La cosa più penosa era vedere i media di tutte le tendenze esorcizzare l’evento. Non facevano più cronaca ma pronunciavano dei vade retro. E mentre scorrevano immagini che nessuno di loro aveva girato, i corrispondenti emettevano accorate previsioni su quanto ancora sarebbe potuto succedere di peggio. Diciamolo, quest’aria funesta non era ingiustificata. Era accaduto che i rappresentati avevano invaso il palco della rappresentanza e avevano scacciato in malo modo i rappresentanti. La democrazia rappresentativa non c’era più. Certamente, la dissacrazione era opera solo di una parte, e la parte restante ribolliva di rabbia, come si capiva dal “now” con cui il nuovo presidente ingiungeva al vecchio di andare in tv e porre fine allo scempio. Si badi bene, non in piazza, non fra i suoi sostenitori che erano lì a due passi e su cui pure si poteva presumere che avesse un qualche ascendente, ma in tv. Bisognava insomma ricostruire, “now”, ciò che era stato distrutto, non solo la rappresentanza, ma la rappresentazione televisiva della rappresentanza. Tuttavia, l’aria sonnolenta (è proprio così, sembra che dorma in piedi) con cui quel “now” veniva scandito faceva sorgere tanti interrogativi. Come si era arrivati a tanto? Quale sentire era stato così profondamente sfidato da infondere a quella parte di rappresentati quel coraggio sconsiderato? Beh, intanto bisognava subito etichettarla, e dare un’idea del suo abominio: estremisti di destra, neonazisti, suprematisti, complottisti, negazionisti. E in effetti per molti aspetti si trattava proprio di quell’abominio, ma non una parola però sulla politica intrigante che con patti e promesse più o meno inconfessabili forma coalizioni, compatta interessi, aggrega cordate dietro le quinte della rappresentanza, il cui copione può essere così recitato nelle forme e nei riti che tutto lavano e purificano. Al momento della formazione della nuova compagine dei ministri, non era stato infatti annunciato che il ministero dei trasporti sarebbe stato assegnato al giovane sindaco che con il suo ritiro dalla contesa presidenziale aveva favorito il raccordo attorno al vispo, ehm, Joe Biden? Era l’egemonia, bellezza, ridotta però a un minuetto di incipriati convinti di poter soffocare nel buio della sala l’egemonia maior che si gioca tra la sala e il palco e che consente al palco di rilucere solo se la sala vuole. Quegli incipriati invece, al netto di qualche fischio, davano ormai per scontato questo consenso, la democrazia non è forse la fine della storia? E invece la storia stava per rimettersi in moto, era da mesi che le sue ruote sgommavano nel fango, ma quegli azzimati continuavano a pavoneggiarsi nei loro sparati bianchi, trattando posti e cariche da cui gestire l’eternità. Certo, quante altre volte l’esasperazione per un così sfrontato disprezzo era montata, la sala aveva rumoreggiato, ondeggiato, si era scagliata contro il palco, ma la sua furia alla fine domata? Cos’era accaduto questa volta per permetterle di invadere il palco e sloggiarne gli occupanti? C’erano dei filmati che lo mostravano: da un lato poliziotti che sparavano a bruciapelo, dall’altro barriere che si aprivano, gente in divisa che faceva filtrare i dimostranti, plotoni di poliziotti che menavano pugni nell’aria e spruzzavano peperoncino con cui al massimo condire una pasta scotta. Erano gli apparati di forza divisi e squagliati di fronte a ordini ambigui – la morte per un apparato di forza. Ed ecco dunque squadernate davanti alla platea mondiale tutte le budella del potere, donde l’orrore dei media che non riuscivano a rimetterle frementi e fumiganti nella pancia squarciata da cui erano fuoriuscite. Sudamericana, proruppe ad un certo punto il corrispondente davanti a tanto spettacolo, sì, era una situazione sudamericana, come quando, ignobili assassini, nel Cile degli anni Settanta gli aerei foraggiati dai cultori della democrazia avevano bombardato il palazzo di un presidente legittimamente eletto. Ecco, ora quella oscenità, quel sacrilegio che in quel remoto paese era stato ritenuto giusto e necessario accadeva lì dove mai nessuno avrebbe immaginato che la sacra rappresentanza potesse essere violata.
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Vicolo cieco
Non c’è nessun motivo di rimpiangere non l’anno, ma il ventennio appena trascorso. Tre neri fiumi ne hanno segnato il corso, guerre fame e pestilenze. Si è aperto con la sfida di alcuni religiosi ai potenti del mondo. I religiosi sono coloro che si attengono scrupolosamente ai dettami del culto, poco importa che questo scrupolo sia soddisfatto in modo “fondamentalista” o meno. Essi stanno lì acquattati dalla notte dei tempi e il futuro che non sia l’apocalisse dell’eterno ritorno gli è loro precluso. La loro sfida, aerei usati come proiettili contro il sancta sanctorum dell’opulenza, non poteva perciò che essere insensata, e ha solo dato la stura ad un nuovo ciclo di guerre in cui Stati più potenti hanno potuto accrescere la loro potenza sopprimendo quella di Stati meno potenti. Non si è fatto nessun progresso nel problema vero di una diminuzione reciproca di potenza come si era iniziato a fare verso la fine della cosiddetta “guerra fredda”, a dimostrazione che nulla c’è da aspettarsi dalla religione anche quando tenta di riformarsi. Il movimento a singhiozzo che ne deriva disorienta le masse di infelici che da essa si aspettano ancora la salvezza. La guerra è dunque dilagata come il lato tenebroso della produzione, creando nella teoria l’illusione di un parallelismo tra rapporti di produzione e rapporti di distruzione stimolato dalle acquisizioni tecnologiche1. È stato un ulteriore abbaglio che ha messo a carico della tecnica quel che è di pertinenza di un imperialismo senza limite. La potenza degli Stati che si sono combattuti, infatti, se a prima vista sembra divenuta generica potenza, in realtà è sempre rimasta determinata da un imperio divenuto “globale” proprio perché sempre connesso strettamente alla produzione monopolistica e finanziaria della ricchezza: «monopoli, oligarchia, tendenza al dominio anziché alla libertà, sfruttamento di un numero sempre maggiore di nazioni piccole e deboli per opera di un numero sempre maggiore di nazioni più ricche o potenti: sono le caratteristiche dell’imperialismo, che ne fanno un capitalismo parassitario e putrescente. Sempre più netta appare la tendenza dell’imperialismo a formare lo “Stato rentier”, lo Stato usuraio, la cui borghesia vive esportando capitali e “tagliando cedole”». Che cosa è cambiato rispetto a questo quadro, non di sociologia empirica ma di concreta analisi politica, tracciato da Lenin nel 1916? Nulla, se non che ora anche il proletariato con i suoi fondi pensione vive “tagliando cedole”. E certamente questo è possibile grazie alla tecnologia, ma non perché essa è l’iper-potenza degli scopi che subordina a sé tutti gli altri scopi, ma perché essa oggi più che mai è asservita allo scopo supremo del dominio e dello sfruttamento. Così, un esercito di semi-schiavi occultato nel sottosuolo delle galere della produzione di base produce gli schiavi meccanici che sempre più consentiranno a una sterminata massa di oziosi di “tagliare cedole” sempre più miserande sotto l’occhiuto dominio di un’élite che, avendo come emblema la maschera ebete di Elon Musk, progetta come in un osceno corteo nuziale di trasmigrare in un altro pianeta. È il compimento di un sistema di produzione che producendo ricchezza crea fame. Fame, nome riassuntivo di tutta l’analitica della realtà sociale capitalistica che la cognizione sociale prodotta da tale realtà non può e non vuole più comprendere. In questa condizione alienata di ignoranza e di ipocrisia si poté produrre quindi il movimento tellurico del 2007 senza che il dominio e lo sfruttamento ne venissero scalfiti, anzi, nell’assenza di alternativa che non fosse il delirio religioso, essi ne trassero nuovo vigore. Incastonato nello sfondo estraniato di una pretesa “natura matrigna” scorreva intanto con un andamento carsico il fiume nero delle pestilenze che tutti i “salvati” raccolti nella putrescente cittadella imperialistica guardavano con occhio vitreo: a noi non capiterà. Sino a quando, nel 2020 appena trascorso, come lo spurgo impetuoso di una fogna troppo a lungo malamente tappata, la pestilenza non è sgorgata al centro del castello, immerdando di sé le splendenti vetrine, i rutilanti commerci, i frenetici spostamenti, sostenuti dagli spritz, dagli happy hours, dalle coca lines delle “Terrazze sentimento” ad alto contenuto pornografico di tutte le smart city che non chiudono mai. Ora si aspetta il vaccino, prodotto da un nugolo di monopoli farmaceutici in feroce lotta tra di loro che, quale sotto-settore imperialistico deputato alla bisogna, dovrà provvedere a “immunizzare il gregge” per far risalire gli indici altamente depressi del sistema imperialistico complessivo, da sfrenare in un nuovo ciclo di guerre fame e pestilenze. È così che, da dieci secoli, l’“uomo”, dogmatica ipostasi che ha asservito e sviato Homo sapiens, da oculus mundi quale orgogliosamente si auto-rappresentava è divenuto il vicolo cieco della specie.
- W. Streeck, Engels sociologo empirico. Tecnologia, guerra e crescita dello Stato, «Micromega», 8/2020, pp. 215-230. [↩]
Nel segno del fallimento
I più pensosi rilevano che una delle conseguenze della pandemia in corso è l’accentuarsi del conflitto tra Stato e regioni, e subito ti cominciano a parlare di quella calamità che è stata la riforma del titolo V della Costituzione. Ma c’è un significato di questo contrasto che non sia riconducibile a una dotta ma arida questione di diritto pubblico? Da dove sbuca fuori questo regionalismo che in pochi anni ha trasformato l’azzimata palandrana di Cavour in un chiassoso vestito di Arlecchino? Qui è bene ricordarsi della lezione del vecchio ma sempre attuale materialismo storico che insegna che sulla struttura economica si eleva la gigantesca sovrastruttura giuridica e politica ecc. ecc. E se la struttura italiana è sempre stata un organismo produttivo vivace, capace di produrre enormi ricchezze, non ha mai però saputo prolungarsi in una sovrastruttura che completasse e difendesse l’intera formazione nazionale. Alla metà del ‘500, in assenza di tale usbergo si ebbe la perdita del controllo dei propri interessi che diede il via libero definitivo al saccheggio da parte delle nuove potenze europee della ricchezza accumulata nei quattro secoli precedenti e causò la decadenza dei tre secoli successivi terminata solo con il Risorgimento. D’altra parte, il Risorgimento poté avviarsi grazie al portato giuridico e politico della Rivoluzione francese, sicché si può dire che se la borghesia comunale mancò di forza creativa perché non seppe annodare l’associazionismo cittadino in un saldo legame federale, quella risorgimentale creò il suo Stato per forza mimetica, senza un moto interiore quindi che fondesse in un tutto organico le singole parti che per secoli avevano languito le une separate dalle altre. Ciò nonostante, proprio perché caratteristica della struttura italiana è di essere quell’organismo capitalistico produttivamente vivace che si diceva, il nuovo Stato, benché spesso incespicando e addirittura a volte cadendo rovinosamente, assolse in parte quella funzione di corazza in grado di proteggere e promuovere la produzione di ricchezza nazionale, come si vide soprattutto nel trentennio 1945-1975, quando anche la vecchia divisione tra Nord e Sud, risalente al modo in cui l’Italia venne fuori dai secoli del disfacimento romano, fu in qualche misura intaccata. Si ebbe quindi in quest’epoca di relativa rinascenza un nuovo e imponente accumularsi di ricchezza che da qualche decennio è concupita dai concorrenti capitalismi ormai non più solo europei, parallelamente alla ricorrente incapacità di proteggerne il perimetro con una adeguata sovrastruttura. Il regionalismo, allora, portato avanti con argomenti pseudo-federalistici è l’alienazione in una politica avulsa dalle concrete sfaccettature della struttura produttiva italiana, che ha come protagonisti non più i casati nobiliari, i capitani di ventura o le meteore sorte dai ceti subordinati come nei secoli dei Comuni, ma le fazioni, i “leader” e le cuoche ambiziose di governare lo Stato che emergono dall’incessante processo elettorale, divenuto lo strumento per accaparrarsi briciole di ricchezza nazionale, nel mentre che gli altri capitalismi depredano le fortezze e casematte in cui nei decenni scorsi si è cristallizzato il vitalismo produttivo della struttura. È un altro ciclo borghese che si compie nel segno del fallimento, senza che dai subordinati, nel frattempo addirittura sdegnosi di sentirsi definire “subalterni”, venga un progetto nuovo che pure alla metà del secolo scorso per un momento sembrò prendere corpo. Tutta la nazione così ancora una volta si inebria del gioco machiavellico della politica mentre, e chissà per quanto tempo, perde di nuovo il controllo dei propri interessi.
Il bordello delle nazioni
In una nota sul Mezzogiorno qui pubblicata lo scorso 13 agosto 2020, si indicavano le tre condizioni materiali concretamente storiche per risolvere il conflitto tra forze produttive e modo di produzione capitalistico che grava sul Sud e sull’intera nazione, ovvero priorità alla domanda interna, governo del lavoro su tutta la produzione di interesse generale, edificazione di una nuova politica dell’interesse nazionale. La vicenda dei porti, di cui l’acquisto del porto di Trieste da parte della società tedesca che gestisce quello di Amburgo è solo il prologo, serve da verifica immediata di tale schema. Intanto, c’è un antefatto, il porto di Gioia Tauro. Anch’esso trent’anni fa fu acquistato dai tedeschi che, così controllandolo, eliminarono un concorrente per i loro porti del Nord. Non si fa peccato a pensare che l’acquisto neo-asburgico di quello di Trieste abbia lo stesso scopo. Ma adesso ci sono i cinesi che si interessano ai porti del Mediterraneo per lo sbocco a mare della loro Via della Seta. I cinesi hanno già il Pireo, e qui entra in ballo il Mezzogiorno con i suoi porti di Taranto, Palermo, Augusta e Napoli. Il vecchio mondo atlantico riuscirà a contenere la loro avanzata o, presto, di memorandum in memorandum, qualcuno di questi porti finirà nelle loro mani? Il fatto è che questo vecchio mondo, dagli americani ai tedeschi, non ha più nulla da offrire in termini di mero sviluppo economico, che non sia deflazione e qualche spicciolo che sgocciola da giochi geostrategici vetusti, per i quali anzi vengono richiesti maggiori contributi. I cinesi, invece, che hanno molti soldi e altrettante ambizioni mondiali sono pronti a costruire gratis infrastrutture, centri commerciali, grandi alberghi. Un bengodi per le forze interne emerse e sommerse che hanno visto sempre in questi termini lo sviluppo del Mezzogiorno. I cinesi, insomma, possono essere la mazzata finale per un Meridione la cui costa, affetta dal gigantismo economico, perderebbe ogni rapporto con l’interno, destinato ad un deperimento cronico. Una prova? Perché tanto accanimento contro l’esperimento di sviluppo non economicistico ma sociale di Riace? Solo per pregiudizio contro i “negri”? Ma via! Il pericolo che un tale sviluppo “povero” potesse diffondersi in altri centri era grandissimo, quindi bisognava stroncarlo sul nascere. Cosa fa Roma di fronte a queste contraddizioni? Lascia che lo spelacchiato lupo atlantico travestito da Asburgo si riprenda Trieste anche se Trieste non ne trarrà gran beneficio, e blandisce i cinesi contando sul fatto che la debolezza crescente del fronte occidentale possa portare ad un loro discreto ingresso nell’inceppata economia subalterna meridionale. Non è perseguimento dell’interesse nazionale ma semplice equilibrismo che intensifica i difetti dello storico dualismo, e tutto ciò perché, dovendo rimettere al centro il governo del lavoro, non si vuole mettere in discussione l’architrave esportadore di questo falso sviluppo che, coronavirus permettendo, viaggia all’1% annuo di “crescita”. Il risultato di tanta pervicacia è che l’Italia è ormai il “bordello” delle altre nazioni, ma chi la governa, dai volponi del PD ai volpacchiotti del M5S, pensa di essere tornato al centro del mondo solo perchè alzandosi dal letto del vecchio amante atlantico può infilarsi nella stanza attigua dove attende l’ospite cinese cui indirizzare allusivi fanaletti.
Sud, struttura e sovrastruttura
La letteratura sul Sud è un enorme cumulo di statistiche economiche, finanziarie, istituzionali, sanitarie, scolastiche e ambientali, in coda alle quali ricercatori di ogni orientamento appongono buoni propositi che grosso modo si possono raggruppare in due tipi, il Sud giardino turistico europeo e il Sud piattaforma logistica dell’Europa nel Mediterraneo. Naturalmente, perché almeno uno di questi scenari si avveri, i meridionali debbono finalmente acquisire il “capitale sociale” di cui continuano a difettare, qualità delle relazioni fra le persone, rispetto delle regole, senso della comunità e dell’interesse generale. Quando poi si vuole vivacizzare questo quadro quaresimale, ci si slancia sul collegamento tra Sicilia e terraferma, prospettando ponti o tunnel, a seconda la stagione e il colore, ormai peraltro indistinguibile, dei governi in carica. Qui non si vuole minimamente sminuire questo lavorio di conoscenze, riflessioni e proposte, che merita anzi il massimo rispetto. Si vuole semplicemente evidenziare un fatto che resta sempre alquanto in ombra in tutto questo ammasso di dati, ovvero che il Meridione non si riduce solo a dei rapporti di produzione, arretrati o meno che siano, ma vi è in esso, come in tutte le società, una dialettica di struttura e sovrastruttura che segna la sua storia e il suo presente. Anzi, segna il suo presente al punto che paradossalmente oggi si ha difficoltà a individuare e descrivere la sua sovrastruttura, a fronte di una struttura analizzata sempre più dettagliatamente con la precisione delle scienze statistiche. Per portare avanti questa breve e temeraria riflessione, non c’è modo migliore che rifarsi al testo fondativo in cui la società è descritta come una base economica su cui si eleva l’edificio ideologico, ovvero la Prefazione di Marx a Per la critica dell’economia politica (1859). I brani salienti di questo testo, interpretati liberamente, si alterneranno quindi con la ricapitolazione di momenti e passaggi storici e attuali del Mezzogiorno d’Italia.
Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali.
Nel Mezzogiorno, i rapporti di produzione, rimasti per lunghi secoli immobili, subirono una scossa con l’Unità d’Italia. Ne seguì uno sviluppo delle forze produttive che, se riguardato solo in termini di banche, fabbriche, macchinari, infrastrutture, fu nullo o minimo. Ma le forze produttive non si esauriscono in tali aspetti con cui il capitale impone il suo sviluppo determinato. Anche il lavoro è una forza produttiva, la cui materialità consiste nello sviluppo alternativo di una differente e più larga socialità rispetto al rapporto di dominio in essere. Da questo punto di vista, si può dire che la scossa dell’Unità d’Italia sviluppò nel Mezzogiorno il lavoro, come si evince non solo dalle tante rivolte duramente represse, ma soprattutto dalle più mature manifestazioni rivoluzionarie dei Fasci siciliani, con cui si arrivò ad imporre patti agrari che, qualora quella rivoluzione avesse vinto, avrebbero sviluppato, assieme alla socialità del lavoro, anche la produttività economica dei rapporti di produzione nelle campagne.
L’insieme di questi rapporti di produzione, che sono rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla volontà di chi in essi si trova preso, costituisce la struttura economica della società.
Certo, questo sviluppo del lavoro non riuscì ad abolire il vecchio dominio feudale, nel frattempo entrato a far parte del nuovo blocco nazionale tra rendita agraria e capitale del Nord. Anzi, tale blocco dominò nel Mezzogiorno sino al secondo dopoguerra. Per un concorso di cause esterne ed interne, riguardanti le premesse politiche dello sviluppo delle forze produttive (integrazione del mercato nazionale negli scambi esteri a seguito della sconfitta in guerra, presenza con forti ramificazioni interne di un “blocco” internazionale alternativo del lavoro), tale blocco solo all’inizio degli anni Cinquanta del XX secolo venne sostituito dall’intervento diretto dello Stato imprenditore. Perciò, mentre il lavoro con le occupazioni delle terre si batteva per lo sviluppo sociale alternativo, “altrove” in maniera necessaria e indipendente dalla sua volontà si decideva che il Sud si sarebbe dovuto sviluppare in modo capitalisticamente determinato, divenendo lo strumento per accrescere la quota di capitale variabile dell’intero processo produttivo nazionale.
L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.
Tramite questa maggiore estrazione nazionale di plusvalore, presentata come un generoso trasferimento di risorse, nel Sud finalmente venivano ad instaurarsi rapporti di produzione “moderni”, la “modernità” di un vasto deposito a cielo aperto di capitale fisso, fabbriche, macchinari, infrastrutture che, nei successivi vent’anni, avrebbe effettivamente fatto convergere gli indici di “sviluppo” tra Settentrione e Meridione, ma avrebbe espulso e annientato al Sud le forze sociali del lavoro. La sovrastruttura politica nazionale che si ergeva su questa base reale si riduceva ad un ambiguo gioco di cooptazioni nella gestione dello sviluppo determinato. La sovrastruttura politica internazionale inglobava invece la sovrastruttura giuridica formale e sostanziale generatasi nel corso del processo unitario risorgimentale, trasfigurandola e proiettandola in compiti nuovi. Il processo unitario risorgimentale aveva dato luogo ad una sorta di schisi sovrastrutturale, che aveva impedito la “chiusura” completa della corazza giuridica attorno alla figura monocratica dello Stato. Fallito il tentativo di portare a termine tale chiusura con la grossolana chirurgia fascista, tale assetto polistatuale venne integrato nello Stato profondo (deep State), assieme a nuovi segmenti occulti del tipo stay behind. Fu l’epoca del ruolo politico della mafia.
Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.
Con la mafia assisa al tavolo della sovrastruttura dello Stato, il Sud politicamente risplendeva. E intanto, mentre imputridivano i rapporti di forza internazionali, nella sua base materiale strumentalmente edificata dall’intervento dello Stato imprenditore si infiltrava un “capitalismo nero”, mix di giganteschi traffici di droga e di più domestiche aggiudicazioni di appalti, che preparava il domani. La forza produttiva materiale del capitale, infatti, stava per schiantare sul piano internazionale il campo alternativo della forza sociale del lavoro, e presto si sarebbe slanciata nell’unificazione mondiale della base produttiva già in incubazione da qualche decennio. E allora, com’è scritto, subentrò un’epoca di rivoluzione sociale. Una rivoluzione sociale guidata dal capitale.
Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione.
La conseguenza di tale rivoluzione fu per il Sud il crollo della gigantesca sovrastruttura in cui si trovava politicamente inserito nelle forme sopra accennate, e la sua mancata sostituzione con qualcos’altro. La base materiale sopravvisse grazie a flussi diretti con il Nord, alimentati sia da produzioni “in chiaro” di ristrette aree industriali, sia da servizi “in nero” offerti da spezzoni del vecchio assetto polistatuale. Per il resto, salvo un’agricoltura divisa tra nicchie ipermoderne e plaghe schiavistiche, tale base evaporò rapidamente negli invisibili circuiti finanziari della corruzione politica e del narco-traffico. Immensi capitali furono creati e gestiti da “uomini del sottosuolo”, il cui nichilismo non poteva esprimersi altrimenti, che nelle precedenti forme “popolari” di coscienza sociale. Il Sud, che come un sinistro rubino aveva brillato nella sovrastruttura politico-giuridica del mondo, di colpo ripiombò nel folklore delle forme artistiche, filosofiche e religiose di un popolo le cui nervature erano state spezzate dalla lotta del capitale contro il lavoro. Accanto ai “papelli”, richieste di salvaguardia da parte di chi riteneva di aver combattuto la “buona battaglia” e ora si vedeva dato in pasto agli apparati repressivi dello Stato, vennero i deliqui filosofici, le immaginette sacre, gli altarini dei grandi boss scaraventati nella discarica delle carceri. E la nuova base materiale degli “uomini del sottosuolo” si creò la sua sovrastruttura con il linguaggio più a portata di mano, quello che il popolo indistinto pratica spontaneamente da sempre, il linguaggio religioso. In questa forma di egemonia parassitaria (in altro contesto operata dall’Isis nei confronti della religione musulmana) si produssero così gli “inchini” dei santi alle dimore dei ricchi nullatenenti, l’estrema e più beffarda incarnazione del “proprietario assenteista” che per secoli aveva tiranneggiato il Sud.
Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.
Che cosa può proporsi il Sud se anziché verso nuovi e superiori rapporti di produzione ricade nelle sue condizioni materiali più arcaiche? È evidente che è proprio questa regressione che rende chimeriche le proposte di farne un giardino turistico o una piattaforma logistica. Né la soluzione può essere una rinnovata intensificazione dell’estrazione nazionale di plusvalore tramite un ulteriore accrescimento di capitale fisso, sub specie ponte o tunnel dello Stretto. Si è visto invece che va sciolto l’equivoco dello “sviluppo”, stabilendo in anticipo politicamente se si vuole proseguire nello sviluppo capitalisticamente determinato o in quello socialmente alternativo del lavoro. Basti solo pensare al caso dell’Ilva, dove la salvaguardia dei posti di lavoro, cioè la riproduzione del capitale, è in contraddizione con il risanamento di tutto un ambiente. Al Sud va dunque resa la sovrastruttura, come luogo della presa di coscienza delle condizioni materiali della propria esistenza, per enucleare le condizioni materiali che consentano l’introduzione di nuovi e superiori rapporti di produzione e quindi di coscienza sociale. Non dunque semplicemente un luogo di “dibattito pubblico”, ma una ricognizione pratica che trasformi già lo stato di cose presenti.
A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana.
La storia del Sud deve ancora iniziare. Sinora esso è stato strumento dello sviluppo altrui. Non sarà certo la mitologia del passato borbonico a permettergli di perseguire il suo proprio sviluppo autonomo. Ma quanto accaduto in questi decenni mostra che il suo destino non può nemmeno compiersi nello spazio di quest’Italia ostinatamente esportadora. Il titolo di una recente pubblicazione recita: Una questione nazionale. Il Mezzogiorno da «problema» a «opportunità»1. Ma il “problema” non è il Mezzogiorno, bensì i rapporti di produzione dell’intero paese. Tutto un mondo che sembrava inattaccabile sta crollando sotto i colpi di antagonismi sociali e naturali incomponibili. L’“opportunità” sta nel riconoscere che, in questo nuovo contesto, lo sviluppo determinato, che esige uno sviluppo strumentalmente economicistico del Sud, confligge con lo sviluppo sociale dell’intera nazione. C’è quindi un conflitto tra forze produttive e forma antagonistica del processo di produzione sociale. Esistono le condizioni materiali concretamente storiche per la soluzione di questo antagonismo? Se ne possono indicare almeno tre: 1) priorità alla domanda interna non come semplice cambio di politica economica rispetto alla esportadoridad dei decenni trascorsi, ma per conformare l’economia ai bisogni del lavoro liberato dalla schiavitù di dover vivere in funzione della riproduzione del capitale; 2) gestione da parte del lavoro, quali che siano le sue concrete figure sociali, lavoratori, utenti, cittadini, di tutte le imprese di interesse generale riguardanti servizi pubblici essenziali, fonti di energia, situazioni di monopolio; 3) rifiuto dei “vincoli esterni” ereditati da un passato in dissoluzione, con le conseguenti misure diplomatico-politico-finanziarie da tradurre in una realistica politica di interesse nazionale. Si tratta di potenzialità della crisi la cui attuazione richiede di uscire fuori dell’inerzia dei vecchi schemi e dall’immaturità delle nuove visioni. Se questa paralisi della sovrastruttura politica sarà superata, la preistoria del Sud finirà, e l’intera nazione potrà dare il suo contributo alla corrente principale della storia. Altrimenti…
- G. Coco, C. De Vincenti (a cura di), Una questione nazionale. Il Mezzogiorno da «problema» a «opportunità», Bologna, il Mulino, 2020. [↩]