Caracas e le avventure dell’egemonia

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Compito del dibattito democratico è far deragliare il discorso dal binario morto della chiacchiera. È quanto sta accadendo in Venezuela, purtroppo in forme caotiche e disordinate. La convocazione dell’Assemblea nazionale costituente, in base all’articolo 347 della Costituzione vigente, sarebbe dovuta avvenire molto prima che la situazione degenerasse in scontri di piazza e atti di forza, anche per non lasciare spazio ai “mediatori”, vere volpi nel pollaio, e soprattutto per non caratterizzre la convocazione come un espediente difensivo. Ma la frittata è ormai fatta, e si può solo trarre l’insegnamento che, quando si esita ad usare radicalmente i meccanismi democratici, si finisce sempre in un vicolo cieco. La caduta del prezzo del petrolio avrebbe dovuto essere un’opportunità. Era chiaro che la petroeconomia redistributiva non poteva più essere portata avanti. Se si volevano salvaguardare le misure controegemoniche intanto introdotte nel ventennio precedente, dal “potere popolare” agli “interventi sociali”, e fare piazza pulita delle distorsioni insite nella natura stessa della petroeconomia, dalla corruzione alla “boliborghesia”, bisognava allora procedere prontamente, proprio con un richiamo legittimamente costituzionale del potere costituente, ad una fase nuova, in cui l’economia veniva ulteriormente socializzata, ovvero diversificata, con misure controegemoniche più avanzate, da scrivere nella nuova Costituzione. C’era il rischio di perdere tutto, ma c’era la possibilità di fare un passo avanti. Adesso, il sospetto del dispotismo aleggia su tutta la vicenda, a conferma che la controegemonia è un treno velocissimo che va assecondato attimo per attimo, altrimenti scatta il rosso del giacobinismo. Si può solo sperare che l’inventiva di chi sta ancora azionando le leve, riesca a sincronizzare i movimenti. In questo senso, sarebbe cosa opportuna che, qualora la nuova Assemblea costituente si insediasse e riuscisse a portare avanti felicemente i suoi lavori, i nuovi costituenti non dimenticassero di formalizzare che il contenuto normativo dell’articolo 347 è inviolabile anche per la nuova Costituzione. Infatti, il successivo art. 349 statuisce che «Il Presidente della Repubblica non può opporsi alla nuova Costituzione». Se, perciò, nella Costituente si formasse una maggioranza per eliminare il potere costituente dalla nuova Costituzione, nessuno potrebbe più richiamarsi ad esso in seguito, e ci sarebbe una caduta all’indietro irreparabile, nel binario morto della vecchia chiacchiera egemonica. Altri contenuti, inoltre, non puramente procedurali, andrebbero anche dichiarati come irreversibili, ma questo dipende dai rapporti di forza. Tutto quanto accade a Caracas, comunque, è assai più avanzato di quanto si è visto in quest’ultimo decennio in America latina. Infatti, in Argentina, nonostante lo shock del 2001, e gli elementi di socialità controegemonica da esso sprigionati, non si riesce a venir fuori dal pendolo frustrante tra (residuo) peronismo e ritorni di “reazione borghese”. E, in Brasile, tutta la panoplia dei meccanismi legali dell’egemonia in atto sono serviti a far fuori la presidentessa eletta, con l’unica alternativa di scontri di piazza per fortuna non avveratisi. Il che significa che nel decennio di Lula non si è fatto alcun serio lavoro controegemonico, a cui appigliarsi nel momento della risacca dell’egemonia in atto. C’è la resistenza accanita di Cuba, che stava per cadere nella trappola tesagli da quella volpe di Obama1, e che paradossalmente può ritornare sui propri errori grazie alle nuove “chiusure” di Trump, un presidente “politico” che, non essendo più disposto a leccare il culo alla globalizzazione “a prescindere”, riporta in auge provvidenziali (per la controegemonia) stilemi ideologici del passato. L’egemonia, insomma, vive i suoi bei giorni nell’emisfero americano, mentre in Europa langue, tra la protervia dell’egemonia in atto – il cinismo “socialdemocratico” della Merkel, la decrepita arroganza della May, il neobonapartismo di Macron, il cesarismo plurale di Renzi-Grillo-Berlusconi; e l’impotenza della controegemonia – l’assalto fallito di Corbyn, l’agitarsi teatrale di Mélenchon, il miserevole riallineamento di Syriza, il caos spagnolo, l’inedia italiana.

  1. Federico Rampini, su “la Repubblica” del 16 giugno 2017, spiegava come meglio non si può il senso delle “aperture” obamiane: «oltre mezzo secolo di sanzioni e di embargo non hanno piegato il regime castrista, forse ci riuscirebbe invece la penetrazione del capitalismo, gli investimenti yankee, il business che porta benessere e aumenta i flussi di visitatori» []