Cultura

Papa Gorbaciov

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Si direbbe che il pesce ha abboccato all’amo. Ma si potrebbe anche dire che, il pesce, non aspettava altro che di abboccare. Questo viene da osservare, assistendo al “dialogo” andato in scena, nei giorni scorsi, su la Repubblica tra un Eugenio Scalfari sempre più sussiegosamente “illuminista”, e un Papa Francesco sempre più arditamente “riformatore”. Il riformismo di Francesco, naturalmente, non ha niente a che fare con quello di cui tutti si riempiono la bocca da un ventennio a questa parte, in Italia, ma richiama da vicino invece la perestrojka di Gorbaciov. Bergoglio è succeduto ad un cupo ideologo, Ratzinger, una specie di Suslov dimessosi, anzi, autodecapitatosi perché offeso dall’insensibilità delle moltitudini ai suoi predicozzi sofistici, e Francesco, da buon gesuita sudamericano, ha tratto lezione da questo evento: il mondo resiste e la nave affonda, bisogna buttar giù la zavorra. A Scalfari, perciò, che gli chiedeva, con la tipica malizia del “laico tollerante”, se Dio perdona anche i peccati di chi non crede, Francesco ha rispoto che chi agisce in conformità con la propria coscienza, non fa peccato. Le giulebbe di Scalfari! Ha fatto stampare subito un decreto con tanto di sigillo di ceralacca, e lo ha proclamato a tutte le genti: la Chiesa è finalmente entrata nella modernità. Placate le ubbie delle élites, solleticandone la vanità con il riconoscimento dell’“autonomia della coscienza”, Francesco poi s’è messo a fare cose di maggior sostanza, come proclamare un digiuno contro l’ennesima voglia di menar le mani degli Stati Uniti, questa volta contro la Siria, andare a visitare in utilitaria un centro immigrati, telefonare dall’altra parte del mondo alla vittima di uno stupro, e questo dopo aver incendiato, lui argentino, le masse brasiliane, e aver rivendicato da Lampedusa il nostro essere tutti migranti. Insomma, mentre Ratzinger predicava il suo libresco anticapitalismo nei chiusi consensi ai cardinali, i quali, appena fuori, si sfrenavano nelle più accese combinazioni di sesso, denaro e potere, Francesco lo pratica con tutta la potenza che può avere un disperato, cui ormai resta solo poco tempo, prima di soccombere sotto le macerie della magnifica ma fatiscente istituzione che governa. Qui la sua perestrojka si rivela con il segno opposto a quella di Gorby. Infatti, il segretario generale con la voglia in fronte buttava nella fornace palate e palate di ideologia, e mentre invocava il “ritorno a Lenin”, e si illudeva di edificare una “federazione democratica”, apriva di fatto la strada a quel capitalismo assoluto che l’avrebbe sbalzato di sella, preferendogli il più rustico Eltsin. Francesco deve fare esattamente il contrario. Se egli vuole salvare la nave che affonda, deve combinare la profondità del sentimento di giustizia con la logica strumentale del piacere. È qui che egli potrà ritrovare il contatto con le masse, e far fronte contemporaneamente al temibile ritorno della religione sessuale. Il suo anticapitalismo, la sua critica all’alienazione della vita contemoporanea, in tutte le sue forme, non è dunque un vezzo intellettuale, al pari delle scarpette rosse di Ratzinger, ma è una dura necessità cui è costretto dalla composita natura della Chiesa cattolica. La giustizia non è un suo libero, moderno, illuministico moto della coscienza, ma è la sola zattera cui può aggrapparsi, per non sprofondare nella logica senza volto del piacere che si esprime nel consumo illimitato delle cose e dei corpi. Non è fantascienza, allora, pensare che così come il grande Wojtyla fu costretto all’abiezione dell’apparizione in compagnia di Pinochet dal balcone della Moneda, così pure Bergoglio sarà costretto, un giorno non lontano, a riunirsi alle madri dei desaparecidos di Plaza de Mayo.

Liberatori

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Oggi, su “la Repubblica”, p. 34, Francesco Bei segnala alcuni libri che ripercorrono con nuove testimonianze lo sbarco angloamericano in Sicilia, nel luglio del ’43. Ecco una di queste testimonianze, riguardante la cosiddetta battaglia di Biscari, dal nome dell’aereoporto di una località del ragusano: «Gli avieri italiani, aiutati da qualche elemento della “Goering”, si trincerano all’aeroporto di Biscari e ingaggiano quella che viene ricordata come la più dura battaglia della campagna siciliana. Al termine il tenente li raduna nell’ultimo avamposto: “Avieri, vi siete battuti bene”. Ne restano vivi meno di 40. Si arrendono e vengono consegnati al sergente Horace West, che li dispone in fila lungo un fossato. L’aviere Giuseppe Giannola viene ferito a un braccio e alla testa. Ma la sua giornata gli riserva un’altra tragica sorpresa. Medicato da un’ambulanza militare, aspetta la sorte sul ciglio della strada: “È arrivata una Jeep con tre soldati. Quelli davanti sono scesi: penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia: quello con il fucile ha indicato all’altro la Jeep, lo ha mandato via. È rimasto solo, in piedi, di fronte a me. Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato il Garand, ha mirato al cuore e ha sparato”. Eppure, miracolosamente, Giannola “resuscita” una seconda volta perché il proiettile non colpisce organi vitali». West, processato poi negli Stati Uniti, si difese affermando che «avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi». Fu condannato, graziato e reintegrato in servizio come soldato semplice. Ed ecco l’ordine, direttamente, dal generale Patton: «Se si arrendono quando tu sei a 2-300 metri da loro, non pensare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola e poi spara. Si fottano. Nessun prigioniero». Avendo sparato da una distanza inferiore ai 2-300 metri, si può dire tecnicamente che il sergente West disobbedì agli ordini. All’epoca, Apocalypse Now fu un onesto tentativo di riflessione “metafisica” su questa follia omicidiaria al servizio di una implacabile volontà di potenza, all’opera immutata nella Sicilia del ’43 come nel Vietnam degli anni Settanta, nell’aggressione all’inerme Grenada degli anni Ottanta come nell’Afghanistan e nell’Iraq dell’inizio del nuovo Millennio. Ma tutto il lavoro resta ancora da fare, perché è difficilissimo divincolarsi dal punto di vista del “liberatore”, introiettato dai “liberati”, su cui si fondano ideologie, tra cui lo stesso antifascismo, che hanno accomunato vittime e carnefici, assolvendo gli uni e imponendo alle altre di giustificare la violenza subita in nome di valori universali. E viene in mente La ciociara di Moravia che, sotto la generica denuncia della violenza della guerra, è una riflessione precocissima su una potenza che stupra il mondo, annichilendo le sue vittime, costrette poi ad un’esistenza deumanizzata, dove il flusso generale delle merci può scorrere senza più l’impaccio dei minuti scambi dei mondi particolari. Quando gli analisti di JP Morgan denunciano le Costituzioni antifasciste dei paesi del Sud Europa come fattori di rallentamento di tale flusso, si arriva al paradosso che l’antifascismo, già ideologia che occulta alle vittime il proprio massacro, non può più essere tollerato neanche in questa estrema funzione anestetica. È giunta l’ora, infatti, che il vinto si stacchi definitivamente dalla sua essenza, di cui un’ombra residuava nell’ideologia che l’accomunava al vincitore, e pervenga alla “novità categoriale” di un mondo senza storia. C’è da chiedersi perciò se, di fronte alla “smisuratezza” del vincitore, non sia venuto il momento per il vinto di denunciare l’impostura di un complesso ideologico – l’antifascismo, la libertà americana, il consumo – che, se nell’asservimento gli ha regalato una parvenza di umanità, gli chiede ora di estraniarsi del tutto da sé.

Atei

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Il millennio si è aperto con un vezzoso libricino del filosofo humeano Eugenio Lecaldano, sulla cui copertina di un immacolato bianco crema campeggia in rosso vermiglio la scritta Un’etica senza Dio, poi c’è stato il trionfo mediatico dell’ateismo logico-matematico di Piergiorgio Odifreddi, e si è continuato con l’ateismo evoluzionistico darwiniano propagandato a livello di massa da “Micromega”. Dove stiamo andando? Quanto scrive di recente Costanzo Preve nella sua Per una nuova storia alternativa della filosofia, Pistoia, Petite Plaisance, 2013, può darci un’idea della direzione che abbiamo preso: «Io ho letto alcuni manuali di ateismo scientifico diffusi in milioni di copie al tempo del comunismo sovietico, e si tratta di testi molto interessanti sul piano ideologico. Essi retrocedono al 1760 circa ed al Buon Senso del barone D’Holbach, come se Kant, Fichte, Hegel e Marx non fossero mai esistiti. Al centro stanno le cosiddette “imposture” dei preti. Queste “imposture” vengono “smascherate” dalla divulgazione scientifica. E allora tonnellate di evoluzionismo darwiniano, derive dei continenti, astrofisica elementare, l’uomo che deriva dalla scimmia, spiegazione “scientifica” dei miracoli, ecc. Si tratta dello stesso tipo di ragionamenti che si trovano oggi nelle riviste Micromega e L’Ateo, il che fa di Maria Turchetto e Paolo Flores D’Arcais tecnicamente dei successori diretti di Stalin» (pp. 351-52). L’autore conclude: «solo il surrealismo e il paradosso possono veramente spiegare il mondo». In effetti, che nella storia ci sia una certa dose di eterno ritorno lo aveva capito persino Nietzsche, ma non c’è bisogno di recarsi sino a Mosca per trovare degli antenati ai nostri odierni, furiosi senzadio. Basta risalire l’Italia sino alla Romagna di fine Ottocento, quando bakuniniani e repubblicani tiravano volentieri schioppettate ai preti, i quali oggi come ieri sono sempre lì con le mani in pasta, anche se Bergoglio, come un maestro che vuole fare bella figura col Provveditore, prova a bacchettarli.

Il Paese che non cresce più

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Il rimprovero che Gramsci muove alla storiografia di Croce è di occultare la genesi conflittuale degli equilibri sociali. La storia così coinciderebbe con le fasi di “rivoluzione passiva”, ovvero con la spinta inerziale del momento genetico. Al periodo 1789-1815 seguirebbe così la lunga fase “liberale” che giunge sino al 1870, e al periodo 1917-1922 seguirebbe la “guerra di posizione” di cui il fascismo, con la sua cripto-politica di piano, sarebbe l’emblematico rappresentante ideologico (Q. 10, § 9). Gramsci aggiunge anche che «la libera concorrenza e il libero scambio corrisponderebbero alla guerra di movimento» (ibidem). Senza bisogno di scomodare la longue durée, queste osservazioni sembrano ancora utilissime per comprendere il significato del trentennio successivo al 1980, una vera e propria “guerra di movimento” che il “liberismo” avrebbe condotto su scala mondiale, con momenti di autentica “guerra guerreggiata”, come nell’aurorale golpe cileno del 1973, attuato con la “scientifica” copertura monetaristica dei Chicago Boys. D’altra parte, certe lotte ideologiche che avvennero in Italia all’inizio del XX secolo sono radici viventi di una storia ancora in essere. All’inizio del XX secolo, in Italia, Croce adotta contro il materialismo storico il punto di vista “scientifico” dell’economia “quantitativa”, cui poi contrappone la sua Economia filosofica. E così il materialismo storico “muore” – muore, cioè, l’idea normativa della società come sistema reale di valori economici, linguistici, morali che sorgono spontaneamente dal corso storico. La conseguenza è che l’“economico” può essere ridotto ad un ambito particolare della prassi, il “vitale”, che ottimisticamente – “goethianamente”, direbbe Gramsci – si ritiene possa essere filtrato e addomesticato dalle forme superiori dello spirito. Sono così poste le basi filosofiche di quella scissione che, decenni dopo, produrrà il “miracolo economico italiano”, cioè il marxiano “sfrenato movimento” che progressivamente si sottrae alle pretese delle altre forme dello spirito, sino a farsene apertamente beffe con il berlusconismo, fase suprema dell’economicismo italiano. A un secolo di distanza, dopo che l’economia “quantitativa” ha mostrato tutti i suoi limiti come pretesa scienza esatta dell’economia, la questione può essere ripresa sottolineando proprio quell’idea normativa di società come sistema reale di valori, con la ricaduta pratica di poter finalmente lavorare al passaggio nell’ideologia italiana ad un equilibrio superiore, richiesto dall’impasse odierna che si manifesta nella percezione che tutti abbiamo di “un Paese che non cresce più”.

Troppo

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Non si può non restare ammirati dell’abilità e della prontezza con cui i tedeschi, nel breve volgere degli anni dell’unificazione, hanno edificato, a Berlino, il Deutsches Historisches Museum, cioè il tempio della loro nuova coscienza nazionale. Le omissioni non mancano. Per il periodo 1524-1526, niente sulla guerra dei contadini. Per il periodo 1789-1848, niente su Hegel e neanche su von Kleist. Per il periodo del secondo dopoguerra, niente su Baader-Meinhof. Il primo e l’ultimo sono buchi comprensibili in una memoria il cui percorso è organizzato in modo che spazialmente tocchi il suo apice in Kant e nell’illuminismo tedesco, e poi fluisca sino ai nostri giorni che, e già siamo all’uscita, si concludono con la scrivania in legno chiaro di Erich Honecker, completa di bottoniera stile anni Sessanta, esibita come un trofeo tolto al nemico sconfitto. E se si può capire che non ci sia niente su von Kleist, perché niente su Hegel? Non è forse, altrettando quanto Kant, una grande gloria del pensiero filosofico tedesco? La lettura di un libretto di Costanzo Preve, tanto accademico nel titolo, Storia dell’etica, quanto antiaccademico nel suo contenuto, offre una chiave per il piccolo ma non insignificante enigma. Riconoscersi nell’impostazione filosofica di Hegel, scrive il nostro filosofo, uno degli ultimi, se non l’unico, oggi in Italia, a concepire e praticare la filosofia come un tonificante “campo di battaglia“, «significa cogliere e salvare il punto essenziale, e cioè che l’impostazione kantiana porta alla paralisi dei dilemmi morali insolubili dell’anima bella programmaticamente impotente, mentre invece l’inserimento provocatoriamente “eteronomo” dell’etica nella comunità storicamente costituitasi è il solo modo di produrre un’etica realmente applicabile» (p. 131). Ecco, omettendo Hegel e celebrando Kant, i tedeschi dell’inizio del XXI secolo è come se avessero voluto rifuggire dal pericolo di trovarsi di nuovo invischiati in un’etica comunitaria realmente applicabile, che nei decenni della guerra fredda aveva assunto le fattezze indesiderabili e fallimentari della vecchia DDR. Hanno voluto sottolineare piuttosto il loro bisogno di una morale impossibile che rendesse poi nella pratica tutto possibile, secondo il criterio del prezzo di un’economia ricostruita attorno alla potenza del marco, egemonicamente trasfigurato nell’euro. Per cui, uscito dal Deutsches Historisches Museum, il visitatore che precedentemente ha avuto l’avventura di contemplare nel modesto ma sorprendente Kunst Museum la serissima arte della ex Germania dell’Est, è preso come da una vertigine davanti ai volti e agli atteggiamenti che può osservare al Gourmet Floor di quello che si vanta essere il più grande magazzino dell’Europa continentale, il KaDeWe, ovvero il Kaufhaus des Westens, dove Grosz potrebbe continuare a raffigurare sempre le stesse espressioni suine, come nei mitici anni Venti del secolo scorso quando, come oggi, tutto era “troppo”.