Il “precario” e il “clandestino” alla luce della dialettica di servo e padrone, così come descritta in Hegel, Fenomenologia, nell’ancora preferibile tr. it. De Negri, Firenze, La Nuova Italia, 1973, 1, pp. 158-161: A) il servo lavora – non esaurisce la cosa. Il padrone gode – esaurisce la cosa, lasciando la indipendenza della cosa al servo che la elabora. Il servo è dunque lo strumento che, secondo la sua essenza, cioè non esaurire la cosa trasformandola, elabora la cosa di cui il padrone gode; B) 1 – Il servo opera (compie) l’operare del padrone. 2 – Il servo non è un operare puro, ma inessenziale, 2.1 – perché l’operare puro o essenziale è quello per cui la cosa è nulla, ovvero quello del padrone che esaurisce la cosa. 3 – La coscienza inessenziale del servo è perciò la verità della certezza di se stesso del padrone. 4 – Ma con ciò, il padrone è divenuto una coscienza dipendente: dipendente dall’inessenzialità dell’operare del servo. 5 – La verità della coscienza indipendente è pertanto la coscienza inessenziale del servo, il suo operare inessenziale, il suo non esaurire la cosa, ma trasformarla tramite il lavoro; C) ora, viandante del XXI secolo, al posto del servo, mettici il “precario” o, peggio, il “clandestino”, e vedrai che il mondo attuale è divenuto un mondo senza verità, cioè senza coscienza indipendente. Il “precario” o il “clandestino” sono infatti coscienze inessenziali dalle quali il padrone rifiuta di dipendere. Egli gode dell’operare inessenziale del “precario” o del “clandestino”, ma rifiuta il loro operare. Il servo perciò opera inessenzialmente, ma la verità della certezza che con ciò egli dava al padrone si disperde come seme sterile per terra. Servo e padrone sono perciò estraniati l’uno all’altro: il padrone è senza coscienza di sé, e il servo non sa a chi dare la coscienza che, con il suo operare inessenziale, produce. 6 – Ma perché è grave che il mondo attuale sia privo di verità? Perché la verità è adattiva. Un mondo senza verità è un mondo a rischio di perire. Il mondo attuale, un mondo dove il rapporto sociale di produzione della verità si è inceppato, è un mondo che rischia da un momento all’altro di perire.
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Omeomorfismi
In questo inizio di millennio, la dialettica appare sempre più scatenata nella sarabanda delle sue inversioni. Si considerino i seguenti eventi: a Tunisi, tre ragazze del movimento internazionale delle femens, si denudano il seno davanti al Ministero della Giustizia, per protestare contro la detenzione di Amina, una giovane tunisina che le ha eroicamente precedute in quella stessa pratica; a Istanbul, turchi di ogni età, sesso e professione protestano, tra bandiere rosse tornate a garrire al vento e getti di idranti e lacrimogeni polizieschi, a difesa di un parco di seicento alberi, minacciato di distruzione per far posto ad un megacentro commerciale e ad una nuova moschea; a Francoforte, manifestanti, ai quali i pavidi media italiani non dedicano la minima attenzione, protestano davanti alla sede della BCE contro quel “pilota automatico”, evocato da Mario Draghi, che esautora i governi e rende l’economia una forza perfettamente aliena. Come direbbero i pedanti cultori dell’intelletto astratto, è la linea dei diritti che avanza, manifestandosi per “equivalenti omeomorfi” nei differenti contesti storici e geografici: diritti civili, ecologici, sociali. Ma queste “passioni” della mente sociale rischiano di imbozzolarsi nella loro soggettività se non si collegano alle profondità della struttura. La coscienza del parco a Instabul è nata quando Erdogan ha promosso l’uso massiccio delle carte di credito, e il seno nudo di Amina è il vettore del flusso di merci che preme per riversarsi nei cunicoli stretti della società tunisina. È irritante doverlo ricordare, ma la lingua dei diritti è parlata alla perfezione dal capitalismo assoluto. A modo suo, Erdogan sembra averlo capito, ma non è certo giustapponendo la moschea al centro commerciale che sfuggirà, da un lato, all’avversione del ceto medio “modernizzato” da lui stesso promosso, dall’altro, alle richieste sempre più stringenti di quel capitalismo che egli si illude di ricondurre alla ragion politica del Corano. Sono questi leader incapaci di sintesi dialettiche che rendono “invisibili” lotte come quelle dei ragazzi di Francoforte, relegate così ad una spontaneità che non turba la perfezione olimpica dell’oderna religione della merce.
Il Paese che non cresce più
Il rimprovero che Gramsci muove alla storiografia di Croce è di occultare la genesi conflittuale degli equilibri sociali. La storia così coinciderebbe con le fasi di “rivoluzione passiva”, ovvero con la spinta inerziale del momento genetico. Al periodo 1789-1815 seguirebbe così la lunga fase “liberale” che giunge sino al 1870, e al periodo 1917-1922 seguirebbe la “guerra di posizione” di cui il fascismo, con la sua cripto-politica di piano, sarebbe l’emblematico rappresentante ideologico (Q. 10, § 9). Gramsci aggiunge anche che «la libera concorrenza e il libero scambio corrisponderebbero alla guerra di movimento» (ibidem). Senza bisogno di scomodare la longue durée, queste osservazioni sembrano ancora utilissime per comprendere il significato del trentennio successivo al 1980, una vera e propria “guerra di movimento” che il “liberismo” avrebbe condotto su scala mondiale, con momenti di autentica “guerra guerreggiata”, come nell’aurorale golpe cileno del 1973, attuato con la “scientifica” copertura monetaristica dei Chicago Boys. D’altra parte, certe lotte ideologiche che avvennero in Italia all’inizio del XX secolo sono radici viventi di una storia ancora in essere. All’inizio del XX secolo, in Italia, Croce adotta contro il materialismo storico il punto di vista “scientifico” dell’economia “quantitativa”, cui poi contrappone la sua Economia filosofica. E così il materialismo storico “muore” – muore, cioè, l’idea normativa della società come sistema reale di valori economici, linguistici, morali che sorgono spontaneamente dal corso storico. La conseguenza è che l’“economico” può essere ridotto ad un ambito particolare della prassi, il “vitale”, che ottimisticamente – “goethianamente”, direbbe Gramsci – si ritiene possa essere filtrato e addomesticato dalle forme superiori dello spirito. Sono così poste le basi filosofiche di quella scissione che, decenni dopo, produrrà il “miracolo economico italiano”, cioè il marxiano “sfrenato movimento” che progressivamente si sottrae alle pretese delle altre forme dello spirito, sino a farsene apertamente beffe con il berlusconismo, fase suprema dell’economicismo italiano. A un secolo di distanza, dopo che l’economia “quantitativa” ha mostrato tutti i suoi limiti come pretesa scienza esatta dell’economia, la questione può essere ripresa sottolineando proprio quell’idea normativa di società come sistema reale di valori, con la ricaduta pratica di poter finalmente lavorare al passaggio nell’ideologia italiana ad un equilibrio superiore, richiesto dall’impasse odierna che si manifesta nella percezione che tutti abbiamo di “un Paese che non cresce più”.
Troppo
Non si può non restare ammirati dell’abilità e della prontezza con cui i tedeschi, nel breve volgere degli anni dell’unificazione, hanno edificato, a Berlino, il Deutsches Historisches Museum, cioè il tempio della loro nuova coscienza nazionale. Le omissioni non mancano. Per il periodo 1524-1526, niente sulla guerra dei contadini. Per il periodo 1789-1848, niente su Hegel e neanche su von Kleist. Per il periodo del secondo dopoguerra, niente su Baader-Meinhof. Il primo e l’ultimo sono buchi comprensibili in una memoria il cui percorso è organizzato in modo che spazialmente tocchi il suo apice in Kant e nell’illuminismo tedesco, e poi fluisca sino ai nostri giorni che, e già siamo all’uscita, si concludono con la scrivania in legno chiaro di Erich Honecker, completa di bottoniera stile anni Sessanta, esibita come un trofeo tolto al nemico sconfitto. E se si può capire che non ci sia niente su von Kleist, perché niente su Hegel? Non è forse, altrettando quanto Kant, una grande gloria del pensiero filosofico tedesco? La lettura di un libretto di Costanzo Preve, tanto accademico nel titolo, Storia dell’etica, quanto antiaccademico nel suo contenuto, offre una chiave per il piccolo ma non insignificante enigma. Riconoscersi nell’impostazione filosofica di Hegel, scrive il nostro filosofo, uno degli ultimi, se non l’unico, oggi in Italia, a concepire e praticare la filosofia come un tonificante “campo di battaglia“, «significa cogliere e salvare il punto essenziale, e cioè che l’impostazione kantiana porta alla paralisi dei dilemmi morali insolubili dell’anima bella programmaticamente impotente, mentre invece l’inserimento provocatoriamente “eteronomo” dell’etica nella comunità storicamente costituitasi è il solo modo di produrre un’etica realmente applicabile» (p. 131). Ecco, omettendo Hegel e celebrando Kant, i tedeschi dell’inizio del XXI secolo è come se avessero voluto rifuggire dal pericolo di trovarsi di nuovo invischiati in un’etica comunitaria realmente applicabile, che nei decenni della guerra fredda aveva assunto le fattezze indesiderabili e fallimentari della vecchia DDR. Hanno voluto sottolineare piuttosto il loro bisogno di una morale impossibile che rendesse poi nella pratica tutto possibile, secondo il criterio del prezzo di un’economia ricostruita attorno alla potenza del marco, egemonicamente trasfigurato nell’euro. Per cui, uscito dal Deutsches Historisches Museum, il visitatore che precedentemente ha avuto l’avventura di contemplare nel modesto ma sorprendente Kunst Museum la serissima arte della ex Germania dell’Est, è preso come da una vertigine davanti ai volti e agli atteggiamenti che può osservare al Gourmet Floor di quello che si vanta essere il più grande magazzino dell’Europa continentale, il KaDeWe, ovvero il Kaufhaus des Westens, dove Grosz potrebbe continuare a raffigurare sempre le stesse espressioni suine, come nei mitici anni Venti del secolo scorso quando, come oggi, tutto era “troppo”.
Upgrade
In un video debordante di marketing istituzionale1, il “vassallo” Stefano Caldoro, “governatore” della Regione Campania, impetra l’“imperatrice” Angela Merkel, Führerin del nuovo Finanzreich tedesco, graziosamente in vacanza a Ischia, di gettare uno sguardo pietoso sulla gioventù derelitta che si accalca nei suburbi partenopei dove, «per ogni giovane tedesco occupato, ce ne sono dieci disoccupati». Tutto ok, in questa Europa neofeudale. Da notare solo che Caldoro, per quanto giovane, ha fatto in tempo ad essere un ex-socialista del XX secolo, smacchiato dalla pluripremiata lavanderia Berlusconi, e Angela Merkel è una scienziata formata dal sistema scolastico di quell’“universo del male” che aveva il suo centro a Mosca, dove ella andava in vacanza, prima di approdare ai più ridenti lidi euromediterranei.
- http://video.corrieredelmezzogiorno.corriere.it/caldoro-appello-tedesco-merker/cm-176671 [↩]