Cultura

Atei

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Il millennio si è aperto con un vezzoso libricino del filosofo humeano Eugenio Lecaldano, sulla cui copertina di un immacolato bianco crema campeggia in rosso vermiglio la scritta Un’etica senza Dio, poi c’è stato il trionfo mediatico dell’ateismo logico-matematico di Piergiorgio Odifreddi, e si è continuato con l’ateismo evoluzionistico darwiniano propagandato a livello di massa da “Micromega”. Dove stiamo andando? Quanto scrive di recente Costanzo Preve nella sua Per una nuova storia alternativa della filosofia, Pistoia, Petite Plaisance, 2013, può darci un’idea della direzione che abbiamo preso: «Io ho letto alcuni manuali di ateismo scientifico diffusi in milioni di copie al tempo del comunismo sovietico, e si tratta di testi molto interessanti sul piano ideologico. Essi retrocedono al 1760 circa ed al Buon Senso del barone D’Holbach, come se Kant, Fichte, Hegel e Marx non fossero mai esistiti. Al centro stanno le cosiddette “imposture” dei preti. Queste “imposture” vengono “smascherate” dalla divulgazione scientifica. E allora tonnellate di evoluzionismo darwiniano, derive dei continenti, astrofisica elementare, l’uomo che deriva dalla scimmia, spiegazione “scientifica” dei miracoli, ecc. Si tratta dello stesso tipo di ragionamenti che si trovano oggi nelle riviste Micromega e L’Ateo, il che fa di Maria Turchetto e Paolo Flores D’Arcais tecnicamente dei successori diretti di Stalin» (pp. 351-52). L’autore conclude: «solo il surrealismo e il paradosso possono veramente spiegare il mondo». In effetti, che nella storia ci sia una certa dose di eterno ritorno lo aveva capito persino Nietzsche, ma non c’è bisogno di recarsi sino a Mosca per trovare degli antenati ai nostri odierni, furiosi senzadio. Basta risalire l’Italia sino alla Romagna di fine Ottocento, quando bakuniniani e repubblicani tiravano volentieri schioppettate ai preti, i quali oggi come ieri sono sempre lì con le mani in pasta, anche se Bergoglio, come un maestro che vuole fare bella figura col Provveditore, prova a bacchettarli.

Il Paese che non cresce più

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Il rimprovero che Gramsci muove alla storiografia di Croce è di occultare la genesi conflittuale degli equilibri sociali. La storia così coinciderebbe con le fasi di “rivoluzione passiva”, ovvero con la spinta inerziale del momento genetico. Al periodo 1789-1815 seguirebbe così la lunga fase “liberale” che giunge sino al 1870, e al periodo 1917-1922 seguirebbe la “guerra di posizione” di cui il fascismo, con la sua cripto-politica di piano, sarebbe l’emblematico rappresentante ideologico (Q. 10, § 9). Gramsci aggiunge anche che «la libera concorrenza e il libero scambio corrisponderebbero alla guerra di movimento» (ibidem). Senza bisogno di scomodare la longue durée, queste osservazioni sembrano ancora utilissime per comprendere il significato del trentennio successivo al 1980, una vera e propria “guerra di movimento” che il “liberismo” avrebbe condotto su scala mondiale, con momenti di autentica “guerra guerreggiata”, come nell’aurorale golpe cileno del 1973, attuato con la “scientifica” copertura monetaristica dei Chicago Boys. D’altra parte, certe lotte ideologiche che avvennero in Italia all’inizio del XX secolo sono radici viventi di una storia ancora in essere. All’inizio del XX secolo, in Italia, Croce adotta contro il materialismo storico il punto di vista “scientifico” dell’economia “quantitativa”, cui poi contrappone la sua Economia filosofica. E così il materialismo storico “muore” – muore, cioè, l’idea normativa della società come sistema reale di valori economici, linguistici, morali che sorgono spontaneamente dal corso storico. La conseguenza è che l’“economico” può essere ridotto ad un ambito particolare della prassi, il “vitale”, che ottimisticamente – “goethianamente”, direbbe Gramsci – si ritiene possa essere filtrato e addomesticato dalle forme superiori dello spirito. Sono così poste le basi filosofiche di quella scissione che, decenni dopo, produrrà il “miracolo economico italiano”, cioè il marxiano “sfrenato movimento” che progressivamente si sottrae alle pretese delle altre forme dello spirito, sino a farsene apertamente beffe con il berlusconismo, fase suprema dell’economicismo italiano. A un secolo di distanza, dopo che l’economia “quantitativa” ha mostrato tutti i suoi limiti come pretesa scienza esatta dell’economia, la questione può essere ripresa sottolineando proprio quell’idea normativa di società come sistema reale di valori, con la ricaduta pratica di poter finalmente lavorare al passaggio nell’ideologia italiana ad un equilibrio superiore, richiesto dall’impasse odierna che si manifesta nella percezione che tutti abbiamo di “un Paese che non cresce più”.

Troppo

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Non si può non restare ammirati dell’abilità e della prontezza con cui i tedeschi, nel breve volgere degli anni dell’unificazione, hanno edificato, a Berlino, il Deutsches Historisches Museum, cioè il tempio della loro nuova coscienza nazionale. Le omissioni non mancano. Per il periodo 1524-1526, niente sulla guerra dei contadini. Per il periodo 1789-1848, niente su Hegel e neanche su von Kleist. Per il periodo del secondo dopoguerra, niente su Baader-Meinhof. Il primo e l’ultimo sono buchi comprensibili in una memoria il cui percorso è organizzato in modo che spazialmente tocchi il suo apice in Kant e nell’illuminismo tedesco, e poi fluisca sino ai nostri giorni che, e già siamo all’uscita, si concludono con la scrivania in legno chiaro di Erich Honecker, completa di bottoniera stile anni Sessanta, esibita come un trofeo tolto al nemico sconfitto. E se si può capire che non ci sia niente su von Kleist, perché niente su Hegel? Non è forse, altrettando quanto Kant, una grande gloria del pensiero filosofico tedesco? La lettura di un libretto di Costanzo Preve, tanto accademico nel titolo, Storia dell’etica, quanto antiaccademico nel suo contenuto, offre una chiave per il piccolo ma non insignificante enigma. Riconoscersi nell’impostazione filosofica di Hegel, scrive il nostro filosofo, uno degli ultimi, se non l’unico, oggi in Italia, a concepire e praticare la filosofia come un tonificante “campo di battaglia“, «significa cogliere e salvare il punto essenziale, e cioè che l’impostazione kantiana porta alla paralisi dei dilemmi morali insolubili dell’anima bella programmaticamente impotente, mentre invece l’inserimento provocatoriamente “eteronomo” dell’etica nella comunità storicamente costituitasi è il solo modo di produrre un’etica realmente applicabile» (p. 131). Ecco, omettendo Hegel e celebrando Kant, i tedeschi dell’inizio del XXI secolo è come se avessero voluto rifuggire dal pericolo di trovarsi di nuovo invischiati in un’etica comunitaria realmente applicabile, che nei decenni della guerra fredda aveva assunto le fattezze indesiderabili e fallimentari della vecchia DDR. Hanno voluto sottolineare piuttosto il loro bisogno di una morale impossibile che rendesse poi nella pratica tutto possibile, secondo il criterio del prezzo di un’economia ricostruita attorno alla potenza del marco, egemonicamente trasfigurato nell’euro. Per cui, uscito dal Deutsches Historisches Museum, il visitatore che precedentemente ha avuto l’avventura di contemplare nel modesto ma sorprendente Kunst Museum la serissima arte della ex Germania dell’Est, è preso come da una vertigine davanti ai volti e agli atteggiamenti che può osservare al Gourmet Floor di quello che si vanta essere il più grande magazzino dell’Europa continentale, il KaDeWe, ovvero il Kaufhaus des Westens, dove Grosz potrebbe continuare a raffigurare sempre le stesse espressioni suine, come nei mitici anni Venti del secolo scorso quando, come oggi, tutto era “troppo”.

Italian Theory

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Il successo dell’Italian Theory non a caso tocca il suo apice negli anni del berlusconismo, e si espande all’estero, trainato prepotentemente dalla teorizzazione di Negri e Hardt. Ma sarebbe da indagare come mai esso ottiene più udienza nelle Università degli Stati Uniti piuttosto che in quelle dell’America Latina, dove invece permane solida l’egemonia del marxismo classico di Gramsci e Della Volpe. La fortuna dell’Italian Theory oggi è all’apice, ma essa è la coscienza di rapporti sociali che vanno disgregandosi. Il vitale è sempre prorompente, assalta gli Stati, saccheggia fortezze e casematte della società civile, ma un bisogno di ordine si fa strada. Restando nell’empireo della coscienza, questo bisogno oggi lo si può trovare in una filosofia d’importazione come la filosofia analitica, un nicodemismo che nasconde molte punte “rivoluzionarie”, e il cui house organ è il Domenicale del Sole 24 Ore, così come lo si può trovare in un neomarxismo tutto preso dalla filologia del testo marxiano, così pure lo si può anche rinvenire in certe teorizzazioni bioetiche, dove si scontrano le placche tettoniche della questione sessuale, che in Italia vuol dire essenzialmente, questione cattolica. Ciascuna di queste tendenze, e altre che si potrebbero citare, come ad esempio certe folcloristiche riproposizioni “complesse” dell’antico storicismo crociano, procede per conto suo, nel panorama devastato del disordine che l’Italian Theory ha baldanzosamente interpretato, e assomigliano agli eremi dove si raccolsero i superstiti dell’antica cultura, che viene perciò tramandata con la stessa cura e la stessa passione degli amanuensi di un tempo. Manca però una comune intenzione verso la totalità che ne unifichi gli sforzi contro gli assalti e le scorribande che il vitale reitera.