Intervistato sulla Repubblica di oggi, da Federico Rampini, Amartya Sen afferma: «L’austerity contraddice 250 anni di sviluppo economico. I più grandi pensatori dell’economia ci hanno insegnato a ragionare in modo diverso. Per Adam Smith il mercato e il progresso economico consentivano agli individui di conquistare più libertà, e al tempo stesso agli Stati davano risorse per fare meglio il loro mestiere. Oggi l’Unione europea vede gli Stati solo come un costo. David Ricardo ci insegnò l’importanza dei prezzi relativi. Ora l’euro ha imposto la stessa parità di cambio alla Germania e alla Grecia senza preoccuparsi dei rispettivi livelli di prezzo e competitività. Io sono a favore dell’euro. Ma è stato un errore avere una moneta unica senza l’unione del sistema bancario, trascurando il ruolo delle altre istituzioni, e trascurando i prezzi relativi. Infine c’è la lezione di John Maynard Keynes: in periodo di alta disoccupazione e bassa domanda, l’ultima cosa da fare sono i tagli alla spesa pubblica. Non possono che peggiorare la disoccupazione giovanile». Smith, Ricardo, Keynes: come si spiega il ripudio del pensiero liberale da parte del capitalismo assoluto? Non è che il pensiero economico di cui parla Sen è stato un’inutile predica rivolta ad una belva la cui vera natura è stata compresa solo da quel Marx da cui i liberali rifuggono? Non è che, allora, il capitalismo è più marxiano di quanto i liberali possano mai immaginare? Certo, Marx aveva incaricato la classe operaia di liberare la società dall’alienazione capitalistica, ma con una certa dose di keynesismo, iniettato al momento opportuno, il capitalismo ha narcotizzato la classe operaia, dissolvendola poi in un pulviscolo produttivo che l’ha messo al riparo dal rischio di dover fare i conti con la propria anima nera. Così, il patto con il diavolo tiene, e i “giusti” alla Sen hanno voglia di salmodiare sulle pagine interne di un giornale, “la Repubblica”, che si butta a pesce su ogni svolazzo di feticismo della merce.
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L’altro da sé
L‘uomo qualunque, scriveva Aldo Moro nel 1945, «non è se stesso, è altri da sé, è pronto a tutto, così ad accettare qualsiasi dittatura, che nasce fatalmente dove al posto dell’ansiosa libertà dello spirito c’è il vuoto»1. La seconda parte è un ricamo moralistico su una prima parte, però, perfettamente informata al concetto di alienazione. Da dove gli veniva questa nozione, a questo colto cattolico, che si sarebbe poi infranto contro l’inscalfibile corazza calcolistico-strumentale del dominio americano? Comunque, l’uomo qualunque non è morto nel ’48. Fu solo ricacciato nelle viscere della nazione dai partiti “razionali” dell’epoca, ma in questi ultimi vent’anni è riemerso sotto tante maschere, tutte riconducibili all’italiano come uomo alienato, cioè tipo umano capitalistico universale, la cui religione, come vide Gramsci, è stata la filosofia di Benedetto Croce, con il suo “vitale” che richiama sempre lo spirito a quelle «cose sensibilmente sovrasensibili», le merci, la cui accumulazione costituisce l’infelice ma inesausta passione di questo paese.
- Contro l’“Uomo qualunque”, in “Studium”, n. 9, 1945, p. 266, ora in A. Moro, Al di là della politica e altri scritti. “Studium” 1942-1952, a cura di G. Campanini, Studium, Roma 1982, pp. 255-256, cit. in f. b. [Francesco Barbagallo], Ricordo di Luisa Mangoni, «Studi Storici», 4, ottobre-dicembre 2012, anno 54, pp. 755-759, p. 757) [↩]
Sono tutti populisti
Secondo Michael Stuermer, «intellettuale di punta del centrodestra (Cdu-Csu) di Angela Merkel, storico, ex consigliere di Helmut Kohl», quale lo presenta Andrea Tarquini, che lo intervista su “la Repubblica” di oggi, Berlusconi è un «populista più duro di Grillo o di Tsipras». Su Tsipras, Stuermer sicuramente deve avere delle informazioni riservate, ma egli prosegue affermando che «i politici appaiono sempre più cinici. I populisti, ma un po’ tutti». Infatti, «due cinici, Schroeder e Chirac, violando i criteri di Maastricht hanno dato il cattivo esempio e distrutto disciplina e fiducia». Se questa è l’accuratezza dell’analisi delle forze in campo, se questa è la spiegazione che la punta di lancia dell’intellettualità democristiana tedesca dà della crisi dell’euro e dell’Europa, che cosa mai si può sperare? Ma non meno stupefacenti sono i propositi di un germanista di lungo corso e di grande spocchia come Gian Enrico Rusconi. Intervistato da Antonello Caporale sul “Fatto Quotidiano” di oggi, che tesse così le lodi della democrazia tedesca: «La Germania è indubitabilmente il Paese dove la democrazia funziona meglio. I poteri non si sovrappongono, non interferiscono e riescono a sviluppare un’energia positiva e una partecipazione piena alla cosa pubblica». Però, alla domanda del giornalista se anche Berlino non dovrebbe cominciare a fare un po’ di autocritica di fronte al disastro della Grecia, dichiara prontamente: «È vero, concordo. Devo dire che segni di inquietudine, domande del tipo: dove abbiamo sbagliato, come possiamo fare per alleggerire il peso di questa incomunicabilità, stanno iniziando ad essere visibili. Quel che manca in Germania è l’opposizione alla gestione della Merkel, alla sua perfetta manutenzione del sistema. È la socialdemocrazia che non riesce a manifestare un pensiero, ad aprire un varco, illustrare un processo riformatore». E al giornalista che, di rincalzo, nota che «in Germania non esiste opposizione», il serioso sociologo subalpino naturalizzato tedesco, risponde: «Purtroppo no. E si è persa la società degli intellettuali, la revisione critica del presente. C’era Kohl ma c’è stato Schmidt, persino Schroeder ha fatto percepire minime identità progressiste. Adesso non c’è più niente. Merkel è una donna forte che governa bene, ma conserva tratti marcatamente populisti. Chi le si oppone? Il niente. E questo non va bene». Ma non aveva appena detto che la democrazia tedesca funzionava benissimo? Contrordine, lettore, e non fare troppe domande se anche la Merkel viene tacciata di “populisno”. Che sarà mai, questo populismo, se tutti sono populisti? Insomma, se questi sono gli intellettuali che difendono l’Europa, stiamo freschi.
Oltre
Un’interessante articolo di Marco Palombi, sul Fattoquotidiano di oggi, pagina 5, ricostruisce il rapporto privilegiato tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, descritto come il più attento guardiano dell’austerity, e l’attuale Ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, classe 1950, ex-comunista antikeynesiano, una volta ricercatore di terze vie tra comunismo e capitalismo, poi approdato alle istituzioni economico-finanziarie internazionali promotrici del corso liberista di questi decenni post-Muro, e quindi convinto sostenitore della funzione del dolore nella vita economica1. In questi personaggi, che si sono abilmente adattati allo spirito del tempo, permane una forte matrice di quella “norma autoimposta” che da Gramsci a Togliatti a Berlinguer ha informato la tradizione comunista italiana. Caduto il fine, però, è rimasto solo un acre moralismo, un’ideologia rinsecchita del disciplinamento sociale, da attuarsi con la sofferenza economica da imporre ai popoli per curarli del loro ribelle edonismo, in ciò confluendo perfettamente nel penitenzialismo del capitalismo assoluto. Così come, per altre ragioni, c’è la necessità di andare oltre il keynesismo, e l’illusione che i keynesiani nutrono che si possa restaurare tale e quale, altrettanto c’è la necessità storica di andare oltre la pur nobile tradizione ideale del comunismo italiano.
- E. Brancaccio, Una nota sul mio ex professore Gian Carlo Padoan, pubblicato su www.emilianobrancaccio.it [↩]
Priebke
La popolazione di Albano laziale si rivolta contro i funerali di Priebke, in corso in quel paesino per decisione del prefetto di Roma. Ma da dove spunta fuori questo antifascismo in una popolazione e in un momento storico in cui tutte le fedi, tutte le credenze politiche, sembrano spente? Non ci sarà sotto questo antifascismo un sentimento antitedesco contro il corso che la Germania sta imponendo alla crisi economica che colpisce sempre più duramente?