L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è quel fulmine che mancava per purificare l’aria ammorbata che da anni soffoca il continente. Essa anzitutto avrà delle positive conseguenze sulla stessa Gran Bretagna, poiché scuoterà dalle fondamenta questa decrepita e altezzosa democrazia che, a dimostrazione della loro fossilizzazione culturale, molti liberali e democratici ad ogni pie’ sospinto additano ancora come modello. Un paese che, con Londra, sopravvive quale roccaforte di quella canaglia sociale che è il capitale finanziario, e che ricatta Scozia, Galles ed Irlanda del Nord in nome di una unità statale sempre meno in grado di assicurare sicurezza e sviluppo, ma ancora abbastanza in grado di condizionarne le dinamiche. Un paese, inoltre, che con il suo violento sistema elettorale maggioritario, che fa andare in brodo di giuggiole gli adepti dell’ortodossia costituzionale liberaldemocratica, per decenni ha reso impossibile l’espressione parlamentare di cospicue e innovative minoranze, dando invece sempre voce alle false “maggioranze” prone all’ideologia del “legame transatlantico speciale” (guerra in Iraq), dell’opportunismo europeo (mance e sovvenzioni economiche) e della più becera conservazione sociale (“la società non esiste” di Margaret Thatcher). È un bene, quindi, che un arcaico modello democratico perda prestigio, perché pone le premesse per un rinnovamento ideale e pratico della stessa democrazia, per non parlare della sinistra, costretta a sopravvivere sotto le spoglie di quella “terza via”, che ha fatto solo le fortune personali di Tony Blair.
Quanto all’Europa, l’uscita della Gran Bretagna dall’UE costringerà Germania, Francia e Italia a venire fuori dagli equivoci, dagli attendismi e dai particolarismi con cui hanno cercato di far fronte alle dinamiche del capitalismo globale. Poiché gli antieuropeisti di ciascuno di quei tre paesi cercheranno di trarre vantaggio dall’esito del referendum inglese, le forze europeiste dovranno cambiare spartito per ritrovare slancio, e questo non potrà che avvenire rimettendo in discussione Maastricht e i suoi principi antisociali monetaristici. L’Unione Europea se vorrà sopravvivere dovrà diventare un’Europa che metta al suo centro non l’astratto sogno federalistico, non l’illusione della potenza finanziaria, ma il benessere della società in tutte le sue componenti, di cui quindi si dovranno stimolare non gli spiriti animali, che da secoli causano all’Europa solo lutti e disastri, ma le forze produttive, in primis quella demografica.
Questo bel quadretto non significa un’Europa ritirata e mansueta, che porge l’altra guancia al primo che passando la schiaffeggia. L’Europa invece dovrà essere estremamente pugnace innanzitutto con la Cina, che con il suo spiccio capitalismo confuciano crede di potersi assicurare l’egemonia mondiale. Ad ogni tavolo di trattativa commerciale con questo grande paese, dovrà stare sempre seduto il Ministro del Lavoro europeo, questo sì urgente necessità istituzionale di una rinnovata Unione Europea, ben più del ministro del tesoro o dell’interno richiesto ormai un giorno sì e uno no dagli europeisti alla Eugenio Scalfari. Alla Cina non dovrà più essere consentito di usare la merce lavoro per alimentare i consumi affluenti della sua classe media, assicurati (per ora) dai decadenti europei. Questi circoli viziosi devono essere spezzati, e la Cina dovrà essere posta di fronte alle sue responsabilità: se vuole il “progresso”, cominci dai diritti sociali, magari ritornando a prendere lezione dal miglior Mao.
La stessa durezza dovrà essere posta nelle trattative per il Trattato di commercio transatlantico, di cui già si conoscono le pecche, per usare un eufemismo, e in generale con gli Stati Uniti, che sfruttando il lascito egemonico della seconda guerra mondiale, tengono l’Europa ad un lungo, ma ben visibile guinzaglio, come si è visto all’epoca della guerra in Iraq del secondo Bush, e soprattutto nella vicenda ucraina. L’Unione Europea non può essere nemica della Russia, poiché tale inimicizia trasforma il comunitarismo russo in pulsione autoritaria e fascista. Putin è un punto di equilibrio assai precario in tal senso, e spingere oltre significherebbe per l’UE trovarsi a convivere con un paese che farebbe da modello per tutti i fascismi che albergano nelle profondità capitalistico-borghesi dell’Europa latina e carolingia. La nuova Unione Europea dovrà quindi essere amica della Russia, e dovrà provvedre da sé alla propria sicurezza, che dovrà tradursi principalmente in una collaborazione a tutti i livelli con i paesi arabi e africani. E affinché questa collaborazione non sia solo una collaborazione tra Stati (basta, casi Regeni!) ma tra popoli, dovranno dialogare le religioni, quella cattolico-romana, quella ortodossa e quella islamica. Il ruolo pubblico delle religioni su cui si arrovellano liberal-democratici onesti come Jürgen Habermas, è questo, favorire la fuoriuscita definitiva dai rapporti coloniali, e incentivare la coesione culturale, morale, economica e sociale dell’Europa e dell’Africa. Se questo dialogo si incardina, Daesh, che la criminale stupidità mediatica qualifica di Stato Islamico, deperirà in poco tempo.
La Brexit, dunque, non è un disastro, ma la possibilità concreta di un nuovo inizio. Certo, a patto di aprire gli occhi, e di svegliarsi da vecchi sogni illusori e sbagliati. Altrimenti è facile prevedere che l’Europa ancora una volta sarà preda di guitti e buffoni, cui poi la storia accaduta attribuirà loro, anche se portavano sotto il naso dei ridicoli baffetti, una grandezza immeritata.