Cultura

Eurasismo: l’ostacolo ucraino

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  L’Ucraina è un grosso ostacolo al disegno eurasiatico di Putin, e in generale per l’ideologia eurasiatica. Da Trubetskoj a Dugin, l’eurasismo si è sempre presentato come un concetto reale, che ha il consenso spontaneo dei popoli, se non di tutti i popoli che vanno da Lisbona a Vladivostok, certamente dei popoli slavi1. Ma la ribellione ucraina, che ha scisso in due quel paese, mostra che l’eurasismo suscita contrasti, e questo lo indebolisce perché significa che la sua egemonia non è spontanea, come pure sosteneva. In parte, la questione si era posta nei Balcani, negli anni Novanta del secolo scorso, quando la Serbia era più propensa a guardare alla Russia, mentre croati e soprattutto sloveni si volsero subito verso l’ambìto marco tedesco. Ma a che cosa si oppone l’eurasismo? L’eurasismo si oppone all’americanismo. Tanto questo afferma i valori dell’individuo, della globalizzazione e dei diritti umani universali, tanto l’eurasismo afferma i valori della comunità, dei mondi a parte e del pluralismo antropologico2. È il valore comunitario che spiega la confluenza di estrema sinistra ed estrema destra nel sostegno ai filo-russi d’Ucraina. Solo che, almeno in una visione “ortodossa”, per l’estrema sinistra la comunità è una costruzione “razionale”, per l’estrema destra, invece, un prodotto della “tradizione”. Al momento, queste particolarità ideologiche sono sospese, e nessuno può dire se un domani riprenderanno il sopravvento, o avverrà una fusione permanente. Contro questa fusione, milita intanto l’estrema destra che sostiene, anche sul campo, i nazionalisti filo-occidentali di Kiev. Qui può la “razionalità” sedimentata dal ricordo storico dei nazisti che, alleati di Hitler, combatterono contro i “bolscevichi”, nella seconda guerra mondiale, cui fa da contrappeso l’accusa di Putin a quelli di Kiev di essere dei “nazisti”. Ma tornando al contrasto tra eurasismo ed americanismo, non sono solo i contenuti ideologici a differenziare i due movimenti. Essi si differenziano anche per il loro rapporto con l’egemonia. L’eurasismo, l’abbiamo detto, rivendica il consenso spontaneo dei popoli in cui risiede lo spirito eurasiatico, ma non pretende di essere il vertice dello sviluppo dello spirito umano. Al contrario, esso proclama la coesistenza tra le varie culture umane3, e questo la dice lunga su certa disinformazione nostrana, che vuole la Russia protesa a ricostruire l’impero zarista o sovietico, dimenticando che questi imperi non furono mai un sistema coloniale mondiale, come quello, ad esempio, britannico, ma una fortezza circoscritta ad un territorio contiguo, per quanto immenso fosse. L’eurasimo, insomma, si batte per il mantenimento di un “mondo a parte”, e in generale dei “mondi a parte”, ed ecco perché suscita simpatia in coloro che vedono la “globalizzazione” come un pericolo, laddove “globalizzazione” è sinonimo di americanismo. Come dicevamo, per l’eurasismo, l’Ucraina è una grossa difficoltà, in parte però ricompensata dalla spontanea adesione alla Russia, il centro eurasiatico slavo, della Crimea e delle regioni orientali della stessa Ucraina, e non è un falso dire “spontanea” perché è inverosimile che Putin, per quanto rotto ai “metodi” sovietici, abbia manipolato l’80% della popolazione di quei territori, al momento del referendum4. Gli eurasisti possono ben dire, perciò, che la ribellione di Kiev, avvenuta sovvertendo con manifestazioni di piazza un governo democraticamente eletto, come non si può non riconoscere, è dovuta alla sobillazione dell’americanismo e dei suoi organi politici e militari, la Nato in testa, ma anche l’Unione europea, percepita come un’appendice mercantilistica dell’americanismo. Qui si può notare l’altra differenza che dicevamo circa il rapporto con l’egemonia. L’americanismo, infatti, pretende di essere norma universale e si arma per imporla, sia metaforicamente, con la forza dell’economia e del consumo, sia militarmente, occupando e intervenendo in nome della guerra giusta, della difesa dei diritti umani, della lotta al terrorismo. È vero che in Ucraina non è ancora intervenuto militarmente, ma la minaccia di costruire basi Nato, per quanto su “pressante” richiesta di forze “interne”, è un drappo rosso agitato davanti agli occhi di Putin, un mezzo per costringerlo ad una logica da guerra fredda, e far scadere l’eurasismo ad orpello ideologico delle sue mire geopolitiche. Ma tornando alle differenze tra le due ideologie, possiamo riassumere dicendo che l’eurasismo si fonda sull’egemonia in atto, l’egemonia assicurata dai legami comunitari tradizionali. L’americanismo, invece, si fonda sulla nuova egemonia, sull’egemonia che deve essere costruita, e che impone ai popoli riforme e trasformazioni. Questo carattere tecnicamente “rivoluzionario” dell’americanismo fu visto da Gramsci, che lo giudicò come l’espressione più genuina della vita moderna, a differenza del bolscevismo staliniano che ai suoi occhi era rozzo e primitivo5. Certo, sorprende che egli non dedicò alcuna attenzione all’eurasismo. Difficile credere che si trattò solo di misconoscenza. Fra i suoi teorici c’era un linguista come Trubetskoj, anche se all’epoca non era così conosciuto come lo divenne dopo, e ciò avrebbe potuto attirare la sua attenzione, nei suoi contatti con la cultura russa (ma se è per questo, non pare che egli sia stato attratto dal formalismo russo). Forse c’è una ragione profonda, e cioè che l’americanismo con la sua apertura universale gli offriva un modello di ciò che egli pensava dovesse essere un movimento rivoluzionario in Occidente. Il proletariato doveva promuovere l’uomo nuovo, il Leonardo da Vinci di massa, e questo poteva accadere impadronendosi della grammatica dell’americanismo, con la sua attenzione per gli aspetti tecnici della produzione e per la standardizzazione del lavoro e della vita quotidiana. Questo forse fu anche un limite della riflessione di Gramsci, perché egli non vide che impadronirsi di tale grammatica, autoimporsi la sua norma nel “corpo”, non avrebbe liberato automaticamente il “cervello” dei subalterni, come egli si esprimeva6. In altre parole, non avrebbe loro assicurato automaticamente l’egemonia sulla società moderna, senza contemporaneamente affrontare il problema marxiano dell’alienazione. L’accento sul legame comunitario “tradizionale” proprio dell’eurasismo forse avrebbe potuto suggerirgli una sintesi, per cui la nuova egemonia non avrebbe dovuto essere solo l’impossessamento da parte dei subalterni della tecnica produttiva, economica linguistica o culturale che fosse, ma nel suo universalismo avrebbe dovuto rendere l’individuo a se stesso, disalienarlo, reintegrarlo nella comunità, che certamente non avrebbe più dovuto essere la comunità particolaristica delle singole tradizioni culturali, ma la comunità sorta dalla loro convergenza e fusione attorno al valore universale della relazione tra soggetto e oggetto, resa al suo libero movimento, quel movimento che, ancora da redattore dell’Ordine Nuovo, lo induceva a tradurre il panta rei eracliteo come “Tutto si muove!”7. E, forse, questa questione così apparentemente “metafisica”, è oggi la questione che nella polvere e nel sangue della guerra ucraina, dobbiamo ancora affrontare.

  1. N. Trubetskoj, Il nazionalismo paneurasiatico, «Eurasia», 1/2004, pp. 25-37; A. Dugin, L’idea eurasiatista, ivi, pp. 7-23; A. Dugin, La visione eurasiatistica, «Eurasia», 1/2005, pp. 7-24. []
  2. A. Dugin, L’idea eurasiatista, cit., e A. Dugin, La visione eurasiatistica, cit. []
  3. Cfr. sempre gli articoli di Dugin prima citati. []
  4. A posteriori, in un articolo gonfio di pregiudizi, si riconosce che «del resto, paradossalmente, Mosca avrebbe presumibilmente vinto un referendum crimeano affidato alle Nazioni Unite o all’Osce senza dover ricorrere a forze mascherate e incorrere nella generale riprovazione e nelle sanzioni economiche, tecnologiche e soprattutto finanziarie», laddove non si capisce dove stia il “paradosso”, se non nella preconcetta ostilità dell’articolista (F. Salleo, Lo strabismo di Putin, “la Repubblica”, 12.9.2014, p. 31). []
  5. Su questo punto, v. il recente libro di Angelo Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni, Napoli, Guida, 2014, che discuteremo prossimamente. []
  6. V. nell’edizione critica di V. Gerratana (Torino, Einaudi, 1975, voll. 4) il Q. 22, § 12, pp. 2170-2171. []
  7. A. Gramsci, Lettere 1908-1926, Torino, Einaudi, 1992, p. 90, lettera al militante socialista Leo Galeno del febbraio 1918. []

Non son solo canzonette

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 In un’intervista al Fatto Quotidiano1, l’editore Giuseppe Laterza rievoca i suoi studi giovanili di Economia e commercio, scelti perché da marxista figicciotto amendoliano quale era all’epoca, era convinto che bisognasse studiare la «struttura». Nel corso di questi studi, racconta Laterza, «facendo un esame scoprii che Piero Sraffa, economista grande amico di Gramsci, in un piccolo ma denso saggio, smontava il meccanismo della teoria classica della creazione del valore e contemporaneamente anche la teoria del plusvalore di Marx. Molto ingenuamente, in un attivo della Fgci, chiesi a Gerardo Chiaromonte come la mettevamo con la teoria di Sraffa. E lui mi liquidò così: “Ma cosa vuoi, son problemi filosofici…”. Per me era un problema decisivo, perché se non si riesce a dimostrare lo sfruttamento dei lavoratori crolla tutta la teoria di Marx. E rimane l’analisi laburista, cioè il conflitto per chi si prende la fetta grande dei guadagni. Ma non lo sfruttamento». Peccato che il pacioso Chiaromonte abbia liquidato così sommariamente il giovane Laterza, perché il punto da lui sollevato era tutt’altro che campato in aria. È vero che Sraffa ha fatto ciò che Laterza dice, ma questo non significa che egli abbia mostrato che il fatto sociale dello sfruttamento del lavoro non esiste. Sarebbe stato come voler nascondere il sole con il setaccio. Ciò che Sraffa ha mostrato è solamente che questo fatto sociale non è la causa economica del profitto. Per Sraffa, infatti, il sovrappiù è una proprietà tecnologica del sistema. Questo però significa che Sraffa fa dell’economia una scienza logicamente rigorosa, ma socialmente e storicamente muta. Che contrappasso, per lui che destabilizzò il logicismo di Wittgenstein, inducendolo alla “svolta linguistica”!2 Visto che l’economia assolve il capitalista, ci dobbiamo buttare allora tutti sul laburismo, come vorrebbe Laterza? Me se si riflette sui tanti autori così meritoriamente pubblicati e tradotti dalla sua casa editrice, dal vecchio Colletti all’inquieto Napoleoni, dall’olimpico Habermas al pugnace Sen, ma ahimé non il filosofico Lukács, si vede che nella realtà odierna, la merce non solo non è divenuta trasparente, mero rapporto tecnologico, come voleva Sraffa, ma si è fatta doppiamente opaca. Infatti, se da un lato lo sfruttamento sociale necessario a produrre il suo supporto oggettuale è stato occultato nel sottosuolo delle delocalizzazioni produttive, dall’altro, quello necessario a produrre il brand, vero fulcro del sistema, è stato nobilitato a prestigioso pseudo-artigianato autonomo. Il sistema, insomma, piuttosto che trasmutarsi in un meccanismo neutro e trasparente, così come voleva l’elegante soluzione di Sraffa, avvolge gli individui in un supplemento di alienazione, che addirittura, alla sua periferia, con il falso brand, si mescola inestricabilmente con il crimine, ovvero con un modo di produzione capitalistico non statuale. In tali condizioni, il dibattito pubblico, appare ben lontano dall’essere quell’arena laburistica accessibile a tutti, in cui si decide la spartizione della «fetta grande dei guadagni». Su di esso, infatti, non pesano solo restrizioni cognitive e pragmatiche, difficilmente sormontabili anche nell’ovattato modello di Habermas, ma ben più profondamente incidono le distorsioni che lo stesso modo di produzione opera, come avvertiva Lukács, sulla relazione tra soggetto e oggetto. Resta dunque il problema del superamento della fatticità reificata del sistema, cioè di quel rapporto puramente empirico e immediato con gli oggetti, funzionale ad un intervento su di essi di tipo calcolistico-strumentale. Una reificazione che, dopo tante illusioni, nutrite dallo stesso Lukács, almeno nella sua prima vita, possiamo dire che tocchi tanto il soggetto estraniato della “borghesia”, quanto il soggetto “proletario” della “presa di coscienza” disalienante. Questo è infatti il dato attuale che da Marcuse, autore quanto mai malcompreso, ai più onesti osservatori contemporanei, un nome per tutti, Luciano Gallino, non possono fare a meno di registrare, e cioè il fatto che la totalità capitalistica si è estesa, erodendo e annullando la posizione del soggetto alternativo, senza per questo irrigidirsi, anzi pervenendo ad una inarrestabile fluidificazione oggettuale. La “fatticità estraniata” si è rivelata quindi più forte della “presa di coscienza”. Questo però non ha pacificato l’essere sociale, né gli ha dato la chiave per l’equa distribuzione del sovrappiù, che invece è divenuta sempre più diseguale. Segno che la giustizia non è da porsi nel momento sovrastrutturale e distributivo del dibattito pubblico, ma in quello strutturale e produttivo del modo di produzione. E così siamo rimandati di nuovo al problema economico, che la soluzione di Sraffa evidentemente non ha affatto chiuso. Non bisogna perciò farla tanto facile, e prendersela, come fa Laterza, a conclusione del suo ragionamento, con il «retaggio marxista» che alimenta in Italia il «pregiudizio negativo nella sinistra contro gli imprenditori»3. Nessuno vuole ammazzare gli imprenditori, ma essi devono pur capire che non sono la soluzione, ma una parte del problema. Se l’economia di Sraffa li assolve, l’alienazione di Hegel, Marx e Lukács non li benedice. Oppure, vogliamo pensare come Gerardo Chiaromonte che, al fondo, sono solo canzonette filosofiche?

  1. Giuseppe Laterza, Croce, i libri e i ragazzi della Fgci. Il dovere di essere un editore, intervista di Silvia Truzzi, “Il Fatto Quotidiano”, 13.7.2014, p. 18. []
  2. Su questo punto, cfr. A. Sen, Sraffa, Wittgenstein, and Gramsci, “Journal of Economic Literature”, Vol. 41, No. 4 (Dec., 2003), pp. 1240-1255 []
  3. Giuseppe Laterza, Croce, i libri e i ragazzi della Fgci. Il dovere di essere un editore, cit. []

Grammatica di Telemaco

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Ecco la riproduzione di uno scambio di mail, intercettato dalla solita occhiuta e invadente NSA, tra due italioti, una nordica e un sudicio, divisi dal meteo e dalla “questione telemacotica”:

L. Ciao. Qui, oggi, dal ponte sul fiume, una splendida vista, dopo diverse giornate di pioggia in città e neve in montagna.

F. Beata te (voi) che ti godi il sereno dopo la tempesta. È vero, il poeta si godeva la quiete, ma mi appello alla libertà linguistica. Hai visto l’ultimo articolo di Chomsky e compagni?1 E Telemaco, che diventa un mondo dove all’Edipo si sostituisce il Telemaco?

L. No, non ho letto l’articolo di Chomsky. Che dice? Concede ancora un pezzo di linguaggio ai suoi rottamatori purché gli lascino almeno un pezzetto di ricorsività? La mia cultura classica si è via via scolorita. Che fine fa Telemaco? Comunque geniale, mentre taglia zebedei a destra e a manca, assicurare alle sue vittime che lui è un bravo figlio. Recalcati ci è subito cascato (“Repubblica” di stamattina)2. A quando Enea che si accatasta sulle spalle tutti i suoi Padri-Anchisi?

F. Non solo un pezzetto, ma tutta la ricorsività Chomsky si tiene, perchè per lui il linguaggio in senso stretto è computazione e rappresentazione. Poi c’è il linguaggio in senso largo, che comprende tutto quello che condividiamo con le bestie. Ma duemila e cinquecento anni fa, Aristotele non diceva più o meno la stessa cosa (phoné vs. lògos)?3 Buono o cattivo segno? Telemaco pare che finisca ucciso dal fratellastro, cioè il figlio che Ulisse aveva avuto da Circe. Che vorrà dire? E comunque, pare che Recalcati sia il suggeritore del brillante paragone.

L. Quanto a Chomsky vabbè, allora è quello che diceva già nell’articolo con Hauser & Co. nei primi anni 20004. Comunque mandami l’indicazione. Quanto a Telemaco, beh, non so se prima viene l’uovo (suggerimento di Recalcati) o la gallina (coccodé di Renzi), ma fatto è che i fratellastri non mancano e lui stesso ha mostrato di che sono capaci. Ma che dirti, bisogna ammettere che per la prima volta nei consessi europei si parla come se magna. E c’è una posizione dei socialdemocratici e una dei popolari.

F. Ti allego l’articolo di Chomsky, scritto sempre in collaborazione con Hauser & Co5. Per Wilson, il sociobiologo che, dall’alto della sua etologia wasp, si diverte a sbertucciare Chomsky, non ci sarebbe nessun mistero. D’accordo con l’interazionista oltranzista Michael Tomasello, lui pensa che il linguaggio è un derivato6. A questo punto, non posso fare a meno di pensare a quant’era saggia la terza via di Piaget, ma è risaputo, le terze vie non portano da nessuna parte. Sì, certo, nei consessi europei c’è ora quella nettezza che tu dici, ma in patria Matteo Telemaco continua a intendersela con il capo dei Proci il quale, benché sfiancato, può sempre dire la sua su cosa deve o non deve fare Penelope.

L. Ho letto l’articolo che mi hai mandato. Anzi, mi pare una inopinata sterzata verso il chomskismo ortodosso, rispetto alle precedenti uscite, da parte di autori come Hauser che sembravano prendere le distanze. Anch’io penso spesso con nostalgia a Piaget. Che però è citato più spesso di quanto si potrebbe pensare. È uscito un libro che si intitola Piaget, Evolution and Development. Non so cosa c’è dentro, mi riprometto di vederlo. Si, il duetto è francamente osceno. Telemaco preferisce evidentemente trattare con un Capoprocio stracotto piuttosto che con procetti nuovi di zecca ambiziosi come lui. Quale bravo erede non si cautela contro i suoi eredi? Malademboracurrunt, come diceva quel grande pedagogista mio collega quando, nei momenti critici dei consigli di facoltà, montava sul catafalco.

F. Quanto a Piaget, se è quello che dico io7, non è poi così recente. Ma poco importa. Non so se sono da rimpiangere i riti funebri dei vecchi consigli di facoltà, rispetto alle messe pontificali degli odierni dipartimenti, ormai simulacri di consigli di amministrazione. Ma tornando al nostro Chomsky, hai ragione, rispetto all’articolo del 2002 è più chiuso. Forse, il diluvio cognitivistico nel frattempo scatenatosi, l’ha indotto ad alzare il ponte levatoio. Devo dire che l’apprezzo di più, così. Mi sembra molto più serio rispetto all’uso, diciamo, onnicomprensivo del termine “linguaggio” che certuni fanno. Oggi, su “Repubblica”, il classicista Bettini ritorna sulla metafora Telemaco, e ricamando sul mythos, sostiene che con essa si è voluta reclamare una autorevolezza per il proprio dire che sino a prima del fatidico “quaranta per cento” non era ancora riconosciuta8. Quando passeremo dalle chiacchiere ai fatti, ci accorgeremo, purtroppo solo a cose fatte, che questi fratellastri stanno solo cercando di rianimare il cadavere putrefatto del Padre che comanda con in mano un nodoso bastone. E allora, chomskyanamente, viene da chiedersi quale sia la “struttura profonda” che in Italia produce sempre in “superficie” queste figure autoritarie, da Crispi a Craxi a Berlusconi (anche se molto sui generis) a Renzi, passando ovviamente per la più riuscita, quella dell’immortale mascellone.

L. Per le domande “fondamentali” c’è tempo. E che Renzi voglia rinverdire il Mascellone mi sembra azzardato. Non hai letto Scalfari, oggi?9 A “loro” basta che faccia da ariete in Europa contro gli odiati germanici. Questa è la missione che gli hanno affidato. Se la vince, vincerà per “loro”. Se la perde, avanti un altro.

F. “Loro”? Vedi che le domande “fondamentali” non sono da rinviare? In altri tempi, si sarebbe detto che è in corso uno scontro intercapitalistico…

Qui la trascrizione si interrompe perchè nel frattempo agenti CIA hanno individuato ed operato una extraordinary rendition dei due pericolosi sovversivi.

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  1. N. Chomsky et alii, The miystery of language evolution, «Frontiers in Psychology», maggio 2014, volume 5, articolo 401. []
  2. M. Recalcati, La missione di Telemaco, «la Repubblica», 3 luglio 2014, pp. 1 e 29. []
  3. Aristotele, Politica, 1253a 5-25, trad. it. Laurenti, Bari, Laterza, 1983, pp. 6-7 []
  4. N. Chomsky et alii, The Faculty of Language: What Is It, Who Has It, and How Did It Evolve?, «Science”, vol. 298, 22 novembre 2002, pp. 1569-1579. []
  5. N. Chomsky et alii, The mystery of language evolution, cit. []
  6. E. O. Wilson, La conquista sociale della terra, (2012), Milano, Cortina, 2013, p. 258. []
  7. J. Langer, M. Killen, Piaget, Evolution and Development, London, Taylor & Francis, 1998 []
  8. M. Bettini, La parola che diventa mito, «la Repubblica», 5 luglio 2014, p. 29 []
  9. E. Scalfari, Rompere il cerchio magico per salvare il governo, «la Repubblica», 6 luglio 2014, pp. 1 e 23 []

Quaderni mancanti

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I quaderni erano trentaquattro, ma ne abbiamo trentatré. Ma i quaderni erano trentatré, e ne abbiamo trentuno. In questi numeri che non tornano, sta l’essenza della cultura europea del XX secolo. Gramsci e Heidegger, chi l’avrebbe detto, legati dal comune destino dei quaderni mancanti. Eh, sì, perché anche Heidegger vergò – comodamente assiso, è vero, al tavolo di legno della sua piccola ed amena baita di Todtnauberg – i suoi reconditi pensieri su dei quaderni dalla copertina nera, e dispose che fossero pubblicati solo quando l’edizione della sua opera omnia avesse avuto termine. Così è stato. Ma quando, all’inizio di quest’anno, questi quaderni sono usciti, tutto l’heideggerismo ha avuto una scossa, come un gregge che, in una ventosa mattinata di maggio, ondeggia vertiginosamente di qui e di là nel verde di un ripido costone. E a voglia il pastore dell’essere (scilicet, il linguaggio) con i suoi richiami a sforzarsi di tenere a bada le pecore! Chi si vuole dimettere, a chi, dando interviste, si incrina la voce, chi si vuole buttare a mare. Insomma, un’afflizione, un cordoglio generale. Eh, sì, perché Martin l’ha combinata grossa. Tutti gli heideggeriani, di destra, di centro e di sinistra, erano quasi riusciti in tanti anni di duro lavoro a far quasi dimenticare i suoi trascorsi nazisti e antisemiti, e lui, Martin, invece, che ti fa, ti fa trovare questi quaderni che confermano quanto di peggio (o di meglio) si potesse pensare di lui. Insomma, per dirla con il Francesco d’Assisi di Dario Fo, uno smerdazzo che ha inondato tutto il casato. Ma di questo poco potrebbe calére se non ci fosse questa storia dei, non uno, bensì addirittura due quaderni mancanti. Martin, ma che ci combini? Fonti degne di fede riferiscono che il burlone li abbia dati in lettura a qualcuno di cui si fidava, e che non li abbia più avuti indietro. Ma che ci sarebbe scritto, in questi quaderni? E chi lo sa. Solo si sa che risalirebbero a periodi critici del pensamento del filosofo, all’inizio, quando maturava l’adesione al nazismo (1931/32), e alla fine, quando Hitler si era appena sparato in bocca (1945/46). Insomma, opinio communis è che sarebbero quaderni ancora più neri, e non solo per la copertina, di quelli che sono stati appena pubblicati. Ma qui la communis opinio falla, erra, scappuccia, insomma si sbaglia. È molto più verosimile congetturare che in quei quaderni il vice pastore dell’essere, il cappellano, insomma, non fosse all’altezza della sua fama, insomma, avesse ceduto a delle debolezze liberali, razionalistiche e persino umanitarie: qualche incauta considerazione sull’universalità della libertà borghese, un’apprezzamento, per quanto sfumato, sul carattere progressivo del Gestell, una lacrimuccia, sebbene appena accennata, per le tante anime ebree evaporate nel cielo di Auschwitz. E, allora, di fronte a questi cedimenti metafisici, che avrebbero un giorno potuto macchiare la sua reputazione di indomito combattente nichilista, che ti fa, il buon Martin? E qui succede qualcosa di veramente sorprendente. La fama già circolava, c’è un italiano, un pezzo grosso del Comintern, che c’ha una passione segreta, quella di far sparire quaderni. Ha già fatto questo scherzetto col quaderno trentaquattro dell’amico Gramsci. Martin ha chiesto in giro: chi è questo Gramsci? Un comunista che si è convertito al liberalesimo in punto di morte, gli hanno risposto. Tien, quello che stava per capitare a me, se gli americani non m’avessero graziato, ha esclamato il vecchio Martin. Allora, questo italiano fa al caso mio. Ed è così che ha preso contatto con Palmiro, sì, proprio lui, Palmiro Togliatti. Figurarsi se quello si faceva pregare, con quella voglia di quaderni che si portava appresso dall’infanzia. E così, ora, i quaderni scomparsi per mano sua sono tre, due di Heidegger e uno di Gramsci. Si dirà: addio quaderni, non li vedremo più. Tranquilli. C’è chi conosce la verità, lui, il solito D’Alema, il quale ha pubblicamente dichiarato che Togliatti, a distruggere quaderni, non ce lo vede. È più probabile, invece, che li abbia nascosti, e che, luciferinamente zoccoluto com’era, ha disposto che vengano fuori al momento opportuno. Vogliamo scommettere? Se Renzi non ce la fa a far nominare D’Alema Mr. Pesc, avremo tre eventi che sveleranno l’ente nella verità dell’essere. Insomma, i tre quaderni autentici verrano fuori, alla luce del sole, e poi vediamo chi tiene le prime pagine dei giornali.

Bosoni Barilla

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Il nuovo realismo è la pasta Barilla della filosofia. Un marchio conosciuto che anche l’idraulico Pippo ha potuto vedere in qualche trasmissione televisiva. Contro i detrattori, che pur non mancano, su “Micromega” on line, il giovane e razzente Enrico Terrone scrive che la tesi fondamentale di questo nuovo realismo «è che la nostra esperienza condivisa del mondo non riguarda fenomeni, apparenze, interpretazioni, bensì fatti veri e propri. Kant aveva torto a sostenere che le intuizioni senza concetto sono cieche. La maggior parte delle intuizioni ci vede benissimo, senza bisogno di concetti di complemento. Dunque, per rispondere alla domanda ontologica fondamentale, ‛che cosa c’è?’, non occorre per forza rivolgersi ai fisici dei bosoni o ai metafisici dei tropi. Le nostre intuizioni ci informano con sufficiente approssimazione su come stanno le cose nel mondo reale. Per quel che riguarda le regioni dell’essere da cui dipende la nostra vita e la nostra felicità, la fonte primaria dell’ontologia può essere benissimo la nostra esperienza condivisa del mondo»1. Quel che si vorrebbe sapere, però, è con che cosa si fa questa nuova ontologia. Eh, già, perché non è che va a petrolio, ma funziona con teorie che spesso sono molto più contro-intuitive della fisica dei bosoni e della metafisica dei tropi. D’accordo, lo scopo è chiaro, salvaguardare l’autonomia di un certo discorso filosofico dallo strapotere di una scienza che si propone come la nuova metafisica. Un certo discorso filosofico che abbia al suo centro la nostra intuizione spontanea del mondo. Ma com’è fatta questa intuizione? In tutt’altra sede, nel quotidiano “il manifesto”, e trattando apparentemente di tutt’altre cose, lo psicanalista Sarantis Thanopulos ci offre una risposta, quando così riassume l’intervento del neuroscienziato Vittorio Gallese al recente Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana: «L’interesse di Gallese nei confronti della psicoanalisi nasce dalla necessità di superamento della concezione solipsistica della mente propria del cognitivismo classico ed è centrato sul concetto di “simulazione incarnata”: la comprensione delle emozioni, delle sensazioni e delle azioni dell’altro è ottenuta direttamente, senza la necessità di meta-rappresentarle, attraverso il riutilizzo degli stessi circuiti neurali su cui si fondano le nostre emozioni, sensazioni e azioni come se le vivessimo e le eseguissimo noi in prima persona. La concezione di se stessi come un sé è ancorata in una “matrice intersoggettiva condivisa, noi-centrica”. Questa matrice intersoggettiva è strettamente legata alla consapevolezza del sé corporeo e in particolare al sistema motorio che “ben prima della nascita manifesta già quelle proprietà funzionali che rendono possibili le interazioni sociali”»2. A commento di questo impeccabile resoconto, Thanopulos aggiunge che quelle di Gallese «sono visuali che sostanzialmente gli psicoanalisti condividono», salvo «due punti problematici», ovvero la questione del desiderio, che in psicanalisi “anima” il corporeo-motorio, e quello della intersoggettività, che la psicoanalisi dovrebbe secondo Thanopulos rimodulare in quello più rispondente alla pratica psicoanalitica di “intra-soggettività”. Per la verità, più che punti problemtatici, sembrano semplici adattamenti del quadro teorico di Gallese, accettato integralmente. E quanto alla “intra-soggettività”, bisogna vedere se si tratta di un “fatto” che la pratica psicoanalitica rileva, oppure di un “fare” verso cui lo psicanalista orienta il paziente, a partire da una implicita opzione teorica anti-soggettivistica. C’è da chiedersi quanto resti qui della mirabile indagine freudiana circa la genesi del normativo, ma quello che si vuole alla fine rilevare è che dai propositi di Torrente, Thanopulos e Gallese si vede chiaramente come nuovo realismo, neuroscienze, psicoanalisi postfreudiana, sono rivoli disparati che confluiscono nell’unica corrente del rifiuto del soggettivo-concettuale-normativo. Non drammatizziamo, non è una nuova “distruzione della ragione”, ma solo l’agitarsi di una razionalità talmente debole e insicura di sé, che cerca di sedurre il colto e l’inclita con morbide atmosfere alla Mulino Bianco.


  1. E. Terrone, Il realismo senza intuizioni è libresco. A proposito di “Realismo? Una questione non controversa” di Franca D’Agostini []
  2. S. Thanopulos, Psicoanalisi e neuroscienze, “il manifesto”, 7.6.2014, p. 14. []