I segnali di una contro-offensiva del Sud contro il Nord si moltiplicano, e ormai non siamo più agli istrionismi del deputato in Parlamento o del presidente di regione particolarmente versato nell’arte del cabaret. Importanti giornali della capitale schierano i loro editorialisti, con l’accusa al Lombardo-Veneto di egoismo territoriale per la ritardata chiusura in marzo che avrebbe addirittura attentato al PIL nazionale, e le Università meridionali stanziano fondi per contributi e tagli di tasse agli studenti che volessero rientrare e proseguire gli studi nelle loro terre di origine. Qualcosa è saltato, ma tutto accade in ordine sparso, senza un’organizzazione, un programma, un’ideologia. Il coronavirus ha preso alla sprovvista, e non basta certo il borbonismo per compensare un’assenza pluridecennale di elaborazione culturale intorno al Mezzogiorno e a un paese rifondato sul Mezzogiorno. Lo scontro perciò scade come al solito sull’onestà, il familismo e l’ostia sacra degli sghèi, scaramucce che consentono al “sistema Roma” di restare agganciato al “vincolo esterno” con il quale salva se stesso e un’idea di interesse nazionale che si concretizza nel restare abbarbicati al tavolo del grande gioco europeo pena la rovina. A questo cinico pessimismo si assoggettano ormai tutte le forze politiche che emergono dal magma sociale, e adesso è il turno dell’agglomerato PD-M5S con a capo l’avvocato Conte, un Kerensky con la fortuna di non avere un Lenin che gli morda le chiappe. La situazione è infatti rivoluzionaria ma come può esserlo nell’Europa del 2020, con la truppa sfatta dagli ozi di Capua e lo stato maggiore passato da tempo al nemico. Su tutto cola la vernice omogeneizzante dell’europeismo, quell’ideologia per dirla seriosamente in cui l’autocoscienza dell’individuo ha per propria forma e contenuto l’autocoscienza germanica. In ciò non vi è nulla di etnico, ma vi è implicata la sfera elevata della religione e dello spirito. In questa ideologia, infatti, il denaro non sta fuori dell’individuo, come nel cattolicesimo dove Dio è presentato nell’ostia come cosa esterna, ma è interno a lui, come nel protestantesimo in cui l’ostia è consacrata a Dio nella sua fruizione fondando così la certezza e libertà della fede. Come gli italiani, ancora oggi come abbiamo visto così devoti alla sacralità esteriore degli sghèi, si siano potuti acconciare a questa riforma teologica è cosa che la storiografia dovrà chiarire, più che nel capitolo della religione della merce in quell’altro che attiene al mantenimento del potere da parte della classe dominante costi quel che costi. Eppure l’Europa non è sempre stata questa chiesa gotica dove organi automatici barriscono note di bilancio nella notte del pareggio finanziario. Quando Lenin lanciò la NEP, ai contadini russi spiegò che non dovevano commerciare all’asiatica, ma all’europea, cioè come dei «mercanti colti», in possesso di un’istruzione elementare generale, in grado di comprendere i problemi, capaci di servirsi dei libri, e tutto ciò su una base materiale che facesse da garanzia per l’acquisizione e il mantenimento di una tale cultura. L’URSS è caduta, ma che è rimasto del modo europeo colto di commerciare? Tutti gli indici rilevati da osservatori obiettivi dicono che non solo esiste un diffuso analfabetismo funzionale, ma addirittura si sta tornando a un drammatico analfabetismo primario, senza contare l’arretramento nel grado sufficiente di comprensione dei problemi, per non parlare della incapacità di servirsi dei libri. Si sono sviluppate certo altre abilità, come la produzione di mini-testi richiesti dai social che tanto si prestano alla produzione compulsiva di opinioni, ovvero a quell’“odio” in rete che tanti moralisti deprecano, senza chiedersi quale sia la sua base materiale, ovvero quel modo di produzione mondiale dove non conta più l’aggettivo “europeo” ma solo il sostantivo “capitalismo”. Nel mentre dunque l’europeismo trionfa nel cielo della teologia economica, si completa la distruzione materiale del modo di commerciare all’europea. Un paradosso che forse solo i cubani o i venezuelani, contro cui i teologi asserragliati nel Parlamento di Strasburgo lanciano anatemi per sacrilegio contro la “democrazia”, o i neri e gli ispanici d’America, che altrettanto li inquietano quando li vedono in pose poco remissive armati di mitraglietta, potranno sciogliere se risulteranno vincitori nella loro lotta per quel modo di commerciare europeo, tanto ammirato da Lenin, che gli europei non hanno saputo preservare.
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Cose turche
In un suo recente intervento su quanto sta emergendo dalle intercettazioni del cellulare del magistrato Palamara, Giuseppe Buttà, insigne storico americanista delle dottrine politiche, dopo avere evidenziato le ambiguità connesse alla carica di Presidente del Consiglio superiore della magistratura che la Costituzione assegna al Presidente della Repubblica, e dopo avere stigmatizzato sia le “timidezze” dell’attuale Presidente Mattarella nel farsi promotore di una riforma di tale organismo, sia la strumentalizzazione politica delle loro cariche da parte di alti magistrati, così conclude: «Siamo tutti montesquieuviani! Ma, di fronte alla torsione politica di una parte della magistratura, ci permettiamo di dubitare che soltanto lo stato assoluto o quello totalitario o, in Italia, soltanto il fascismo possano interferire con il potere giudiziario: anche nell’Italia repubblicana abbiamo visto dispiegarsi una strategia di occupazione della magistratura in atto almeno dai tempi del Togliatti guardasigilli». Ma proprio perché siamo tutti montesquieuviani si sarebbe potuto risalire molto più indietro, e riferirsi a quelle situazioni che lo stesso Montesquieu aveva già notato quando, dopo avere osservato che tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse i tre poteri di fare le leggi, di eseguire le risoluzioni pubbliche e di giudicare i delitti o le controversie tra i privati, così scriveva: «Nella maggior parte dei regni dell’Europa il governo è moderato, perché il principe, che detiene i due primi poteri, lascia ai suoi sudditi l’esercizio del terzo. Presso i Turchi, dove questi tre poteri sono riuniti nella persona del sultano, regna uno spaventoso dispotismo. Nelle repubbliche italiane, dove questi tre poteri sono riuniti, la libertà si trova in misura minore che nelle nostre monarchie. Così il governo ha bisogno, per mantenersi, di mezzi altrettanto violenti di quelli del governo dei Turchi: lo dimostrano gli inquisitori di Stato e la cassetta dove ogni delatore può, in qualsiasi momento, gettare con un biglietto la sua accusa» (Lo spirito delle leggi, Libro XI, Capitolo VI). Cose turche, dunque, in Italia non da ora accadono, solo forse alla cassetta del delatore si è sostituito il trojan del cellulare. Ma continuiamo a leggere Montesquieu, il quale non contento di avere così foscamente accostate le ridenti repubbliche d’Italia al cupo dispotismo ottomano, così conclude: «Considerate quale possa essere la situazione di un cittadino in queste repubbliche. Lo stesso corpo di magistratura detiene, come esecutore delle leggi, tutto il potere che si è conferito come legislatore. Può quindi devastare lo Stato con le sue volontà generali, e, siccome detiene anche il potere giudiziario, può distruggere qualunque cittadino con le sue volontà particolari. Tutto il potere vi è riunito; e, sebbene non vi sia alcuna pompa esteriore che riveli un principe dispotico, lo si avverte in ogni istante» (Ibidem). Oggi, anche grazie alla tanto contestata Repubblica retta dalla Costituzione del 1948, l’articolazione dei poteri è più rispondente al modello montesquieuviano, ma senza dubbio resta forte la possibilità di “devastare lo Stato” da parte non certo solo della magistratura in senso stretto, ma anche dell’élite in senso ampio di governo, che si riproduce immutata come coacervo di fazioni che piegano ai propri fini particolari i poteri formali, siano essi quelli del legislativo, dell’esecutivo o del giudiziario, per non parlare poi di quello mediatico nel frattempo intervenuto. Se si resta a Montesquieu, il perché questo accada rimarrebbe un enigma, da sciogliere magari con una malcerta teoria del clima. Ma, piaccia o no, il materialismo storico ci ha reso edotti del fatto che la mancata o insufficiente articolazione dei poteri è un effetto dell’asfittico sviluppo nella Penisola dell’organismo capitalistico-borghese rispetto alle altre contrade d’Europa, in cui da tempo per altro il virtuoso modello montesquieuviano è stato stravolto dalla teratologia cui è andato incontro nel suo lento ma inesorabile declino il suddetto organismo capitalistico-borghese, ormai divenuto una caotica macchina produttiva mondiale scossa da crisi che solo una pervicace raffigurazione apologetica può continuare a descrivere come “distruzioni creatrici”. E se si vuole un esempio di tale sconvolgimento dei poteri basta riferirsi a quanto accaduto in Germania con la sentenza di Karlsruhe, in cui il potere giudiziario, sebbene in un ambito di diritto pubblico quale il diritto costituzionale, per respingere l’intrusione di un potere giudiziario di pari rango ma esterno, ovvero la Corte di giustiza europea, intima al potere legislativo e a quello esecutivo interni di recedere da determinate scelte di politica economico-finanziaria – leggi: adesione, per altro interessata, al Quantitative easing della Banca centrale europea – perché non conformi alla Carta fondamentale della Repubblica (prevalenza del diritto interno) e perché in violazione del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (criterio di proporzionalità). Ecco dunque il potere giudiziario tedesco azzannare con quelle due “finzioni” quello europeo e il medesimo potere di fatto annullare la variabilità intrinseca della rappresentanza politica, subordinandola in eterno all’obiettivo del tasso dell’inflazione al due per cento fissato a sua volta dai trattati europei, e tutto ciò grazie ad una misteriosa sostanza giuridica depositatasi in tali trattati di cui i giudici, senza smentire il proprio ruolo, non possono che essere gli arcigni guardiani. E, se ci si riflette, questa sentenza è nella sua logica uguale alla modifica dell’articolo 81 della Costituzione italiana che, qualche anno fa, introdusse l’obbligo del pareggio di bilancio, ovvero una scelta di politica economica che viene consacrata a norma inviolabile – come se, negli anni della Destra storica, Quintino Sella avesse preteso di iscrivere la sua tassa sul macinato nello Statuto albertino. Solo che, mentre la riforma italiana introietta i dettami di Bruxelles, la sentenza tedesca proietta su Bruxelles i dettami di Berlino. Che dire, quella di oggi, non in Italia ma in Europa, non è forse la dittatura, non di Togliatti, bensì di una borghesia che, sotto le insegne della nazione germanica, chiama a raccolta tutte le sue frazioni sparse per il continente, e non ha timore di mostrarsi nella sua cruda materialità? Laddove l’unica emendazione da farsi è sulla parola “borghesia”, nel frattempo scomparsa come ceto a favore di un coacervo di fazioni, pantografato alla dimensione dei monopoli, oligopoli e cricche finanziarie dominanti, divenuto la caratteristica non più delle repubbliche d’Italia, ma dell’intero pianeta “globalizzato”.
Ordine del giorno
Scienza incerta, politica litigiosa, intellettuali bizantini, gente comune insofferente e indisciplinata. Questo il cacoeidoscopio della catastrofe italiana, dove solo un caso miracoloso sembra impedire che la pandemia dilaghi in tutto il paese, anche se è difficile ripetere altrove gli errori sanitari in cui sono incorsi in certe valli lombarde. Molto si è detto e scritto sulla fallimentare sanità di quella regione, e non è il caso di insistervi di fronte alle migliaia di morti che lì si sono dovute registrare. Pietà per chi non c’è più e per chi piange i propri cari. Ma questo dolore che accomuna non può impedire una riflessione che riporti la tragedia in atto a ciò che l’ha preceduta, a ciò che sta cambiando, a ciò che accadrà. Vengono subito in mente i versi che evidentemente non trascorreranno mai, poiché il poeta dovette cogliervi l’essenza della nazione: Ahi, serva Italia, di dolore ostello. Il paese giace in terra tramortito, e su di esso svolazza ogni specie di rapaci. Nave sanza nocchiere in gran tempesta. Chi inopinatamente si trova alla sua guida, gonfia il petto e si erge in pose eroiche, ma subito ricade sotto il peso della sua debolezza, travolto dall’immane avversità. Non donna di provincie, ma bordello! Sbarcano contingenti militari, atterrano aiuti sanitari, vengono emessi decreti presidenziali: non vi abbandoneremo. Questa striscia di terra protesa su un mare dove si concentra la storia del mondo è ancora troppo preziosa perché qualcuno possa accettare di perderla, e qualcun altro non possa tentare di impadronirsene. Le profferte si susseguono, gli aiuti interessati, gli ammiccamenti, le lusinghe. È il gioco diplomatico? No, è il bordello! Come ci siamo potuti ridurre di nuovo al bordello? Diciamoci la verità, è da un secolo che non ne azzecchiamo una. La venuta all’onor del mondo moderno era stata un parto di astuzia, ma la nave era stata varata, e pur beccheggiando, solcava i mari. Era un piccolo capitalismo, tutto concentrato a settentrione, da cui però poteva venir fuori qualcosa di originale. E questo parve poter accadere subito dopo la Grande Guerra, quando le energie degli operai e dei contadini si riversarono nelle esangui istituzioni liberali. Quel piccolo capitalismo, la cui egemonia puntellava il dominio dell’arretratezza nella vasta campagna meridionale e non, si ritrasse torvo nella sua ridotta del Nord, dove incubò sotto la corazza autoritaria di un nazionalismo antisemita, la cui disfatta causò la perdita sostanziale della sovranità nazionale. La Resistenza, le lotte contadine degli anni Cinquanta, il ventennio felice dello sviluppo economico, le lotte operaie degli anni Settanta, erano ciò che restava di quelle energie represse, fiammate di un gran fuoco spento, che proprio per questo loro carattere residuo, non giunsero mai a sintesi. La nazione non rinacque, anzi, quelle energie, quelle ultime fiammate, furono irrorate del più efficace schiumogeno, i tremendi anni Ottanta del privatismo elevato a religione i cui riti si celebravano in televisione: cosce, culi e cazzate. Il paese era percorso da un vitalismo sfrenato, che si presentava sotto un duplice aspetto: anelava ad una norma sadica, Mani Pulite, e con il miraggio di un “nuovo miracolo italiano” rifuggiva da ogni possibile regola. In questo bipolarismo trascorsero vent’anni, durante i quali si spalancarono tutti i gironi dell’inferno, gremiti da individui che gracidavano insulti l’un contro l’altro. La corruzione colava a fiotti dall’alto, e risaliva dal basso portando in alto maschere sempre più grottesche. A un certo punto, suonò la campana della “crisi economica”, che in realtà era il rendiconto finale per un popolo che si era ridotto a essere un mero, senescente raggruppamento demografico. Il paese, a quel punto, sfatto di vizi, aveva bisogno di una badante, e si pagò anche quella, nelle vesti di un comico che rinverdiva la retorica hitleriana. Dove siamo ora, nella gran tempesta? Come chi arriva all’ultima tappa dell’azzardo, si tentano mille piroette, ma senza uno straccio di idea, che non sia l’Europa. Lì per gli uni si concentra la salvezza, lì per gli altri sta il servaggio prossimo venturo. Non c’è un tempo, né un luogo dove si possa e voglia ridiscutere il tutto. Eppure, i punti all’ordine del giorno non mancherebbero. Possono ancora gli “uomini del denaro” del Nord continuare a proporsi come l’avanguardia morale del paese? Può il “capitalismo esportatore” continuare a essere il destino di questo paese? Possono ancora i “moderati” di destra, di centro e di sinistra continuare a pretendere di poter dirigere questo paese? Può il Sud continuare a vivere come un corpo senz’anima? Può il paese continuare ad affidarsi a un sistema di alleanze internazionali che sopravvive a se stesso? Attaccati a un respiratore artificiale, è difficile ripensare tutto daccapo, ma se non ora, quando?
Capitalismcoronavirus
Il coronavirus è una guerra biologica, scatenata non da un esercito straniero, ma dall’economia in atto che ne propizia l’incubazione e la diffusione. Nei primi venti anni di questo secolo è la quinta o sesta guerra che tale economia scatena contro il resto della società1. Si chiamano pandemie, come se all’improvviso la natura irrompesse incontrollata contro l’organismo sano della società, ma in realtà si tratta di una natura che quell’economia ha asservito, potenziandone i meccanismi pro domo sua. In una recente analisi che compara gli effetti economici dell’epidemia della spagnola del 1918-1920 con quelli già prevedibili dell’attuale epidemia di coronavirus, si legge quanto segue: «oggi l’economia globale ha poche prospettive e la sua produttività rallenta inesorabilmente. La crescita è supportata solo da bolle tecnologiche e finanziarie che diventano ogni giorno più fragili. Un solo granello di sabbia può far crollare questo castello di carte. La sola risposta delle autorità oggi è la stessa data per le crisi del 2008 e del 2012: ricorrere alla politica monetaria per evitare lo scoppio delle bolle. Misura diventata per lo più inefficace. È proprio questo il paradosso dell’epoca che viviamo: a differenza del 1918, oggi non c’è una situazione di caos economico generalizzato, ma di lenta ed inesorabile decelerazione. Ciò rende l’economia molto più sensibile agli attacchi esterni, come può esserlo una pandemia, e, tramite i mercati finanziari, ai timori che li accompagnano».2. Tre sono gli elementi interessanti di questa analisi: la messa in evidenza di una lenta e inesorabile decelerazione dell’economia globale; la presenza delle bolle speculative tecnologico-finanziarie; le pandemie. Vero è che le pandemie vengono ancora considerate erroneamente “attacchi esterni”, ma viene correttamente evidenziato il fatto che le bolle tecnologico-finanziarie servono a rivitalizzare un’economia in lenta ed inesorabile decelerazione. Tali bolle hanno bisogno del livello di integrazione globale, il quale però con i suoi vertiginosi scambi di merci e di individui al servizio delle merci induce le pandemie (un contagiato che impiega un giorno per passare da un punto all’altro del pianeta, è una bomba vivente). Ecco, dunque, perché le pandemie non sono la natura matrigna che si rivolta contro la società civilizzata, bensì l’effetto indiretto e inevitabile della natura che tale economia globale assoggetta sempre più per poter scongiurare il proprio declino. Questo ciclo di agonia che si alimenta di morte per poter allontanare il proprio decesso finale ha un nome ben preciso, e si chiama caduta tendenziale del saggio di profitto, insita in quel modo di produzione che ha anch’esso un nome altrettanto ben preciso, capitalismo3. Il coronavirus, all’apparenza malvagio quanto può esserlo un individuo bastardo, è in realtà un figlio legittimo del capitalismo, è un capitalismcoronavirus. Contrariamente a quanto auspicano molti moralisti, dal capitalismcoronavirus non scaturirà nessun avanzamento sociale, poiché esso, come tutti gli “attacchi esterni” di una natura asservita dal modo di produzione capitalistico, è forza bruta che ispira paura e terrore. Sentimenti quanto mai propizi per esercitare sul tutto sociale una maggiore e più efficace costrizione, funzionale al modo di produzione che causa gli “attacchi esterni”. La fuoriuscita dal capitalismcoronavirus non consisterà perciò in una riduzione delle diseguaglianze, in un ampliamento dell’area del consenso, in una maggiore estensione dei rapporti sociali non alienati. Al contrario, il capitalismcoronavirus accentuerà il feticismo di tali rapporti, e le contraddizioni che ne deriveranno saranno provvisoriamente governate con ulteriori bolle finanziarie e tecnologiche. Riguardo a queste ultime, ha già tratto rinnovato vigore la deriva informatica, con il cogente argomento della necessità igienico-sanitaria di sospendere il livello fisico dei rapporti sociali, come se la digitalizzazione di tali rapporti, dal lavoro all’insegnamento all’amministrazione statale, fosse uno strumento neutro, e non invece un potente fattore di accrescimento della “servitù volontaria” insita nell’egemonia del modo di produzione in atto. Il capitalismcoronavirus ripropone perciò alle forze contro-egemoniche, per quanto disperse e deboli oggi siano, il compito immane ma indifferibile di riportare i rapporti sociali ad un livello in cui il tutto sociale non assoggetti più la natura per scongiurare la propria morte, bensì ne liberi le energie per promuovere la reciproca coesistenza.
- Giuseppe Ippolito, Enrico Girardi, Cristiana Pulcinelli, Malattie infettive emergenti, http://www.treccani.it/enciclopedia/malattie-infettive-emergenti_%28XXI-Secolo%29/ [↩]
- R. Godin, Strage del 1918: cosa ci insegna l’epidemia della spagnola, «Il Fatto Quotidiano», 9 marzo 20220, pp. 13-14 [↩]
- https://www.duemilaventi.net/il-capitalismo-e-i-suoi-nemici/ [↩]
Il Montaigne di Montaleone
Mentre medici e scienziati gettano manciate di oscurità sul virus venuto dall’Oriente, riprendo in mano i molti appunti di lettura del libro su Montaigne di Carlo Montaleone1, dove l’incertezza del sapere medico, ai limiti della cialtroneria, è tema ricorrente. Montaigne, infatti, alle prese con i suoi calcoli renali, per i quali gli venivano prescritti i più fantasiosi rimedi, fu anche il protagonista di una “lotta di liberazione” da un ordine normativo, la medicina del tempo, che era in effetti un’impostura, la cui denuncia era necessaria per dare avvio a quel sommovimento culturale che sarebbe culminato nello sperimentalismo moderno. Oggi, sembra di essere tornati ai tempi dell’impostura, forse perché di quello sperimentalismo moderno si è inaridita la sorgente vitale e non libresca, il corpo in frammenti che Montaigne provocatoriamente opponeva alla norma imputridita. Ma non corriamo. Anzitutto, visto che parliamo di sapere, vediamo chi è il saggio per Montaigne. Per lui, il saggio è chi nel suo foro interno si separa dalla folla, ma nel foro esterno segue interamente i modi e le forme acquisite (p. 101). Siamo agli antipodi, dunque, del contemporaneo Bovillus (1475-1566), per il quale il sapiente, quanto più si concentra in se stesso, tanto più è pubblico, cioè rivolto verso l’esterno2. Non dimentichiamo che la radice della “lotta di liberazione” di Montaigne è corporale. E se la mente relativizza ciò che il corpo presenta come assoluto (p. 53), l’assolutezza del corpo, la sua “chiusura” rispetto al jeu à part della mente (p. 190), per quanto ci si sforzi, è ineliminabile. Questa immanente terrestrità attinge i molteplici temi di Montaigne che Montaleone porta alla luce, l’esistenza nella sua nuda empiricità, il nesso di immagine, corpo e movimento, che suggerisce inferenze su lotta di classe e rivoluzione, l’omologia di costumi, corpo e forme di vita, caratterizzati dalla stessa “chiusura”, la reciprocità come acquisizione strategica che non cancella la contro-voce denigratoria, la ragione moderna, infine, indagata nella sua fase aurorale e polimorfa. Questo è il tema dei temi, poiché tutto il libro di Montaleone ruota attorno ad esso, ed è un viaggio all’indietro, verso l’alba luminosa di un giorno dal cupo tramonto. Sicché, Montaigne non è il Pareto inacidito di quattro secoli appresso. Egli ammette, infatti, che la ragione è una “tintura” data alle nostre tradizioni e ai nostri costumi, la “vernice logica” data ai “residui”, ma constata anche che “l’abitudine ci nasconde il vero aspetto delle cose” (p. 100). Qualcosa di vero, dunque, esiste, che non sia la tetra natura di Pareto. Il vero di Montaigne non è essenzialistico, ma aperto alle metamorfosi “corporali” dovute alla forza dell’immaginazione (p. 171). Ancora una volta, è la vita che con il gioco a parte della mente inscrive i cambiamenti nella materia ineliminabile. Perciò, il cogito di Montaigne non è un dinamismo dialettico ma pendolare, in cui il pensiero, scoperto un limite, non lo “supera”, ma se ne libera subito generando pensieri opposti (p. 153). E alla fine, dunque, la realtà di Montaigne non è liscia e omogenea, ma piena di fratture e scatti, è una realtà morale, se si intende con ciò la possibilità di introdurre nel pulviscolo delle infinite “forme di vita” la discontinuità di dubbi morali (p. 103). Certo, ciò deve avvenire senza escludere il senso della realtà, la cui mancanza spesso si rimprovera ai portatori di dubbi, ma il gioco della mente, se vuole aderire alla vita, se vuole dare veramente voce alla vita, non deve cedere alla somiglianza metaforica, ma deve privilegiare la contiguità della metonimia, poiché è questa figura la più adatta a rendere il patimento dell’individuo che non riesce a scollare cose le une contigue alle altre (p. 132). Il risvolto sociale di questa ontologia screziata è la vertigine di travestimenti confessati e inconfessabili che la persona, cioè la maschera, chiede in prestito alla società sotto forma di ruoli (nella vicenda biografica di Montaigne, l’amico Étienne, l’eiaculatore precoce e dal membro esiguo che fu lo stesso Michel, l’ottimo padre, la madre anaffettiva, ecc.), che si accumulano nell’individuo sociale, e che per Montaigne sono paradossalmente lo stimolo a godere della vita anche nel suo estremo declino (p. 52), e a incontrare uomini e cose come se tutto si svolgesse in un eterno teatro (p. 138). Paradossalmente sino a un certo punto, se si pensa che, quando arriverà il cupo tramonto, la psicanalisi svelerà il copione di questa recita perfetta. E così siamo alla ragione borghese. Che in Montaigne è ancora felice, perché la sua universalità non è stata ancora attirata nei limiti della sua ristrettezza di classe. Con l’usuale tecnica del vedo/non vedo, Montaigne si può così permettere di far emergere il conflitto sociale, ma tramite un falso, ovvero l’osservazione del capo Tupi che, invitato all’evento dell’entrata regale di Carlo IX a Rouen, nota nella folla i segni distintivi della ricchezza e della povertà (uomini smagriti dalla fame, opposti a quelli satolli di ogni sorta di agi), e la passività e l’acquiescenza che caratterizza i primi (non prendono gli altri per la gola e non appiccano il fuoco alle loro case). L’osservazione, nota Montaleone, non può che essere inventata, perché in occasione delle entrate regali, i poveri e i mendicanti venivano spostati al di là delle mura (pp. 74-75). Insomma, Montaigne, tramite la finzione, non solo non si nasconde la lotta di classe, ma ne descrive una vinta, un po’ come oggi, dai ricchi. Ma il comunismo è barbarico e, ennesimo jeu à part della mente linguistica, tocca quindi al capo Tupi enunciarlo. Questo tema della coscienza borghese nell’epoca della sua infanzia felice percorre tutto il libro di Montaleone, se è vero che, verso la fine, egli sente il bisogno di annodarlo a quello più esplicito e dominante del corpo, chiamando in causa Foucault e Gramsci. Per Foucault, egli nota, il corpo è direttamente immerso in un campo politico, mentre per Gramsci il corpo dei lavoratori (produttori) incorpora volontariamente gli automatismi produttivi affinché la mente sia libera di pensare a tutto ciò che “vuole”. Gramsci, dunque, conclude Montaleone, si vedeva dall’esterno di un’oggettività storica che chiedeva all’individuo di rispondere nel modo dovuto a ciò che la storia attendeva da lui, come se non fosse lo stesso Gramsci l’interprete primo di questa attesa (pp. 187-88). Ma, vien da chiedere, questo rispondere non è la protensione dei fenomenologi, di cui Montaleone ha discusso poco prima (p. 180), a proposito del corpo come un viluppo sensibile di protensioni, attraverso le quali decorrono delle attese di qualcosa che non è già saputo, e che non era nemmeno alle viste? E, allora, l’auto-incorporazione dei meccanismi produttivi non è forse il tentativo di superare la cecità del tutto sociale rispetto al suo proprio divenire? Ecco, allora, le inferenze circa la rivoluzione di cui si diceva in apertura. Montaleone pone che, in Montaigne, le immagini sono significanti della coscienza ordinate dalla memoria (p. 72). Ma a cosa servono le immagini? La loro funzione è di articolare lucrezianamente una catena di eventi preordinata dalle leggi di natura (foedera naturae). In altri termini, l’individuo deve realizzare ciò che “può essere”, per non cadere nell’errore di desiderare di essere “quel che invece non può” (p. 82). In chiaro, la rivoluzione deve realizzare ciò che può essere, non ciò che non può essere. In ciò consiste quell’assecondamento del divenire, “istante per istante”, che traduce la necessità in libertà. E le “immagini” altro non sono che l’analisi concreta della situazione concreta, che articola la catena preordinata di eventi, la quale però se adombra linguisticamente il necessario, non è essa a partorirlo, poiché c’è bisogno di qualcosa di più del linguaggio, ovvero il corpo-mente-movimento. La rivoluzione, quindi, non come astratta esecuzione dell’idea da parte del movimento (p. 180), ma come movimento protensivo di quel corpo-mente-movimento che è il tutto sociale. Al giorno d’oggi, è proprio questo nesso che si è dissolto. Da un lato, il corpo stravolto nella letteratura di genere e nell’odierna, rutilante società delle immagini (p. 179); dall’altro, la mente del tutto intellettualizzata; nel mezzo, il movimento accecato, pura coazione a ripetere. Tristi tempi, in cui, si intuisce da un veloce richiamo al Don Chisciotte (p. 60), il mondo circostante è il Grande Inganno, cioè la realtà capitalistica, e la caballeria andante, in quanto critica di tale realtà, è la vera realtà. Ma una cosa è mostrare l’alienazione della realtà capitalistica facendo riferimento ad un passato mitologizzato; altra cosa è fondarla su un’analisi “scientifica” delle sue tendenze attuali e future. Oggi, non è il tempo delle analisi storico-materialistiche, ma prevalgono i miti, le narrazioni, le identità. Di qui, la repulsione per lo scambio dei costumi, e si capisce, perché in sé tale repulsione è un argine tanto al disordine mentale dei singoli, quanto alla disgregazione politica del tutto (p. 89). Ma è anche vero che suolo e sangue flettono sempre verso implicazioni tiranniche (p. 93). E ci vorrebbe, invece, quella logica empirica, ricercata da Montaigne, che rendesse inassimilabili i molti all’uno, a meno di non dichiarare che il Vecchio mondo, ora come allora, avendone i mezzi, deve vincere, una vittoria il cui unico valore è la mera contingenza di poter vincere (p. 99). Ma, dopo l’alba luminosa, non siamo forse al cupo tramonto? Questa arroganza, un tempo felice, non è più consentita. Bisogna prendere atto, allora, della cecità delle rappresentazioni sociali (p. 95), e decentrarsi, ma senza l’illusione aurorale del saggio che si auto-rappresenta come “pubblica creatura”. Qui, il modello è l’amicizia con Étienne. Un codice a due fasi, chiarisce Montaleone, dove il più aggiunto alla figura di Étienne è in realtà solo apparente, fissando invece un meno che sbilancia l’asserita comunistica parità fra i due a favore di uno solo fra i due, l’altro lui, cioè Michel (p. 144). In altri termini, l’amicizia in Montaigne come un comunismo in cui opera una trazione modale che la stabilizza a favore di uno solo fra i due, il quale, analogamente alle “forme di vita” e alle regole locali (p. 103), include/esclude (p. 144). Nessuna fusione perfetta, dunque, perché da essa deriverebbe un’identità che renderebbe gli amanti mutualmente inclassificabili, vittime di uno sconvolgimento ossessivo. L’avere fame reciproca di se stessi, infatti, compromette il sé di ciascuno dei due, quel sé che, per natura, rinasce nel desiderio che non può affrancarsi da se stesso. Nel microcosmo dell’amicizia con Étienne come nel tutto sociale, c’è dunque la presenza di una ineliminabile contro-voce denigratoria, che fa della reciprocità una tribolatissima conquista strategica.