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I Talebani e la teocrazia del mondo avvenire

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L’ideale di una teocrazia del mondo avvenire, vagheggiato in Occidente come la ricongiunzione amorosa finale dell’uomo con Dio, ha assunto un peso nuovo quando l’Islam l’ha trasformato in una prospettiva politica concreta. Il ritorno dei Talebani in Afghanistan nell’estate del 2021 è l’ultima e più recente concretizzazione di tale prospettiva, e non può essere compresa senza uno sguardo retrospettivo sulla Rivoluzione iraniana del 1979. Tale rivoluzione infatti è l’archetipo dei rivolgimenti che successivamente hanno interessato i paesi del Medio Oriente e dell’Asia centrale. E l’Afghanistan non fa eccezione, anzi, come vedremo, si può dire che esso anticipa alcune tendenze che avranno pieno sviluppo a Teheran alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Impigliato in modelli di sviluppo alternativi, importati ora dall’URSS ora dagli USA, e strumentalizzato dalla loro implacabile contrapposizione, l’Afghanistan ha poi perso il filo della propria auto-affermazione che invece è riuscita all’Iran, divenuto così il modello della teocrazia del mondo avvenire quale possibilità politica concreta nel confronto con l’Occidente, cui ora gli stessi Talebani si ispirano. Ma in che cosa l’Afghanistan ha prefigurato tale modello prima che esso trionfasse in Iran? Per rispondere a questa domanda dovremo prima ripercorrere la genesi e lo svolgimento della Rivoluzione iraniana del 1979, in modo da poter poi evidenziare le analogie che fanno dell’Afghanistan dei Talebani un’ulteriore e più radicale incarnazione di quella prospettiva teocratica che, dalle sue prime formulazioni teoriche alle più concrete realizzazioni storiche, con alterne fortune ma con ostinata determinazione l’Islam politico persegue da ormai più di un secolo. 

Le tentazioni della modernità

Al principio del XX secolo, la Persia, l’antica regione mediorientale che dagli anni Trenta del secolo scorso ha preso il nome di Iran, era articolata su quattro Province (Azerbaijan, Fars, Kerman e Khurasan) e varie città autonome. Gli Scià della dinastia turca dei Qajar erano dei monarchi assoluti ma molto deboli per l’incapacità di raccogliere tasse, di mantenere un esercito e una stabile amministrazione centrale. L’autorità del Governo centrale (Trono del Pavone) era limitata a Teheran o poco più e lo Scià era spesso in difficoltà nel finanziare il costo della Corte. Molte delle funzioni di uno Stato moderno nel senso europeo del termine erano delegate alla nobiltà terriera (amministrazione delle Province, raccolta delle tasse, mantenimento dell’ordine pubblico) o al clero sciita (educazione, assistenza sociale e amministrazione della giustizia), ramo dell’Islam penetrato nel paese all’epoca della dominazione araba (634-651), poi divenuto religione di Stato con la dinastia dei Safavidi (sec. XVI). Nelle città, i commercianti (bazarì) costituivano un’importante classe sociale, mentre nelle Province le tribù nomadi (Bakhtiarì, Qashqai ecc.) mantenevano un potere sostanziale. In un sistema sociale poligamico, l’aristocrazia terriera era molto estesa e spesso legata da parentela diretta alla famiglia allargata dello Scià. La nobiltà Qajar occupava quindi di diritto i governatorati delle Province e le posizioni di Governo a Teheran. Il clero sciita, per parte sua, poteva contare sulla propria struttura gerarchica e sull’indipendenza economica, grazie alle elemosine rituali e ai patrimoni dei santuari, delle fondazioni e delle associazioni religiose.

Una prima scossa a questo sistema agrario di tipo feudale venne dalla Rivoluzione costituzionale del 1906. Essa, con il sostegno interno del clero sciita e con quello esterno degli Inglesi, già presenti nella regione in virtù di accordi semicoloniali per lo sfruttamento del petrolio, ebbe come sbocco la concessione, il 5 agosto del 1906, della Costituzione da parte di Muzzafareddin Scià, e il permesso dell’elezione del primo Parlamento o Majilis. In questo Parlamento, fece il suo esordio, quale rappresentante della classe aristocratica della città di Isahan, Mohammed Mossadeq, figura centrale della successiva politica iraniana.

Conviene soffermarsi su questa prima Rivoluzione, perché in essa si ritrovano in germe tutte le costanti della successiva politica iraniana. Infatti, in seno al primo Majlis e nel redigere la Costituzione, emersero sin da subito forti contrasti tra le diverse componenti del movimento costituzionalista. Per le forze laico-liberali e progressiste, localizzate soprattutto nelle città, specie a Teheran, la Costituzione avrebbe dovuto aprire la via alla modernizzazione economica e sociale del Paese, alla democratizzazione e laicizzazione dello Stato, alla tolleranza religiosa e all’emancipazione delle minoranze, sul modello di quanto era successo in Europa nel XIX secolo. Per altre componenti importanti del movimento, come la nobiltà terriera, i commercianti del Bazar e parte del clero, nel limitare il potere assoluto dello Scià, la Costituzione avrebbe dovuto in realtà difendere i valori tradizionali della società a partire dalla riaffermazione del primato della fede islamica sciita, e preservare gli assetti sociali e ideologici minacciati dall’influenza culturale straniera. Questa contraddittoria coesistenza tra una “società civile” formata dai ceti urbani laico-liberali e progressisti e una “società tradizionale” comprendente latifondisti, mercanti del bazar e clero sciita “quietista” sarà una caratteristica destinata a ripetersi nella storia politica iraniana. Una dicotomia ideologica che va integrata con altri due importanti elementi che la intersecano.

Il primo elemento è la presenza, dagli anni Venti sino a tutti gli anni Settanta del XX secolo, di un forte partito comunista, il partito Tudeh, espressione delle classi lavoratrici della città e del proletariato agricolo della campagna di cui sosteneva la storica richiesta di redistribuzione delle terre. Un partito, però, attraversato da forti contrasti e da continue scissioni, specchio della debolezza delle sue forze sociali di riferimento.

Un secondo elemento è il ruolo non solo ideologico, ma anche economico, del clero sciita. Con la rivoluzione costituzionale del 1906, entro il clero sciita, al tradizionale approccio “quietista”, critico ma distaccato dalla politica, anche se molto presente nella gestione di un’economia dell’assistenza, si affianca una componete militante, disposta cioè a entrare attivamente in politica per governare la modernizzazione indirizzandola verso una stretta conformità della società in evoluzione al dettato islamico. All’interno del primo Majlis, dopo un’iniziale prevalenza delle tendenze laico-liberali e progressiste, è l’alleanza tradizionalista tra la nobiltà terriera e il clero militante che finisce per prevalere. Su pressione del clero, allora, la riaffermazione del primato dell’Islam sciita sulla legislazione ordinaria viene sancita nel 1910 con la creazione di un Consiglio religioso incaricato di vagliare la conformità delle leggi emanate al dettato islamico, una sorta di precursore del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione del 1979.

Non solo petrolio

Incardinato su questo binario del contrasto tra una debole “società civile” e una preponderante “società tradizionale”, con le “forze del lavoro” in una posizione sempre subordinata, l’Iran si avvia alla seconda scossa del suo assetto agrario-feudale, che culmina nel triennio 1950-1953, in cui primeggia la figura di Mohammed Mossadeq. Mossadeq incarna la moderna anima nazionale dell’Iran che, all’interno, si batte per ridurre il potere assoluto dello Scià, e all’esterno trova il suo emblematico successo nel confronto con gli anglo-americani per il controllo e lo sfruttamento del petrolio. Ma la politica di Mossadeq non si limitò alla nazionalizzazione dell’industria petrolifera iraniana. Furono introdotte riforme sociali e politiche che sarebbero poi state più ampiamente riprese dai successivi svolgimenti della politica iraniana. In particolare, alle donne fu riconosciuto il diritto di voto nei consigli comunali e per i contadini fu prevista l’abolizione del lavoro servile contemporaneamente all’approvazione di una legge, nel 1952, che obbligava i proprietari terrieri a versare il 20% delle loro entrate in un fondo di sviluppo con cui finanziare alloggi e altri benefici per la popolazione rurale. Inoltre, nel gennaio 1953, nel pieno dello scontro con lo Scià, e utilizzando i pieni poteri ottenuti dal Parlamento, Mossadeq avviò una riforma agraria che istituiva consigli di villaggio e aumentava la quota di produzione spettante ai contadini. Queste politiche, portate avanti anche per limitare l’influenza del Tudeh, valsero però a Mossadeq l’ostilità del clero tradizionalista contrario al riconoscimento dei diritti politici delle donne e l’accusa da parte dell’aristocrazia terriera di essere un “traditore di classe”.

La terra ai contadini

Dopo la fine dell’era Mossadeq, la questione agraria e l’emancipazione politica delle donne, anche su sollecitazione dei circoli riformatori americani che mettevano in guardia dal pericolo di una rivoluzione dal basso, furono riprese dall’azione modernizzatrice dello Scià come punti qualificanti della cosiddetta Rivoluzione bianca. Così, nel 1963, assieme ad una serie di misure concernenti il diritto familiare e matrimoniale e il ruolo pubblico delle donne, a queste ultime fu riconosciuto il pieno diritto di voto in tutte le elezioni. Mentre, per quanto riguarda i contadini, fu avviata una riforma agraria volta a modificare la struttura proprietaria dei terreni agricoli. Prima della riforma agraria, il 70% della terra coltivabile era di proprietà di una piccola élite di grandi proprietari terrieri o fondazioni religiose. Non esisteva ancora un registro fondiario ufficiale, ma la proprietà della terra era documentata mediante atti di proprietà in base ai quali il documento non rappresentava una specifica area di terra misurata ma un villaggio e la terra appartenente al villaggio. Inoltre, il 50% dei terreni agricoli iraniani era nelle mani di grandi proprietari terrieri, il 20% apparteneva a fondazioni di beneficenza o religiose, il 10% era di proprietà dello Stato o della corona e solo il 20% apparteneva a contadini liberi. Con la riforma agraria, la terra dei 18.000 villaggi sin allora registrati sarebbe stata divisa tra i contadini che vivevano nel villaggio e ai grandi proprietari terrieri veniva concesso di possedere un solo villaggio. Dovevano vendere il resto della loro terra allo Stato che a sua volta doveva venderla ai contadini senza terra a un prezzo notevolmente inferiore. Lo Stato avrebbe anche concesso prestiti a basso costo agli agricoltori che si sarebbero riuniti in cooperative agricole.

Il partito di Dio

La principale obiezione che il Tudeh in esilio rivolse alla riforma agraria voluta dallo Scià è che le espropriazioni non avvenivano gratuitamente ma gravavano sui contadini assegnatari che si trovavano oberati nel tempo dal debito di pesanti rimborsi. I religiosi invece si appuntarono sulla questione dell’emancipazione politica delle donne. In particolare Khomeini, che all’inizio degli anni Sessanta muoveva i suoi primi passi sulla scena politica, riguardo alla riforma agraria lamentò solo il fatto che il clero non fosse stato consultato in anticipo dal governo su un progetto su cui era sostanzialmente d’accordo, e si limitò a mettere in evidenza come la riforma avesse come scopo di “distrarre” i contadini. Molto più decisa invece fu l’opposizione riguardo all’estensione del diritto di voto per le donne e alla possibilità da parte loro di ricoprire cariche pubbliche. A differenza del Tudeh che elogiò tale misura considerandola come l’inizio di un processo per rimuovere le iniquità rimanenti in campo economico, Khomeini pur dichiarandosi non contrario a consentire alle donne di votare, definiva la loro elezione a cariche pubbliche come una “prostituzione” e la sminuiva di fronte alle continue limitazioni della libertà di espressione e di stampa imposte dallo Scià.

In queste posizioni ci sono già tutte le premesse della rivoluzione islamica del 1979 che costituisce una sorta di terzo tempo della modernizzazione dell’Iran in cui il Paese si trova ancora immerso. Nelle sue forme politiche, la rivoluzione islamica del 1979 riprende moduli sovietici, con i Komité, sorta di soviet che spuntano in ogni dove in tutto il Paese, ma ben presto la “società tradizionale” prende il sopravvento tanto sulla debole “società civile” urbana, quanto sulle forze del lavoro.

Nel febbraio 1979, dopo la partenza dello Scià e la proclamata neutralità delle Forze Armate, gli avvenimenti si susseguono convulsi: l’insediamento di un Governo Provvisorio non comporta lo scioglimento del Consiglio della Rivoluzione Islamica e si instaura quindi fin da subito quel dualismo di potere tra organi dello Stato e organismi emananti dalla “società tradizionale”, ormai egemonizzata dal clero sciita militante, che diventerà una delle caratteristiche tipiche della Repubblica Islamica.

Il referendum sulla forma dello Stato, che vede la vittoria della Repubblica Islamica con il 98% dei consensi, è del marzo 1979. Fino al quel momento, il fronte unico che raggruppa tutte le opposizioni sostanzialmente tiene, ma le divergenze tra le diverse anime del movimento rivoluzionario emergono subito dopo in forma anche violenta. I nazionalisti liberali al Governo vorrebbero riportare un po’ d’ordine e di legalità nello spontaneismo dei Komité e nell’attivismo dei tribunali rivoluzionari. Il Tudeh e le sinistre lamentano la “svolta a destra” del movimento rivoluzionario. I Fedayin del Popolo iniziano a scontrarsi con i Komité islamici. Gli islamisti vogliono proseguire la Rivoluzione islamica per sancire nella Costituzione il principio del Velayat e Faqi, cioè del Governo del Giureconsulto islamico, e sono preoccupati di possibili restaurazioni dello Scià con l’aiuto straniero, come era già successo nel 1953 con il colpo di Stato contro Mossadeq. Essi guardano poi con sospetto ai nazional-popolari al governo e alla loro tradizionale ispirazione laico-secolare e filo-occidentale nel ricordo di Mossadeq.

Queste lotte intestine si concludono sostanzialmente alla metà degli anni Ottanta, quando il partito islamico elimina totalmente i compagni di strada, dall’estrema sinistra ai nazional-popolari, la cui funzione viene assorbita dal partito islamico stesso che, su una base non più laica, ma religioso-popolare, si pone alla guida della nazione nella difesa dall’aggressione a opera dell’Iraq di Saddam Hussein.

Da quanto abbiamo detto sin qui appare evidente il ruolo centrale del clero sciita militante, come forza economica, sociale e politica del Paese. La continuità ideologica nell’azione di tale forza per tutto il corso del XX secolo – l’islamizzazione di una società che deve confrontarsi con la sfida della modernizzazione, si è sempre espressa con politiche pragmatiche e flessibili. Questo pragmatismo ha la sua base nel fatto che il clero sciita è alla testa di una capillare struttura di assistenza sociale e redistribuzione del reddito tra i suoi fedeli e sostenitori politici, che esso da sempre coordina. Non è un caso che, quando tale redistrbuzione si inceppa, come sembra che accada nell’Iran del 2017-2018, scoppino delle rivolte, in cui il popolo minuto che vive di tali sussidi o che perde i suoi risparmi nelle falle dell’economia controllata dal clero, si rivolta contro il potere centrale, divenendo massa di manovra delle varie fazioni in cui il regime islamico è diviso. Questo populismo religioso fa sì che la rivoluzione si concretizzi non nell’instaurazione di un ordine economico alternativo bensì nell’affermazione della nazione, che si identifica però non più con i ristretti ceti urbani ispirati dall’Occidente come al tempo dello Scià ma con il “popolo” che comprende i “poveri” e più in generale la campagna senza però mettere in discussione disuguaglianze e assetti proprietari. La rivoluzione anti-imperialista all’esterno diventa perciò contro-rivoluzione sociale all’interno, e il “partito di Dio” è lo strumento che stabilizza i rapporti di produzione in una forma ibrida di capitalismo assistenziale di Stato che elimina l’istanza politica del lavoro. Tacitato il conflitto di classe interno, la nazione, ridefinita in termini di identità religiosa, può dedicarsi a una politica di potenza regionale dalle evidenti ambizioni mondiali, se si considera l’ambigua corsa all’arma atomica in competizione con Israele.

Quiete prima della tempesta

Abbiamo detto all’inizio che l’Afghanistan prefigura tendenze affermatesi poi compiutamente nella Rivoluzione iraniana del 1979. Naturalmente ciò avviene in un peculiare contesto interno ed esterno al paese che dà a tali tendenze una coloritura e uno sviluppo loro propri. L’Afghanistan si differenzia innanzitutto per il ben noto frazionamento etnico, una maggioranza pashtun che domina sulle minoranze tagike, uzbeke, hazara e altre ancora. Questo carattere ha influenzato tanto i modi attraverso i quali l’Afghanistan ha perseguito la propria indipendenza nazionale, quanto i tentativi di riforma sociale. Ancora all’inizio degli anni Settanta il paese è una monarchia costituzionale che dagli anni Venti persegue una modernizzazione analoga a quella di altri paesi dell’area, tra cui appunto l’Iran. Il re è il riferimento dei signori delle campagne (khan), grandi latifondisti che assieme ai mullah, capi religiosi responsabili nei villaggi dell’educazione coranica, governano di fatto le aree rurali al posto di un potere centrale debole e lontano. L’occidentalizzazione dei costumi è perciò limitata alle ristrette aree urbane, in particolare Kabul. Anche nelle campagne, però, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, si avviano trasformazioni che dalla base economica arrivano a intaccare gli assetti ideologici. Infatti, grazie agli aiuti internazionali devoluti sia dagli Stati Uniti che dall’allora Unione Sovietica, con la creazione di infrastrutture e opere irrigue si avvia un capitalismo rurale che svuota in parte il potere tradizionale dei latifondisti a favore di una incipiente classe di agricoltori mercanti. L’effetto è una crescita dei contadini senza terra la cui proletarizzazione crea un vuoto “spirituale” non più colmabile dai tradizionali rapporti di rispetto sociali e religiosi. Dunque, sotto un’apparenza di quiete, in realtà urgono fermenti ideologici e politici che all’inizio degli anni Settanta trovano un primo sbocco nel colpo di Stato ad opera di Mohammad Daud Khan, cugino dell’ultimo re Zahir Shah e già personalità politica di spicco. Con il proposito di accelerare il processo di modernizzazione, Daud Khan abolisce la monarchia e instaura una repubblica a partito unico. Oltre a una intensificazione dei rapporti con l’allora Unione Sovietica, pur in un quadro di non allineamento, Daud avvia una riforma agraria che però, al di là degli intenti rimasti tali circa una redistribuzione delle terre, si concretizza solo in un timido inizio di redazione catastale.

Due blocchi contrapposti

L’approccio burocratico al problema dei rapporti tra città e campagna e il cambiamento traumatico della forma di governo danno l’avvio a un convulso succedersi di regimi e fasi politiche in cui però è possibile individuare abbastanza nettamente le linee attraverso le quali vengono perseguiti tanto l’affermazione nazionale quanto le riforme sociali. L’accelerazione di Daud Kahn fece emergere i due blocchi che poi si contenderanno la scena negli anni successivi sino al caos dei signori della guerra e alla nascita dei Talebani alla metà degli anni Novanta, ovvero i conservatori religiosi e i comunisti che, già dalla metà degli anni Sessanta, si erano organizzati nel Partito democratico Popolare dell’Afghanistan.

Quanto ai conservatori religiosi, si tratta di un fronte che cambia nel corso del tempo, in riferimento ai territori e alle appartenenze etniche. È noto che l’Islam afghano è sunnita per il 90%, in contrapposizione a una minoranza sciita del restante 10% di etnia azera. In generale, nella storia dell’Afghanistan l’Islam si è caratterizzato non tanto per la sua funzione assistenziale, come in Iran, ma per il ruolo giocato nei movimenti di resistenza ai tentativi di occupazione di potenze straniere. È quanto accadde nel respingere le due aggressioni inglesi del XIX secolo, in cui l’Islam fornì un cemento ideologico “nazionale” che compensava le divisioni derivanti dall’esistenza di un sottostante orgoglio identitario tribale e di un altrettanto senso dell’onore personale e familiare. Nel quadro di questa funzione “nazionale” le moschee non erano solo luoghi di culto, ma anche riparo per gli ospiti e luoghi d’incontro e di socialità, oltreché di istruzione scolastica e di rispetto delle varie festività. Era consuetudine per un afghano passare un certo periodo di tempo della propria gioventù a studiare il Corano in una madrasa. È su queste consuetudini che si innesterà il fenomeno dei Talebani, nato nei campi profughi ai confini con il Pakistan in seguito al conflitto provocato dall’intervento sovietico del 1979. Qui le madrase diventeranno anche centro di assistenza e di sostentamento delle popolazioni lì ammassate.

Quanto ai comunisti, benché divisi al loro interno tra una fazione mirante alla conquista rivoluzionaria del potere (Kahlq, ovvero Massa o Popolo) e una favorevole a un più ampio fronte nazional-patriottico (Parcham, ovvero Bandiera o Vessillo), essi appoggiarono Daud nel rovesciamento della monarchia e nel 1978, con un colpo di mano in seguito a disordini provocati dall’uccisione di un loro eminente esponente intellettuale, Mir Akbar Khyber, riuscirono a conquistare il potere con la Rivoluzione di Aprile. La riforma agraria, che Daud aveva appena accennata, divenne allora la spina dorsale di un rivolgimento radicale delle campagne. Infatti, assieme all’abolizione dell’usura, del prezzo della sposa e del matrimonio forzato e a un programma intensivo di alfabetizzazione, fu avviata una redistribuzione con la quale si limitava a sei ettari la quantità di terra che una famiglia poteva possedere, procedendo alla requisizione senza indennizzo della quantità eccedente. L’intento era di emancipare i contadini (dehqan) dall’oppressione secolare dei grandi proprietari fondiari (Kahn) i quali, legittimati ideologicamente dall’elemento clericale, decidevano della distribuzione delle sementi, delle attrezzature agricole e dell’accesso alle fonti idriche. La riforma, varata il 1° gennaio 1979, che prevedeva anche la creazione di cooperative incaricate di fornire crediti, fertilizzanti e mezzi di produzione, avrebbe però richiesto più tempo per subentrare al vecchio modo di produzione basato sulla mezzadria, il credito a usura da parte dei kahn nonché il prestito dei mezzi per arare i campi. Il crollo nell’immediato dell’economia agricola causato dalla disarticolazione di tale arcaico modo di produzione divenne allora il terreno fertile per una sollevazione anti-governativa, maturata agli inizi del 1979, che assunse presto le caratteristiche di un complessivo scontro ideologico. La riforma agraria, infatti, venne percepita come una sfida al possesso della terra come supporto di tutta la forma di vita tradizionale, in quanto elemento non solo di ricchezza materiale, fonte dell’endemica conflittualità interna a tale forma di vita, ma anche di mantenimento del prestigio e dell’autorità politica dei capi, i quali perciò, colpiti dalle espropriazioni nel loro ruolo sociale, si mobilitarono e, facendo appello a motivi sia ideologici che tribali, riuscirono a egemonizzare il proletariato agricolo che la riforma intendeva emancipare dalla sua storica condizione di miseria economica e di subalternità sociale. Fu dunque principalmente questo contesto interno di “rivoluzione passiva” a scatenare la guerra civile, e solo secondariamente l’intervento sovietico del dicembre 1979 che mirava a stabilizzare un’area cruciale per gli interessi strategici dell’allora Unione Sovietica.

Scontro egemonico

Senza dover andare oltre in una ricostruzione storica che per molta parte è ancora cronaca, abbiamo già qui molti degli elementi che abbiamo rinvenuto nel contesto iraniano ma distribuiti differentemente lungo il processo di modernizzazione che, nel convulso succedersi dei regimi politici e degli assetti ideologici, si trasforma in un tentativo di emancipazione dall’alto sfociato in un conflitto tra città e campagna. Infatti, alla germinale “società civile” delle poche aree urbane si contrappone l’immensa area rurale dove ristagna la “società tradizionale” retta dalle consuetudini e dai principi religiosi di un Islam quale unico collante della frammentazione tribale e familiare. Il grande possidente (kahn) è la figura di rispetto di questo “quieto” universo fondato sul nesso tra terra ed esistenza sociale. La “società civile” delle poche aree urbane, specie nel suo strato politico-ideologico, è però in grande fermento, e il PDAP, l’equivalente del Tudeh iraniano, riesce addirittura a conquistare il potere centrale, al punto da suscitare l’ammirazione dei rivoluzionari iraniani che vedono in quelli afghani dei romantici combattenti da emulare. È possibile così portare la sfida estrema alla “società tradizionale” con quella riforma agraria che, come abbiamo visto, non tocca solo l’organismo economico ma acquista il significato di una messa in discussione di un’intera forma di vita. A questo punto, pur nella differenza dei contesti e degli svolgimenti, il processo arriva allo stesso esito: il blocco tra mullah e kahn reagisce “sanfedisticamente” contro i “senza Dio”, che qui non è lo Scià ma i comunisti del PDAP. Dal canto loro, le forze rivoluzionarie già divise al loro interno indietreggiano dai propositi emancipatori e, man mano che per guadagnare consenso si attestano su posizioni di sola rivendicazione dell’affermazione nazionale, perdono la loro legittimazione già incrinata dall’appoggio dell’invasore, sino a essere travolte e annientate dal movimento religioso-patriottico dei mujaheddin. Nel caos dei “signori della guerra” sorge allora l’Emirato islamico in cui la religione nell’interpretazione radicale dei Talebani salva la nazione. A differenza dell’Iran, però, dove lo scontro avviene sul piano ideologico dell’emancipazione femminile, in Afghanistan la reazione è indirizzata principalmente contro la riforma agraria avvertita come sfida a un’intera forma di vita. C’è da chiedersi però se la riforma agraria fosse lo strumento adatto per una simile impresa. Essa certamente spezzava la rendita feudale, ma il dogma della redistribuzione del latifondo condiviso da tutto il socialismo dell’epoca, se recepiva la “fame” di terra dei contadini di cui invece i proprietari erano “sazi”, costituiva però un’elaborazione economicistica del legame dell’uomo con la terra che, oltre a deprimere nell’immediato le forze produttive, non era in grado di opporre una nuova egemonia a quella “sanfedistica” della “società tradizionale” e, come abbiamo visto in Iran, confinava le forze rivoluzionarie in una posizione subalterna rispetto ai modernizzatori ispirati dall’Occidente capitalistico.

Terra, Dio, esistenza

I talebani, dunque, sia nella loro prima (1996-2001) che nella seconda emergenza (2021), sono l’esito estremo di questa mancata elaborazione egemonica che prima ha travolto e annientato le forze interne emancipatrici e poi si è opposta vittoriosamente a una modernizzazione imposta militarmente per un ventennio, dal 2001 ai nostri giorni. In quest’ultimo periodo, in cui il paese è stato sotto il controllo delle forze occidentali con alla testa gli Stati Uniti, l’organismo economico, a parte il mercato “spurio” degli aiuti internazionali contiguo a quello dei traffici “illegali”, è stato sostanzialmente abbandonato a se stesso. Infatti, a parte una “riforma agraria” limitata al progetto di un catasto agrario che ricorda quello avviato ugualmente senza esito dal lontano regime di Daud, niente è stato fatto, e non poteva che essere così in un rapporto basato essenzialmente sull’occupazione militare, per elaborare in modo nuovo quel nesso tra terra ed esistenza la cui incomprensione segnò il fallimento della riforma agraria tentata dai comunisti negli anni Settanta. C’è chi ora, per l’Afghanistan, “il cuore sanguinante dell’Asia”, preconizza la fondazione di uno Stato sciita comunista, come a voler riprendere quel discorso riformatore interrotto ma sulla base di rapporti etnici e religiosi ribaltati. Il presente, tra rinnovata oppressione interna e ottusi ricatti esterni, è così tragico che ogni previsione risulta azzardata.

Quel che si può dire è che la vicenda dell’Afghanistan riguardata dal punto di vista qui prescelto, la riforma agraria, assume un significato generale circa le conseguenze della mancata rielaborazione del nesso tra l’uomo e la terra. Le religioni non sono realtà assolute ma, a seconda del grado di sviluppo dell’organismo sociale, guidano, elaborano e accompagnano le trasformazioni della realtà sociale. La teocrazia del mondo avvenire così come si è storicamente concretizzata in Iran prima e poi in Afghanistan è un dispotismo che tacita i conflitti sociali suscitati dall’avanzare del capitalismo e lasciati irrisolti dai movimenti di emancipazione a causa di impostazioni economicistiche subalterne alle concezioni modernizzatrici. Piuttosto che lo stadio futuro finale la teocrazia del mondo avvenire è la permanenza di un passato in cui la terra è oggetto di sfruttamento e Dio è il testimone di questa rapinosa appropriazione. L’introduzione del macchinismo industriale nel mondo agrario ha solo dato vita a quell’organismo ibrido tra rendita e profitto che è il capitalismo agrario, lasciando immutate anzi rafforzandole tutte le altre sovrastrutture ideologiche. D’altra parte, l’avanzare della scienza e della tecnica, si pensi alla produzione in laboratorio di proteine e alimenti che sempre più largamente si sperimenta, prefigurando un’agricoltura come ramo industriale della genetica, della chimica e della biologia sintetica, sembra preludere a una terra abbandonata sia dagli uomini che da Dio. La rendita agraria (ma con questo termine bisogna intendere “ecologicamente” anche lo sfruttamento di ciò che sta sotto la terra) viene così spodestata dalla sua pretesa di essere il sostegno della “vera” fede, ma se si pensa alla crescente tendenza del capitalismo contemporaneo a fare a meno del lavoro, della divina “trinità”, rendita profitto salario, a sopravvivere sarà solo la merce. Sta nella desolazione di questa anonima divinità senza tempio la forza che promana dalla falsa promessa della teocrazia del mondo avvenire.

Eppoi basta

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Da «Whatever it takes» a «Eppoi basta». Questa la parabola del Grande Funzionario. Si ricorderà che «Whatever it takes» è la frase che, pronunciata il 26 luglio 2012 nella sua veste di governatore della Banca Centrale Europea all’indirizzo dei mercati finanziari per scoraggiarli da eventuali attacchi speculativi all’euro, ha procurato a Mario Draghi una vistosa aureola che l’ha accompagnato negli anni avvenire garantendogli per chiamata diretta l’ascesa al soglio di Palazzo Chigi. E qui, dove la santità non basta, le cose si complicano. Pare infatti che, giorni fa, durante un Consiglio dei Ministri ci sia stato un diverbio, a quanto pare l’ennesimo, tra l’aureolato e il ministro Franceschini, il quale chiedeva che fossero reintrodotti i fondi per la ristrutturazione delle facciate1. Triste sorte quella di un santo di doversi occupare dei cappotti termici. Ma, come mostrò mirabilmente Stendhal, cosa non farebbe un Julien Sorel per non dare corso alle sue ambizioni? Non corriamo. Pare infatti che la conversazione dalle ordinarie questioni edilizie sia ascesa alle più alte vette politiche quando il titolare della Cultura ha ricordato al premier che il bonus facciate è stato uno dei provvedimenti caratterizzanti del governo precedente e che pertanto andava affrontato per l’importanza che ha. Qui pare che Sua Grandezza si sia molto inasprito, ricordando al ministro che anche il reddito di cittadinanza e quota cento, così come ora il taglio delle tasse e i fondi per gli ammortizzatori sociali sono provvedimenti caratterizzanti del precedente come dell’attuale governo, ma, ministro, «le risorse sono finite, altrimenti il sistema salta». Che l’avvento di Draghi fosse legato alla salvezza del sistema, lo si era capito, ma detto così fa un certo effetto. Franceschini ha fatto finta di non capire – e qui ci si chiede, ma dove sono i Di Maio e i Salvini? deve essere Franceschini a difendere le ragioni dei populisti e dei sovranisti? Dicevamo, Franceschini ha fatto finta di non capire e ha spiegato all’Uomo dell’Euro che «le riunioni di governo servono a costruire un compromesso» e che il Consiglio dei Ministri è «il luogo dove avvengono le ricomposizioni». Draghi deve aver pensato che al massimo si ricompongono le salme. E così, d’istinto, sottolinea l’informato giornalista, se ne è uscito tagliente: «È quello che stiamo facendo», aggiungendo subito dopo: «Eppoi…». E mentre tutti gli astanti notavano come per la prima volta fosse visibilmente infastidito, ha concluso: «Eppoi basta». È il caso di dirlo, il nostro Julien Sorel è proprio un libro aperto. In questo quadretto, infatti, senza infingimenti c’è tutto quello che occorre sapere per sapere dove si sta andando a parare. Dopo tanto parlare di debito buono e debito cattivo, piano di resilienza e ripartenza, fiumi di soldi dall’Europa da non farsi scappare, viene chiarito senza ambiguità alcuna che si ritorna a quell’austerità che, sola, e a che prezzo!, ci permette di continuare a partecipare a quel risiko che va sotto il nome di Unione Europea. E questo è uno. Due. Se Draghi diventa Presidente della Repubblica, avremo al Quirinale l’Uomo dell’Eppoi Basta al quale bisogna baciare la pantofola senza tirarla troppo per le lunghe con le chiacchiere parlamentari e le ricomposizioni ministeriali. Questo è il progetto “gollista”, ovvero di un autoritarismo aggiornato al XXI secolo di cui diremo fra un attimo, che vagheggiano quelli del “centro moderato”, giusto perché si sappia cos’è la moderazione. Terzo. Per sommo paradosso, questo autoritarismo aggiornato al XXI secolo ci regalerà un regime di populismo finanziario. Infatti, come in ogni populismo che si rispetti, l’Uomo dell’Eppoi Basta si connetterà direttamente al popolo che in lui riporrà tutte le sue speranze, avendo cura di investirle in buoni fruttiferi del debito europeo di cui, non essendoci più una Merkel a fargli ombra, sarà il Sommo Sacerdote. L’aureola di Draghi sarà il cerchio di ferro forgiato nel miglior acciaio tedesco che cingerà la chioma d’Italia, serva giubilante di cotanto figlio. Ma, prima che tutti i giochi siano fatti, il paradosso massimo è quello che va profilandosi in vista dell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. Ci sarà da un lato la “maggioranza Ursula” che, come appena detto, mira a insediare il proconsole dell’Europa con l’offa di farne il re in grado di far risplendere in tutto il continente la gloria d’Italia, e dall’altro la maggioranza alternativa, in grado di salvaguardare Parlamento, Governo e relative ricomposizioni politiche, che, se non si avrà l’accortezza di escogitare una terza soluzione, dovrà raccogliersi attorno a Berlusconi. Maggioranza Ursula vs. Maggioranza Silvio. Alla faccia di chi già lo collocava fra le salme politiche. Questo per dire com’è messa bene l’Italia.

 

  1. F. Verderami, Il botta e risposta in Consiglio tra Draghi e Franceschini: «Un’intesa? E quello che cerco», «Corriere della sera», 21.10.2021, p. 9. []

A ciascuno il suo burqa?

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Torna tragicamente il burqa in Afghanistan, ma pare che anche in Italia alle donne sia imposto un burqa particolare, la difficoltà sempre più grande di poter abortire. Infatti, secondo un dato del 2016 del Ministero della Salute, quindi sottostimato rispetto alla tendenza ulteriormente affermatasi negli anni successivi, si registra un tasso di obiezione di coscienza negli staff delle strutture italiane pari all’85,2 per cento1. Ma cosa spinge ginecologi e anestesisti, sebbene questi ultimi in misura minore, a questa scelta di massa? Se si chiede in giro agli addetti del settore, la risposta è che una minoranza esigua lo fa per motivi religiosi, ma una parte più cospicua cerca di sottrarsi a un grosso carico di lavoro che si ritiene non essere adeguatamente remunerato. Alcuni anni fa all’ospedale Cervello di Palermo fu finanziato un progetto che agevolava e sveltiva le interruzioni di gravidanza farmacologiche. Pare che in quel periodo nessuno fosse più obiettore, e quando il progetto finì e con esso i soldi ecco di nuovo che si risveglia l’obiezione di coscienza. Morale della favola, ma visto che di mezzo c’è il denaro sarebbe il caso di dire immorale della favola, se ci fosse un riconoscimento economico il tasso di obiezione si dimezzerebbe. Ma, come si è detto all’inizio, chi fa obiezione di coscienza si appella spesso alla fede. «L’ho fatto per motivi religiosi — spiega un medico di Palermo, che pure rispetta la decisione delle donne, presa giustamente in autonomia — mi sentivo troppo in colpa e ho smesso». Come dargli torto? E una ginecologa obiettrice di Catania spiega che «l’obiezione quando c’è è totale: non fai differenza tra interruzione volontaria e aborto terapeutico, non interrompi nessuna gravidanza».  Giusto, per la dottoressa. E per la donna alle prese con un aborto terapeutico, chi le dà una risposta? Quanto agli anestesisti obiettori, semplicemente non vengono messi di turno quando ci sono da fare le interruzioni volontarie. «Li comprendo — commenta uno di loro — nemmeno io lo faccio a cuor leggero, mentre sono lì cerco di convincermi che sto facendo altro». Ecco l’estraneazione che esce dai libri di filosofia e plana sulla vita quotidiana. Si dirà, l’arretrato Sud. No, l’obiezione di coscienza contro l’aborto sembra che annulli il divario tra Nord e Sud. Infatti, la Sicilia e Bolzano negano questo diritto in modo identico. E forse anche i comportamenti sono identici. Molti medici lamentano l’abuso della procedura, anche quella chirurgica, da parte di donne che sembrano non usare contraccettivi: «ero a Trapani anni fa e ho visto praticare l’interruzione volontaria a una donna per l’ottava volta — afferma uno di loro, un anestesista — e non è un caso rarissimo». È vero, è un caso tutt’altro che raro che si verifica non da ora ma da molto tempo. Chi scrive ricorda che già all’inizio degli anni Novanta una ginecologa gli riferì una identica situazione, e si conosceva anche qual era la causa: il compagno della donna rifiutava di usare il preservativo e non voleva che lei prendesse la pillola o si facesse impiantare la spirale. L’anestesista di cui sopra conclude con molto understatement che «è chiaro che c’è un problema di informazione generale rispetto alla salute riproduttiva». È chiarissimo, ma più che informazione forse sarebbe il caso di parlare di formazione. Si può, in un paese dell’Occidente progredito? A quanto pare, no, perché l’individuo autonomo non tollera pedagogie. E non tollera il burqa delle donne afghane. Vuole solo i diritti. Il burqa delle donne italiane, anch’esse beninteso individui autonomi, quello si può fare, tanto è invisibile. E qui viene da pensare, ma è solo un cattivo pensiero, che a volte i diritti, nella loro unilaterale astrattezza, se è consentito dirlo en philosophe, sono mine anti-uomo, che anziché i corpi fanno saltare in aria la coscienza di uomini e donne.

 

  1. Eugenia Nicolosi, Troppi obiettori. Gli aborti tornano clandestini, «la Repubblica – Palermo», 17.8.2021, p. 5. Tutti i dati cui si fa riferimento successivamente nel testo sono tratti da questo articolo. []

Ragioni oggettive a favore dei fratelli no vax

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Premesso che chi scrive ha fatto il suo dovere vaccinale, è fuor di dubbio che chi non vuole vaccinarsi e si oppone al controllo del lasciapassare ha dalla sua parte delle ragioni oggettive fra le quali possono essere messe in evidenza le seguenti:

 

1) il consenso informato da firmare all’atto di vaccinarsi, in mancanza di una legge che fissi dettagliatamente gli obblighi dello Stato verso il vaccinando e i suoi congiunti in caso di eventi avversi prossimi o venturi, lascia il cittadino in balia di tali eventi e scarica di responsabilità lo Stato, il quale però, pur in una situazione di sperimentazione sanitaria di massa quale non si nega essere da parte di molti competenti in materia quella attualmente in corso, obbliga di fatto al vaccino con la misura amministrativa ex post del lasciapassare. Questo modo obliquo di procedere non può che generare sfiducia;

 

2) si afferma che il vaccino serve a evitare la malattia grave che richiede il ricovero in ospedale. Ciò significa che si dà per scontato che la malattia si diffonda e persista a bassa intensità nella maggioranza della popolazione, ma senza predisporre alcun significativo potenziamento dell’assistenza medica a casa che resta carente o inesistente. Lo Stato quindi fa il calcolo minimo di evitare l’allarme sociale e il costo economico del sovraccarico ospedaliero, lasciando che il cittadino se la sbrighi privatamente nel caso più che probabile, anche quando vaccinato, che la malattia lo colpisca sebbene in forma non grave o mortale. Anche qui, questo modo obliquo di procedere non può che generare sfiducia;

 

3) posto che la strada delle cure (monoclonali, immunosoppressori) è stata sostanzialmente scartata perché ritenuta troppo lenta rispetto all’obiettivo di rimettere in moto al più presto l’intero ingranaggio della vita sociale, e posto che lo stesso vaccino non sembra poi l’arma infallibile contro l’insidioso virus, non c’è stata e non c’è alcuna seria possibilità di scegliere fra i vari tipi di vaccino (mRNA, vettoriale, proteine) in sperimentazione non solo in paesi “reprobi” come Cuba, Russia e Cina, ma anche nel blocco dei “virtuosi” paesi occidentali. Si è alimentato invece un dibattito fittizio tra marchi (Astrazeneca vs. Pfizer), impedendo di fatto un’informazione obiettiva e completa su tutte le opzioni possibili, lasciando che tutto fosse regolato da dinamiche economiche riconducibili a pochi, salvifici monopoli farmaceutici. Tutto ciò ancora una volta non può che aver generato sospetto e sfiducia;

 

4) non è mancato e manca solo il dibattito scientifico su opzioni effettive e non fittizie, ma ancor più manca un dibattito serio su come uscire dalle “situazioni di guerra” causate dalle ormai ricorrenti pandemie. Al contrario, la fuga dalle responsabilità, i ragionamenti grettamente utilitaristici, la riproposizione di modelli organizzativi obsoleti, le contrapposizioni schematiche rispondenti più al marketing che al dibattito democratico, non fanno che ribadire la grande divisione tra uno Stato nella sua essenza autoritario e un cittadino relegato nella sua privatezza, la cui àncora di salvezza per entrambi è un’economia che si rimetta a regime quanto prima per poter continuare a stillare quelle ormai sempre più grame risorse necessarie a tenere in vita un’organizzazione sociale di cui da tempo si è più prigionieri che protagonisti.

 

Tutto ciò considerato, sembrano eccessive e spropositate le misure che vengono minacciate per coloro che non intendono vaccinarsi e sottostare al controllo del lasciapassare. Privare qualcuno del lavoro e dello stipendio è come spedirlo in prigione senza neanche volergli passare il vitto dell’amministrazione carceraria. Se si vogliono adottare misure così estreme, ci si assuma la responsabilità di leggi chiaramente discusse ed emanate, senza più far ricorso a decreti che producono solo rabbia e frustrazione. O è proprio la rabbia e la frustrazione che si vogliono alimentare, per poter ricorrere al pugno di ferro che ribadisca i presupposti indiscutibili dell’ordine vigente?

Ingiustizia uguale per tutti

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Nella spietata analisi di un aristocratico del V secolo, Atene appare dominata dalla “canaglia”, cioè dai poveri e in particolare da quei timonieri, capirematori, comandanti in seconda, manovratori, carpentieri, insomma da quel popolo lavoratore che molto più degli opliti, dei nobili, della gente per bene, faceva andare le navi e rendeva forte la città rispetto alle altre città greche di terra1. La contrapposizione tra potenze di mare e potenze di terra non ha nulla di mistico e nella sua analisi l’aristocratico del V secolo, molto più chiaramente di qualche tenebroso ideologo moderno, lo spiega bene. Il mare è il presupposto strategico di una superiore mobilità del capitale. Oggi tale contrapposizione, che nel frattempo si è arricchita della dimensione dei cieli e dello spazio extra-terrestre, vive un momento particolare, poiché l’atlantismo, che negli ultimi settant’anni ha riassunto l’egemonia della potenza di mare, è in declino e sorge la potenza di terra Russia-Cina con i suoi placidi oleodotti e le sue caracollanti Vie della Seta. L’Italia, che dal 1945 è inglobata nel blocco marittimo, registra un bradisismo che proprio in questi giorni si può cogliere nella sfera del diritto con la richiesta pressante da parte dell’UE di una “riforma della giustizia” che rimuova gli impedimenti allo scorrere di un capitale in ulteriore debito d’ossigeno, specie dopo la catastrofe della pandemia, nella realizzazione ormai storicamente sempre più difficoltosa del saggio di profitto. Non bisogna idealizzare il passato, ma per la sua intrinseca ambiguità nei decenni trascorsi il diritto ha reso possibile il riconoscimento di alcune istanze del lavoro, si pensi all’art.18, o di alcune esigenze ambientali, si pensi alle ordinanze e contro-ordinanze nella vicenda dell’ILVA. Ma, appunto, il diritto è ambiguo, e così bisogna registrare la dura repressione giudiziaria di un movimento anch’esso ambientalista come il No-Tav in Val di Susa condotta da magistrati pure distintisi nella “lotta alla mafia”, quella tendenza che combatte l’altra faccia del valore creato dai circuiti dei traffici di droga e della finanza nera. È non l’illusione ottica della “magistratura comunista” che così si rivela, ma l’ideale di un capitalismo legalitario che un corpo di funzionari dello Stato ha portato al massimo fulgore con il “manipulitismo”, cioè con la visione di un capitalismo mondato dalle pratiche monopolistiche promosse con concessioni e appalti dal potere discrezionale delle cerchie affaristiche cui si erano ridotti i partiti nel volgere degli anni Ottanta. Oggi, per il crescente affanno, accentuato dalla pandemia, delle politiche di austerità e dei bilanci in pareggio, leggi compressione dei salari e dittatura dei mercati finanziari con la cui accettazione a Maastricht si cercò di arrestare la rovina di quel mondo, c’è un vasto rimescolamento di carte in forza del quale non la politica genericamente intesa, non i partiti che aspirano confusamente a una rinascita, ma lo Stato nella sua ieratica figura rientra e viene invocato per riavviare un’accumulazione capitalistica inceppata dallo scontro mondiale tra mare e terra. Dunque, né la lotta alla mafia né Mani pulite hanno più ragion d’essere se non quale omaggio verbale all’“onestà” e ai suoi eroi del passato. Ma quel che più conta è che cada ogni residua ambiguità normativa e ogni attardata velleità di tutela giudiziaria delle ragioni del lavoro e della natura. Il nuovo capitalismo di Stato alle viste non ha più dunque il volto benevolo di un compromesso di classe, come fu nel trentennio 1945-1975, ma la voce stridula di un banchiere la cui missione è fermare il tramonto e rovesciare le sorti dello scontro, rimettendo le cose a posto in una delle provincie più riottose ma al tempo stesso più importanti del blocco marittimo. Infatti, come spiegano inequivocabilmente da Oltreoceano, «[i processi ai politici] sono troppo frequenti in Italia, dove l’ampio potere di magistrati spesso mossi dall’ideologia può essere usato per inseguire vendette politiche o dove le aziende possono rimanere intrappolate in procedimenti giudiziari ingombranti e scoraggianti che sono tra i più lenti d’Europa»2. Perciò, la riforma varata da Draghi, continua l’interessato osservatore di là dell’Atlantico, «non è altro che il tentativo di ristabilire la fiducia degli italiani nei loro leader politici e nelle istituzioni dopo decenni di vetriolo anti establishment, titoli arrabbiati e invettive sui social media»3. Il ritorno del capitalismo di Stato richiesto dall’incombere del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), un festival dirigista per rimettere in moto il mercato liberista, è dunque la base del nuovo patto politico che deve contrassegnare la fase storica prossima ventura. Quale sarà la sua ideologia lo si può intuire dalle parole di un suo menestrello: un capitalismo di Stato che atteggiandosi ad amministratore imparziale dà se la gente «soffre, rischia, prova, corre, se la gioca, e poi se fallisce gli diamo una mano»4. L’annuncio sbracato di questa lotteria sociale coglie, se non di sorpresa, certo in un momento di grande difficoltà una magistratura che negli anni ha coperto pratiche di potere sempre più diffuse, ispirate al modello delle lotte di partito, con una ideologia legalitaria nel suo complesso sempre più lontana da un paese attanagliato da una rabbia profonda per l’incapacità e l’impossibilità di realizzare le però sempre persistenti pulsioni all’arricchimento cui lo spinge la forma di vita capitalistica. Si spiega così il successo della raccolta di firme promossa da forze politiche vecchie e nuove per un referendum su questioni di amministrazione della giustizia che all’apparenza nulla hanno a che fare con la sfera economica, la separazione delle carriere, la responsabilità civile dei giudici, la custodia cautelare, il rapporto tra magistratura e politica, la gestione delle carriere. Il “vetriolo anti establishment” che nel recente passato un libello come La casta, a firma dei giornalisti Stella e Rizzo, indirizzò verso i “politici”, oggi da una analoga pubblicazione, Il sistema, a firma del giornalista Sallusti e dell’ex magistrato ora inquisito Palamara, viene riversato sui “giudici corrotti”. Esso potrà finalmente essere prosciugato, come richiede con impazienza l’alleato maggiore, se il grande ritorno del capitalismo di Stato, a dispetto della sprezzante ideologia con cui i sicofanti vogliono abbellirlo, saprà mantenere le promesse di compensi e redistribuzioni che tacitamente tutti si aspettano. In questo modo, il governo della “canaglia”, che nell’Atene del V secolo era ancora un felice paradosso storico, si riduce al suo significato letterale il cui riferimento è un mondo sottosopra sempre più angusto dove solo l’ingiustizia è uguale per tutti.

 

 

  1. Pseudo-Senofonte [Crizia], Athenaion Politeia [Dialogo sul sistema politico ateniese], trad. it. a cura di L. Canfora, La democrazia come violenza, Palermo, Sellerio, 1984, pp. 15-35. []
  2. J. Horowitz, Italy’s Mr. Fix-It Tries to Fix the Country’s Troubled Justice System — and Its Politics, Too The issue has become a test for whether Prime Minister Mario Draghi can really change Italy, «The New York Times», 29.7.2021, edizione online []
  3. Ibidem. []
  4. https://www.iltempo.it/politica/2021/07/31/news/matteo-renzi-la-gente-deve-soffrire-bufera-social-reddito-di-cittadinanza-commenti-hashtag-renzifaischifo-video-28170162/. []