Archive for Francesco Aqueci

L’egemonia e i suoi slittamenti

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Che su “Il Giornale”, organo della alquanto decaduta Casa Arcore, si scriva che «il fallimento della rivoluzione inaugurata nel 1994 da Silvio Berlusconi – ovvero il tentativo di creare una destra credibile in grado di governare il paese – non è riuscito anche per la mancata capacità del Cavaliere di sottrarre alla sinistra l’egemonia che essa si è costruita in 70 anni all’interno della società civile»1, dovrebbe essere una buona notizia per la sinistra, se però nel frattempo non fosse stata fatta prigioniera dall’avventuriero di cui si fa fatica a pronunciare il nome. Eppure, Berlusconi, nella sua rivoluzione, iniziata, com’è noto, ben prima della formale “discesa in campo”, non ha scherzato. Si è mangiata l’Einaudi, ha ridotto i professori universitari a bambini che compilano moduli da mane a sera, stava anche per comprarsi “la Repubblica”, e chissà come l’Italia sarebbe stata differente se anche quest’operazione gli fosse riuscita. Oggi non avremmo un papa laico che predica il suo nietzschianesimo da ordine costituito, e mezza sinistra non sarebbe ipnotizzata dai lustrini da ceto medio fantasmatico che quel giornale stampa ogni giorno nelle sue pagine centrali. Questo per dire che effettivamente è un peccato che Berlusconi non sia stato in grado di portare a termine il suo lavoro. Oggi ci sarebbe tutto da ricostruire daccapo, e invece da un lato c’è la frustrazione dell’impotenza, e dell’altro l’indolenza di chi è stato tramortito ma non ucciso. Ma Berlusconi aveva davvero questa voglia di scalzare l’egemonia culturale della sinistra, per sostituirla con quella di «una destra credibile in grado di governare il paese»? Non c’è una punta di schematismo intellettuale in questo ragionamento, ispirato da una pur apprezzabile lettura spregiudicata di Gramsci? Non bisogna dimenticare che Berlusconi è stato fatto fuori non dalla resistenza della sinistra, ma dalla lettera della BCE e dai sorrisini di Merkel e Sarkozy. Insomma, mentre destra e sinistra sognano ancora di poter costruire o ripristrinare una propria egemonia, il fronte dello scontro si è spostato, perché un terzo incomodo è intervenuto, che costringe quasi destra e sinistra ad una oggettiva convergenza. Nell’articolo sopra citato, si sostiene che «se Matteo Salvini – che ha ormai de facto assunto il ruolo di leader del centrodestra – vorrà sfidare concretamente il Partito Democratico (erede del PCI di Togliatti e Berlinguer) non gli basterà vincere le elezioni ma dovrà sottrarre a quest’ultimo il monopolio della cultura». Ma se quel terzo incomodo l’avesse vinta, Salvini potrebbe anche mettersi a studiare volenterosamente Gramsci, ma non avrebbe più nulla da sottrarre al Partito democratico, per il semplice fatto che quest’ultimo intanto sarebbe divenuto il terminale di un comando eteronomo, promanante dai ben noti ma quanto mai oscuri centri decentrati dell’odierno capitalismo assoluto (in mancanza di meglio, si perdoni il tecnicismo ideologico). E non è finita. Davvero il Partito democratico, divenuto intanto non per caso Partito della Nazione, vorrà essere quel terminale che si è appena detto? Vi sono tanti segnali di un trasformismo giocato non più a Roma, ma a Bruxelles, volto a riaffermare tra le righe di un discorso ortodossamente liberistico il ruolo di uno Stato che rassicura il mondo affaristico (ponte sullo Stretto), libera gli spiriti animali (legge sul lavoro, spregevolmente denominata job act), si agita per ricostruire qualcosa che richiami l’IRI (manovre sulla Cassa depositi e prestiti), mima il thatcher-blayro-reaganismo (decreto antisindacale per l’assemblea dei dipendenti del Colosseo), e si potrebbe continuare. Flessibilità, insomma, anzi, flessuosità, di un mondo la cui massima pare sempre quella di Tancredi del Gattopardo, e che forse è la chiave dello stesso berlusconismo. Non per caso Eugenio Scalfari, dall’alto della sua sedia gestatoria, si duole ogni domenica che l’ex-strillone fiorentino non sia un federalista europeo, ma solo un confederalista. Ma, oggi, se si vogliono preservare le ragioni della storica contesa egemonica tra destra e sinistra, è meglio essere federialisti o confederalisti? Ed ecco, allora, che anche il detestabile bamboccio fiorentino va guardato con una certa attenzione nella oggettiva funzione di ostacolo che può temporaneamente svolgere. E questo per dire che, oltre agli apparati culturali del cortile di casa, resta un gran lavoro da fare per integrare tutti questi slittamenti transfrontalieri nel fecondo quadro dell’egemonia.

  1. G. Repaci, Matteo Salvini legga Gramsci,Il Giornale”, 29 settembre 15 []

Syriza e i problemi dell’egemonia

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Se si guarda alla tipologia del potere capitalistico, nelle due varianti parlamentare e fascista, si vede che dagli anni Ottanta del secolo sorso, c’è stato un progressivo svuotamento di quella parlamentare e un ritorno in forme criptiche di quella fascista, grazie ad una immersione del momento coercitivo in fondamenta economiche, istituzionali e ideologiche più ampie e profonde. Il compatto capitalismo assoluto che ne è sortito, ha spinto la sinistra a introiettare l’alternativa ciclotimica tra un cambiamento che non incideva nella realtà, e un governo cui sfuggiva il potere effettivo. A seconda che prevalesse l’uno o l’altro polo, essa si divideva in fazioni contrapposte, che si rimproveravano reciprocamente di essere in preda ad idealismo, frustrazione ed ingenuità, o a realismo, adattamento, astuzia di basso conio. L’assolutismo della realtà capitalistica è stato l’ostacolo che, provocando la sua scissione in fazioni contrapposte, ha tolto alla sinistra nella sua interezza la possibilità di una riflessione teorica che fosse anche una prassi adattata. Syriza, nata con lo scopo ambizioso di superare questa divisione, ha finito solo per assicurare una carriera politica al manovriero Tsipras. L’assolutismo capitalistico è dunque inscalfibile, oppure c’è stata un’incapcità soggettiva di perseguire quello scopo? Certo, non è facile uscire da una depressione trentennale, e questo tanto più, quanto più il riflesso abbagliante della realtà è che il capitalismo continua a reggere di fatto la totalità delle regolazioni sociali. Eppure, la crisi capitalistica apertasi nel 2007 non è un sogno ad occhi aperti, ma un incubo reale, altrettanto reale quanto la pervasività della realtà capitalistica. Si potrebbe allora affermare che il significato dell’odierna crisi, che fa seguito ad altre ormai consegnate ai libri di storia, è che, in contraddizione con quanto quotidianamente suggerisce la sua stessa ontologia, il capitalismo non potrà mai pervenire a quella chiusura sistemica che l’ideologia dell’autoregolazione di mercato e dei flussi globali suggerisce. Se l’indimostrabilità del capitalismo si apparenta del dibattito logico-teologico, la “distruzione creatrice” et similia sembrano teorie fatte apposta per i miscredenti che, per timore del giudizio sociale, continuano ad andare a messa. Quel che è certo, però, è che una crepa nella realtà c’è, in cui la sinistra può infilarsi, buttandosi alle spalle la sua annosa, disperante ciclotimia. Ma come avviare quelle pratiche di una nuova realtà sociale, che le facciano superare ad un tempo la propria autofissazione alienata e la falsa ontologia esistente? Evocando nomi suggestivi come quelli di Gramsci e Berlinguer, Tsipras era partito predicando la necessità di un nuovo pensiero egemonico, ma ha finito per biascicare le solite formule del politico di professione. Sull’argomento non ci sono lezioni da dare, ma riflessioni da avanzare, colloqui da tenere, discorsi da scambiare, anche come terapia di quella depressione che sembra inguaribile. Nell’epoca del marketing, la prima difficoltà che il nuovo pensiero egemonico incontra è che l’egemonia è un concetto composito: critico e analitico, da un lato, finalistico e normativo, dall’altro. È come dire “Bevete Coca Cola, diventerete schifosamente grassi”. Bisogna perciò scomporre il concetto, ed evidenziare come nel suo lato critico e analitico, esso corrisponde all’egemonia in atto, in quello finalistico e normativo alla nuova egemonia. L’egemonia in atto si presenta come una realtà monolitica, ma in effetti essa è un “testo bilingue”, il “mercato” e la corrispondente “traduzione interlineata” dell’economia critica. È essenziale che quest’ultima balzi fuori dalle ridotte in cui è stata confinata, e mostri la parzialità di una scienza economica che celebra i suoi fasti nelle business schools e nei premi Nobel. Ma la nuova egemonia non può essere solo uno scontro intellettuale, ma deve essere soprattutto una “filologia vivente” che parla il linguaggio intellettuale e morale della “riforma economica”. Su questo terreno, la partita si gioca tra gli “schemi naturalistici” dell’egemonia in atto e il “controllo metalinguistico” dell’agire storico collettivo. L’egemonia in atto è basata sul conformismo spontaneo “dell’esistenza ambiente di condizioni e di pressioni simili”. La nuova egemonia non può che essere la “compartecipazione attiva e consapevole”, resa possibile dal rapporto di reciprocità tra governanti e governati, e dagli istituti che ne garantiscono l’esercizio. La nuova egemonia, dunque, non è genericamente la “democrazia”, ma quell’assetto sociale in cui si realizza consensualmente la “riforma economica”. Questo fatto del consenso, porta a postulare la necessità di un’egemonia di transizione, che non può che essere strategica, nel senso che si articola in patti associativi tesi ad imporre la norma di reciprocità, sul cui riconoscimento verte il conflitto egemonico. Oltre che concetto critico-analitico e finalistico-normativo, l’egemonia è dunque una prassi che comporta il conflitto. Con quali modalità si può manifestare questo conflitto? Anche qui, la vicenda di Syriza offre spunti di riflessione. Pare che nel gruppo ristretto del primo governo Tsipras si siano fatti piani di sequestro dell’oro della Banca di Grecia per far fronte al prevedibile blocco che sarebbe seguito ad un eventuale rifiuto del memorandum. La questione è se una simile mossa avrebbe avuta una sua legittimità, tale da non configurarsi come atto puramente arbitrario di una parte contro l’altra. Le elezioni politiche di gennaio e il referenudm di luglio, per quanto ambivalenti nel mandato, restare nell’euro ma rifiutare l’austerità, offrivano senz’altro una tale legittimità, ma il punto è il “secondo colpo”: un tale atto di forza avrebbe garantito nell’immediato gli interessi della maggioranza dei greci, oppure avrebbe dato luogo ad un crollo tale da fornire agli adepti dell’egemnoia in atto la migliore prova della inaggirabilità della realtà esistene? La risposta a questa domanda non può consistere solo nell’azzardo del leader, ma nella costruzione di ulteriori patti associativi, certamente garantiti dal leader, che precedono e seguono l’eventuale atto di forza. La forza in sé diventa un atto banditesco se non è capace di raccogliere la maggioranza attorno al principio di reciprocità, che si articola in patti che garantiscono temporanemanete interessi che l’evolversi stesso della situazione tende a trasformare. Tsipras non l’ha fatto, scegliendo la via della vecchia politica. Ma la vicenda greca ha evidenziato senza ambiguità i dati del problema, mostrando come il rifiuto di usare la forza in un quadro dinamico di legittimità porta non alla “democrazia”, ma alla sottomissione di una parte all’altra che ribadisce gli assetti esistenti. I nuovi movimenti, da Podemos al new old labour di Corbyn alla “coalizione sociale” di cui si fantastica in Italia, non possono non tenere conto di ciò, pena un ritorno al mutualismo, se non peggio, una ricaduta nel politicismo che non li differenzierebbe in nulla dalle ormai stantie pratiche della sinistra del dopoguerra. Durante questo periodo, quando il fine egemonico non è stato ripudiato ufficialmente, com’è accaduto nelle Bad Godesberg in cui di volta in volta sono incorse varie sezioni della sinistra europea, l’egemonia di transizione è stata praticata in modo tale che la forza subalterna proponente, anziché assimilare la forza di governo dominante, è stata assimilata dall’egemonia in atto. Il mezzo è così divenuto il fine, e l’egemonia si è ridotta ad una “ragion di partito”, mascherata da un vago solidarismo umanitario. Nella sua versione più alta questo è stato il caso del togliattismo, mentre uno dei casi più miserandi di subordinazione del fine al mezzo è stato il blayrismo, che ha trasformato il partito in una macchina di governo, interessato solo a detenere il potere, cioè a servire gli interessi contrari alla propria base elettorale, giudicata “arretrata” e quindi bisognosa di “riforme”. Questo “centro” ottenuto usando la sinistra per soddisfare gli interessi della destra, ha distrutto la fiducia tra il popolo della sinistra e le sue organizzazioni. Compito prioritario è dunque un’intensa lotta ideologica volta a ristabilirla, poiché solo su di essa si potrà fondare una conquista del governo che, all’interno di quel quadro di legittimità dinamico sopra evocato, preluda all’egemonia come fine, cioè ad una democrazia che ecceda economicamente quella liberale, e si distingua culturalmente dalle forme di comunismo storico.

Merkel migranten

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Dialoghetto

sulla trasmigrazione biblica in corso

dal Medio Oriente all’Europa Centrale

 

A: Quelle fiumane di gente che dal Medio Oriente si riversano su Vienna e Monaco sono la miglior prova che il fanatismo islamico non ha futuro. Invece il diciottenne ivoriano che ha massacrato i due pensionati di Palagonia (se è andata così), non rende affatto tranquilli. Dove si forma questa capacità di morte, in paesi dove, con tutte le disgrazie che hanno, i figli li crescono bene?

 

B: In quel che dici c’è una nota così inaspettata di ottimismo, che non posso non chiederti spiegazioni. Le migrazioni di questi giorni un segno che il fanatismo islamico non ha futuro? Che Maometto ti ascolti. E invece ti sorprendi di casi come quello di Palagonia? Centinaia di giovani maschi segregati dai cancelli del Cara e dalle molto più pesanti barriere invisibili, tenuti a bagnomaria per mesi: come vuoi che non schizzinino di cervello anche  ammesso (del che dubito assai) che siano stati “cresciuti bene”, come tu dici, nel loro paese?

 

A: Il mio inaspettato ottimismo, se così può dirsi, deriva dalla considerazione di certe paroline provenienti dal Pentagono, in quel di Washington. Dicono che la crisi migratoria durerà vent’anni. Eh, già, loro hanno rotto le uova, e dall’odore hanno subito riconosciuto la frittata. Quella che loro chiamano “crisi migratoria”, mi pare principalmente la conseguenza della distruzione della classe media irachena e siriana, innescata dalla loro guerra condotta al comando del duo Bush-Cheney e alimentata da successive inettitudini e machiavellismi al momento del fallito cambio di regime in Siria. Per fortuna, poi, Obama è stato prudente coi missili, altrimenti a quest’ora avremo anche dei “migranti” iraniani. Non so se ci vorranno vent’anni, o meno, o più, perché quei paesi si ricompongano, ma il loro futuro non può certo essere quello dei grotteschi guerrieri di Allah. Per quanto la Merkel possa offrire loro interessanti salari di quattrocento euro al mese, buona parte di quella gente, che intanto ha cercato rifugio nei paesi degli “infedeli”, vorrà rifluire in Iraq e in Siria, certamente non per assistere agli sgozzamenti ad opera di europei in cerca di sensazioni forti. Insomma, sia la fuga che il (probabile) ritorno mi sembrano sotto il segno di una laicità peculiarmente araba, che l’ottusa intrusione occidentale dell’ultimo decennio ha sconvolto e interrotto nella sua autonoma evoluzione. Altra cosa sono le migrazioni dei ragazzi dell’Africa nera. Mi pare evidente che sono cresciuti bene. Li recuperano in mare, dopo giorni di stenti, sani e muscolosi. Vuol dire che la sanità di base e l’alimentazione in quei paesi, benché poveri, funziona. Nella maggior parte dei casi, poi, sono rispettosi dell’autorità, forse anche troppo. Vuol dire che sino ad un certo punto le famiglie riescono a seguirli, magari con modelli educativi che per noi sono arcaici. Se diventano schizzati, poi, è perché, come dici tu, noi li segreghiamo. Ma si tratta di casi isolati, come l’ivoriano, e questo dimostra che anche la loro salute mentale è robusta, se nella maggior parte dei casi riesce a resistere a quelle prove. Avrai sicuramente visto che Scalfari, che spesso è al telefono con il Vicario di Dio, riferisce che quest’ultimo ha in animo di proporre un piano mondiale di assistenza in loco per questi paesi, mi pare di avere capito un piano Marshall dell’anima. Questi paesi vorranno essere “spiritualmente” assistiti? Riemergerà sotto altre spoglie la nostra inguaribile vocazione coloniale? Ci manderemo reciprocamente a quel paese? Impareremo finalmente ad aiutarci alla pari? Qui ritorno ad essere pessimista, anche se questo papa Francesco fa proprio di tutto per starmi simpatico.

 

B: Convincente la prima parte del tuo discorso, a condizione di un ottimismo di base che mi rallegra  e che voglio condividere: più che come una profezia come auspicabile programma. In altri termini, se la politica occidentale (nel senso di europeo-occidentale, cioè primariamente tedesca), sarà illuminata, il tuo scenario ha probabilità di realizzarsi. Se prevarrà invece la fatua commozione virtuosa, allora assisteremo alla lumpenproletarizzazione della borghesia siriana trapiantata in Europa con tutte le conseguenze del caso. Quanto ai ragazzi africani,  probabilmente c’è di tutto, belli perché ben cresciuti e belli perché sopravvissuti alla mortalità infantile. Quelli hanno poco da aspettarsi a meno che non ci pensi il papa. Che è simpatico anche a me, ma sempre papa è, intendiamoci. Prendi il caso dell’aborto. Te lo dice in modo simpatico: quel che è stato è stato, ma adesso, ragazzi, niente più aborto, intesi?

 

A: L’ideale sarebbe creare le condizioni perché quella gente possa tornare quanto prima nei loro paesi. E questa la vedo dura. Il papa mi convincerà veramente quando farà il gesto opposto di Wojtyla. Questi si affacciò dalla Moneda in compagnia di Pinochet, di fatto benedicendo l’assassinio di Allende. Francesco si dovrebbe affacciare dalla Casa Rosada, in Plaza de Mayo, in omaggio ai desaparecidos argentini.

Tsipras, l’euro, Lenin e l’egemonia di Gramsci

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Il 73% dei greci che, secondo un sondaggio di neanche un mese fa1, continua ad essere favorevole alla permanenza della Grecia nell’Eurozona, cioè a favore dell’euro, è un fatto che si tende a scacciare come si fa con una mosca noiosa. Eppure è la spia di quell’egemonia di fatto in cui uguali e diseguali, ricchi e poveri, agiati e disagiati continuano a nutrire lo stesso sogno di opulenza, conto in banca e brio social che l’euro promette, coloro che già lo vivono o lo hanno vissuto affinché continui, e coloro che non lo hanno mai vissuto affinché si realizzi. A quanto pare, Syriza ha pure pensato a più o meno confusi piani B, compreso un assalto alla Banca centrale greca degno di un film di Sergio Leone, ma alla fine Tsipras è rimasto nel recinto del “mito europeo”, sforzandosi di far credere di poter trasformare il desiderio di opulenza, conto in banca e brio social in pratiche “virtuose” di ricchezza collettiva, espresse però sempre in euro. Ma la moneta non è un puro significante, di cui si può cambiare a piacimento il riferimento. Essa viene partorita dalle stesse doglie che generano il significato, cioè la struttura dell’economia che fa dell’opulenza, del conto in banca e del brio social delle manifestazioni di superficie di un individualismo profondo, che a sua volta è matrice di quell’assetto economico. Di fronte a questa compatta autoregolazione, Syriza, sin dal suo programma elettorale, ha mimato le movenze del Lenin del 1917, che riteneva che la disciplina burocratica di un’azienda statale come la Posta, assunta a modello per tutta l’economia nazionale, si sarebbe automaticamente rovesciata in una più alta disciplina sociale di tipo comunista2. Ma si sarebbe ormai dovuto comprendere che gli schemi comportamentali dell’egemonia di fatto non sono trasportabili sic et simpliciter nel “nuovo mondo”, le cui nuove abitudini vanno invece prodotte ex novo, con “dialoghi”, ovvero specifici processi di produzione sociale della nuova intersoggettività. Si osserva che la fuoriuscita dall’euro e il ritorno alla dracma era lo stesso obiettivo che si ponevano i liberisti assoluti à la Schäeuble3. Ma una cosa è essere cacciati dall’euro e un’altra è ripudiare l’euro. L’esito referendario, utilizzato senza machiavellismi, avrebbe potuto assumere il valore catartico di una fuoriuscita collettiva dalla bolla cognitiva dell’invidualismo, in grado di fornire l’energia necessaria a prevenire quella “verticalizzazione” del movimento che giustamente ora si stigmatizza4. Ma Tsipras è stato mai veramente interessato a trasformare la massa che esprime passivamente il dato statistico del 73% di favorevoli all’euro, in una collettività di individui che interagiscono attivamente in direzione di nuovi comportamenti che nessuna statistica può ancora prevedere? Sulla scena si affaccia ora Corbyn che, in Inghilterra, nel tentativo di rianimare il Labour Party dal lungo coma blairiano, propone un quantitative easing “per il popolo”5. Ma basta un cambiamento di segno delle vecchie pratiche dell’egemonia di fatto per innescare nuove pratiche di ricchezza sociale? L’impressione è che il semplice cambiamento di segno di tecniche e pratiche dell’egemonia in atto sia l’automatismo di una sinistra, o comunque di un “movimento”, che ha difficoltà ad andare oltre gli schemi rivoluzionari dei padri. Così, il buon Tsipras, con il compromesso firmato invocando Lenin6, ha creduto di dover riprodurre sotto il Partenone gli avanti e indré del grande Ilič, dimenticando la lezione intanto intervenuta dell’egemonia, che dovrebbe essere ormai l’abc di chi è interessato ad “orizzontalizzare” la politica. La posa leninista di Tsipras, invece, ha sprecato una preziosa occasione di passare dai sogni e dalle abitudini dell’inveterata egemonia di fatto, alla presa di coscienza della nuova egemonia produttrice di una realtà radicalmente altra, in grado di superare la matrice individualistica con cui Tsipras invece, in nome di un principio di realtà economica prodotto da quella stessa matrice, è venuto di nuovo a patti. L’obiezione è che il “passaggio” dalla vecchia alla nuova egemonia avrebbe provocato e distribuito solo miseria e privazioni, in uno stato di isolamento della Grecia che sarebbe presto divenuto insostenibile. Ma il compromesso accettato da Tsipras, mentre prolunga l’equivoco dell’eurosogno, procura hic et nunc una ulteriore discesa verso più forti diseguaglianze e crescenti miserie, per quanto compensate dall’acquolina in bocca della “fantasia” individualistica, che promette future risalite di uno zero virgola di prodotto interno lordo. Il risultato, dunque, non cambia, e per di più non innova “tecnicamente” la politica, anzi, ancora una volta, la riduce a quel “gioco autonomo” che alimenta l’estraneità tra governati e governanti, i primi oggetto passivo di decisoni prese altrove, i secondi accomunati dal feticcio dei rapporti di forza. Il no referendario ha offerto a Tsipras l’occasione di essere un politico della nuova egemonia, che agisce non accomodandosi al dato statistico, ma stimolando la base sociale che in esso si riflette a divenire protagonista di un “nuovo gioco” statisticamente non prevedibile. Egli invece ha scelto di essere uno stucchevole epigono di un leninismo così scolastico, se non furbesco, da rovesciarsi in una piatta politica “socialdemocratica”, proprio quella che i turiferari dell’egemonia in atto gli rimproveravano di non sapere incarnare, quando ancora titubava a buttarsi nelle braccia rassicuranti del vecchio che ristagna7.

  1. Grecia, Syriza vola nei sondaggi: se si votasse oggi, avrebbe il 42,5% e maggioranza assoluta []
  2. Lenin, Stato e rivoluzione, p. 25, []
  3. Cristian Marazzi sul “manifesto” del 14 agosto 2015, p. 14 []
  4. Sempre Cristian Marazzi sul “manifesto” del 14 agosto 2015, p. 14 []
  5. J. Corbyn, Invest in our future, 8.7.2015. []
  6. Interview with Alexis Tsipras: “Austerity is a Dead End”, traduzione dell’intervista rilasciata da A. Tsipras il 29 luglio 2015 a Radio Sto Kokkino. []
  7. E. Occorsio, Nouriel Roubini: “Grexit, scampato pericolo, sarebbe stato un disastro e avrebbe contagiato anche Italia e Francia”, “la Repubblica”, 14 luglio 2015. []

Europa, a proposito del suo contributo al mondo di domani

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Con onestà pari all’ostinazione con cui prevede che il mondo finirà inghiottito nel buco nero della tecnica, Emanuele Severino riconosce che «proporsi l’unità politica dell’Europa è comunque mirare a una politica che garantisca la gestione unitaria, dunque efficiente, del capitalismo europeo»1. Guido Rossi trova giustamente stimolante quest’analisi, e alla potenza della tecnica oppone giudiziosamente quella dell’idea. Peccato però che l’idea alla quale si appella, sia quella di un’Europa politica federalista, la quale secondo Rossi addirittura «potrà ristabilire l’ordine mondiale, dopo la fine della pax Britannica e il declino della pax Americana»2. In questi voli pindarici, Rossi è in buona compagnia. La pensa così Habermas, e la pensa così Scalfari, per citarne solo alcuni. Scalfari, in particolare, nei suoi articoli domenicali prospetta un mondo globalizzato governato da un direttorio composto da USA, UE, Russia, India e Cina. È una prospettiva che si ammanta di realistica saggezza, ma che in realtà occulta dati di fatto essenziali. Un tale direttorio, infatti, è tutt’altro che una meta di stabilità, per fatti logici e storici. Il fatto logico è che il federalismo non è portatore né di reciprocità tra governanti e governati, né di pace tra le nazioni. Il federalismo comporta una verticalizzazione del potere, e dà luogo a Stati che perseguno in vario modo la potenza. Basta ripassarsi la storia degli Stati Uniti, ma anche solo della Confederazione elvetica, per avere molte conferme storiche. Si dirà, ma come, la pacifica Svizzera persegue la potenza? A parte che la pacifica Svizzera è fra i paesi con la più alta diffusione di armi da fuoco, che fanno la loro comparsa nelle non infrequenti esplosioni psicotiche che rodono quel paradiso terrestre. Ma questa è una violenza interna. Ciò che conta è che con la potenza finanziaria dei suoi gnomi, la Svizzera ha prefigurato ciò che oggi sta diventando l’Europa con l’euro, il quale è la sublimazione finanziaria di ciò che un tempo fu la potenza militare. La sublimazione è un processo difficilmente controllabile, così a Rossi con le migliori intenzioni scappa di dire che l’Europa finalmente federale ristabilirà l’ordine mondiale. Come volevasi dimostrare. Un altro fatto che Scalfari occulta con la sua prospettiva di un direttorio mondiale composto dai cinque “grandi”, è che Russia, India e Cina non sono né Stati né nazioni, ma solo “grandi spazi”. In Russia, c’è chi, come Aleksandr Dugin, ascoltato consigliere di Putin, rivendica questo fatto, parlando di “grande spazio eurasiatico”. Ora, il “grande spazio” è stabile come un castello di carte. Non è un caso che la millenaria Cina è colta dal terrore davanti alla fermezza con cui un uomo solo come Liu Xiaobo rivendica, sebbene, come lui stesso riconosce, con l’antiquato linguaggio della scienza politica occidentale, la “democratizzazione” della Cina, cioè la scomposizione ed emancipazione delle molte etnie che formano il suo spazio imperiale, di cui ciò che fu il glorioso Partito comunista cinese si è ridotto ad essere l’ultimo, ringhioso cane da guardia. Lo stesso si può dire dell’India, dove la presenza in superfice di istituzioni rappresentative rende solo più flessibili le oscillazioni profonde del castello di carte. Un mondo retto da un direttorio di tal fatta è dunque un mondo in cui popoli e nazioni saranno governati con il bastone del lavoro servile e con la carota di qualche lustrino consumistico. Non meraviglia che Scalfari non veda tutto ciò, essendo egli fermatosi nella sua analisi del capitalismo alla nozione puramente polemica di “razza padrona”. Severino, invece, nella sua analisi delle prospettive europee e mondiali, non ha nessuna remora a ricollegarsi alle analisi di Marx sul denaro, anche se la redazione del Corriere gli fa i brutti scherzi, come Landini al Marchionne di Maurizio Crozza. In una didascalia che dovrebbe spiegare all’inclita chi è Karl Marx, di cui si riproduce la classica icona del Carlo barbuto, il redattore scrive infatti che costui «nel suo famoso libro Il Capitale elaborò un’analisi dell’economia industriale moderna che oggi appare superata». Come mai allora il Corriere pubblica un articolo che si rifà alle tesi di tale “superato” filosofo? Tornando alle cose serie, il capitalismo di cui Severino con tanta spregiudicatezza vede lo stato di crisi terminale, è lo stesso sistema che, specie in questa fase di capitalismo assoluto, non ammette né pace, né reciprocità tra governanti e governati, ovvero le due cose di cui più ha bisogno il mondo di domani. Se c’è dunque un contributo che l’Europa può dare a tale mondo a venire, è quello di coltivare e sviluppare le differenze, ma in modo tale che ogni differenza sia una lingua universale in cui tutte le altre possano essere comprese e tradotte. È quello cui aspirarono gli uomini dell’Umanesimo, del Rinascimento e dell’Illuminismo, ma fermandosi per vincoli strutturali davanti all’invalicabile limite delle piccole cerchie intellettuali. La sfida ora è di scrivere quel grande libro passando dall’intelletto individuale alla mente collettiva.

  1. E, Severino, La tecnica unirà l’Europa, “Corriere della sera”, 3.8.2015, p. 30 []
  2. G. Rossi, L’Europa si salverà solo se sarà federale, “Il Sole-24 Ore”, 9.8.2015, pp. 1 e 14 []