Sul Corriere della sera del 31 luglio 2015, a pagina 41, la “Terza pagina”, appare un altro articolo della filosofa Donatella Di Cesare sui Quaderni neri del filosofo crociouncinato, Martin Heidegger. Titolo: Il monito di Heidegger ai tedeschi: «Non piegatevi alla democrazia». Occhiello: Rimase salda la fede del pensatore nella missione mondiale della Germania. La filosofa dichiara in apertura che non le basta il ritornello di un Heidegger hitleriano e antisemita. Lei ritiene doveroso «comprendere quel che è avvenuto in Germania, prima e dopo il 1945». Questa dichiarazione è molto importante, perché fa capire perché il Corriere pubblichi articoli di questo tenore, con l’asettica titolazione redazionale sopra riportata, e in cui si possono leggere espressioni come «l’aggettivo “metafisico” indica la profondità di un antisemitismo a cui è attribuito un rango filosofico». Il fatto è che la filosofia in questa storia non c’entra niente, o meglio, è la foglia di fico di un sordo fronte antigermanico, economico politico e culturale, che non ha il coraggio di affrontare a viso aperto l’odierna Germania eurocratica, e la punzecchia con simili polemiche culturali, in cui vengono fatte passare enormità che in tempi normali non sarebbero degne nemmeno del cestino della carta. Insomma, più che alla filosofa, è al Corriere della sera e a quegli ambienti di cui dicevamo, che importa non tanto capire, ma cercare di contenere la debordante Germania del dopo 1945, un dopo che riguarda soprattutto i nostri giorni. Le prove di questa che si ritiene una astutissima tattica polemica politico-culturale stanno nel contenuto dell’articolo in questione, stilato con il solito sprezzo del ridicolo dalla filosofa “comprendente”, autrice per altro di un altro articolo sul Corriere in cui, guarda caso, dava per morta la filosofia tedesca1. Insomma, la Di Cesare è vox clamantis, ma dietro c’è chi ghigna, pensando di far chissà quale dispetto all’odiata Teutonia. Dicevamo, le prove. La filosofa, infatti, al di là dell’ormai stucchevole antisemitismo, è interessata a far emergere ulteriori contenuti di cui i nuovi Quaderni neri sarebbero una preziosa testiomonianza. Quali sono questi contenuti? Il primo è l’interrogazione di Heidegger circa la «scrupolosa radicalità con cui i tedeschi compiono anche gli errori più eclatanti». La filosofa subito ci rassicura: rispetto a ciò, in Heidegger non c’è critica o ripensamento, poiché «Heidegger fa corpo con il popolo tedesco». Tradotto: i tedeschi non cambiano mai, come dimostra l’ostinazione con cui stanno imponendo l’austerità che ci sta devastando, ma alla quale non possiamo sottrarci se vogliamo continuare a partecipare al gran ballo di società, anche se, come direbbe Berlusconi, ci tocca ballare con la zitella coi baffi. Il secondo contenuto è la denuncia da parte di Heidegger dello «scandalo» non dello sterminio degli ebrei, ma del fatto che alla Germania «è stato impedito di compiere la sua missione nella storia». Per Heidegger, lo scandalo mondiale che minaccerebbe la Germania è «l’incapacità di immergersi nel proprio destino, disprezzando il “mondo” della modernità». Qui la traduzione, anche per colpa di Heidegger, che infila una delle sue frasi a gomitolo pazzo, non è proprio immediata, e bisogna aspettare la fine dell’articolo per coglierne il senso, che intanto provvisoriamente è il seguente: questi tedeschi sono folli, fissati con questa missione mondiale cui li chiamerebbe il loro destino. Il terzo contenuto è la preoccupazione di Heidegger che la Germania perda la propria essenza: secondo la filosofa, «Heidegger incita i tedeschi a non tradire se stessi, a non arrendersi all’occupazione, a non sottomettersi alla “democrazia mondiale”». Anche qui, la traduzione non può che essere provvisoria, ma è abbastanza chiara: questi tedeschi non si sono mai arresi, e sotto sotto non sono affatto “democratici”, perché con la scusa delle “regole” e dei “compiti a casa” tengono il banco tutto per loro. Il quarto contenuto, infine, con cui si chiude l’articolo, chiarisce tutti quelli che precedono. Infatti, la conclusione della filosofica vox clamantis è che il resoconto degli anni tra il 1945 e il 1948 che Heidegger opera nei Quaderni neri, è quello di un Germania «violata, esausta e dissanguata, ma non definitivamente sconfitta, pronta a ritrarsi nel proprio autunno, in attesa che torni la sua ora nella storia. Perché quell’ora verrà. E la Germania non potrà più mancarla». E, infatti, l’ora è giunta, e la Germania la sta cogliendo in pieno, con grande scorno degli ambienti antigermanici di cui dicevamo, ai quali, nella loro pavidità, non sta restando altro che nascondersi dietro i patetici sofismi della “filosofa che vuole capire”.
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Tsipras sulla via di Dubcek
Dopo la capitolazione greca, dovrebbe ormai essere chiaro che l’Unione europea è la cittadella del più tetragono capitalismo assoluto. Le prove si rinvengono facilmente sulle labbra candide dei migliori turiferari: «Come ci si sente nel ventre di un protettorato, lo scopriranno i deputati greci in Parlamento stamattina quando sarà chiesto loro di votare in due giorni più leggi che negli ultimi cinque mesi. Non sarà un’impressione aribitraria la loro ma un dato di fatto, a credere a Robert Fico. Ieri mattina all’uscita dal vertice di Bruxelles, il premier slovacco ha descritto la soluzione individuata per la Grecia così: un “protettorato” e, ha aggiunto, “non c’è niente di male in tutto questo”». E ancora: «Vista da Berlino, o dall’Aja, non c’è solo la repressione di una sommossa europea goffamente condotta da Tsipras. C’è soprattutto una dose tipicamente protestante di ruvida educazione ai riluttanti, nel loro interesse»1. Dunque, presunzione assoluta di verità, tanto da sapere meglio dei greci qual è il loro interesse. Ma ciò che bisogna notare nella vicenda del duo Tsipras-Varoufakis, è che per sei mesi le avanguardie di forze disperse ma potenti si sono potute aggirare nei meandri di questa fortezza, tenendo ai tavoli degli altezzosi principi che in essa comandano discorsi “inauditi”. Lo dimostra il fatto che Varoufakis non è stato mai confutato de dicto, ma in re, ovvero nelle sue pose motociclistiche, trattamento che nessun media europeo osa riservare alla carrozzella da cui il ministro delle finanze tedesco lancia i suoi sguardi di torvo asceta del valore di scambio. Quando, dopo il referendum del 5 luglio, la coppia Tsipras-Varoufakis si è scissa, l’inopinata “violazione di territorio” è apparsa ancora più chiara. Tsipras, che aveva cercato un’“Europa dal volto umano”, si è avviato al destino di un Dubcek, sottoposto al waterboarding delle trattative di Bruxelles come il cecoslovacco lo fu con il viaggio che Breznev gli impose nella Mosca imperiale dell’epoca2. Varoufakis, invece, ha rivelato dell’esistenza di un piano di riserva, cioè, assieme ad altre misure, della emissione dei famosi titoli di credito fiscali attraverso cui riguadagnare la sovranità monetaria. Nel caso greco, non c’è stato coraggio o conoscenze sufficienti per avviare una simile misura, e il falco Schaeuble ha fulmineamente rivolto l’arma contro gli intrusi, proponendo lui dei “pagherò” emessi dai greci che sarebbero però degli ulteriori debiti3. Per questa volta, dunque, la mano è persa, ma non c’è dubbio che di tutto ciò faranno tesoro quelle forze potenti ma attualmente disperse di cui si diceva. La natura totalitaria dell’Unione Europea è il punto debole di questa associazione di economie liberistiche. Essa non ammette un contro-discorso al suo interno, ed accumula quindi una crescente tensione verso parti di sé che, o perché provenienti dalla tradizione o perché restie ad accettare la religione liberoscambistica, è necessitata ad espellere. Come i terremoti, non si può dire quando questa tensione tra natura umana e capitalismo, evidentemente non coincidenti, scaricherà la sua energia. Dal 1968 alla caduta del Muro di Berlino passarono trent’anni. Inutile quindi le previsioni. Ciò che è certo è che l’Unione Europea per sua intrinseca natura non può derogare dal suo assolutismo capitalistico, che alimenta divorando se stessa (austerity), poiché solo così riesce a produrre quella potenza che le permette, nella totalizzante religione della merce cui è votata, di competere nella “globalizzazione”, cioè di alimentare la competizione intercapitalistica mondiale. Quando quel terremoto arriverà, è facile prevedere che l’assolutismo capitalistico europeo, proprio per la sua natura totalitaria, si rovescerà repentinamente nel suo contrario, nel senso che i discorsi “inauditi” prolifereranno sul suo corpo ischeletrito, ormai incapace di opporsi alle forze contrarie che con il suo autofagismo ha fatto nascere.
- F. Fubini, “Voto a passo di corsa sul pacchetto. Ma il governo è già in disfacimento”, Corriere della sera, 14.7.2015, p. 3 [↩]
- L’espressione “waterboarding mentale” è di una corrispondenza del Guardian. Cfr. “Greek crisis: surrender fiscal sovereignty in retunr for bailout, Merkel tells Tsipras” [↩]
- “Grecia, Schaeuble suggerisce emissione ‘pagherò’” [↩]
Europa, cose semplici
Nella domenica in cui, come nelle vecchie trame ottocentesche, i creditori si sono presi pure gli orecchini di una Grecia ridotta sul lastrico, sono successe molte cose nel piccolo mondo antico dei giornali italiani. Per esempio, tal David Vincenzetti, venuto all’onor della cronaca per essersi fatto hackerare i dati della sua azienda di hackeraggio di Stato, ha dato del “cattivo ragazzo” a Julian Assange, auspicandone l’arresto, dal momento che pubblicherebbe documenti rubati1. E certo la ricettazione è assai più riprovevole di vendere “sicurezza” a governanti dai modi spicci. Comunque, qualcuno si dovrebbe incaricare di far sapere a Vincenzetti che Assange è di fatto agli arresti da tre anni. Che gli debbono fare, di più, tagliargli la mano, come nello Stato islamico? Poi, non è mancato in prima pagina, con prosieguo a lenzuolo nelle pagine interne, il sempre valente Panebianco che ha auspicato per l’Italia una giurisdizione non più prona alla dominante cultura anti-impresa2. Tradotto, una magistratura che non rompa più i cosiddetti con i suoi decreti di chiusura di aziende inquinanti, di malaffare, et similia. Il Papa e Naomi Klein, dunque, se ne stiano buonini con le loro ubbìe ambientalistiche, perché qui c’è da fare impresa. Cose da grandi. Ora, la magistratura non ha bisogno di essere difesa, anche perché, quando vuole, è feroce, come quando processa con l’imputazione di terrorismo i sabotatori delle escavatrici al lavoro in Val di Susa per la Tav. Ma fa un certo effetto leggere appena dopo questa lenzuolata, una lettera del procuratore Spataro, che richiama i principi costituzionali in base ai quali la magistratura è chiamata a svolgere quell’opera di controllo che tanto disturba Panebianco3. Ma Spataro non li legge i giornali? Allora, che parliamo a fare? Ah, già, la sua lettera era pubblicata sullo stesso numero in cui era apparso l’appello pro-impresa di Panebianco. È l’obiettività, bellezza. Mangiando, ci si sporcano le labbra, e con il tovagliolo ce li si forbisce. Poi, Christian Salmon ci ha deliziato spiegandoci cos’è il neomarketing dello storytelling4, praticamente un logo o brand al cubo, anche qui con buona pace della povera Naomi Klein, che abbaino pure lei e i suoi sempre più sfiatati accoliti. E se uno pensa che migliaia di ragazzi africani rischiano la vita, alla volta dell’Europa in quelle barche fatiscenti, attratti dallo “stile di vita europeo” che comprende di poter comprare uno smartphone che ti racconti una storia, beh, viene da invocare lingue di fuoco apocalittiche che scendendo dal cielo brucino in un sol colpo i cinici e gli stupidi di questa epoca di accecati. L’acme di questa domenica speciale lo si è toccato, però, con Eugenio Scalfari che ha scoperto una cosa che, giustamente, gli sembra impossibile, e cioè che «ci sono anche alcuni personaggi di sinistra che, affascinati da Tsipras, vorrebbero quanto meno ricostruire una sorta di comunismo d’antan che abbia l’Europa come terreno seminativo e si proponga di combattere il capitalismo»5. Ma signori miei, si può essere così sprovveduti da proporsi simili obiettivi, quando invece basta fare una bella federazione, gli Stati Uniti d’Europa, in cui, in quattro e quattr’otto, si mette mano ad una politica di crescita, ovviamente accompagnata da misure di equità sociali, poi si vara un bilancio unico europeo, modificando tutti i trattati che ci sono da modificare, a partire da quello di Lisbona, ricordate?, ci si mette a capo un ministro del Tesoro unico, così Draghi c’ha con chi scambiare due chiacchiere, e poi naturalmente si vara il debito sovrano, che non guasta, e poi l’Unione bancaria europea, la garanzia sui depositi e la vigilanza centralizzata, già per altro in corso d’opera, e infine si chiude con la nuova Costituzione dell’Europa federale, elaborata, indovinate da chi?, ma da un’Assemblea costituente eletta ça va sans dire con il voto proporzionale. Semplice, no? Ahò, mica è complicato come il comunismo!
Una storia che potrebbe non cominciare mai
Elaborare universalmente la propria particolarità. Lo chiamano nazionalismo. Il referendum greco sarebbe espressione di nazionalismo. Roba deteriore. Ma si può davvero pensare che i popoli si dissolvano in una nuvola di regole, parametri e compiti fatti a casa? Si può davvero pensare che la salvezza sia nel fare le riforme? Questa è la pretesa delle cerchie governanti che i media amplificano con voce stentorea. Dov’è la forza di questo discorso da prefetto di disciplina? La forza, secondo alcuni, sta nelle ricchezze improvvise, nelle bolle destinate a sgonfiarsi, nelle strane abbondanze di questi decenni dopati dagli status symbol e da un’opulenza fondata sul nulla. I popoli, in tutti questi anni, si sarebbero fatti corrompere. Erano poveri e dignitosi, ma all’improvviso, si sono scoperti diversi, e ora cercano una strada. Le regole e i parametri, allora, sarebbero la faccia della propria estraneazione. Ma questo discorso funzionerebbe se regole, paramteri e riforme assicurassero ricchezza. Regole e parametri sono invece il regno della miseria, dove pochi gozzovigliano. E, d’altra parte, abbandonare una dignitosa povertà, coi debiti che comporta, non può essere una colpa. Mentre è stupido affidarsi ad una ricchezza che si sgonfia al primo refolo speculativo. Bisognerebbe essere dignitosamente ricchi. È questo che significa quel voler restare nell’euro senza dover fare quegli odiosi compiti a casa? L’euro così non sarebbe più una camicia di forza, ma un moltiplicatore unitario di differenze. Lo sappiamo, oltre alla moneta, ci vorrebbe una fiscalità e una spesa pubblica comuni. E non è un caso che prima sia venuta la moneta. Segno che l’euro non era fatto per fare felici i popoli, che infatti ora fanculeggiano. Come se ne esce? Come possono i popoli ritrovare se stessi, quando altri popoli stanno per perdersi? Perché, come ci fu spiegato, la felicità è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in una volta e simultaneamente1. Così, si credeva di essere andati tanto avanti, ma ci si riscopre ancora nella preistoria. Perché se i popoli sono infelici, è perché hanno appena cominciato a porsi sul piano della storia universale. E le forze produttive sono ben lontane da quell’immenso incremento necessario ad evitare che si socializzi la miseria e tutta la vecchia merda2. Ma come si incrementano queste forze produttive? Se il loro sviluppo comporta la totale espropriazione dell’intera massa dell’umanità, quale condizione della sua rivolta contro chi di esse si è appropriato, l’umanità sarà così fortunata da arrivare un attimo prima che il sistema nel suo insieme non abbia divorato le condizioni della propria sostenibilità? L’ecologia. Ovvero la sensazione che la storia non possa cominciare mai. Che chi se l’è goduta, se l’è goduta, e gli altri, semplice materiale biologico che non ha mai preso forma. Bisognerebbe accellerare. Rendere infinitamente più veloce l’elaborazione degli uomini da parte degli uomini, rispetto all’elaborazione della natura da parte degli uomini. Ma è qui che si è perso il bandolo della matassa. Per questo, da un lato ci sono i banditori delle regole, dall’altro le prèfiche dell’imminente disastro. Laudato si’. Ammuina, o una ironica provvidenza riavvia il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente?
La Grecia all’ultimo miglio
La Grecia è all’ultimo miglio. Non accadeva da tempo che una forza proveniente dalle viscere dolenti di questa società sedata, si avvicinasse così tanto al restaurato e ben difeso Palazzo d’Inverno. Le rare cronache obiettive raccontano degli spostamenti, ora per ora, da una posizione all’altra degli ufficiali che guidano la marcia, trattare o non trattare, l’incertezza che coglie il leader, i piani per il dopo di una possibile vittoria, le strade da lasciarsi aperte per una ritirata1. Tutto poi sarà raccontato come epico o tragico, ma c’è la coscienza di un passaggio cruciale. La Grecia era il paese dove la faglia aveva provocato in superficie la guerra civile che aveva cristallizzato gli schieramenti. Nei successivi settant’anni, sembrava un rudere evolutivo, completamente oscurato dalle magnifiche sorti e progressive della partita “egemonica”, un colossale equivoco teorico e un sempre più vergognoso opportunismo pratico che ha portato la “moderna” sinistra italiana all’estinzione, e l’“arcaica” sinistra greca a sfidare il capitalismo della Troika che, nelle parole di chi se ne intende, «significa umiliazione e politica neocoloniale»2. Il referendum dirà se la porta di quel Palazzo dovrà aprirsi, per far passare la colonna vittoriosa, oppure se ci dovrà essere un’altra ritirata, più o meno precipitosa, più o meno ordinata. Anche prima di indire il referendum, si sapeva che il sì era maggioritario. Altrimenti, perché chiedere voti alle ultime politiche non per uscire dall’euro, ma per un’“altra Europa”? Ma la “riforma economica”, senza cui non c’è riforma intellettuale e morale, non c’è egemonia, non c’è governo delle classi subalterne, non c’è nulla di tutto quel verbiage di cui ci si è beati nella bonaccia lunga decenni scambiata per rivoluzione, la “riforma economica”, si diceva, ha tanti nemici, dal panico del buon senso immediato (“come farò con 60 € al giorno?”) alla paura di un domani che si avverte non più retto dalla “distinzione” ma dal principio incognito della “cooperazione”. Tutto nell’immediato cospira contro quelli che oggi sono gli eversori, ma che domani, se il loro “taglio” avrà prodotto la “scissione” nella “placenta” che tutti ci contiene, diventeranno coloro che hanno aperto la via a nuove esperienze, nuove pratiche, nuovi rapporti sociali. La Troika sta con il fiato sospeso, e nei suoi esponenti più pragmatici sino all’ultimo cerca di sottrarsi al verdetto. Perché anche un sì è pericoloso. Il sì significherebbe che nell’immediato l’umiliazione e la politica neocoloniale sarebbero totali e spietate, ma l’odio dei popoli diverrebbe non solo inestinguibile, ma anche inconoscibile nelle forme demoniache che potrebbe assumere. Non solo attenti ai vinti, ma anche attenti ai vincitori.