Archive for Francesco Aqueci

La guardia rossa va a cavallo

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In una corrispondenza da Pechino, Guido Santevecchi, sul “Corriere della Sera” del 1° maggio 2016, pag. 17, dà la parola ad un ex guardia rossa, riciclatosi come allevatore di cavalli per i nuovi ricchi cinesi, facendogli raccontare il suo spaventoso crimine “politico”, cioè aver ucciso a bastonate un sedicenne suo coetaneo durante uno scontro tra bande di giovinastri riverniciati di militanza politica. Il povero ragazzo morto era figlio di operai, e la polizia – dunque, apprendiamo che all’epoca in Cina c’era anche una polizia – arrestò il futuro allevatore di cavalli qualche settimana dopo, anche se poi l’ardimentoso fu rilasciato perché il padre del sedicenne ucciso lo perdonò. Insomma, un minimo episodio di teppismo giovanile finito male, dati i tempi politici turbolenti, la cui colpa naturalmente, per Guido Santevecchi ricade sull’odioso Mao. Ecco, infatti, il cappelletto “storico” che egli premette al racconto, che occupa un’intera pagina del quotidiano solferinico:

 

«Erano i tempi della Rivoluzione Culturale, che secondo la storia ufficiale fu lanciata da Mao Zedong il 16 maggio 1966 per purgare il Partito comunista dagli “elementi borghesi infiltrati nel governo e nella società”. In realtà Mao voleva riaccentrare tutti i poteri eliminando gli avversari politici come Deng Xiaoping e Liu Shaoqi. “Bombardate il quartier generale”, disse ai giovani. I ragazzi furono entusiasti di eseguire trasformandosi in carnefici, picchiando e torturando professori, intellettuali, borghesi, revisionisti. Ci furono due milioni di morti in Cina tra il 1966 e il 1976; e figli che denunciarono i genitori; e umiliazioni pubbliche; e gente che si tolse la vita non potendo più sopportare la brutalità».

 

A parte i milioni di morti, calcolati sempre a spanne, ma viene da chiedersi se, morto Mao, Den Xiaoping non ha forse fatto una politica che, dal punto di vista di Mao, cioè del partito di cui era a capo, era borghese e capitalista. Non ha forse Deng Xiaoping avviato la politica che ha fatto della Cina quel paese capitalistico che è, sebbene con caratteristiche tali, da indurre i cinesi a parlare con involontaria ironia di “socialismo con peculiarità cinesi”? Dove starebbe, allora, il crimine di Mao? È stato un crimine aver difeso i principi ideologici comunisti da chi voleva tradirli? Il crimine è stato di Mao, o di chi, volendo tradirli, provocò lo scontro politico che prese il nome di “rivoluzione culturale”? Santevecchi sorvola sul tradimento, comprovato dal comportamento successivo di Deng, che dà ragione a Mao, e invece agile come un gatto salta sull’argomento della pura lotta di potere, per poter squalificare la reazione di Mao, così trasformato in un despota sanguinario. Ma così facendo, Santevecchi dimostra di essere sì, agile, ma non come un gatto, bensì solo come un gattino, uno dei tanti gattini ciechi ammaestrati a ripetere da ogni canto una rappresentazione di parte che, anche contro l’evidenza dei fatti, pretende di essere la verità storica.

Le scarpette rosse di Joseph Ratzinger

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In una breve segnalazione dell’ultimo libro del filosofo, teologo ed esperto massimo di mistica cristiana, Marco Vannini, All’ultimo papa, Paolo Rodari, su “la Repubblica” di ieri, 3 aprile 2016, a pagina 43, spiega che secondo l’autore di tale opera, le vere ragioni delle dimissioni di Benedetto XVI non sono state gli intrighi di palazzo, la pedofilia, o le carte trafugate, ma il «venir meno dei fondamenti storici della fede». In sostanza, sosterrebbe Vannini, Ratzinger resta l’ultimo difensore di una credenza tradizionale, secondo la quale il «vecchio Dio Padre» è rex tremendae majestatis. È il Dio della tradizione ebraica che oggi, dal pronunciamento di Giovanni Paolo I fino al rilancio operato dalla teologia cosiddetta al femminile, è stato sostituito dal concetto di Dio-Madre. Secondo Vannini, Ratzinger avrebbe dovuto operare un’azione troppo ardita: far passare il cristianesimo da mitologia (appunto la credenza in un Dio potente e superiore) a conoscenza dello spirito nello spirito, un Dio privo di ogni attributo, pura luce: «Un pensiero che non crea né teologie né chiese, perché esso esprime soltanto l’esperienza di una realtà assolutamente diversa». Lo si chiama Dio per consuetudine ma, spiegherebbe Vannini, «non intendiamo affatto parlare di un ente supremo, lassù nei cieli», quanto della scoperta di ciò che siamo, «il nostro stesso essere». Ratzinger avrebbe dovuto spostare il cristianesimo su questo secondo livello. Ma, concluderebbe Vannini, l’impresa è sembrata «tale da richiedere forze molto superiori a quelle di un vecchio papa». E per non tradire se stesso, per non abbracciare un «nuovo umanesimo », ha preferito ritirarsi.

In attesa di verificare queste tesi direttamente sull’originale, si può già avanzare qualche osservazione. E, in primo luogo, verrebbe da chiedere quando e dove c’è stata questa transumanza dal Dio-Padre della tradizione ebraico-cristiana al Dio-Madre del pronunciamento di Giovanni Paolo I fino al rilancio operato dalla teologia cosiddetta al femminile. Questi ultimi, appunto, sono stati solo tentativi abortiti, mai divenuti neanche di lontano l’asse portante di una nuova pastorale, per usare il linguaggio chiesastico di Francesco, il quale si sta limitando, non a caso applaudito “laicamente” da Eugenio Scalfari, a parlare di misericordia. Dio-Padre sta dunque lì, ben conficcato sugli altari, che occhieggia da dietro la sempiterna croce ammonitrice. Se ci fosse stato un tale passaggio, si sarebbe dovuti arrivare all’abolizione del celibato e al sacerdozio delle donne, miraggi che tutto il cattolicesimo per bene aborrisce come la peste, anzi come il diavolo. Il motivo per cui tale passaggio, sic stantibus rebus, non sia possibile, lo si è cercato di spiegare altrove1, e provo qui a ridirlo in poche parole: il Dio-Padre è la sublimazione finale di un assetto storico-genetico che, in una Chiesa precorritrice e poi succube del lacaniano “discorso del capitalista”, è caratterizzato dalla scissione di desiderio e godimento, che diventa perciò cieco e ricorsivo, come dimostra la divorante e inarrestabile pratica della pedofilia. Un assetto che trova il suo suggello in una “vocazione” divenuta sempre più l’amplificazione immaginaria di un soggetto che si realizza come un uno chiuso, totalmente identificato in una missione, un compito, un appello inaggirabile. Il prete come funzionario del godimento assoluto. Per puro spirito di sopravvivenza, Francesco sta cercando di scrostare questa parete imbiancata, con qualche scalpellata dadaista. Ma sono dosi di eparina in un circuito sanguigno pietrificato. Egli è dunque un ultimo papa, tanto quanto lo è stato Ratzinger, che però seguì la strada dettatagli dalla sua indole professorale, formatasi in un astuto ascolto, venato da vaghe allusioni protestanti, dell’esserismo ontologico di Martin Heidegger. Non è per caso che Vannini parlerebbe di un tentativo che, salvandolo dal rischio mortale di dover abbracciare un «nuovo umanesimo», già bestia nera dello sciamano di Todtnauberg, avrebbe dovuto del tutto “spiritualizzare” Dio, per fare emergere, appunto, «il nostro stesso essere». La religione, dunque, ridotta ad una branca dell’esserismo omtologico che, però, tra i fumi di incenso del culto latino richiamato in servizio, si rovescia in spiritualità assoluta che fa l’occhiolino agli austeri fratelli protestanti, nel frattempo del tutto mondanizzatisi. E laddove quindi il vecchio Martin metteva capo in un neo-paganesimo per i pochi, gli eletti, gli autentici, il vecchio e stanco Joseph approda al Dio-spirito assoluto per i “vocati” che in esso ritrovano il loro «stesso essere». Un intellettualismo tanto sottile, da non riuscire ad attutire l’ansima proveniente dall’attiguo appartamento neo-pagano, ma sufficiente a ribadire una religone dalle scarpette rosse che alla massa riserva, oltre ai fasti del vecchio culto, anche le storielle “scientifiche” del buon Gesù pubblicate da Mondadori. In tutto ciò, più che la stanchezza colpisce l’ingenuità del disegno, nonché quella superbia che faceva dire a Gramsci, essere i cattolici del tutto impermeabili alle “confutazioni perentorie” dei loro avversari non cattolici: «la tesi confutata essi la riprendono imperturbati e come se nulla fosse»2. Infatti, alla confutazione, stavolta opera di un’intera epoca storica non cattolica, essi hanno risposto imperturbati con Francesco, il papa venuto dalla fine del mondo che forse accompagnerà la Chiesa alla fine del suo mondo.

  1. F. Aqueci, Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, 2013, pp. 153 sgg. []
  2. A. Gramsci, Quaderni del carcere, p. 1871. []

Regeni il terrorista

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Ci voleva qualcuno che dicesse le cose come stanno, e alla fine il compito se lo è assunto una persona a modo come Sergio Romano. Il quale, nell’editoriale del Corriere di oggi, domenica 14 febbraio 2016, ha accostato l’assassinio di Giulio Regeni alla «salvaguardia della efficacia del dispositivo di sicurezza con cui l’Egitto si difende dai jihadisti dell’Isis e dalla fazione radicale della Fratellanza musulmana». Romano, inoltre, invita a considerare il fatto che «l’Egitto sta combattendo contro un mostro responsabile, tra l’altro della distruzione di un aereo russo pieno di turisti nel cielo di Sharm el Sheikh il 31 ottobre dell’anno scorso e dei massacri di Parigi nello scorso novembre, e che si sta difendendo da una organizzazione terroristica che considera Roma uno dei suoi prossimi obiettivi». Tutto giusto. Ma che c’entra tutto questo con l’uccisione di Giulio Regeni? Che c’entra con l’uccisione da parte di un poliziotto, un anno fa, di Shaimaa al-Sabbagh, poetessa, militante del Partito dell’Alleanza popolare socialista egiziana? Perché la lotta contro i jihadisti dell’Isis e la fazione radicale della Fratellanza musulmana deve comportare la repressione di chi lotta o anche solo studia come vengono sfruttati i lavoratori in Egitto? Lavoratori. Sfruttamento. Non si vorrebbero pronunciare queste parole, per non disturbare il placido sonno dell’ambasciatore Romano, ma egli che è così fine argomentatore, dovrebbe non accomunare, ma distinguere le nozioni, non accomunare, ma distinguere tra “lotte dei lavoratori” e “terrorismo”. Perché l’ambasciatore Romano non procede a questa elementare operazione argomentativa? Forse che il suo giornale e la sua stessa ideologia glielo impediscono? Non si vorrebbe davvero accedere a questo fosco sospetto. Eppure, se l’ambasciatore Romano e il suo giornale si svegliassero dal sonno dogmatico in cui li hanno precipitati dieci secoli di civiltà capitalistica, e trent’anni di capitalismo assoluto, vedrebbero che non solo i jihadisti dell’Isis, ma anche e soprattutto la fazione radicale e quella non radicale della Fratellanza musulmana sono i migliori alleati del generale Al Sisi nel consentirgli di consolidare con il suo potere un assetto in cui, reprimendo i “lavoratori”, si ottiene solo di perpetuare dei rapporti sociali ingiusti che, da un lato, alimentano lo jihadismo e la Fratellanza musulmana, dall’altro ingrassano i ceti capitalistici locali, ammantati di “socialismo di Stato”, della cui subordinazione al capitalismo assoluto globale il generale Al Sisi, molto più dell’infido Morsi, è divenuto, dopo Mubarak, il garante. È comprensibile che questi ghirigori dialettici in cui si dibatte la accaldata realtà egiziana e mediorientale, facciano girare la testa all’aristotelico ambasciatore Romano, ma egli si illude che tale realtà possa essere semplificata dal «giudizio dell’opinione pubblica», come pure conclude con fare ammonitorio il suo ispirato editoriale. Ispirato alla logica del realismo capitalistico, una visione che, come si sa, presume di essere l’unica realtà possibile. L’ambasciatore Romano e il suo democratico giornale, invece, farebbero bene a sottoporsi ad una adeguata terapia psicanalitica, che faccia loro riconoscere la gigantesca rimozione che sta alla base del loro concetto di realtà. Tanto prima decideranno di stendersi sul lettino della storia, tanto prima i concreti fantasmi contro cui lottano, jihadisti, terroristi, fratelli barbuti e non barbuti, dilegueranno, e tanto prima all’umanità intera sarà consentito di procedere oltre una civiltà e un meccanismo produttivo che sta mettendo in serio pericolo la sua sopravvivenza.

Capitalismo e rivendicazioni omosessuali

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Mentre il Parlamento si avvia ad approvare, salvo sorprese, il disegno di legge Cirinnà sulle “unioni civili tra persone dello stesso sesso”, vulgo, sui matrimoni omosessuali, vale la pena riflettere su una domanda che, magari in silenzio, magari sottovoce, molti si fanno: perché quelle che fino a poco tempo fa erano solo rivendicazioni delle organizzazioni LGBT, oggi sono diventate diritti civili, che non possono più essere ignorati? E, soprattutto, perché quelli che una volta si sarebbero chiamati i “circoli capitalistici”, dalla finanza all’economia digitale all’industria culturale e pubblicitaria alla moda ai governi democratici politicamente corretti, hanno fatto proprie le rivendicazioni omosessuali? In una parola, perché la connessione tra capitalismo e rivendicazioni omosessuali? Tentare di rispondere a queste domande comporta di fare un giro lungo, ma forse ne vale la pena. La premessa da cui partire è che nel capitalismo assoluto, di cui spesso in questo sito si parla, bisogna distinguere la civiltà capitalistica e il capitalismo. La civiltà capitalistica comprende il capitalismo come modo di produzione, ma è anche un sistema ideologico e un modo di vita. Esso storicamente è sorto in Europa da una ‘“fusione” di vari fattori da cui derivò la borghesia capitalistica europea. Questo “connubio” è tramontato con le due guerre mondiali e la fine del “compromesso socialdemocratico”, ma è rimasto il capitalismo “metropolitano” che risucchia nella “civiltà capitalistica” il capitalismo “periferico”, sorto dalla diffusione mondiale del modo di produzione capitalistico. La civiltà capitalistica ha dunque solo un legame storico con ciò che resta della borghesia europea, poiché costituisce uno strato cosmopolitico nuovo, che ha evidentemente bisogno del capitalismo come modo di produzione per riprodursi a livello mondiale. Ha bisogno cioè che si creino continuamente delle “periferie” per poter alimentare questo flusso continuo di riproduzione materiale e ideologica. Dunque, non solo merci, ma anche desideri. Non solo realtà, ma anche libido. Se il capitalismo è la realtà, la civiltà capitalistica è un particolare assetto del principio del piacere. La civiltà capitalistica è il godimento assoluto, che il modo di produzione capitalistico deve materialmente alimentare. Quando si parla di capitalismo assoluto, si parla quindi di un modo di produzione finalizzato al godimento assoluto, che è l’essenza della civiltà capitalistica. Qui torniamo alla domanda sul sostegno dei “circoli capitalistici” alle rivendicazioni LGBT: perché questa connessione tra civiltà capitalistica e omosessualità? La risposta che si può avanzare è che tale connessione consente un ulteriore “aggiustamento” del godimento assoluto proprio della civiltà capitalistica, basato su una precisa divisione internazionale del piacere: matrimoni “sterili” sia etero che omo nella “zona” ricca, dediti solo a finalizzare il sesso allo “stile di vita” improntato al godimento; matrimoni “riproduttivi” nella “zona” povera, finalizzati a riprodurre l’esercito internazionale di riserva di forza-lavoro e di consumatori di “primo livello”. Questa divisione internazionale del piacere trova una sua verifica fattuale in quanto osservano i demografi, che notano non solo la correlazione attuale tra aree ricche e bassi livelli riproduttivi, e aree povere e alti livelli riproduttivi, ma anche la tendenza futura, secondo la quale la popolazione aumenterà più velocemente nelle aree povere, dove raddoppierà, a differenza di quanto accadrà nelle aree ricche, dove invecchierà e diminuirà. Il futuro dunque è di una civiltà capitalistica che produrrà periferie povere sempre più numerose per poter sostenere l’assetto produttivo libidico finalizzato al godimento delle aree ricche. E poiché il piacere è insito nella natura umana, e quindi anche i poveri lo desiderano e lo cercano, la civiltà capitalistica funzionerà sempre più non solo come un fattore di crescita demografica esponenziale, ma anche come una potente idrovora che risucchia verso le sue aree ricche le immense masse di poveri che tale civiltà produce in continuazione per poter assicurare la propria riproduzione. Dunque, il boom demografico, che sta proiettando la specie umana verso i dieci miliardi di esemplari, e le migrazioni bibliche, che i soloni pronosticano ininterrotte per i prossimi cinquant’anni, non sono calamità naturali, ma effetti del modo in cui la civiltà capitalistica utilizza il modo di produzione capitalistico per sostenere il proprio assetto libidico e quindi il proprio dominio mondiale. La questione omossessuale, allora, fa tutt’uno con la questione demografica e la questione migratoria, poiché come abbiamo visto risponde alla divisione internazionale del piacere su cui si basa la civiltà capitalistica. Però, non tutte le ciambelle vengono col buco. La civiltà capitalistica è dispostissima a riconoscere i diritti LGBT, dal momento che per essa è una ragione di vita “aggiustare” e approfondire il dispositivo del godimento, ma per sua sfortuna gli omosessuali, gay e lesbiche, sono degli esseri umani che, forse molto di più degli eterosessuali sazi del godimento dello “stile di vita” capitalistico in cui sono immersi, non si accontentano di essere dei puri ricettori di piacere. A loro quindi non basta il riconoscimento delle loro unioni come semplice matrimonio “sterile”, funzionalizzato a sostenere la norma del godimento. Essi invece vogliono anche avere figli, vogliono anche loro praticare il matrimonio “riproduttivo”. Tuttavia, per la civiltà capitalistica questa richiesta di affettività filiale non è un grave problema. Anche se i figli nelle aree ricche sono un costo produttivo, per la civiltà capitalistica trovarsi al suo interno un’enclave riproduttiva bizzarra (queer) non cambia molto nel bilancio produttivo che il capitalismo deve assicurarle. Inoltre, il desiderio procreativo di gay e lesbiche non potrà verosimilmente essere soddisfatto che attraverso la creazione di un ulteriore mercato, il mercato di uteri e spermatozoi. Un fatto che, nel ddl Cirinnà in discussione nel Parlamento italiano, ci si limita a riconoscere “a valle”, ricorrendo alla finzione dell’adozione del figlio dell’altro membro della coppia (stepchild adoption). Ma è evidente che un tale permesso non potrà che sviluppare ulteriormente il già avviato mercato dei fattori della riproduzione biologica. La civiltà capitalistica va così all’incasso due volte. La prima inglobando ed approfondendo l’area del godimento, la seconda creando un ulteriore settore produttivo per il modo di produzione capitalistico, che si allarga a comprendere la produzione di ogni genere di merci atte a soddisfare gli specifici bisogni della vita quotidiana delle coppie omosessuali. Chi si viene a trovare del tutto a mal partito è la “ragione”, sia essa dei laici o dei credenti, che non può affermare i diritti LGBT, ma anche il multiculturalismo e i diritti dei migranti, senza vedersi trasformata in orpello ideologico di un assetto libidico e di un meccanismo produttivo “altri” rispetto alle sue premesse di autonomia e di rispetto dell’individuo. La morale kantiana che, in quanto compimento laico della morale cristiana, era pure stata il grande acquisto universale della civiltà capitalistica borghese europea, sembra davvero diventata un ferro vecchio davanti alle inarrestabili dinamiche libidiche e produttive della nuova civiltà capitalistica cosmopolita. Né serve rispolverare il libertinismo per cercare di correre più velocemente del treno del godimento che follemente va, come fanno coloro che, però, in nome dello stesso laicismo radicale, di fronte al cozzo di usi, costumi e credenze, provocato dalle gigantesche migrazioni, dichiarano guerra al “sacro”, scambiando anche qui l’effetto per la causa. All’evidenza, infatti, non sono le religioni che si affrontano, ma gli individui portatori di religioni, usi e costumi differenti, che la civiltà capitalistica ammucchia nelle moltitudini migratorie di cui ha bisogno il modo di produzione capitalistico che l’alimenta. Spingere sul pedale dell’individuo radicalmente laico rischia di diventare quindi un delirio ideologico. Non l’individuo laico, infatti, trionferà, ma gli infiniti ricettori di piacere omogeneizzati dal godimento della civiltà capitalistica. Né meglio se la passano papi vescovi e cardinali, con i loro richiami alla “naturalità” del matrimonio eterosessuale procreativo. La corrente gelida del godimento, infatti, attraversa già il loro organismo con la pedofilia, che è l’esito storico di un assetto libidico e produttivo, precursore della stessa civiltà capitalistica1. I moniti cardinalizi sono dunque voci di un comando enunciato con lo stesso fiato di cui è fatto il grido che li contesta. Eppure, questi moniti planano su piazze che non aspettano altro che di essere mobilitate, e i laici radicali combattono nel sogno dell’ideologia le loro furiose battaglie, e gay e lesbiche vogliono procreare a dispetto del godimento e della sua logica strumentale, e i migranti solcano i continenti per sfuggire al meccanismo che li vuole poveri, cioè strumento passivo del godimento altrui. È vero, perciò, che il capitalismo assoluto coincide con la vita al punto da risultare incriticabile, ma dalla sua coltre spuntano continuamente teste braccia e gambe di corpi che convulsamente cercano di respirare le ragioni insopprimibili di quella vita che il capitalismo assoluto tende ad assorbire completamente in sé. Chi raccoglierà la spinta di questa scoordinata aspirazione al desiderio, cioè ad un piacere finalmente “disinteressato”? Potrebbero essere la scienza e la tecnica, con le loro collaudate ma anche nuove scoperte, ponti, strade, ferrovie, vaccini e computer, ma anche spermatozoi sintetici e uteri artificiali. Ma scienza e tecnica sono potenze intellettuali, incapaci da sole di produrre un contro-potere sociale, che restituisca le comunità ad un rinnovato “placido corso”. Qui ci sarebbe bisogno di una politica che, con le sue rigorose leggi strategiche e organizzative, tornasse alla guida degli “oppressi”. Ma, nell’attesa di un sì bel dì, essere pro o contro? A favore o contro i matrimoni omosessuali e le loro figliolanze per procura? Contro, si affiderebbe un divieto ad una civiltà che nel suo fondamento spinge al comportamento che con la legge vorrebbe vietare. A favore, non si impedirebbe che pur contraddittoriamente bisogni umani trovino una loro provvisoria espressione immediata. Piuttosto che un ulteriore arbitrio repressivo, non è meglio, allora, una contraddizione che lasci aperto il domani?

  1. F. Aqueci, Freud, Pareto, Lacan e la questione cattolica, “Critica marxista”, n. 5, settembre-ottobre 2010, pp. 33-39, poi ripreso in Id., Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, 2013, pp. 153-165. []

L’auto senza pilota. Gradualmente.

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Si sa, “la Repubblica”, per bocca del suo fondatore, teorizza la compenetrazione di fatti e opinioni: dare tutte le notizie, ma colorate con la vernice che apertamente piace a noi. Così, quando l’articolista scrive: «Oggi è una frase da ricchi: “Manda l’auto a prendermi in azienda”. Domani potrebbe essere una frase di tutti»1, il lettore ancora prima di leggerla deve condividere che domani tutti lavoreranno in azienda, o comunque che tutti quelli che lavoreranno in azienda potranno farsi venire a prendere dall’auto. Associato a questa community ideologica dalla vasta estensione transnazionale, il contenuto dell’articolo è ripreso infatti dal meglio dell’informazione anglosassone, il lettore potrà allora immergersi nello scenario di vita quotidiana che il giornalista, come da manuale, gli prospetta: «Luisa si sveglia alle sette fa colazione, sale in auto e si fa trasportare in ufficio mentre consulta il tablet. Non ha bisogno di parcheggiare. L’auto torna immediatamente a casa da sola. L’attendono il marito di Luisa, Michele, e il piccolo Luigi. Il figlio saluta il padre, sale in auto e va a scuola. Durante il tragitto ripassa la lezione. Quando Luigi scende, l’auto torna a casa. Sale Michele che va a fare commissioni. Questo è il periodo della giornata in cui l’auto senza guidatore viene utilizzata in modo quasi tradizionale. E’ chiaro che mentre si sposta da una destinazione all’altra Michele può leggere e sbrigare faccende senza preoccuparsi del percorso e dei semafori. Ma l’auto si sposta sempre con lui fino a quando torna a casa, all’ora di pranzo. Mentre il padre prepara da mangiare l’instancabile automobile torna da sola a scuola a prendere Luigi e riportarlo a casa. In serata sarà ancora l’automobile vuota ad andare in azienda, prelevare Luisa e riconsegnarla sotto il suo appartamento». Fantastico! E che scenario politicamente corretto, per il lettore medio che il giornale in questione forgia giorno per giorno! È Luisa che va in ufficio, mentre il padre è un casalingo, magari con un lavoro da casa. E Michele e Luisa hanno un solo figlio. Maschio. Perfetto. È il mondo di oggi, così come la pubblicità odierna vorrebbe che fosse, ma proiettato nel domani, quando ci sarà l’auto senza pilota. L’auto senza pilota che quei demiurghi di Google stanno ideando per noi. Un mondo dove tutti sono ricchi, ma con una tale levità da poter farsi venire a prendere tutti dalla macchina a fine giornata in ufficio. Un mondo in pace con l’uguaglianza, l’ecologia e l’economia. Infatti, spiega fervorosamente l’articolista, l’auto senza pilota applica alla perfezione una delle regole di base dell’economia: «il capitale investito deve essere utilizzato il più possibile per essere ammortizzato in fretta. Lasciare un’auto parcheggiata otto ore sotto l’ufficio è uno spreco di capitale. Non solo e non tanto perché si paga la tariffa del parcheggio ma perché acquistando un’auto si spendono decine di migliaia di euro per comperare l’opportunità di spostarsi e non ha senso economico sfruttarla solo due volte al giorno». Non fa una grinza. Basta entrare nell’ordine di idee che spostarsi equivale a spostarsi con l’auto privata. È un altro effettucio ideologico che fa parte del contratto “niente fatti scissi dalle opinioni”, ma stiamo parlando della mobilità automatizzata di domani. Vogliamo metterci a fare i tignosi di fronte a questo radioso mondo firmato Larry Page? La mobilità automatizzata, cioè l’auto privata con il pilota automatico, non è uno scherzo. Si è mossa Barclays a studiare il progetto, dal cui rapporto provengono le informazioni apertamente partigiane che il bravo articolista sta bravamente contribuendo a diffondere. E quando si muove una banca, vuol dire che presto il sogno sarà incubo, cioè realtà. Barclays ha calcolato l’effetto che l’auto senza pilota avrà sulla produzione di automobili. Pare che dei 33 stabilimenti americani GM e Ford, ne resteranno 17. Sarà una bella lotta (intercapitalistica, se si può dire) tra gli inopinati giganti sbucati dal web e i dinosaursi delle automobili tradizionali. E di Luisa e Michele, e del loro figlio Luigi, che ne sarà? Quel desiderio di ricchezza media levitante sulle ruote leggere di un’auto senza pilota si realizzerà? Dipende. Come spiega l’infervorato articolista, «gli analisti prevedono che il cambiamento sarà graduale. Inizierà prima nelle grandi città e solo successivamente arriverà nelle campagne. Ma sarà inevitabile. Soprattutto se nei grandi centri urbani la mobilità automatica sarà incentivata da permessi di accesso non coinsentiti alle auto tradizionali». Ma poter farsi venire a prendere dall’auto senza pilota non doveva essere alla portata di tutti? Gradualmente. Peppino, Ignazia e Alfiuccio, che coltivano patate e mungono caprette in un agro lontano dalla città à la Page, dovranno aspettare un pochino, diciamo qualche generazione, e se vorranno venire in città con la loro fetida automobile tradizionale, dovranno lasciarla in un malfamato parcheggio a ore, e pagare una bella tassa di accesso. Uffa, va bene, le diseguaglianze, ma anche i ricchi piangeranno. Infatti, quelli con la passione rétro di far rombare i motori a colpi di accelleratore, saranno costretti a sgasare lontano dalla città perfetta, magari in quell’agro lontano dove Peppino, Ignazia e Alfiuccio buttano sangue tutto il giorno. È la «sconvolgente rivoluzione della mobilità», come la descrive neutralmente Barclays nel suo rapporto, che abbassa le vecchie élite e dà un’altra illusione ai poveri. Capitalismo assoluto? Ma no, solo scienza e tecnica, quelle “potenze” che filosofi sconsiderati chiamano spregiativamente Gestell, e che invece, messe a profitto da apostoli visionari come Larry Page e compagnia, operano incessantemente per elargire i loro doni all’umanità. Gradualmente.

  1. P. Griseri, L’auto senza pilota. Ne basterà una sola per tutta la famiglia e circolerà il doppio, ‘la Repubblica”, 17.1.2016, p. 21. []