Una scolaresca va in visita ad Auschwitz. La professoressa che l’accompagna, nota che il blocco destinato all’Italia per il ricordo degli ebrei italiani lì deportati è chiuso. Dalla guida apprende che è in quello stato da quattro anni, per mancanza di fondi. La professoressa, sdegnata, scrive a Corrado Augias, il quale pubblica nella sua rubrica la lettera, auspicando che il governo, almeno nella ricorrenza del 70° della Shoah, riapra il blocco1. Passano due giorni, e sul “Fatto” si legge che il blocco è chiuso perché al suo interno ci sarebbe «un’opera d’arte astratta, poco “leggibile”, e per questo considerata inidonea e ora è stato deciso di portarla a Firenze». Il cronista, la cui paratassi richiama quella di una cronica medievale, aggiunge che le autorità locali sono in attesa di capire come l’Italia deciderà di affrontare la questione e in che tempi2. Lo stesso giorno, però, il ministero degli esteri manda una precisazione a “Repubblica”, in cui si afferma che «è la presenza nell’opera di richami artistici al comunismo, oggi considerati fuori legge in Polonia, ad aver indotto la chiusura del Blocco 21»3. Dunque, l’Italia, un paese in cui l’anticomunismo è una pratica spiritica di massa, non può celebrare i suoi ebrei morti ad Auschwitz perché una legge anticomunista vieta i “riferimenti artistici” al comunismo presenti nell’opera che, secondo quanto si afferma nella lettera del ministero degli esteri, nel 1980 l’Associazione Nazionale Esuli e Deportati (Aned) decise di porre nel blocco dedicato all’Italia. È vero, era il 1980, e non si poteva prevedere che i “riferimenti artistici” al comunismo sarebbero stati vietati per legge, e questa è stata sicuramente una mancanza di lungimiranza. Di che si sdegna, dunque, la professoressa? La colpa è degli ebrei del secolo scorso, che hanno commissionato un’opera d’arte “inidonea” che ora è stata deportata a Firenze e lì verrà gasata e Renzi ha detto che i soldi ci sono per fare questa cosa ma poi ha ritirato la manina comunque i polacchi hanno pure fermato Pacifici che dopo avere parlato in tivù cercava di scappare da Auschwitz da una finestrella ma è scattato l’allarme e sono venuti i poliziotti e lo hanno insultato ladro di merda non si sa se gli hanno detto anche ebreo di merda stavano quasi per riaprire i forni ma è intervenuto il consolato italiano e gli ha detto tranquillo è anticomunista e allora l’hanno rilasciato. Non è uno scherzo, è tutto scritto nella cronica del “Fatto”4. Cronica del nuovo millennio.
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Brutto carattere
Sabato 24 gennaio, al Cairo, nei pressi della fatidica piazza Tahrir, mentre sfilava un piccolo corteo del Partito dell’Alleanza popolare socialista egiziana, è stata uccisa dalla polizia l’«attivista», come viene asetticamente definita dai media, Shaimaa al-Sabbagh, 32 anni, che chiedeva «pane, libertà e giustizia sociale», e manifestava «contro i Fratelli e contro Sisi», l’attuale presidente ex-generale1. Un esile fiore tra zolle pietrose che cozzano ciecamente l’una contro l’altra, ma quanto basta per ricordarsi che le “primavere arabe” sono state anche una richiesta di quella “libertà” che tanto pesa ai tanti Houellebecq d’Occidente. Che cosa sarebbe accaduto in Italia se, nel 1948, i Fratelli musulmani dell’epoca, cioè la Democrazia cristiana, avessero fallito la prova di governo? Magari il generale Graziani sarebbe diventato presidente del consiglio, e Luigi Gedda sarebbe stato sbattuto in galera. Ma da lungo tempo la Chiesa era già un organismo politico, e così i cattolici, dopo la falsa partenza di Sturzo all’inizio degli anni Venti, poterono con De Gasperi adagiarsi nel loro comodo “cattolicesimo democratico”. È questo retroterra di religione “riformata” che, nel corso del 2011, è mancato alle forze politiche arabe di ispirazione musulmana, che si sono invece trovate ad opporre l’aspra morale del Corano ad una società dalla doppia coscienza, quella verbale del rispetto rituale dei dettami del Profeta, e quella pratica segnata da una sfrenata “ragione strumentale”, per di più ostacolata dai detriti della vecchia subordinazione coloniale, e quindi carica di risentimento nazionale. Ma la religione politicamente “riformata” non ha assicurato il Paradiso in terra agli italiani. Negli anni Cinquanta e Sessanta, sono stati a decine gli “attivisti” uccisi dalla polizia, o dalla mafia, mentre manifestavano chiedendo “pane, libertà e giustizia sociale”, alla ricerca di un sentiero di mezzo tra l’astuta, e nell’immediato salvifica, “ragione politica” democristiana, e le forze dello “sfrenato movimento” neocapitalistico che si espressero nel “boom economico”. L’Italia era nata con un brutto carattere. Sin dall’Italietta pre-fascista, infatti, gli italiani furono xenofobi quando non razzisti, maschilisti e quindi anche omofobi, portati alle rodomontate militaristiche, “liberali” ma di un liberalesimo che, in un attimo, ancor prima di poter chiarire con Gramsci, che il drappo rosso agitato dagli operai era quello della “reciprocità”, si tramutò in un anticomunismo che il fascismo eresse a regime, divenendo così l’“autobiografia della nazione”. Il fascismo, che si ergeva a riformatore del carattere nazionale, in realtà ne fu l’erede, esasperandone solo i tratti. Esso chiedeva agli italiani di credere, obbedire e combattere, di praticare il culto della guerra e della bella morte, di essere virili ginnasti, di “fare figli come conigli”, di immedesimarsi nella politica incarnata dal Duce, di considerare gli italiani il popolo eletto. Il neocapitalismo, invece, quando arrivò, chiese di comprare “beni di consumo”, macchine e televisori in primis, di divertirsi, di fregarsene della politica, di non fare figli per non dover dispensare consigli, insomma di godersela. La vera riforma del carattere nazionale l’ha operata perciò il neocapitalismo dei consumi, che già incubava con la Topolino, e che la pelosa generosità del piano Marshall dei “liberatori” d’Oltreatlantico fece esplodere. E tutto questo, da Pasolini in poi, è certamente vero. Ma quando si parla di carattere nazionale, se ne parla sempre sub specie aeternitatis. Intanto è curioso che, in questo carattere nazionale, il fanatismo della tradizione, l’esaltazione dell’eroe che si immola, la sottomissione della donna, il gusto della guerra permanente e l’ideale del Libro e del moschetto, sono il portato di un fondamentalismo non religioso, bensì laico, cioè l’angusto liberalesimo risorgimentale tralignato in fascismo. Ma il problema del carattere nazionale, se si vuole continuare a ragionare con questa categoria tanto suggestiva quanto indeterminata, è il suo futuro. Da quando Pasolini, con la metafora della “scomparsa delle lucciole”, denunciò la “mutazione antropologica” che aveva affetto gli italiani, non si è più fatto un passo avanti. Se si vuole uscire dalla lamentatio, bisogna guardare al terzo tempo, che viene dopo il fondamentalismo liberalfascista e l’anomia del capitalismo consumistico. Oggi, il capitalismo è assoluto, perché il consumo non procura più godimento, ma sofferenza. Con il suo “debito” da ripagare, gira a vuoto. È fallito, ma non si è ancora manifestato chi ne proclami il fallimento. La fase che vive il “carattere nazionale”, dunque, è l’interludio di una rabbiosa speranza, e l’esile fiore della giustizia che, nei pressi di piazza Tahrir, è travolto da forze ciclopiche che la storia non ha ancora digerito, è lo stesso che stenta a sbocciare nel suolo inquieto di un’Italia dal brutto carattere.
- http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_25/cairo-piazza-tahrir-attivista-uccisa-corteo-stata-polizia-governo-nega-e1faf80c-a46b-11e4-9025-a3f9ec48a2fa.shtml [↩]
Moi, je ne suis pas Charlie! Et toi? (3)
Stupiscono certe affermazioni di persone che fanno mostra di un pensiero scafatissimo. Intervistato dal “Corriere della sera” sui fatti di Parigi, Michel Houellebecq afferma che una sua recente rilettura del Corano lo ha convinto che un lettore onesto di questo libro sacro «non ne può concludere affatto che bisogna andare ad ammazzare i bambini ebrei. Proprio per niente»1. Ma, anche senza aver passato i giorni a compulsare dotti trattati, dovrebbe essere ormai chiaro, per semplice fatto d’osservazione, che un testo religioso non è solo un “insieme di prescrizioni”, ma anche, e assai più spesso, un “insieme di giustificazioni”. Oggi ci sono individui che si dicono musulmani, che vogliono vendicarsi di offese subite, e fondare un loro impero universale. Questa non è fede, ma sete di rivalsa e volontà di potenza. Le motivazioni, rivestite di giustificazioni religiose, bisogna andarle a cercare non nel loro libro, ma, se non si vuole risalire al colonialismo, almeno in ciò che è successo in quest’ultimo inglorioso trentennio, nel corso del quale ciò che chiamiamo “Occidente” le ha sbagliate tutte, perdendo via via ogni ascendente sul mondo. Houellebecq, bontà sua, sostiene che «la violenza non è connaturata all’Islam», mentre il problema di questa sfortunata religione «è che non ha un capo come il Papa della Chiesa cattolica, che indicherebbe la retta via una volta per tutte». Se Houellebecq, anziché perdere tempo a leggere il Corano, osservasse ciò che sta accadendo nella Chiesa cattolica, si accorgerebbe che adesso ci sono due papi, uno emerito che ha rinunciato al soglio perché il mondo non lo stava a sentire, e uno in carica che si dichiara solo “vescovo di Roma”. Evidentemente, i papi devono servire a poco se i fedeli hanno altro per la testa. Per fortuna, che Houellebecq ad un certo punto si sveglia, e afferma che la sua lettura del Corano lo porta a supporre come possibile un’intesa dell’Islam con le altre religioni monoteiste. Anche qui, non c’era bisogno di rileggere il Corano, ma bastava osservare la realtà per scorgere in una simile intesa una possibile fuoriuscita dal caos, nei prossimi decenni2. Ma in cosa deve consistere questa intesa? Houellebecq, ricollegandosi a quanto espresso da Emanuel Carrère nel suo recente romamzo Il Regno, sostiene che «senza andare verso un progetto di fusione grandioso alla Carrère, diciamo che Cattolicesimo e Islam hanno dimostrato di poter coabitare. L’ibridazione è possibile con qualcosa che è davvero radicato in Occidente, il Cristianesimo». Fusione o ibridazione, quel che Carrère e Houellebecq dovrebbero sottolineare di più è che il Cristianesimo deve cambiare anch’esso, se vuole intendersi con l’Islam e l’ebraismo. Ecco perché invocare un papa per l’Islam è contraddittorio, quando proprio in ciò il Cristianesimo deve riformarsi. Come si dice in francese, on ne peut avoir le beurre, et l’argent du beurre. Ma il punto è proprio questo, che da vero incontentabile Houellebecq vuole il burro e i soldi che la mamma gli da dato per comprare il burro. Egli infatti sostiene che un’ibridazione dell’Islam con il “razionalismo illuminista” gli pare inverosimile. Per la verità, neanche il Cristianesimo si è ben ibridato con questo strano parto di ciò che chiamiamo “modernità”. Ma qui c’è tutta l’ambiguità del discorso di Houellebecq. «I miei valori non sono quelli dell’Illuminismo», egli afferma, scrollando sdegnosamente le spalle. Quello che all’apparenza sembra essere una via religiosa ad un nuovo umanesimo, si rivela così una regressione ad una religione comune, magari con tanto di papa, che ci liberi da quella libertà morale di cui, come afferma ancora Houellebecq, «l’uomo non ne può più». Ma siamo sicuri che i musulmani non stiano cercando a modo loro quella libertà di cui Houellebecq, e i suoi affaticati compagni, sono così stanchi? Siamo sicuri che non stiano cercando, per altro alquanto disturbati dalle nostre continue intromissioni, una versione più autentica di quella libertà che troppe omissioni, troppe rimozioni, troppe strumentalizzazioni hanno reso da noi un vuoto simulacro? Poco importano queste domande ancora troppo illuministiche, perché Houellebecq ha già deciso: «ecco perché parlo di sottomissione». E che cos’è la sottomissione? Qualche anticipazione giornalistica del suo nuovo romanzo che, non essendo lettori abituali di questo rispettabile scrittore, non si è letto in originale, lo chiarisce:
«“È la sottomissione” disse piano Rediger. “L’idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta. È un concetto che esiterei a esporre davanti ai miei correligionari, potrebbero giudicarlo blasfemo, ma per me c’è un rapporto tra la sottomissione della donna all’uomo come la descrive Histoire d’O e la sottomissione dell’uomo a Dio come la contempla l’islam. Vede”, proseguì, “l’islam accetta il mondo, e lo accetta nella sua integrità, accetta il mondo così com’è, per dirla con Nietzsche. Per il buddhismo il mondo è dukkha — inadeguatezza, sofferenza. Il cristianesimo stesso manifesta serie riserve — Satana non viene definito “principe di questo mondo”? Per l’islam, invece, la creazione divina è perfetta, è un capolavoro assoluto. Cos’è in fondo il Corano, se non un immenso poema mistico di lode? Di lode al Creatore e di sottomissione alle sue leggi»3.
Non si poteva parafrasare meglio il famoso “solo un dio ci può salvare” del filosofo della Foresta nera4, non si poteva esprimere meglio questa nuova “passione dell’obbedienza” da cui, però, i credenti stessi cercano di prendere le distanze (Bergoglio semplice “vescovo di Roma”!). Perché, alla fine, è questo il punto, si abbassano le insegne del “razionalismo illuministico”, si prendono le distanze dalla “modernità” e dall’“Occidente”, ma resta sempre quell’istanza, “noi”, che per quanto ormai vuota di fascino e contenuto, pretende di decidere come deve essere, questa volta non più la “ragione”, ma la nuova fede in cui islamici, cristiani ed ebrei dovrebbero ibridarsi. Una fede da schiavi felici. Il libertinismo è divertente, ma travestito coi paramenti teologici fa paura. Sottomissione? No, grazie, reciprocità!
- S. Montefiori, Michel Houellebecq: «Niente in Francia sarà più come prima. Sì, ho paura anch’io…», http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_14/michel-houellebecq-niente-francia-sara-piu-come-prima-si-ho-paura-anch-io-b2efe122-9bb4-11e4-96e6-24b467c58d7f.shtml. Salvo altra indicazione, le citazioni che seguono si riferiscono a questa intervista [↩]
- F. Aqueci, Rompere lo specchio. Islam ed ebraismo al tornante della modernità, “Critica marxista”, n. 5, settembre-ottobre 2008, pp. 35-41, poi in Id., Ricerche semioetiche, Roma, Aracne. 2013, pp. 187-197 [↩]
- M. Houellebecq, “Francia, il tuo destino è la sottomissione al potere dell’islam”, “la Repubblica”, 15.1.2015, pp. 22-23. [↩]
- M. Heidegger, Nur noch sin Gott kann uns retten, “Der Spiegel”, XXX, n. 23 31 maggio 1978. Il colloquio con Rudolf Augstein e Georg Wolff ebbe luogo il 23 settembre 1966. [↩]
Moi, je ne suis pas Charlie! Et toi? (2)
Oggi, su “la Repubblica”, l’inviato Marco Mensurati, tracciando un profilo dello jihadista complice degli autori dell’eccidio di Charlie Hebdo, scrive: «Con Cherif, agli arresti finisce anche Coulibaly. I due si erano conosciuti ai tempi del parco Buttes Choumont. Per un istante, però, Coulibaly è sembrato sul punto di abbandonare la jihad e integrarsi, tanto che nel 2009, apprendista alla fabbrica della Coca Cola del suo paese, era stato scelto per incontrare il presidente Sarkozy, una specie di testimonial di quelli che ce la fanno. Poi, però, la ricaduta, l’arresto, e la ripresa del viaggio verso la fine»1. Un posto alla Coca Cola e un incontro con Sarkozy, ecco cosa significa avercela fatta. Si capisce allora perché, alla fine, si possa scegliere la jihad.
- M. Mensurati, Dalla moschea ad Al Qaeda così è nata la “banda del parco”, “la Repubblica”, 10.1.2015, p. 11 [↩]
Moi, je ne suis pas Charlie! Et toi? (1)
Un’amica, che ha passato buona parte della sua vita a studiare e a spiegarci l’Illuminismo europeo, mi indirizza una mail dal titolo «Moi, je ne suis pas Charlie! Et toi?», nella quale scrive: «È difficile far passare in questo momento un giudizio così impopolare, e non so se lo condividerai. Ma vedendo le vignette di Charlie Hebdo ho avuto un moto di ripugnanza. La satira rivolta a una categoria in quanto tale è volgare a prescindere (se è ebreo ha il naso adunco, è scuro e peloso, dunque anche avaro…). Le conseguenze tragiche che questi sterotipi hanno avuto nel Novecento dovrebbero insegnarci qualcosa, e invece no. Eppure libertà di pensiero è anche consentire ai nostri coinquilini islamici di pensarsi come individui, il che li aiuterebbe a pensare da individui, cioè come ci vantiamo giustamente di pensare noi». Devo dire che le vignette di Charlie Hebdo mi fanno (facevano) ridere, e di gusto, ma devo riconoscere che è la risata di un attimo, una risata sulfurea che corrode più colui che ride, che l’oggetto dell’irrisione. Forse perchè è il riflesso soggettivo di una immobilità della struttura. Il vecchio Pareto spiegava che la distruzione del “residuo” non fa sparire la “derivazione”, tanto che «nelle Indie gl’indigeni convertiti perdono la moralità della vecchia loro religione, senza acquistare quella della nuova»1. I musulmani sono presi dalla corrente modernizzatrice, ma tengono al loro “residuo”, al punto da farne un assoluto, anche se per fortuna solo una minoranza lo difende con le armi. Decentrarsi da esso e pensarsi come individui richiederebbe una laicità che non ispiri loro il sospetto di essere ridotti a singoli manipolabili poi a piacimento. È vero che ciò concerne anche i fondamentalisti cristiani, anche loro aggressivi in qualche loro componente, ma la differenza non piccola è che essi aspirano a restaurare un “residuo” che, nella struttura, già domina il mondo. È condivisibile perciò nell’immediato quel “giudizio impopolare” circa l’unilateralità di certa satira, ma andando oltre la “permanenza dei residui” di Pareto, il problema è come smuovere questa pigrissima ontologia in cui siamo intrappolati, di cui la religione, con le immagini contrapposte che rinvia gli uni agli altri, è lo specchio deformante utile solo ad alimentare una lotta di potere. Per gli jiahdisti, infatti, che raccolgono in ciò lezioni secolari, la “fede” è un brutale instrumentum di un regno che aspirano ad instaurare, con tanto di pubblici e sanguinosi proclami. Ma la “libertà” alla quale giustamete noi tanto teniamo, è davvero così libera? Si può concepire la satira sub specie aeternitatis, o si dovrebbe forse anche tener conto dello “sviluppo ineguale” delle singole “menti sociali”, senza che da ciò derivi una censura della satira stessa? La mail dell’amica illuminista così si conclude: «Dal compagno Bergoglio mi aspetterei qualcosa in questo senso. Lui se lo può permettere». In effetti, la vignetta charliehebdomadista in cui le tre entità della Trinità fanno a incularella è un ilare atto di disperazione ontologica. Il Papa venuto dalla fine del mondo che, tra lo scandalo di molti, esclama: «chi sono io, per giudicare?», è già una picconata sul “residuo” che, lo voglia o meno Bergoglio, muove verso una promettente “reciprocità”. Il problema, infatti, è uscire fuori dalle “forme di vita” dentro cui proprio quel pigro “sviluppo ineguale” ci imprigiona, e dentro cui stiamo orgogliosamente asserragliati. Uno sviluppo, di cui nessuno può essere ragionevolmente certo di aver raggiunto l’apice. E, invece, se oggi uno jiahdista può uccidere un vignettista per punirlo della sua blasfemia, è perché, nei decenni scorsi, nella “sovrastruttura”, c’è stato chi, politico o intellettuale, cristiano o musulmano, ha fatto a gara nell’opera di “distruzione della ragione”, in nome di una “razionalità strumentale” buona per la struttura, ma che diviene un’impostura quando, verniciata di “libertà”, si propone come il compimento della storia.
- Trattato di sociologia generale, § 1416 [↩]