Archive for Francesco Aqueci

Mambo italiano

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Uno dei personaggi più caratteristici interpretati da Sofia Loren è l’avvenente pescivendola di Pane Amore e…, film di Dino Risi del 1955, soprannominata dal popolo “la Smargiassa” per le molte arie e la prepotenza con cui porta avanti la sua modesta vita in cui si propone di poter continuare ad abitare con un belloccio senza arte né parte, di cui intanto si è innamorata, nella casa che occupa da tempo ma che il proprietario, un vecchio ma piacente maresciallo dei carabinieri in pensione, interpretato da Vittorio De Sica, venuto a dirigere il locale Comando dei Vigili Urbani e assai sensibile al suo fascino femminile, adesso reclama. La Smargiassa non esita a lusingarlo per strappargli la firma di un regolare contratto d’affitto, ballando addirittura sotto gli occhi di tutti un Mambo italiano che ha reso famoso il film in tutto il mondo, ma quando l’innamorato buono a nulla scoprendo che i compaesani se lo additano come cornuto decide di partire emigrato, il suo castello di carte si affloscia nel pianto e ci vuole tutta l’interessata indulgenza del vecchio carabiniere, intanto consolatosi con una zitella in cui arde un più rispondente fuoco nascosto, per rimettere a posto le cose consentendole così di coronare il suo piccolo sogno d’amore. 

A seguito delle elezioni politiche del 25 settembre, annunciata dai prodigiosi sondaggi dei mesi precedenti, nel fatuo firmamento della politica italiana è apparsa una Smargiassa della cui luce marescialli e maresciallesse in servizio e in pensione nei tanti Comandi della ristretta ancorché effervescente vita pubblica italiana si stanno beando. Le arie non le mancano e neanche l’irruenza. Con la mano chiama e ferma gli applausi, scandisce pause teatrali con cui atterra gli avversari, meglio se avversarie, pareggia i fogli degli appunti picchiettandoli minacciosi sul tavolo, protende il busto in avanti e sguardo basso carica le parole scagliandole su chi ascolta, insomma tutte le astuzie sceniche delle fumose assemblee di sezione di un partito catacombale come il fu Movimento Sociale Italiano, quando ci si riuniva per fissare la linea, imporre i chiarimenti, vincere gli scontri da cui sortire dialetticamente più forti che pria. Professionismo politico, rivendicato e seriosamente esibito a salvaguardia di contenuti che la maggioranza degli elettori superstiti ha evidentemente apprezzato – non disturbare chi fa, la pacchia è finita, non tradiremo e non indietreggeremo, ovvero vincere e vinceremo, e poco altro. Se nel film di Risi il vecchio ma piacente maresciallo dei carabinieri in pensione aveva dovuto imbastire un piccolo corteggiamento della Smargiassa pescivendola, qui non ce ne è stato bisogno. Nel suo contenuto capitalistico, la promessa di non disturbare chi fa, chi intraprende insomma e spilla plusvalore come che sia, era già chiara, e l’alleato americano è stato subito rassicurato sulla fedeltà ai patti sottoscritti. E, del resto, perché meravigliarsi di ciò? La fiamma che arde in fondo al logo del partito di maggioranza relativa si riferisce più alla fedeltà atlantica forgiata in decenni di multiformi e non sempre limpidi servizi resi all’anticomunismo militante cuore pulsante dell’atlantismo, che alla fede nel fascismo storico, ormai retaggio folkloristico buono per i musei privati di qualche esponente di quel mondo assurto recentemente ad una delle massime cariche dello Stato. È però al momento della presa di possesso dell’appartamento che qualcosa si è incagliata in questa perfetta messa in scena in cui la servitù viene ammessa alla tavola dei signori. È bastato infatti che l’ex-magistrato Scarpinato, ora senatore, richiamasse in Parlamento quei trascorsi opachi, per giunta evidenziando il loro contenuto capitalistico, il nesso cioè tra l’atlantismo anche nei suoi aspetti criminali e l’eversione politica del dettato economico della Costituzione che il governo appena insediatosi si propone di perpetuare, perché le molte arie, l’irruenza, la sicumera del professionismo politico smargiasso si sgonfiassero di colpo, tanto da dover incorrere con modi spicci (“questo è tutto ciò che ho da dire”) nell’inesattezza e addirittura nel falso. All’ex-magistrato Scarpinato infatti, pareggiando fogli e scagliando parole a sguardo basso, è stato velatamente rimproverato un “teorema giudiziario” circa la strage in cui perse la vita Paolo Borsellino, che egli invece quale Procuratore generale contribuì a smascherare. Come sappiamo, la pescivendola smargiassa finisce in lacrime vittima dei suoi stessi intrighi, e ci vuole l’indulgenza del vecchio carabiniere per rimettere assieme i cocci del suo rapporto con il moroso sul punto di lasciarla. L’alleato americano è vecchio ma francamente è difficile immaginarlo indulgente e ancor meno appagato da un semplice per quanto ammaliante Mambo italiano. Quel che gli si promette lo vuole senza sconti. Più facile, perciò, è che si arrivi a una resa dei conti alla Sergio Leone con gli smargiassi che da decenni gli si strusciano per scroccare uno straccio di contratto d’affitto che, dopo i disastri del Ventennio e il purgatorio dei bassi servizi, li riporti al comando assoluto benché “democratico” della… Nazione. E che Dio protegga il paese Italia.

Il conservatorismo di Giorgia Meloni

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Capita di leggere un libro quando ancora i problemi che vuole agitare non si sono surriscaldati e si pensa che non si surriscalderanno. È il caso per chi scrive del libro di Giorgia Meloni, Io sono Giorgia, pubblicato da Rizzoli nel 2021, in cui l’autrice racconta la sua vita ma espone anche le sue idee. Ecco con riferimento a quest’ultimo punto gli appunti e le impressioni di lettura che chi scrive all’epoca annotò a margine di pagina:

– rivendicazione del sincretismo culturale in nome della libertà “anti-ideologica” e di un sapere posseduto spontaneamente dall’individuo che deve essere solo “chiarito” dalla cultura (198)

– rivendicazione di un aristocraticismo cognitivo e morale (“tutti gli uomini di valore sono fratelli”) (196). Gramsci, che pure è reclamato dal sincretismo della Meloni e sodali, sosteneva invece che “tutti gli uomini sono filosofi”. Una bella differenza!

– caricatura e falsificazione della sinistra additata sommariamente come marxista-uniformante, liberal-globalista, utopista-egualitaria (195)

– richiamo enfatico al principio di realtà come tratto tipico della destra che però con tipico salto sofistico diventa principio della tradizione, con tanto di richiamo alle “radici che non gelano” magnificate dall’immancabile Tolkien (194, 200)

– destra non materialista ma “divina” che difende, conserva e prega, anche qui benedetta sincreticamente da Pier Paolo Pasolini descritto come un “irregolare” al quale chi possiede il sapere spontaneo “anti-ideologico” si può liberamente richiamare (200)

– anti-utopismo (202), ovvero realtà = quella esistente ma che non si nomina, cioè il capitalismo

– progressismo, mondialismo, globalismo, islamismo, comunismo, un unicum indistinto di nemici della persona (194. 202)

– Black Lives Matters = la disprezzata cancel culture (203) ovvero disconoscimento della questione razziale

– contro il genderismo, esaltazione della persona, della famiglia, della patria ovvero facendo leva sugli eccessi disconoscimento di tutte le questioni che ciascuna di queste realtà pone tramite una contro-retorica della potenza, della bellezza, del libero arbitrio e del fascino della tradizione “classica” (203)

– in generale, disconoscere tutte le questioni aperte della crisi dell’Occidente evocate con l’apparente profondità del professionismo politico tramite un sincretismo che vuole rimettere in circolazione l’irrazionalismo del pensiero europeo reazionario soprattutto nelle sue ultime e più popolari propaggini (insistenza molesta su Tolkien). Ma questo non avviene a partire da una base di conservatorismo liberale “classico”, per quanto verbalmente rivendicato, bensì da una posizione politica non solo di fascismo storico ben dissimulato ma anche di neofascismo su cui si tace se non per rimarcarne vittimisticamente una presunta marginalizzazione (la “fiamma” non è solo il simbolo di una “radice che non gela” ma anche l’insegna di un movimento politico attivo dal dopoguerra in poi con un ruolo essenziale benché subalterno nell’anticomunismo dell’epoca)

– risalire all’indietro per divincolarsi dall’esito storico fascista e nazista in cui la tradizione reazionaria borghese precipitò tra le due guerre, in modo da poter riscattare quell’esito minimizzato ma al quale nascostamente ci si richiama perché rappresenta il momento in cui tale tradizione divenne universale (“totalitaria”) e costituisce quindi nelle sue “radici non gelate” un modello ideale con cui nobilitare il “grigiore” del “servizio” reso dal neofascismo in nome dell’anticomunismo alle forze che subentrandovi sconfissero il fascismo storico, ovvero l’americanismo e l’atlantismo

– il conservatorismo rivendicato da Meloni e sodali, un’ideologia di sconfitti che anelano alla rivincita assoggettandosi ai vincitori ai quali, presentendone l’attuale debolezza, vorrebbero finalmente subentrare pensando di poter riaffermare valori che, per quanto stentoreamente declamati (“donna, madre, italiana”), sono intimamente negati dalla “civiltà” al cui comando aspirano.

Socialismo o barbarie, oggi

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La falsa alternativa tra democrazia e autoritarismo che Nancy Pelosi, la Signora Confetto della politica americana, è andata a testimoniare recentemente a Taiwan nasconde a mala pena la realtà del confronto di forza tra i tre titani, gli Usa, la Russia e la Cina, che caratterizza questo scorcio iniziale di secolo. Ognuno di essi scaglia sull’altro la propria debolezza, sperando che collassi. Russia e Cina sperano che le profonde crepe apertesi con l’assalto al Campidoglio di due anni fa portino al crollo dell’intero edificio degli Stati Uniti. Riemergerebbero così gli antichi contrafforti del Nord “industriale” e del Sud “agrario” e il venir meno della secolare dittatura del Nord sull’intera nazione nordamericana in un sol colpo polverizzerebbe la federazione, il capitalismo e il ruolo imperiale degli Stati Uniti. Il pensiero strategico americano non se ne dà per inteso, anzi è convinto di avere molto filo da tessere e così, ora con le guerre delegate ora con le visite leziose, preme su Russia e Cina sperando che a loro volta collassino frantumandosi in molte Russie e in molte Cine. La fine dunque di questi Stati imperiali, paragonabile a quella degli Imperi Centrali che in Europa crollarono un secolo fa con la Grande Guerra. Se è una prospettiva realistica o un’allucinazione che scambia il caos che ne deriverebbe con il trionfo finale della democrazia, purtroppo lo si vedrà solo a cose fatte. La storia mostra che una simile allucinazione, l’internazionalismo democratico alla Woodrow Wilson, accompagnò la fine dell’Europa. Non è da escludere che questa dei costruttori di Stati di diritto che avanzano sotto le bandiere della Nato possa segnare la fine tante volte paventata dell’Occidente. La fine dell’Europa sette-ottocentesca mise di fronte all’alternativa tra l’irrazionalismo di tutti i demoni che nella sua lunga storia il capitalismo aveva ingabbiato nella razionalità strumentale della merce e la “ragione universale” che il socialismo prometteva con l’autodeterminazione dei popoli, la pace senza condizioni e l’instaurazione di una base economica sganciata dal plusvalore. Un’alternativa simile si ripropone oggi con la differenza che il socialismo non è in ascesa ma vive una profonda crisi come si può vedere dallo stato in cui versa nei vari settori dello scacchiere internazionale. In Occidente, il socialismo è un socialismo frantumato, dissimulato, rinnegato che non riesce più a prevalere in una sinistra schiacciata dalla sua subalternità “riformistica” al sistema capitalistico giudicato come l’unico possibile. Il superamento di questa subalternità non può certo avvenire con le sortite elettoralistiche o con il potere morbido della “cultura” ma tornando anche con una certa semplicità scolastica ai fondamenti teorici rivoluzionari il cui cardine è la lotta per l’instaurazione della “dittatura proletaria”. Di questa locuzione, se è difficile oggi definire il significato dell’aggettivo, più semplice è fissare quello del sostantivo, cioè la volontà di contrastare e ribaltare il dominio arbitrario che il capitale esercita nella struttura economica e che difende nella sovrastruttura politica non più e non solo con i tradizionali meccanismi parlamentari ma soprattutto con il pretesto della “difesa della democrazia” da un perenne “pericolo di destra” in nome del quale si santifica il “centro moderato”. Il risultato paradossale di questo inganno ideologico è che lo sbandierato “pericolo di destra” si fa sempre più concreto, anzitutto perché le sue istanze fatte proprie dal cosiddetto “centro moderato” nel miope tentativo di depotenziarle hanno minato nel corso del tempo la democrazia, e poi perché la destra con la sua attitudine autoritaria ereditata dalle dittature novecentesche appare più adatta della democrazia in crisi tanto a preservare il dominio del capitalismo nella struttura economica quanto a restaurare la sua aura “irrazionale” da cui promanano i suoi spiriti animali. Di qui la “democrazia illiberale”, come vengono pudicamente chiamati i nuovi fascismi contro cui si invoca il tradizionale “fronte antifascista” in anni recenti per altro ripudiato dallo stesso capitalismo, vedi il famoso documento della Morgan Stanley del 2013 in cui le Costituzioni antifasciste adottate nel dopoguerra da paesi come la Grecia, l’Italia o il Portogallo venivano additate come un ostacolo alle “riforme” volte all’integrazione liberistica. Insomma, con tutto il rispetto per coloro che vi si impegnano, il fronte unico antifascista appare sempre più come un’arma spuntata e il socialismo, proprio per salvare la democrazia come regime in cui meglio si può costruire la “ragione universale”, deve battersi per instaurare la sua dittatura nella struttura economica come condizione essenziale per bloccare il ritorno di quell’“irrazionalismo” che costituisce lo strato profondo della “forma di vita” capitalistica. Il socialismo vive se è intransigente. Su questa linea riuscirà esso a superare l’attuale dispersione? Lasciamo con un certo pessimismo aperto questo interrogativo e dal socialismo frantumato occidentale passiamo al socialismo negato di tutte le Russie. Nel loro purismo rivoluzionario, Trotsky e Bordiga ciascuno alla sua maniera si rifiutavano di ammettere che il pugno di ferro dei piani quinquennali era l’unico modo di contenere le prorompenti forze produttive che in Russia, già prima della Rivoluzione d’Ottobre, avevano cominciato a rullare. La rivoluzione non fu contro Il Capitale ma per “disciplinare” il capitale. Il “capitalismo di Stato” che ne sortì, ampiamente previsto dagli ideologi liberali, da Pareto a Weber, era l’inevitabile equilibrio “provvisorio” della dittatura proletaria, a patto che il partito unico fosse in grado di tenere vivo il nesso di politica, organizzazione e rivoluzione. Purtroppo la “volontà rivoluzionaria” dell’élite sovietica si degradò presto in generica “volontà di potenza”, ciò che Gramsci colse nella sua famosa lettera al PCUS del 1926, e l’organizzazione di conseguenza si trasformò in “burocrazia” per cristallizzarsi infine in quel “capitalismo oligarchico” con cui Putin intende unificare la “nazione slava”, riportando in vita a tal fine tutto il ciarpame oscurantista, dall’Ortodossia all’eurasismo, che il potere sovietico aveva combattuto solo “illuministicamente”. Per non soccombere nei rapporti di forza con l’americanismo atlantista Putin ha bisogno però di connettersi con altri quadranti in cui sopravvivono spezzoni imponenti di socialismo, in primo luogo con il socialismo ibernato della Cina. La Cina ha potuto mantenere la “forma” politica della dittatura proletaria perché ha salvaguardato il partito unico, la cui esistenza è però legittimata non dalla “volontà rivoluzionaria”, anche qui evaporata con le riforme di Deng, bensì dallo sviluppo nazionale delle forze produttive. Da strumento, il partito è diventato così feticcio che presiede alla creazione e redistribuzione della ricchezza. A pensarci bene, la Cina è il campione più riuscito del policentrismo auspicato da Togliatti nel suo Memoriale di Yalta, ma per assicurare la “connessione sentimentale” tra l’idea generale e le “particolarità” storiche le vie nazionali al socialismo avrebbero avuto bisogno di un “ambiente esterno” rivoluzionario, in assenza del quale sono sfociate o nell’ibernazione dell’idea come in Cina o nella sua liquidazione come nell’URSS e nei grandi partiti comunisti dell’Europa occidentale. È vero che l’attuale dirigenza cinese, ribaltando in nome di Mao l’ultima scelta politica di Mao, ovvero l’avvicinamento cinquant’anni fa agli Stati Uniti per opporsi all’incipiente deriva “russa” dell’allora Unione Sovietica, cerca di creare un tale “ambiente esterno”. Si tratta però di una prospettiva socialista esile e ambigua, affidata com’è ai meccanismi economici e alle iniziative politico-diplomatiche volte a neutralizzare l’antagonismo degli Stati liberal-capitalistici ma per nulla interessata a suscitare o a collegarsi a movimenti anche solo lontanamente paragonabili a quelli cui Mao ricorreva nelle sue sortite anti-burocratiche. Come il socialismo negato, anche il socialismo ibernato sopravvive così come “autocrazia”, uno stigma con cui l’Occidente liquida il fantasma inquietante del “capitalismo autoritario” che abbiamo già incontrato nella veste di “democrazia illiberale”. Ma se democrazia e capitalismo non sono consustanziali e se tanto all’Est quanto all’Ovest il capitalismo si rinserra nella corazza dell’autoritarismo, l’Occidente che tanto tiene alla democrazia perché non prova a costruirne una che non sia capitalistica? Sarebbe questa la vera risposta tanto all’autocrazia quanto alla democrazia illiberale che evidentemente non può essere data perché implicherebbe la ripresa del socialismo che l’Occidente, sotto il tallone di ferro della dittatura capitalistica nella struttura, non può perseguire. Il socialismo disperso, negato, ibernato che abbiamo rinvenuto in Occidente, in Russia e in Cina è dunque il sintomo di qualcosa che urge ma a cui, a causa dell’arbitrio che il capitalismo esercita nella struttura e difende “irrazionalmente” nella sovrastruttura, è impedito di nascere. Non tutto però soggiace a questo “blocco ontologico” in cui a rischio delle sorti del mondo si dibattono i tre titani alle prese con le loro rispettive contraddizioni. A tale blocco, per esempio, si sottrae almeno in parte il socialismo intermittente dell’America latina. Dal Cile al Brasile, dalla Bolivia all’Uruguay, sino all’Argentina peronista, il socialismo latino-americano che arrivi o meno al governo si affida per affermarsi prevalentemente al sistema rappresentativo, esponendosi così a inevitabili rovesci in un continente in cui forze capitalistiche brutali, spalleggiate quando non al soldo degli Stati Uniti, non esitano a buttare la maschera ogni qual volta il gioco parlamentare rischia di sfuggire loro di mano. Da Pinochet a Bolsonaro, fascismi più o meno feroci fioriscono così periodicamente. A parte il caso controverso del Nicaragua, a questo andirivieni si sottraggono Cuba e Venezuela, e se a Cuba con le sue inevitabili distorsioni domina la tradizionale forma del partito unico, in Venezuela dall’intreccio di “missioni sociali” e di “costituzionalismo egemonico” è sorta una sovrastruttura politica flessibile al punto da poter assorbire le scosse eversive di un aggressivo pluripartitismo. Dunque, benché intermittente il socialismo latino-americano appare tenace e innovativo, anche se sempre esposto alle mattane del “pazzo” nordamericano, ora pronto a colpire in nome di principi che esso per primo viola, ora in cerca di scambi imposti da sue impellenti necessità, come si è visto con il Venezuela prima additato come novello regno del male, poi blandito per il suo prezioso petrolio. Di questa spudorata arroganza, sicuramente colonialista e velatamente razzista, ancora di più paga lo scotto il socialismo sanguinante dell’Africa, del Medio e dell’Estremo Oriente. Qui i movimenti, i gruppi dirigenti e i capi sono stati di volta in volta dati in pasto a élite locali compiacenti, poi travolti e annientati. Il caso dell’Indonesia di Sukarno, accuratamente ricostruito da Vincent Bevins nel suo Il metodo Giakarta, è emblematico: se il leader è sopravvissuto mummificato, i movimenti sono stati spietatamente repressi e il capitalismo in questo come in tanti altri casi analoghi ha potuto guadagnare ciò a cui maggiormente tiene, ovvero il tempo. Siamo così giunti al punto dirimente. Al capitalismo nessuno ha promesso l’immortalità, perciò un palliativo che promette di durare cento, cinquanta, anche solo trent’anni equivale all’eternità. Esso vive immerso nel divenire di cui per riprodursi accresciuto succhia ogni istante. Ma istante per istante esso emerge dal divenire sempre identico a sé stesso. Tutti i modi di produzione sono confluiti in esso ed esso li ha aboliti assorbendoli nel suo eterno presente. La storia che ne deriva è la non-storia di un divenire asservito a una falsa eternità universale. È qui che interviene lo scarto del socialismo. Opponendosi alla dittatura del capitalismo nella struttura esso ripristina il tempo storico e le tendenze a esso immanenti. Il capitalismo che con la sua cornucopia di tecnologia, democrazia politica, pluralismo sociale e disponibilità di beni si proponeva come il compimento di tutte le ere, viene smascherato come un usurpatore e un falso profeta. Senza farsi intimorire dall’accusa di messianesimo che cinici, agnostici e razionalisti della domenica son sempre pronti a muovere, la prospettiva aperta da tale smascheramento può essere colta facendo ricorso alla formulazione meta-politica della profezia trinitaria, in cui il Padre onnipotente della Bibbia rappresenta l’era del potere assoluto; il Figlio misericordioso del Vangelo rappresenta l’era dell’amore per il prossimo ma anche della sua negazione; lo Spirito Santo, la terza era che verrà, riscatta e amplia questa dimensione nella pienezza della grazia. Spogliata della sua veste teologica, l’era della pienezza della grazia può essere vista come quella della fusione dello spazio e del tempo in un’unica totalità. La relatività del reale che ne deriva intensifica il processo produttivo al punto da non doversi più alimentare del lavoro come quantità sociale astratta ma di poter servire come base per la realizzazione onnilaterale dell’essenza umana. Di questa terza era in cui il soggetto è l’insieme di tutti i possibili punti di vista il socialismo è l’operatore perché esso non la riceve passivamente dal piano divino ma la trae attivamente dalla sua lotta per l’abolizione del dominio in tutte le sue forme, della natura sull’uomo, di Dio sull’uomo, dell’uomo sull’uomo. E lo scopo che il socialismo raggiunge con tale lotta è di infondere la totalità dello spazio-tempo nella vita quotidiana della specie elevandola così a genere umano. Il socialismo disperso, negato, ibernato, intermittente, sanguinante che abbiamo rinvenuto nei differenti quadranti internazionali, unificandosi in questa missione universale è oggi ancora una volta l’alternativa alla barbarie cui il “blocco ontologico” del capitalismo condanna l’umanità.

Abortire

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L’abolizione del diritto costituzionale all’aborto da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti ha fra i suoi effetti immediati l’allineamento tra cristiani conservatori occidentali e cristiani ortodossi orientali di rito russo in guerra contro la “democrazia” ucraina dell’utero in affitto. Una convergenza imbarazzante che, per i conflitti religiosi del passato e soprattutto per le attuali divisioni politiche, non può trasformarsi in alleanza organica di cui pure il cristianesimo potrebbe valersi nel confronto con le tendenze morali in atto. D’altra parte, se la morale libertina dell’aborto, dell’eutanasia, della procreazione mercificata, dell’omosessualità rivendicata e della fluidità di genere viene rintuzzata nella sua pretesa di elevarsi a morale di Stato, lo sfondo morale dello Stato torna a essere non già la morale laica della “decenza borghese” bensì quella repressiva del tradizionalismo retrivo. Ne consegue che le questioni morali dei singoli individui non verranno trattate nella loro unicità e concretezza, cui pure la morale borghese tendeva con le sue leggi prudenti o ipocrite che fossero, come la 194 italiana sull’interruzione di gravidanza, ma secondo la figura astratta del Dovere in contrapposizione a quella altrettanto astratta dei Diritti negli ultimi decenni giuridicamente prevalente. Questo conflitto tra proibizionismo e permissivismo è destinato a durare sino a quando non sarà possibile basare la morale sulla “particolarità universale”, intesa come giusto mezzo relativo a situazioni e soggetti la cui unicità arricchisce di volta in volta la norma generale collettiva. Questa etica mai conclusa e sempre in itinere, non casuistica ma concretamente universale, potrà affermarsi nella quotidianità se finalmente i bisogni della riproduzione saranno in equilibrio con le esigenze produttive. Sinora lo sviluppo delle forze produttive ha sbilanciato i fattori della riproduzione, trasformando le popolazioni in aggregati in cui, raggiunta la soglia emergente dell’autovalorizzazione infinita, il nascere e il morire, il piacere e il dolore, la mascolinità e la femminilità, sotto la scorza di una falsa socialità diventano pulsioni in conflitto tra di loro. Si può invocare il diritto all’aborto come rimedio per la minaccia di stupro che nei rapporti quotidiani incombe sulle donne? O l’aborto, nonostante il perfezionamento delle tecniche contraccettive, è comunque l’effetto distorto dello stravolgimento del piacere negato da tutto l’assetto dell’esistenza sociale? Si potrebbe continuare a lungo con domande del genere cui la morale corrente risponde oscillando periodicamente tra proibizionismo e permissivismo. Certamente, proibizionismo e permissivismo, momento apollineo e momento dionisiaco, razionalismo e irrazionalismo, sono ognuna nel suo ambito opposizioni che, a paragone di quelle espresse da altre civiltà, hanno consentito nel loro storico alternarsi il più elevato grado di sviluppo delle forze produttive. Ma il costo di tale “disforia sociale” che nessuna “formazione di compromesso”, com’è stato il cristianesimo delle origini, riesce più a compensare, pone all’ordine del giorno l’affrancamento della struttura da tali opposizioni. La trasvalutazione dei valori annunciata a gran voce da equivoci profeti non può che essere la trasvalutazione collettiva del valore di scambio: all’automatismo dell’autovalorizzazione infinita (merge) deve subentrare il controllo sovrastrutturale dei suoi prodotti (Bildung). Il delitto di aborto è quello commesso contro la specie da chi impedisce di portare a termine la nascita della nuova socialità che da tale sostituzione deve derivare.

Il cammino interrotto

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Se sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso Gorbaciov avesse sostenuto con la spada il suo “ritorno a Lenin” le cose sarebbero state più chiare, da un lato il comunismo internazionalista che aveva nello Stato sovietico il suo provvisorio strumento di lotta, dall’altro il risorgente nazionalismo europeo che, come sarebbe divenuto evidente negli anni, trovava alimento nel mitico modo di vita occidentale. Abbagliato dal miraggio di una astratta democrazia, timoroso di poter causare l’olocausto nucleare, sfiduciato circa le proprie stesse forze, egli preferì invece affidarsi agli equivoci e ai sottintesi del “dialogo”, lasciando di fatto alle generazioni avvenire l’onere di risolvere i nodi che ora fronti accanitamente contrapposti cercano di sciogliere in condizioni di oscurità ideologica. Questo errore storico non è parso vero all’America la quale, giocando sul doppio registro dell’UE e della NATO, ha potuto mettere un cuneo nella già malferma costruzione europea allo scopo ben conosciuto di dividere e imperare. E qui si impongono due riflessioni. La prima concerne appunto l’America il cui laico sistema politico puntato sulla felicità dell’individuo fluttua sul magma dei periodici “grandi risvegli” religiosi, a conferma della sua genesi settaria. Essa infatti sorge dallo spurgo delle sette che, non potendosi affermare integralisticamente in un’Europa proiettata verso la tolleranza illuministica, migrarono nel Nuovo Mondo inventando la “democrazia dei signori” come fede da imporre a tutto il mondo. L’altra riflessione riguarda l’Europa, il cui illuminismo certamente resta incompiuto almeno sino a quando la verità intellettuale non diventerà pienamente giudizio etico-politico. Ed è a questa incompiutezza, e non all’Illuminismo, che bisogna imputare l’eclissi che periodicamente oscura la ragione europea. Alla fine della Seconda guerra mondiale, i liberali laici, cattolici o protestanti che fossero, saggiamente avviarono un’opera di superamento dei nazionalismi e dei pregiudizi storici, anzitutto quello antisemita, puntando sui mattoni dell’economia. Ma la loro prudente costruzione è stata colpita al cuore da due strali scagliati da quel Nuovo Mondo settario che liberandoli venne ad asservirli. Il primo strale è stato il liberismo privatizzatore recepito dal Trattato di Maastricht in uno stato di sonnambulismo degli epigoni di quei liberali illuminati. Il secondo strale è stato il rinfocolamento con ogni mezzo di quel nazionalismo che è la lebbra dell’Europa da quando nel secolo XIX essa è divenuta compiutamente capitalistico-borghese. L’Ucraina, con la sua voglia matta di NATO, con le sue “libere” Università propalatrici del verbo delle “società aperte”, con le sue trentatré cliniche per l’utero in affitto, è il prodotto meglio riuscito di tale nuovo nazionalismo, nell’attesa che crolli l’intera impalcatura, giudicata “pre-moderna”, dello Stato russo purtroppo ora presidiato da una casta che cerca di riscattare le sue dubbie origini con il mito eurasiatico. Ecco, allora, lo “scontro di civiltà” tra il settarismo americano, gonfiatosi a imperialismo atlantico, e il revanchismo russo che si propone quale indesiderato difensore di tutti i “mondi a parte” minacciati dal corrosivo Occidente. Ma gli europei sempre così pronti a infervorarsi per le cause perse farebbero bene a ricordarsi che se l’Ucraina entra nell’UE non nascono gli Stati Uniti d’Europa, un copiato che la storia non consente, ma prende forma piuttosto quell’Europa dei popoli cui anelano i “conservatori” sotto le cui insegne si mimetizzano gli eredi del nazifascismo vogliosi di rivincita. Adesso che con le sue atrocità la guerra infuria tra Russia e Ucraina le divisioni sembrano incomponibili, ma quando lo scontro si attenuerà non si potrà fare a meno di riprendere il disegno di un accordo tra Europa e Russia imposto anzitutto dalla contiguità territoriale e in secondo luogo dalle convenienze reciproche, dalle fonti energetiche alle forniture alimentari al nucleare militare in cambio del ben di dio della migliore industria europeo-occidentale. Ma come dimostra l’esito infelice del minimalismo della Merkel, questo pragmatismo non potrà bastare. Bisognerà sollevare il capo dal fiero pasto e riprendere il cammino interrotto di un continente non più borghese, non più nazionalista, non più antisemita che solo il comunismo con il suo contenuto anti-capitalistico potrà assicurare. E ciò non per partito preso ideologico ma perché solo il superamento del capitalismo può portare all’abolizione della forza quale unico principio con cui regolare le questioni. Il comunismo così si rivelerà non un modulo utopistico astratto applicabile in qualsiasi latitudine ma come il completo svolgimento storico dell’intero continente europeo che, portando a compimento la propria particolarità, farà avanzare il mondo intero che oggi ristagna nella cieca caverna dell’economia di scambio.