Archive for Francesco Aqueci

Non son solo canzonette

Download PDF

 In un’intervista al Fatto Quotidiano1, l’editore Giuseppe Laterza rievoca i suoi studi giovanili di Economia e commercio, scelti perché da marxista figicciotto amendoliano quale era all’epoca, era convinto che bisognasse studiare la «struttura». Nel corso di questi studi, racconta Laterza, «facendo un esame scoprii che Piero Sraffa, economista grande amico di Gramsci, in un piccolo ma denso saggio, smontava il meccanismo della teoria classica della creazione del valore e contemporaneamente anche la teoria del plusvalore di Marx. Molto ingenuamente, in un attivo della Fgci, chiesi a Gerardo Chiaromonte come la mettevamo con la teoria di Sraffa. E lui mi liquidò così: “Ma cosa vuoi, son problemi filosofici…”. Per me era un problema decisivo, perché se non si riesce a dimostrare lo sfruttamento dei lavoratori crolla tutta la teoria di Marx. E rimane l’analisi laburista, cioè il conflitto per chi si prende la fetta grande dei guadagni. Ma non lo sfruttamento». Peccato che il pacioso Chiaromonte abbia liquidato così sommariamente il giovane Laterza, perché il punto da lui sollevato era tutt’altro che campato in aria. È vero che Sraffa ha fatto ciò che Laterza dice, ma questo non significa che egli abbia mostrato che il fatto sociale dello sfruttamento del lavoro non esiste. Sarebbe stato come voler nascondere il sole con il setaccio. Ciò che Sraffa ha mostrato è solamente che questo fatto sociale non è la causa economica del profitto. Per Sraffa, infatti, il sovrappiù è una proprietà tecnologica del sistema. Questo però significa che Sraffa fa dell’economia una scienza logicamente rigorosa, ma socialmente e storicamente muta. Che contrappasso, per lui che destabilizzò il logicismo di Wittgenstein, inducendolo alla “svolta linguistica”!2 Visto che l’economia assolve il capitalista, ci dobbiamo buttare allora tutti sul laburismo, come vorrebbe Laterza? Me se si riflette sui tanti autori così meritoriamente pubblicati e tradotti dalla sua casa editrice, dal vecchio Colletti all’inquieto Napoleoni, dall’olimpico Habermas al pugnace Sen, ma ahimé non il filosofico Lukács, si vede che nella realtà odierna, la merce non solo non è divenuta trasparente, mero rapporto tecnologico, come voleva Sraffa, ma si è fatta doppiamente opaca. Infatti, se da un lato lo sfruttamento sociale necessario a produrre il suo supporto oggettuale è stato occultato nel sottosuolo delle delocalizzazioni produttive, dall’altro, quello necessario a produrre il brand, vero fulcro del sistema, è stato nobilitato a prestigioso pseudo-artigianato autonomo. Il sistema, insomma, piuttosto che trasmutarsi in un meccanismo neutro e trasparente, così come voleva l’elegante soluzione di Sraffa, avvolge gli individui in un supplemento di alienazione, che addirittura, alla sua periferia, con il falso brand, si mescola inestricabilmente con il crimine, ovvero con un modo di produzione capitalistico non statuale. In tali condizioni, il dibattito pubblico, appare ben lontano dall’essere quell’arena laburistica accessibile a tutti, in cui si decide la spartizione della «fetta grande dei guadagni». Su di esso, infatti, non pesano solo restrizioni cognitive e pragmatiche, difficilmente sormontabili anche nell’ovattato modello di Habermas, ma ben più profondamente incidono le distorsioni che lo stesso modo di produzione opera, come avvertiva Lukács, sulla relazione tra soggetto e oggetto. Resta dunque il problema del superamento della fatticità reificata del sistema, cioè di quel rapporto puramente empirico e immediato con gli oggetti, funzionale ad un intervento su di essi di tipo calcolistico-strumentale. Una reificazione che, dopo tante illusioni, nutrite dallo stesso Lukács, almeno nella sua prima vita, possiamo dire che tocchi tanto il soggetto estraniato della “borghesia”, quanto il soggetto “proletario” della “presa di coscienza” disalienante. Questo è infatti il dato attuale che da Marcuse, autore quanto mai malcompreso, ai più onesti osservatori contemporanei, un nome per tutti, Luciano Gallino, non possono fare a meno di registrare, e cioè il fatto che la totalità capitalistica si è estesa, erodendo e annullando la posizione del soggetto alternativo, senza per questo irrigidirsi, anzi pervenendo ad una inarrestabile fluidificazione oggettuale. La “fatticità estraniata” si è rivelata quindi più forte della “presa di coscienza”. Questo però non ha pacificato l’essere sociale, né gli ha dato la chiave per l’equa distribuzione del sovrappiù, che invece è divenuta sempre più diseguale. Segno che la giustizia non è da porsi nel momento sovrastrutturale e distributivo del dibattito pubblico, ma in quello strutturale e produttivo del modo di produzione. E così siamo rimandati di nuovo al problema economico, che la soluzione di Sraffa evidentemente non ha affatto chiuso. Non bisogna perciò farla tanto facile, e prendersela, come fa Laterza, a conclusione del suo ragionamento, con il «retaggio marxista» che alimenta in Italia il «pregiudizio negativo nella sinistra contro gli imprenditori»3. Nessuno vuole ammazzare gli imprenditori, ma essi devono pur capire che non sono la soluzione, ma una parte del problema. Se l’economia di Sraffa li assolve, l’alienazione di Hegel, Marx e Lukács non li benedice. Oppure, vogliamo pensare come Gerardo Chiaromonte che, al fondo, sono solo canzonette filosofiche?

  1. Giuseppe Laterza, Croce, i libri e i ragazzi della Fgci. Il dovere di essere un editore, intervista di Silvia Truzzi, “Il Fatto Quotidiano”, 13.7.2014, p. 18. []
  2. Su questo punto, cfr. A. Sen, Sraffa, Wittgenstein, and Gramsci, “Journal of Economic Literature”, Vol. 41, No. 4 (Dec., 2003), pp. 1240-1255 []
  3. Giuseppe Laterza, Croce, i libri e i ragazzi della Fgci. Il dovere di essere un editore, cit. []

Grammatica di Telemaco

Download PDF

Ecco la riproduzione di uno scambio di mail, intercettato dalla solita occhiuta e invadente NSA, tra due italioti, una nordica e un sudicio, divisi dal meteo e dalla “questione telemacotica”:

L. Ciao. Qui, oggi, dal ponte sul fiume, una splendida vista, dopo diverse giornate di pioggia in città e neve in montagna.

F. Beata te (voi) che ti godi il sereno dopo la tempesta. È vero, il poeta si godeva la quiete, ma mi appello alla libertà linguistica. Hai visto l’ultimo articolo di Chomsky e compagni?1 E Telemaco, che diventa un mondo dove all’Edipo si sostituisce il Telemaco?

L. No, non ho letto l’articolo di Chomsky. Che dice? Concede ancora un pezzo di linguaggio ai suoi rottamatori purché gli lascino almeno un pezzetto di ricorsività? La mia cultura classica si è via via scolorita. Che fine fa Telemaco? Comunque geniale, mentre taglia zebedei a destra e a manca, assicurare alle sue vittime che lui è un bravo figlio. Recalcati ci è subito cascato (“Repubblica” di stamattina)2. A quando Enea che si accatasta sulle spalle tutti i suoi Padri-Anchisi?

F. Non solo un pezzetto, ma tutta la ricorsività Chomsky si tiene, perchè per lui il linguaggio in senso stretto è computazione e rappresentazione. Poi c’è il linguaggio in senso largo, che comprende tutto quello che condividiamo con le bestie. Ma duemila e cinquecento anni fa, Aristotele non diceva più o meno la stessa cosa (phoné vs. lògos)?3 Buono o cattivo segno? Telemaco pare che finisca ucciso dal fratellastro, cioè il figlio che Ulisse aveva avuto da Circe. Che vorrà dire? E comunque, pare che Recalcati sia il suggeritore del brillante paragone.

L. Quanto a Chomsky vabbè, allora è quello che diceva già nell’articolo con Hauser & Co. nei primi anni 20004. Comunque mandami l’indicazione. Quanto a Telemaco, beh, non so se prima viene l’uovo (suggerimento di Recalcati) o la gallina (coccodé di Renzi), ma fatto è che i fratellastri non mancano e lui stesso ha mostrato di che sono capaci. Ma che dirti, bisogna ammettere che per la prima volta nei consessi europei si parla come se magna. E c’è una posizione dei socialdemocratici e una dei popolari.

F. Ti allego l’articolo di Chomsky, scritto sempre in collaborazione con Hauser & Co5. Per Wilson, il sociobiologo che, dall’alto della sua etologia wasp, si diverte a sbertucciare Chomsky, non ci sarebbe nessun mistero. D’accordo con l’interazionista oltranzista Michael Tomasello, lui pensa che il linguaggio è un derivato6. A questo punto, non posso fare a meno di pensare a quant’era saggia la terza via di Piaget, ma è risaputo, le terze vie non portano da nessuna parte. Sì, certo, nei consessi europei c’è ora quella nettezza che tu dici, ma in patria Matteo Telemaco continua a intendersela con il capo dei Proci il quale, benché sfiancato, può sempre dire la sua su cosa deve o non deve fare Penelope.

L. Ho letto l’articolo che mi hai mandato. Anzi, mi pare una inopinata sterzata verso il chomskismo ortodosso, rispetto alle precedenti uscite, da parte di autori come Hauser che sembravano prendere le distanze. Anch’io penso spesso con nostalgia a Piaget. Che però è citato più spesso di quanto si potrebbe pensare. È uscito un libro che si intitola Piaget, Evolution and Development. Non so cosa c’è dentro, mi riprometto di vederlo. Si, il duetto è francamente osceno. Telemaco preferisce evidentemente trattare con un Capoprocio stracotto piuttosto che con procetti nuovi di zecca ambiziosi come lui. Quale bravo erede non si cautela contro i suoi eredi? Malademboracurrunt, come diceva quel grande pedagogista mio collega quando, nei momenti critici dei consigli di facoltà, montava sul catafalco.

F. Quanto a Piaget, se è quello che dico io7, non è poi così recente. Ma poco importa. Non so se sono da rimpiangere i riti funebri dei vecchi consigli di facoltà, rispetto alle messe pontificali degli odierni dipartimenti, ormai simulacri di consigli di amministrazione. Ma tornando al nostro Chomsky, hai ragione, rispetto all’articolo del 2002 è più chiuso. Forse, il diluvio cognitivistico nel frattempo scatenatosi, l’ha indotto ad alzare il ponte levatoio. Devo dire che l’apprezzo di più, così. Mi sembra molto più serio rispetto all’uso, diciamo, onnicomprensivo del termine “linguaggio” che certuni fanno. Oggi, su “Repubblica”, il classicista Bettini ritorna sulla metafora Telemaco, e ricamando sul mythos, sostiene che con essa si è voluta reclamare una autorevolezza per il proprio dire che sino a prima del fatidico “quaranta per cento” non era ancora riconosciuta8. Quando passeremo dalle chiacchiere ai fatti, ci accorgeremo, purtroppo solo a cose fatte, che questi fratellastri stanno solo cercando di rianimare il cadavere putrefatto del Padre che comanda con in mano un nodoso bastone. E allora, chomskyanamente, viene da chiedersi quale sia la “struttura profonda” che in Italia produce sempre in “superficie” queste figure autoritarie, da Crispi a Craxi a Berlusconi (anche se molto sui generis) a Renzi, passando ovviamente per la più riuscita, quella dell’immortale mascellone.

L. Per le domande “fondamentali” c’è tempo. E che Renzi voglia rinverdire il Mascellone mi sembra azzardato. Non hai letto Scalfari, oggi?9 A “loro” basta che faccia da ariete in Europa contro gli odiati germanici. Questa è la missione che gli hanno affidato. Se la vince, vincerà per “loro”. Se la perde, avanti un altro.

F. “Loro”? Vedi che le domande “fondamentali” non sono da rinviare? In altri tempi, si sarebbe detto che è in corso uno scontro intercapitalistico…

Qui la trascrizione si interrompe perchè nel frattempo agenti CIA hanno individuato ed operato una extraordinary rendition dei due pericolosi sovversivi.

___________________________________________________________

  1. N. Chomsky et alii, The miystery of language evolution, «Frontiers in Psychology», maggio 2014, volume 5, articolo 401. []
  2. M. Recalcati, La missione di Telemaco, «la Repubblica», 3 luglio 2014, pp. 1 e 29. []
  3. Aristotele, Politica, 1253a 5-25, trad. it. Laurenti, Bari, Laterza, 1983, pp. 6-7 []
  4. N. Chomsky et alii, The Faculty of Language: What Is It, Who Has It, and How Did It Evolve?, «Science”, vol. 298, 22 novembre 2002, pp. 1569-1579. []
  5. N. Chomsky et alii, The mystery of language evolution, cit. []
  6. E. O. Wilson, La conquista sociale della terra, (2012), Milano, Cortina, 2013, p. 258. []
  7. J. Langer, M. Killen, Piaget, Evolution and Development, London, Taylor & Francis, 1998 []
  8. M. Bettini, La parola che diventa mito, «la Repubblica», 5 luglio 2014, p. 29 []
  9. E. Scalfari, Rompere il cerchio magico per salvare il governo, «la Repubblica», 6 luglio 2014, pp. 1 e 23 []

Quaderni mancanti

Download PDF

I quaderni erano trentaquattro, ma ne abbiamo trentatré. Ma i quaderni erano trentatré, e ne abbiamo trentuno. In questi numeri che non tornano, sta l’essenza della cultura europea del XX secolo. Gramsci e Heidegger, chi l’avrebbe detto, legati dal comune destino dei quaderni mancanti. Eh, sì, perché anche Heidegger vergò – comodamente assiso, è vero, al tavolo di legno della sua piccola ed amena baita di Todtnauberg – i suoi reconditi pensieri su dei quaderni dalla copertina nera, e dispose che fossero pubblicati solo quando l’edizione della sua opera omnia avesse avuto termine. Così è stato. Ma quando, all’inizio di quest’anno, questi quaderni sono usciti, tutto l’heideggerismo ha avuto una scossa, come un gregge che, in una ventosa mattinata di maggio, ondeggia vertiginosamente di qui e di là nel verde di un ripido costone. E a voglia il pastore dell’essere (scilicet, il linguaggio) con i suoi richiami a sforzarsi di tenere a bada le pecore! Chi si vuole dimettere, a chi, dando interviste, si incrina la voce, chi si vuole buttare a mare. Insomma, un’afflizione, un cordoglio generale. Eh, sì, perché Martin l’ha combinata grossa. Tutti gli heideggeriani, di destra, di centro e di sinistra, erano quasi riusciti in tanti anni di duro lavoro a far quasi dimenticare i suoi trascorsi nazisti e antisemiti, e lui, Martin, invece, che ti fa, ti fa trovare questi quaderni che confermano quanto di peggio (o di meglio) si potesse pensare di lui. Insomma, per dirla con il Francesco d’Assisi di Dario Fo, uno smerdazzo che ha inondato tutto il casato. Ma di questo poco potrebbe calére se non ci fosse questa storia dei, non uno, bensì addirittura due quaderni mancanti. Martin, ma che ci combini? Fonti degne di fede riferiscono che il burlone li abbia dati in lettura a qualcuno di cui si fidava, e che non li abbia più avuti indietro. Ma che ci sarebbe scritto, in questi quaderni? E chi lo sa. Solo si sa che risalirebbero a periodi critici del pensamento del filosofo, all’inizio, quando maturava l’adesione al nazismo (1931/32), e alla fine, quando Hitler si era appena sparato in bocca (1945/46). Insomma, opinio communis è che sarebbero quaderni ancora più neri, e non solo per la copertina, di quelli che sono stati appena pubblicati. Ma qui la communis opinio falla, erra, scappuccia, insomma si sbaglia. È molto più verosimile congetturare che in quei quaderni il vice pastore dell’essere, il cappellano, insomma, non fosse all’altezza della sua fama, insomma, avesse ceduto a delle debolezze liberali, razionalistiche e persino umanitarie: qualche incauta considerazione sull’universalità della libertà borghese, un’apprezzamento, per quanto sfumato, sul carattere progressivo del Gestell, una lacrimuccia, sebbene appena accennata, per le tante anime ebree evaporate nel cielo di Auschwitz. E, allora, di fronte a questi cedimenti metafisici, che avrebbero un giorno potuto macchiare la sua reputazione di indomito combattente nichilista, che ti fa, il buon Martin? E qui succede qualcosa di veramente sorprendente. La fama già circolava, c’è un italiano, un pezzo grosso del Comintern, che c’ha una passione segreta, quella di far sparire quaderni. Ha già fatto questo scherzetto col quaderno trentaquattro dell’amico Gramsci. Martin ha chiesto in giro: chi è questo Gramsci? Un comunista che si è convertito al liberalesimo in punto di morte, gli hanno risposto. Tien, quello che stava per capitare a me, se gli americani non m’avessero graziato, ha esclamato il vecchio Martin. Allora, questo italiano fa al caso mio. Ed è così che ha preso contatto con Palmiro, sì, proprio lui, Palmiro Togliatti. Figurarsi se quello si faceva pregare, con quella voglia di quaderni che si portava appresso dall’infanzia. E così, ora, i quaderni scomparsi per mano sua sono tre, due di Heidegger e uno di Gramsci. Si dirà: addio quaderni, non li vedremo più. Tranquilli. C’è chi conosce la verità, lui, il solito D’Alema, il quale ha pubblicamente dichiarato che Togliatti, a distruggere quaderni, non ce lo vede. È più probabile, invece, che li abbia nascosti, e che, luciferinamente zoccoluto com’era, ha disposto che vengano fuori al momento opportuno. Vogliamo scommettere? Se Renzi non ce la fa a far nominare D’Alema Mr. Pesc, avremo tre eventi che sveleranno l’ente nella verità dell’essere. Insomma, i tre quaderni autentici verrano fuori, alla luce del sole, e poi vediamo chi tiene le prime pagine dei giornali.

Bosoni Barilla

Download PDF

Il nuovo realismo è la pasta Barilla della filosofia. Un marchio conosciuto che anche l’idraulico Pippo ha potuto vedere in qualche trasmissione televisiva. Contro i detrattori, che pur non mancano, su “Micromega” on line, il giovane e razzente Enrico Terrone scrive che la tesi fondamentale di questo nuovo realismo «è che la nostra esperienza condivisa del mondo non riguarda fenomeni, apparenze, interpretazioni, bensì fatti veri e propri. Kant aveva torto a sostenere che le intuizioni senza concetto sono cieche. La maggior parte delle intuizioni ci vede benissimo, senza bisogno di concetti di complemento. Dunque, per rispondere alla domanda ontologica fondamentale, ‛che cosa c’è?’, non occorre per forza rivolgersi ai fisici dei bosoni o ai metafisici dei tropi. Le nostre intuizioni ci informano con sufficiente approssimazione su come stanno le cose nel mondo reale. Per quel che riguarda le regioni dell’essere da cui dipende la nostra vita e la nostra felicità, la fonte primaria dell’ontologia può essere benissimo la nostra esperienza condivisa del mondo»1. Quel che si vorrebbe sapere, però, è con che cosa si fa questa nuova ontologia. Eh, già, perché non è che va a petrolio, ma funziona con teorie che spesso sono molto più contro-intuitive della fisica dei bosoni e della metafisica dei tropi. D’accordo, lo scopo è chiaro, salvaguardare l’autonomia di un certo discorso filosofico dallo strapotere di una scienza che si propone come la nuova metafisica. Un certo discorso filosofico che abbia al suo centro la nostra intuizione spontanea del mondo. Ma com’è fatta questa intuizione? In tutt’altra sede, nel quotidiano “il manifesto”, e trattando apparentemente di tutt’altre cose, lo psicanalista Sarantis Thanopulos ci offre una risposta, quando così riassume l’intervento del neuroscienziato Vittorio Gallese al recente Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana: «L’interesse di Gallese nei confronti della psicoanalisi nasce dalla necessità di superamento della concezione solipsistica della mente propria del cognitivismo classico ed è centrato sul concetto di “simulazione incarnata”: la comprensione delle emozioni, delle sensazioni e delle azioni dell’altro è ottenuta direttamente, senza la necessità di meta-rappresentarle, attraverso il riutilizzo degli stessi circuiti neurali su cui si fondano le nostre emozioni, sensazioni e azioni come se le vivessimo e le eseguissimo noi in prima persona. La concezione di se stessi come un sé è ancorata in una “matrice intersoggettiva condivisa, noi-centrica”. Questa matrice intersoggettiva è strettamente legata alla consapevolezza del sé corporeo e in particolare al sistema motorio che “ben prima della nascita manifesta già quelle proprietà funzionali che rendono possibili le interazioni sociali”»2. A commento di questo impeccabile resoconto, Thanopulos aggiunge che quelle di Gallese «sono visuali che sostanzialmente gli psicoanalisti condividono», salvo «due punti problematici», ovvero la questione del desiderio, che in psicanalisi “anima” il corporeo-motorio, e quello della intersoggettività, che la psicoanalisi dovrebbe secondo Thanopulos rimodulare in quello più rispondente alla pratica psicoanalitica di “intra-soggettività”. Per la verità, più che punti problemtatici, sembrano semplici adattamenti del quadro teorico di Gallese, accettato integralmente. E quanto alla “intra-soggettività”, bisogna vedere se si tratta di un “fatto” che la pratica psicoanalitica rileva, oppure di un “fare” verso cui lo psicanalista orienta il paziente, a partire da una implicita opzione teorica anti-soggettivistica. C’è da chiedersi quanto resti qui della mirabile indagine freudiana circa la genesi del normativo, ma quello che si vuole alla fine rilevare è che dai propositi di Torrente, Thanopulos e Gallese si vede chiaramente come nuovo realismo, neuroscienze, psicoanalisi postfreudiana, sono rivoli disparati che confluiscono nell’unica corrente del rifiuto del soggettivo-concettuale-normativo. Non drammatizziamo, non è una nuova “distruzione della ragione”, ma solo l’agitarsi di una razionalità talmente debole e insicura di sé, che cerca di sedurre il colto e l’inclita con morbide atmosfere alla Mulino Bianco.


  1. E. Terrone, Il realismo senza intuizioni è libresco. A proposito di “Realismo? Una questione non controversa” di Franca D’Agostini []
  2. S. Thanopulos, Psicoanalisi e neuroscienze, “il manifesto”, 7.6.2014, p. 14. []

Sacerdozio giurisdizionale?

Download PDF

In un articolo pubblicato ieri sul “Fatto Quotidiano”, Giancarlo Caselli se la prende con i No Tav, paragonandoli agli squadristi fascisti, che intimidivano e picchiavano, a Berlusconi, che quando è processato si lagna dei giudici che lo perseguitano ingiustamente, e alle BR, che terrorizzavano gambizzando e ammazzando. Caselli, che è stato contestato dai No Tav in alcune iniziative pubbliche cui ha preso parte, vorrebbe solidarietà da quegli intellettuali che invece, a suo dire, si voltano dall’altra parte e sono più propensi a denunciare l’accanimento giudiziario contro i No Tav. Ma “L’Espresso” di questa settimana (n. 28/29.5.2014), con un servizio richiamato addirittura in copertina, documenta il caso di quattro giovani che, nel corso di una protesta in Val di Susa, avrebbero partercipato alla manomissione di un compressore, e che per questo sono stati arrestati nottetempo con l’accusa di terrorismo, subendo ancora oggi una pesantissima carcerazione. Caselli afferma che con le loro contestazioni i No Tav mirano a “colpirne uno, per educarne cento”, ma qui la magistratura ne ha sicuramente colpiti quattro, e da mesi ormai, come si sottolinea nell’articolo, le proteste in Val di Susa si sono fatte rare e guardinghe. Ciò che Caselli chiede è che la magistratura possa liberamente svolgere «l’esercizio della giurisdizione» per i reati «ricondotti dall’accusa all’area dell’estremismo No-Tav». Ma nel caso dei quattro giovani arrestati con l’accusa di terrorismo pare che questa libertà sia andata ben oltre i limiti. Caselli, che ha maneggiato il delicatissimo reato di concorso esterno in associazione mafiosa, non può non sapere che l’esercizio della giurisdizione non è un algoritmo sacerdotale, ma una pratica che deve essere ispirata dalla prudenza. La magistratura è un potere dello Stato, ma di uno Stato che non appaia come l’espressione di interessi politico-economici tanto giganteschi, quanto lontani dalla vita quotidiana delle persone. Questo è il problema che i No Tav pongono, che non può essere affrontato con lo stesso metro con cui si affronta un reato di mafia o di corruzione nella vita pubblica.