-paolo-quaderni-carcere-quadri-bazoli-napolitano-1aa5c18e-211e-11e6-a5a3-c2288e2f54b5.shtml; ma v. anche http://www.sardinews.it/pdf/dossier%204_2007.pdf []
  7. Q. 8, § 179. []
  8. Q. 15, § 4. []

Il sì di Prodi al referendum del 4 dicembre

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L‘annuncio di Prodi che voterà sì al referendum costituzionale del 4 dicembre squarcia anche l’ultimo velo di ipocrisia intorno ad un ventennio in cui la sinistra, a causa della minorità politica e culturale con cui si autorappresenta, e che offre il destro al “sistema” per costringerla in tale paralizzante rappresentazione, è stata usata come serbatoio di voti per puntellare un fronte capitalistico che altrimenti non avrebbe avuto la forza di imporre la sua logica modernizzatrice alle sue frange più riottose. Certo, resta il paradosso di un capitano di ventura come Massimo D’Alema che, per i corsi e ricorsi del gioco politico, schierandosi per il no, si ritrova a poter mantenere la promessa fatta sul letto di morte a Dossetti di difendere la Costituzione del ’48, mentre il mulinista bolognese Romano Prodi le dà la pugnalata finale, in nome di una politica che, quando non è sangue, merda e sedute spiritiche, ha la sua garanzia nelle “scienze sociali” internazionali, nei cui numeri e tabelle svanisce come per magia la lotta di classe. Ma queste sono cose della sfera morale. Cosa accadrà invece dal 5 dicembre in poi? Fioccano le previsioni su governi tecnici, governicchi e governi per tirare a campare, ma su quali basi materiali questi governi di scopo, “per i decimali di Bruxelles”, “per la legge elettorale”, “per la fine naturale della legislatura”, potranno poggiare? La Costituzione che boccheggia, e che anche nel caso della vittoria del no non sarà più la Costituzione del ’48, segnala sommovimenti nella sottostante grammatica ideologica per la cui comprensione non è necessario un master che batta un colpo nelle prodiane scienze degli spiriti. La galassia renziana, che con la vittoria del sì aspira a divenire blocco egemone, propone un neocentralismo che, avocando a Roma poteri degradatisi in questo ventennio di disunione progressiva, mira ad avere più peso in un’Europa dei governi in cui la Brexit offre qualche opportunità in più per il pur sempre gracile capitalismo modernizzato italiano. Il neocentralismo comporta ovviamente una rinnovata politica di mance, che può segnare una nuova stagione di infeudamento del Mezzogiorno ad un potere che da un secolo e mezzo lo estranea da sé, costringendolo a estrinsecarsi principalmente come energia criminale, funzionale sul piano materiale a svolgere i bassi lavori del blocco di potere nordista, e sul piano simbolico a tacitarlo, perché i delinquenti non si invitano a tavola, e al massimo fanno gli stallieri. Il neocentralismo renziano, inoltre, comporta l’assorbimento subalterno di pressoché intera la sinistra (Pisapia docet: extra Piddiem, nulla salus), una sorta di compimento malandrino della dolce fregatura ulivista, portata avanti negli anni addietro dal succitato Prodi, che non a caso vota sì. Tout se tient. L’alternativa viene invece dal centrodestra, dove al neocentralismo che il 4 dicembre gioca tutta la posta, contrappone un sovranismo che comporta anch’esso un rinnovato centralismo romano, ma per scassare gli equilibri di Bruxelles e fare emergere un’Europa dei popoli, formula fascinosa dalla quale possono invece riemergere tutte le Erinni che la sconfitta hitleriana aveva sprofondato negli abissi: sangue, territorio, razza –ma può anche emergere un capitalismo trumpista, che combini assieme le pulsioni profonde con una rinnovata plutocrazia, la quale, dopo avere scorazzato per il mondo, ha bisogno dei vecchi confini nazionali per ricomporre le contraddizioni tra valorizzazione del capitale e scomposizione della forza lavoro. Il duo Salvini-Meloni che con lucidità cerca di mettersi in sintonia con questa impetuosa corrente internazionale, deve fare i conti con i colpi di coda, non tanto del vecchio e patetico separatismo lombardo-veneto, che può essere a sua volta tacitato con opportune mance, ma con il perenne affarismo meneghino, pronto a offrire i propri servizi al blocco vincente, con combinazioni fantasiose che possono anche arrivare ad una completa sostituzione della vecchia mafia siciliana con la performante ndrangheta calabrese. Resta sullo sfondo come un edifico di archeologia politica la mole del movimento anarco-qualunquista dei cinquestelle, condotto con sagacia da un capocomico che però non potrà mai calcare la scena in prima persona, e che perciò è costretto ad affidarsi a figure e figurine che, in un movimento già di per sé composito, si prestano ai trasformismi, con i quali cricche e cerchie sempiterne si riciclano: per assessori della giunta capitolina non si sono forse ricercati i consigli non del popolo, non della rete, ma di ben noti studi legali? Quel che resta di quella sinistra che negli anni Novanta si aggregò intorno alla resistenza rifondista, gioca di sponda con questo movimento che, come afferma il suo mentore, meriterebbe un premio per aver impedito che il malcontento si scatenasse nelle piazze, laddove da un lato si abbassa il conflitto di classe alle piazze turbolente, dall’altro si rivendica un ruolo oppiaceo che è proprio ciò che impedisce al discorso della sinistra di avere una base di massa. Continue sono infatti le lamentazioni circa il fatto che “il discorso anticapitalista” non ha consenso, ma nessuno ha davvero il coraggio di guardare in faccia il problema, e cioè che una sinistra senza partito è un piatto di lasagne dipinto nel muro: fa venire l’acquolina in bocca, ma poi si va a sfamarsi con la minestra che passa il convento. Dunque, neocentralismo, sovranismo, anarco-qualunquismo, queste le tre faglie da cui verrà fuori il terremoto del 4 dicembre, da cui la sinistra cerca di scampare in qualche container sindacale, ricostruendo pezzetti di welfare in fabbriche in cui il capitale invoca il fronte comune per reggere la concorrenza “globale”. Un dignitoso neo-corporativismo dal quale può uscire solo se intraprende quella “lunga marcia” da cui gatti, volpi e zecchini d’oro l’hanno da troppo tempo distolta.

A scuola da Trump, per imparare l’egemonia

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Molti, di fronte alla vittoria di Trump, hanno alzato le braccia sconfortati: la sinistra è morta, non c’è alternativa, prepariamoci al peggio. Ma Hillary, la signora Rodham che si faceva chiamare Clinton, rappresentava la sinistra? E poi, la sinistra, in questi anni, è stata davvero così assente? Occupy Wall Street, referendum italiani del 2011 vinti alla grande, Indignados, Syriza che vince in Grecia, Corbin che strappa il Labour al blairismo e, ancora in corso, nuit debut in Francia, non contano? Certo, alla fine, però, vince Trump. Come mai? Proviamo a mettere assieme, uno dietro l’altro, alcuni fatti:

 1) Trump da destra attacca la corruzione, la disonestà e il politicamente corretto dei media che, quando non sono governativi, sono di destra (v. sconro con Fox News). La sinistra non disdegna le tribunette che in quei media corrotti riesce a lucrare, nell’illusione che le diano la “rispettabilità” da establishment, che la renda degna di “andare al governo”. Questa è una tipica mentalità subalterna, che invece la destra rigenerata che Trump incarna non ha, così come non l’ha avuta il Comico Penstastelluto, che ha snobbato per anni la tv, arrivando lo stesso al 30% di consensi, con la “lunga marcia” dei Vaffa Day;

 2) la sinistra denuncia la “globalizzazione liberistica”, ma non dice una parola sulla svalorizzazione del lavoro su cui si fonda il miracolo del “socialismo alla cinese”, come con sprezzo del ridicolo viene ancora chiamato da alcuni buontemponi. Trump invece non esita ad attaccare la Cina, unendo in un unico fronte tanto i capitalisti rovinati dalla Cina, quanto i lavoratori licenziati dai capitalisti rovinati dalla Cina. Piaccia o meno, questa è capacità egemonica;

 3) Trump si oppone a ulteriori tagli alla sicurezza sociale e vuole fare una politica di investimenti pubblici. Da noi, dall’Ulivo in poi, si susseguono governi che prendono voti a sinistra e fanno politiche destrorse di tagli a sanità, pensioni, scuola e a tutto ciò per cui la sinistra si è battuta nei decenni trascorsi. Questa non è egemonia, ma opportunismo degli stati maggiori, tipico di partiti la cui unica ragione sociale è rimasta quella di “andare al governo”, pensando che stando al governo, la sinistra è “egemone”. Questa mentalità machiavellica ha purtroppo contagiato anche la base. Non si spiega altrimenti come tanti ex-Pci si riconoscano nell’attuale PD, che porta all’estremo quel falso teorema. Il machiavellismo è una deteriorie cultura politica che non ha niente a che fare con l’egemonia, ma che anzi la nega alla radice, perché permette agli stati maggiori opportunisti di avere il consenso di una base ridotta a “parco buoi” elettorale;

 4) Trump si batte contro la finanza (tasse sui mediatori di hedge fund, ripristino della legge Glass-Steagall). Da noi i governanti che prendono i voti della sinistra, la sera giocano a carte con banchieri, finanzieri e grandi capitalisti, e quando un Bersani si scaglia contro il finanzcapitalista Serra, resta la nota stonata che nessuno capisce, il primo lui: come avrò fatto, io, il Magnifico Lenzuolatore, a dire quella enormità? Su, coraggio, Bersani & Co., è quella la strada, ma il discorso deve essere sviluppato negli anni, non può essere una resipiscienza in articulo mortis;

 5) Trump è contro le sanzioni alla Russia e quindi contro l’estensione della Nato sino ai confini russi. L’Italia di centrosinistra lo sarebbe pure, per ragioni di bottega, ma intanto manda truppe in Lituania, e un presidente della repubblica “realista togliatttiano” scavalcò a destra Berlusconi quando si trattò di bombardare la Libia, perché Hillary lo reclamava. Se una sinistra che “viene da lontano e va lontano” produce simili dirigenti, non c’è forse un problema? Si dirà: ma chi li vota più quelli?! Già, ma se il gramscian-leninista Alexis Tsipras fugge a gambe levate dall’esito di un referendum che gli ha dato mandato pieno di sottrarsi all’“ordoliberismo”, non c’è forse un problema ancora più grande, visto che questa nuova sinistra si mostra più infingarda e opportunista di quella appena trascorsa?

  Si potrebbe continuare ad accumulare fatti e notazioni, ma per non farla lunga si può concludere dicendo che forse il criterio per distinguere destra e sinistra c’è, e ce lo offre Trump: saper fare una politica egemonica, partendo dal senso comune, ma non per cristallizzarlo a livello di “senso comune”, come fa Trump, facilitandosi le cose, e non per caso è di destra, ma per elevarlo a “buon senso”. È ciò che alcuni chiamano l’uscita dalla condizione di minorità sociale, politica e culturale di coloro che, proprio a causa di quella minorità, votano “populista”. È positivo che riemerga la consapevolezza che questa fuoriuscita non può essere un processo spontaneo, ma organizzato. Ed è positivo che si rivendichi il carattere non meramente identitario ma propositivo del femminismo, ma si potrebbe dire lo stesso dell’ecologismo, del consumo critico, delle classiche lotte per il lavoro, ecc. ecc. Purtroppo, però, le concrete proposte organizzative restano a dir poco vaghe, come quando si auspica una «composizione collettiva di pratiche collegate all’etica dell’affermazione di alternative condivise e situate»1. Si ha l’impressione che dietro queste cortine fumogene verbali c’è il rifiuto, derivato da un comprensibile trauma, ad affrontare il nodo vero del partito, il partito che coordini tutti i fronti della lotta, costringendo effettivamente i singoli movimenti ad autodecentrarsi, per convergere, a partire da una sorta di reciproco “velo di ignoranza”, verso la finalità comune. Quando e chi sarà capace di fare una simile operazione, che evidentemente non è un’operazione logica, ma pratica, nessuno lo può dire. Sappiamo però che l’esigenza è posta, una esigenza resa ancora più pressante dalla urticante lezione egemonica del “deplorevole” Donald Trump.

 

  1. R. Braidotti, La storia finisce con Trump? Do not agonize: Organize!, “il Manifesto”, 11.11.2016, p. 19. []

Oligarchi per caso

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All’inizio, parlò Briatore. Ad una platea di imprenditori pugliesi, ramo turismo, ha spiegato che per una clientela di rango non bastano cascine e masserie, prati e scogliere: ci vogliono hotel extralusso, porti per gli yacht e tanto divertimento. E per chiarire il concetto, ha precisato: “Il ricco vuole tutto e subito. Io so bene come ragiona chi ha molti soldi: non vuole prati né musei ma lusso, servizi impeccabili e tanta movida”1. Poi, ha dato la seguente notizia: “ci sono persone, che quando sono in vacanza spendono 10-20mila euro al giorno”2. Non ci sono state né sollevazioni, né tumulti. Solo Crozza ha riproposto stancamente l’imitazione del personaggio in chiave comica.

Ma qui c’è poco da ridere, perché qualche giorno dopo Eugenio Scalfari ha spiegato che la democrazia è oligarchia, e “l’oligarchia è la classe dirigente, a tutti i livelli e in tutte le epoche”3. Subito è partito il dibattito, e chi ha convocato Platone, chi Aristotele, chi Polibio. Zagrebelsky ha convocato se stesso e, torinese e cortese com’è, stava quasi per dare ragione a Scalfari, il quale non ha gradito, e ha perciò precisato: “che l’oligarchia sia il governo dei pochi lo diciamo tutti e due. Che faccia un governo per i ricchi lo dice solo Gustavo e che i ricchi facciano i loro propri interessi a danno dei molti, anche questo lo dice soltanto lui, non io”4. Eh, sì, Gustavo, ti sbagli, una persona che, quando è in vacanza, spende 10-20mila euro al giorno, forse che fa i propri interessi? No, caro, sta creando tanti posti di lavoro. Poi, che l’oligarchia lavori per lui e per i pochi ricchi come lui, è solo una coincidenza, credimi. La classe dirigente non si abbassa a queste cose, al massimo fabbrica giornali di cui il personaggio che viene tutti i giorni attaccato, è socio occulto5. Così, tanto per prendere in giro l’opinione pubblica.

Dunque, per riassumere, ricchi, ricchi sfondati, e oligarchi per caso. Pensavamo di averle sentite tutte, e invece è intervenuto Davide Serra, finanziere di terra, di cielo e di mare, oltreché di isole lontane, che in televisione, in tenuta d’ordinanza, camicia bianca con maniche arrotolate, ha spiegato che l’Italia è “un paese ricco: il conto corrente di un italiano è mediamente doppio di quello di un tedesco”6.

Allora si è capito perché quando Briatore ha dato la notizia di cui sopra, non ci sono state sollevazioni e tumulti: l’Italia è un’oligarchia. Un’oligarchia per caso. Un caso unico di oligarchia di massa. Ma Serra aveva altro da rivelarci. Lui è stato in Cina, e lì, è vero, non c’è democrazia, ma dal punto di vista economico in Cina non c’è dittatura, perché dal punto di vista industriale, lì creano, e quindi l’imprenditoria è democratica7.

Quindi, l’Italia è una ricca oligarchia di massa, mentre la Cina è una ricca democrazia imprenditoriale. Sembrano sottigliezze, ma in Cina creano, in Italia no. Come fare per creare anche in Italia? C’è il governo Renzi, ha specificato Serra, che ha capito che “il lavoro dà dignità all’uomo e se puoi lavorare è perché ci sono imprese”8. Ecco perché, Serra ha concluso, il governo Renzi “è l’unico governo che ha capito che bisognava creare posti di lavoro. Con il jobs act ha abbassato il costo del lavoro, e abbiamo creato 600 mila posti di lavoro”9.

A questo punto, tutti i sillogismi sono scoppiati, e Aristotele ha chiuso il Liceo e se ne è andato in vacanza nel Salento, dove ha incontrato Briatore che cercava di convincere un ricco a spendere, non 20, ma 25 mila euro al giorno, che ti costa, ricco di merda, 5 mila euro al giorno in più, cosa sono per te? Allora, Aristotele, ha chiamato al cellulare Marx, un semplice cellulare da tredici euro, e gli ha detto: “senti, Carlo, so che tu mi stimi molto, perché ho capito per primo, tanto tempo fa, la logica del valore di scambio, ma mi vuoi spiegare come funziona questo cavolo di capitalismo pienamente sviluppato?”. Marx ha fatto una lunga pausa, lunghissima, sembrava che la linea fosse caduta, poi ha enunciato le seguenti glosse: “il capitalismo è una dittatura, e il signor Scalfari è un filisteo che illustra bene la miseria del giornalismo. Il suo concetto di oligarchia è una mascheratura dell’ideologia italiana, quella delle élite di Pareto e Mosca, i quali però riderebbero delle sue robinsonate. Dunque, il capitalismo è una dittatura di classe, che è democratica per i capitalisti. Il giovane Serra intuisce l’essenza del processo, ma siccome gli uomini lo fanno, ma non lo sanno, la democrazia di cui egli parla con falsa coscienza, è la democrazia in cui il lavoro è dignitoso se, valorizzando il capitale, rafforza la dittatura che lo opprime. Ai miei tempi, Serra, e quelli come lui, non parlavano in prima persona, ma delegavano al loro posto gli economisti borghesi. Adesso, invece, i capitalisti, specie quelli che non hanno mai visto una fabbrica, parlano in prima persona, e questo è il post-capitalismo o neoliberismo, fate voi, che sempre dittatura è. Ai miei, glielo avevo detto, fate una contro-dittatura. Allora, caro e stimato Aristotele, devi chiedere a Lenin perché la cosa non è riuscita”. Già, Lenin, ha pensato Aristotele, riapro il Liceo, e per l’anno prossimo organizzo un seminario sul centenario della Rivoluzione d’Ottobre. Magari, qualcosa finiamo per capirci.

  1. http://bari.repubblica.it/cronaca/2016/09/19/news/otranto_briatore_twiga_salento-148122638/ []
  2. Ibidem []
  3. http://www.huffingtonpost.it/2016/10/02/scalfari-zagrebelsky-renzi_n_12292742.html []
  4. http://www.repubblica.it/politica/2016/10/13/news/perche_difendo_l_oligarchia-149655377/ []
  5. Ecco, in proposito, quanto racconta lo stesso Scalfari: “Ma durante la “guerra di Segrate” ci fu un particolare divertente. Ciarrapico, molto amico di Andreotti, era stato scelto come mediatore e dopo sette mesi riuscì faticosamente a trovare l’accordo tra il nostro gruppo, rappresentato da Carlo De Benedetti, e Berlusconi. L’accordo doveva essere reso pubblico un certo giorno ma scoppiò il caso delle spese legali, che ammontavano a 50 milioni in lire. Ciarrapico risultava introvabile, per riposarsi era andato con una ragazza in un hotel. Caracciolo aveva cercato di far intervenire direttamente De Benedetti, ottenendone peraltro un rifiuto perché era evidente che le spese legali non toccasse pagarle a chi aveva vinto la contesa ma a chi l’aveva persa, ed era Berlusconi. Il quale tuttavia rifiutava in modo assoluto e diceva che semmai sarebbe nata una crisi legale per vedere chi dovesse pagare. A quel punto dovetti intervenire io e dopo molti suoi rifiuti riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti come sempre accade in tutti i giornali. Lui ci pensò qualche minuto e alla fine mi disse che accettava e il mio impegno durò fino a quando divenne presidente del Consiglio”. L’articolo per intero è consultabile qui. []
  6. http://it.blastingnews.com/economia/2016/10/serra-con-il-no-i-capitali-esteri-non-vengono-in-italia-cina-imprenditoria-democratica-001179059.html []
  7. Ibidem []
  8. Cito a memoria dall’intervista data a “Piazzapulita”, giovedì 13 ottobre 2016 []
  9. Ibidem []

Ritorno a Ventotene: tanti auguri a Matteo Renzi

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Il prossimo 22 agosto, l’Italia incontrerà Germania e Francia a Ventotene “per ripartire con convinzione sull’Ue dei valori e degli ideali”. Parole di Matteo Renzi all’ultima Direzione del Partito democratico. È un lodevolissimo intento, ma Ventotene, lo spirito di Ventotene, il Manifesto di Ventotene, non sono uno scherzo. Proviamo a rileggerlo nei suoi punti salienti. La missione di un’Europa libera e unita, scrivono Spinelli, Rossi e Colorni, è di sviluppare il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Perciò, non la “politica europea”, non i suoi vertici, non le sue scartoffie che viaggiano quotidianamente tra Bruxelles e Strasburgo, ma la rivoluzione europea dovrà portare avanti questa missione, che è una missione socialista, in quanto si proprone l’emancipazione delle classi lavoratrici, ispirandosi al principio secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma debbono essere da loro dominate. Che fare? Risposta della rivoluzione europea: abolire l’occlusione economica! Questo programma deve essere incarnato non dalla Commissione europea, non dal board dei capi di governo, non dai sacerdoti dell’austerità, ma da un partito rivoluzionario che deve attingere e reclutare nella sua organizzazione solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita. Dunque, non carrieristi, ma rivoluzionari devoti alla causa euroepa. Non sono ammessi quindi Presidenti di Commissione che, cessato il loro mandato, passano a lavorare per Goldman Sachs. Ma andiamo avanti. Questo partito attinge la sicurezza di quel che va fatto, dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Quindi, non è un partito che “prende partito” a priori, arbitrariamente, ma è un partito che raccoglie, accumula, immagazzina le forze che consentono di “prendere partito”. Prendere partito per la rivoluzione europea, che è una rivoluzione socialista fatta da rivoluzionari votati all’idea di Europa. E qui viene il bello. Non con i dinoccolati discorsi nel paludato Parlamento europeo, non con i narcisistici interventi negli infuocati talk show, non con le peregrine Costituzioni che i popoli giustamente spernacchiano, ma tramite la dittatura di questo partito rivoluzionario europeo si forma il nuovo Stato e attorno ad esso la nuova democrazia. Dittatura? Sì, proprio così, con un concetto che, a quanto pare, gli autori del Manifesto non disdegnano di trarre da un Lenin filtrato da Gramsci1, dittatura non della Troika, della finanza, delle grandi banche, che anzi vanno nazionalizzate, come recita il primo punto del programma economico del Manifesto, ma dittatura del partito rivoluzionario che persegue lo scopo di sviluppare il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Grecia, de te fabula narratur. Questo partito non deve girarsi i pollici, aspettando che il processo si compia. Al contrario, esso deve rivolgere la sua operosità anzitutto verso i due gruppi sociali più spontaneamente europeisti, vale a dire la classe operaia e gli intellettuali. Qui, chissà perché, viene ancora in mente Gramsci, ma non sarà per questo che, in tutti questi anni, non di dittatura del partito rivoluzionario europeo, ma di dittatura del capitale, Commissione europea, board dei capi di governo, sacerdoti dell’austerità, globalisti di ogni risma e contrada, hanno lavorato per atterrare e disperdere classe operaia e intellettuali? Ma non cediamo ai sospetti e restiamo al Manifesto. Solo sulla base di questa dittatura del partito rivoluzionario europeo che, come abbiamo detto, è un partito che “prende partito” non arbitrariamente, ma nel divenire del processo storico europeo, che è un processo socialista, cioè egualitario, solo su questa base le libertà politiche potranno veramente avere per tutti un contenuto concreto e non solo formale. E quale sarà questo contenuto di una rivoluzione che qualche supercilioso sta già squalificando come la solita, impossibile, catastrofica, pauperistica, rivoluzione egualitaria? Il contenuto di queste libertà politiche sarà che la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e continuo controllo sulla classe governante. Testuale. E ci si chiede: questo ideale rivoluzionario europeo consistente nella reciprocità tra governanti e governati, tra dirigenti e diretti, non è l’asse portante dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci? Se solo in tutti questi anni, nel nome abusato dell’Europa, fosse stata esercitata non la dittatura del capitale, ma quella del partito rivoluzionario europeo, un partito a quanto pare gramsciano con venature addirittura leniniste, un partito per il quale la riforma economica non è il fine, ma il mezzo per la riforma politica, se solo anche una piccola parte di ciò fosse stato attuato, non avremmo oggi alle porte la minaccia dei “populisti” che urlano contro la “casta”, pronti a subentrarle, non appena l’avranno sloggiata dagli scranni che essa sempre più precariamente ancora occupa. Caro Matteo Renzi, il 22 agosto 2016 prossimo venturo, a Ventotene, sulla portaerei in cui per motivi di sicurezza si svolgerà il vertice europeo da te promosso, riuscirai a iscriverti e a fare iscrivere Hollande e Merkel al partito rivoluzionario europeo? Tanti auguri!

  1. I. Pasquetti, Altiero Spinelli tra Gramsci, Nenni e Berlignuer, “Eurostudium”, ottobre-dicembre 2008, p. 47. []