Archive for Francesco Aqueci

Bad Godesberg , andata e ritorno

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Sono passati venti giorni dalle elezioni tedesche, e un governo ancora non si vede. Merkel e la socialdemocrazia discutono. In realtà, la brava cancelliera sta lustrando per bene il piano del comò su cui sistemare la SPD come un mazzo di fiori secchi. Il centro è al 42%, e i nipotini della tanto celebrata svolta di Bad Godesberg sono ridotti ad un residuale ed inerte 25%. L’illusione è che la ruota giri, e la prossima volta tocchi a loro il trionfo che ora arride alla fanciulla sbucata dall’Est. Ma questo poteva andare bene negli anni Settanta e Ottanta. Il secolo ha girato l’angolo, e non si vede cosa possa riportare agli antichi fasti una “sinistra” che prima non aveva niente alla sua sinistra e dintorni, né Linke né Verdi. Altrove, la situazione è, se possibile, ancora più nera. In Francia, Hollande sprofonda nel vuoto della sua boria di enarca, e non lo sta ad ascoltare più nessuno, mentre Marine Le Pen si appresta a sbalzarlo dalla poltrona. E in Italia? Consumati tutti gli errori al momento della formazione del governo e dell’elezione del Presidente della Repubblica, non esiste più una centralità della sinistra post-comunista. Sotto il mantello delle larghe intese, i democristiani di ogni banda si preparano ad un gruppone centrale cui vorrebbero adattare una legge elettorale neoproporzionale. Paradossalmente, solo Gianburrasca Renzi può fermarli, che però è un democristiano anagrafico, ma un marziano tanto per la fu sinistra post-piccina, quanto per i redivivi democristi. Ancora un (piccolo) uomo della Provvidenza, dunque, di cui l’Italia è sempre incinta. A questo punto, la sinistra dovrebbe cominciare a porsi veramente la domanda se tutti i suoi guai non derivino da quel viaggio a Bad Godesberg, dove si illuse di essersi liberata dagli inutili cascami della teoria, e riflettere al fatto che l’unica volta in cui ha veramente vinto è stato quando una teoria ce l’aveva.

Grillo, la Cina e Internet

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In un’intervista a Die Zeit, uscita ieri anche su la Repubblica, il futuro Capo della Terza repubblica italiana nata dalla Ret-istenza,dice: «Quello che fa paura a tanti è l’effetto che avrebbe sull’Europa e il resto del mondo il nostro modello di governo. Ho parlato con l’ambasciatore giapponese, francese, e addirittura con l’ambasciatore cinese. È venuto a trovarmi due volte: la prima due ore, la seconda tre. Dalle nostre conversazioni ha tratto questo sunto: in Italia sta succedendo qualcosa di insolito, un movimento dal basso, senza soldi, usa la rete e stravolge la politica italiana e forse anche quella internazionale. Questo movimento preoccupa moltissimo noi cinesi perché potrebbe destabilizzare anche il nostro sistema. Questo ha scritto. Ed è logico che sia preoccupato». In effetti, i cinesi non si stannno limitando a studiare, ma stanno mettendo in pratica vari accorgimenti per evitare che un Grillo con gli occhi a mandorla si materializzi dalle loro parti. Sempre ieri, su il manifesto, in un’oggettiva cronaca da Pechino di Simone Pieranni, si poteva leggere che, secondo le nuove norme, l’autore di un post ritenuto una diceria falsa, che viene visto da 5mila utenti internet o ripubblicato più di 500 volte, rischia fino a tre anni di carcere. Ci si aspetterebbe la rivolta. Invece, Charles Xue, paladino del vessato popolo cinese e star di Internet con 12 milioni di followers, arrestato con un’accusa – guarda un po’ – legata alla prostituzione, è apparso in tv, ammanettato e pronto a confessare i propri errori: «mi sono sentito come un imperatore», ha ammesso. Pan Shiyi, altra webstar cinese, noto per le sue campagne contro l’inquinamento, anche se è uno dei più importanti e ricchi palazzinari cinesi, è apparso impacciato e nervoso, anch’egli in tv, per celebrare le nuove norme contro le «false informazioni» on line. Che s’ha da fa’, pe’ campa’, qualcuno potrebbe dire. Ma Mo Yan, premio Nobel della letteratura, non è affatto scandalizzato da questo giro di vite, e ritiene anzi che la «censura ha stimolato gli scrittori». Va be’, l’opportunismo di MoYan è risaputo. Ma, conclude il nostro onesto cronista, «il suo argomento è comune in Cina, perché non sono pochi gli artisti e gli intellettuali che leggono le misure repressive come uno stimolo alla creatività». E adesso, ce la immaginiamo la faccia di Grillo che, mogio mogio, ammette in tv di essersi sentito un imperatore? Fantascienza. Perché, piaccia o meno, il punto è questo, che in Cina il controllo politico di Internet suscita una sua quota di consenso. Da un lato, non c’è quella “dittatura della maggioranza”, come la chiama Carlo Freccero, ovvero la “dittatura” della cosiddetta “società civile”, che in Italia ha portato prima a Berlusconi, con la tv, e poi, sebbene ancora non pienamente, a Grillo, con la rete; dall’altro, il potere non è così screditato e impotente da limitarsi alle vacue sfide à la Fassino, «Grillo si faccia un partito, e poi vediamo quanti voti prende». La questione bisogna vederla alla luce (gramsciana) della reciprocità tra governanti e governati. In Cina è minima, c’è molto paternalismo, ma il padre-partito non è un vecchio trombone da mandare affanculo nelle manifestazioni convocate alla bisogna da Beppe Grillo. In Italia, è anch’essa minima, ma la classe politica è completamente smidollata, perché da almeno vent’anni, dal punto di vista formale, ma da almeno trenta, dal punto di vista culturale, ha consentito di essere infiltrata da una “società civile” che, di fatto, esercita il potere, ma per scopi del tutto privati o comunque particolari. È vero, con i suoi proclami sulla democrazia diretta, la consutazione permanente della base, la mobilitazione in rete del popolo, l’incorruttibilità, e quant’altro, Grillo si atteggia a restauratore del governo di tutti per tutti. Insomma, sarebbe venuto in terra a reciprocità instaurare – finalmente! Ma questo miracolo che, con il più vieto machiavellismo, si dovrebbe compiere tenendosi il porcellum per abolirlo un minuto dopo, ha il naso lungo quanto i capelli di Casaleggio, un tenebroso Richelieu della Bovisa che, mentre manda flautati segnali a tutti quelli che contano dentro e fuori la Penisola, minaccia continuamente di andarsene se non si fa come dice lui. E non li vediamo alla tv, gli occhi sbarrati dei cittadini-onorevoli del Movimento 5 Stelle, atterriti dall’idea di essere profligati sul suo blog dal padre-padrone, qualora dovessero sbagliare a parlare anche di una sola sillaba? E, allora, siamo onesti, Internet in Italia non potrà dar luogo a nessuna reciprocità tra governanti e governati, ma sta solo conducendo, se solo lo si voglia vedere, ad un autoritarismo ancora più tetragono di quello berlusconiano, dove non ci sarà più neanche la distrazione del burlesque. Mentre in Cina, questo è il paradosso, ma la dialettica della vita se ne infischia dei paradossi, la forza dell’attuale classe politica, se da un lato nell’immediato reprime il libertarismo della rete, dietro cui, non dimentichiamolo, occhieggiano le forze orgogliosamente “capitalistiche” di Google, Facebook, Twitter e via smanettando, dall’altro, lascia intatte le possibilità che si arrivi, penando e soffrendo, certo, come sta penando e soffrendo Liu Xiaobo, ad una effettiva reciprocità.

Emendamento ontologico

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«La sinistra continua a pensare di poter entrare in comunicazione con il suo elettorato facendo leva sull’esperienza quotidiana, sulle necessità materiali delle famiglie. Ma l’esperienza quotidiana è oggi la televisione. Non è casuale che chi detiene i mezzi di comunicazione, li controlla e li sa usare possa imporre il suo discorso anche quando contraddice l’esperienza comune» (C. Freccero, Televisione, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 124). Se si pensa che Lukács oppose la vita quotidiana allo stalinismo, si può concludere che la televisione è ciò che ha preso il posto dello stalinismo. Ma lo stalinismo era una dittatura a viso aperto, che alcuni buontemponi hanno voluto far passare per totalitarismo. Se c’è un totalitarismo, invece, questo è la televisione. La televisione è l’ideologia totalitaria del capitalismo assoluto, la vera incarnazione della Grande Fattoria orwelliana. Quello che tutti i bravi critici alla Freccero sembrano suggerire è che la sinistra deve finalmente imparare ad imporre la sua “illusione”, rispetto alla realtà della vita quotidiana, approfittando delle “crepe” che si aprono nella dittatura televisiva. La moltiplicazione digitale delle reti e l’integrazione dei vari media, con l’esplosione di contenuti autoprodotti, potrebbe essere la via, ridando finalmente voce al “pubblico”, che si riavrebbe dalla sua protratta passività. Ma lo stesso Freccero non può mancare di osservare che «tutto questo universo di fan e internauti testimonia un bisogno estremo di immaginario e di narrazione, legato all’attuale spirito del tempo» (p. 130). E l’attuale spirito del tempo non è altro che la prosecuzione con altri mezzi di un’interminabile epoca del mito, con le sue favole pubblicitarie che alimentano e intensificano la divaricazione di vita quotidiana e immaginario. Ci è stato spiegato che “il mezzo è il messaggio”, come se fosse una legge di natura, quando invece è solo una congiuntura storica in cui l’immaginario crea permanentamente le premesse per distaccarsi dalla vita quotidiana. Se la storia è produzione di novità, allora la vera novità non può che consistere nel riportare il mezzo al suo statuto di strumento, e il messaggio al suo statuto di fine. Non è luddismo, ma solo un emendamento ontologico.

Papa Gorbaciov

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Si direbbe che il pesce ha abboccato all’amo. Ma si potrebbe anche dire che, il pesce, non aspettava altro che di abboccare. Questo viene da osservare, assistendo al “dialogo” andato in scena, nei giorni scorsi, su la Repubblica tra un Eugenio Scalfari sempre più sussiegosamente “illuminista”, e un Papa Francesco sempre più arditamente “riformatore”. Il riformismo di Francesco, naturalmente, non ha niente a che fare con quello di cui tutti si riempiono la bocca da un ventennio a questa parte, in Italia, ma richiama da vicino invece la perestrojka di Gorbaciov. Bergoglio è succeduto ad un cupo ideologo, Ratzinger, una specie di Suslov dimessosi, anzi, autodecapitatosi perché offeso dall’insensibilità delle moltitudini ai suoi predicozzi sofistici, e Francesco, da buon gesuita sudamericano, ha tratto lezione da questo evento: il mondo resiste e la nave affonda, bisogna buttar giù la zavorra. A Scalfari, perciò, che gli chiedeva, con la tipica malizia del “laico tollerante”, se Dio perdona anche i peccati di chi non crede, Francesco ha rispoto che chi agisce in conformità con la propria coscienza, non fa peccato. Le giulebbe di Scalfari! Ha fatto stampare subito un decreto con tanto di sigillo di ceralacca, e lo ha proclamato a tutte le genti: la Chiesa è finalmente entrata nella modernità. Placate le ubbie delle élites, solleticandone la vanità con il riconoscimento dell’“autonomia della coscienza”, Francesco poi s’è messo a fare cose di maggior sostanza, come proclamare un digiuno contro l’ennesima voglia di menar le mani degli Stati Uniti, questa volta contro la Siria, andare a visitare in utilitaria un centro immigrati, telefonare dall’altra parte del mondo alla vittima di uno stupro, e questo dopo aver incendiato, lui argentino, le masse brasiliane, e aver rivendicato da Lampedusa il nostro essere tutti migranti. Insomma, mentre Ratzinger predicava il suo libresco anticapitalismo nei chiusi consensi ai cardinali, i quali, appena fuori, si sfrenavano nelle più accese combinazioni di sesso, denaro e potere, Francesco lo pratica con tutta la potenza che può avere un disperato, cui ormai resta solo poco tempo, prima di soccombere sotto le macerie della magnifica ma fatiscente istituzione che governa. Qui la sua perestrojka si rivela con il segno opposto a quella di Gorby. Infatti, il segretario generale con la voglia in fronte buttava nella fornace palate e palate di ideologia, e mentre invocava il “ritorno a Lenin”, e si illudeva di edificare una “federazione democratica”, apriva di fatto la strada a quel capitalismo assoluto che l’avrebbe sbalzato di sella, preferendogli il più rustico Eltsin. Francesco deve fare esattamente il contrario. Se egli vuole salvare la nave che affonda, deve combinare la profondità del sentimento di giustizia con la logica strumentale del piacere. È qui che egli potrà ritrovare il contatto con le masse, e far fronte contemporaneamente al temibile ritorno della religione sessuale. Il suo anticapitalismo, la sua critica all’alienazione della vita contemoporanea, in tutte le sue forme, non è dunque un vezzo intellettuale, al pari delle scarpette rosse di Ratzinger, ma è una dura necessità cui è costretto dalla composita natura della Chiesa cattolica. La giustizia non è un suo libero, moderno, illuministico moto della coscienza, ma è la sola zattera cui può aggrapparsi, per non sprofondare nella logica senza volto del piacere che si esprime nel consumo illimitato delle cose e dei corpi. Non è fantascienza, allora, pensare che così come il grande Wojtyla fu costretto all’abiezione dell’apparizione in compagnia di Pinochet dal balcone della Moneda, così pure Bergoglio sarà costretto, un giorno non lontano, a riunirsi alle madri dei desaparecidos di Plaza de Mayo.

Egitto

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«L’accusa di “fascismo religioso” è il nuovo anatema laico contro gli islamisti in rivolta. L’espressione pronunciata ieri, da un portavoce della provvisoria presidenza della Repubblica, potrebbe avere come inevitabile conseguenza lo scioglimento della Confraternita dei fratelli musulmani, e del partito Libertà e Giustizia, sua espressione politica. Il capo del governo di transizione, Hazem el Berlaui, un economista considerato un liberale, ha precisato che la messa al bando delle associazioni di “terroristi” è già allo studio. L’Egitto è impegnato in una guerra d’usura e quindi tutto deve essere fatto per combattere gli animatori di un complotto contro la nazione. Questo il linguaggio del potere nelle ultime ore» (B. Valli, L’anatema sugli islamisti, “la Repubblica”, p. 1).