Cultura

Il miraggio dell’identità

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Le recenti chiusure di scuole in occasione di festività religiose non cattoliche, decise autonomamente da presidi che così colmano annosi vuoti normativi di fronte a realtà sempre più dirompenti, hanno offerto agli attuali vertici ministeriali dell’istruzione e del merito il destro per ribadire che la nuova scuola si basi sull’apprendimento di nuovi saperi nel quadro però di un’affermazione prioritaria dei valori della lingua e della cultura italiana. Le classi siano perciò a maggioranza bianche e italiche. A questo arrocco identitario, si è opposto invece che la nuova scuola deve essere principalmente capace di rendere liberi dall’ignoranza. Ben detto, ma bisogna vedere se questa richiesta, avanzata da coloro che si propongono come i più “illuminati” fra i nativi e gli immigrati, può effettivamente diventare il fondamento di un nuovo “umanesimo” che travalichi le identità e le gerarchie di partenza, senza scadere in un sincretismo mal distinguibile o comunque incapace di opporsi al cosmopolitismo della pedagogia produttivistica in auge, di cui gli identitari, proprio con il merito, lautamente si pascono. Insomma, si tratta di capire che cosa si intende per ignoranza, perché se il suo superamento è solo il rifiuto delle ingiustizie che impediscono la propria affermazione personale, che ostacolano il proprio “piano di vita”, che spengono i propri “sogni”, allora per una via differente si perviene allo stesso individualismo della gran massa dei nativi, siano essi collocati in alto o in basso nelle gerarche sociali esistenti.

Intanto, a proposito di merito e di pedagogia del fare ben dissimulata da appassionati proclami identitari, nel corso degli anni, anche con il fattivo operato rivendicato dall’attuale responsabile del dicastero dell’Istruzione,  si è trasformata l’Università da istituzione dello Stato in cui, almeno idealmente, menti autonome elaboravano al più alto grado il sapere universale e la cultura nazionale, a congregazione in cui, giurando sui protocolli della “qualità” elaborati da centri anonimi e sovrastatuali di cui ministeri, atenei e dipartimenti sono solo organi ricettivi, ci si impegna a partecipare a riunioni, compilare moduli e rispettare scadenze, tutti riti burocratici che definiscono le “missioni” di codesta congregazione, il cui adempimento assicura gli “accreditamenti” con i quali la “comunità” accademica concorre virtuosamente agli “sbocchi occupazionali”. In questa mondana “chiesa del profitto”, il cosiddetto “baronaggio”, le cui trame di potere non sempre ma spesso prima si accompagnavano al prestigio culturale, non è scomparso ma si è solo inabissato, dedicandosi a intercettare i finanziamenti e a occupare più o meno familisticamente i posti attraverso cui riprodursi, lasciando che in superfice si affollino intorno a una miriade di cariche individui divisi tra l’aspirazione a un’autentica auto-determinazione e l’assuefazione  alle sempre più assillanti incombenze burocratiche che li rendono docili alla “religione” produttivistica, anche in quei contesti in cui la “produzione” è solo un miraggio e l’alta cultura dovrebbe servire proprio a comprendere criticamente il persistere di tale miraggio. Se c’è un luogo, insomma, dove si può constatare nella maniera più lampante il vuoto declamatorio dell’identitarismo asservito al produttivismo, di cui membri eminenti dell’attuale governo sono chiassosi esponenti, questo è l’Università.

Una gravosa eredità

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Nel 1874, Friedrich Engels, scrivendo a un suo corrispondente, prendeva atto che l’Internazionale, l’organizzazione proletaria in cui aveva prevalso il socialismo “scientifico” ispirato da lui e Marx, nella sua vecchia forma aveva fatto il suo tempo e così preconizzava il futuro: «per poter creare una nuova Internazionale nel modo in cui si è creata la vecchia, un’alleanza di tutti i partiti proletari di tutti i paesi, sarebbe necessaria una generale sconfitta del movimento operaio, come ha predominato dal 1849 al 1864. Ma il movimento proletario è diventato troppo grande, troppo ampio perché ciò possa avvenire. Ritengo che la prossima Internazionale sarà – dopo che gli scritti di Marx avranno agito per alcuni anni – direttamente comunista e che inalbererà apertamente i nostri principi». Sebbene dilazionata dall’interregno della Seconda Internazionale, la previsione di Engels si rivelò azzeccata, poiché la Terza Internazionale sorse su basi interamente comuniste ispirandosi alle teorie sue e di Marx. Ma non è per questo che suscita ancora interesse la sua previsione, quanto per la condizione che egli pone per la rinascita di una nuova Internazionale simile alla Prima, ovvero una ulteriore «generale sconfitta del movimento operaio» che egli però riteneva impossibile perché il movimento proletario era diventato «troppo grande, troppo ampio» perché ciò potesse avvenire. A smentita di tale premessa, il tempo presente è quello di un movimento operaio che, divenuto grande e ampio al punto da dar luogo a una Internazionale interamente comunista, è stato poi sconfitto e rinchiuso in una prigione a cielo aperto dove, da decenni ormai, la “coesione sociale”’ è l’ordine esistente, le “tensioni sociali” danno luogo non a lotte di classe ma a “delicate vertenze occupazionali” e, infine, le “specifiche rivendicazioni dei lavoratori” non devono mai tralignare nella “militanza politico-ideologica”. I più tosti si scagliano contro queste sbarre linguistiche, per la verità, senza molto costrutto, gli altri si abbandonano alla malinconia, un sentimento più reattivo della nostalgia ma che risponde più al narcisismo del proprio io ferito che non a una effettiva volontà d’azione. Si aprono così le porte delle celle a regime speciale, avvengono le bastonature “occasionali” da parte di forze dell’ordine “democratiche”, si moltiplicano le identificazioni delle questure, si alza la canea vociante contro prese di posizione “rivoluzionarie” che però si rivelano incaute anche per chi anela al martirio verbale. Eppure, ci fu un tempo in cui c’era chi, come Norberto Bobbio, poneva l’esigenza di elaborare una teoria volta a chiarire le modalità di inserimento dell’esperienza comunista nello sviluppo della civiltà liberale di cui, egli precisava, «il comunismo è certamente figlio, se pur non ancora a pieno diritto l’erede» (Bobbio, Politica e cultura, p. 131). Il non riconoscimento di tale diritto e addirittura la cacciata di casa del legittimo erede ha finito per compromettere la stabilità dell’intero edificio della civiltà liberale, governato ormai da vecchi dormienti e pazzi esagitati. Ma per restare a quel dovere degli “uomini di cultura” cui lo stesso Bobbio richiamava coloro che hanno a cuore le sorti della ragione, strano parto dell’umana cognizione che ne illumina il cammino al prezzo di qualche tragico errore, la discussione non può che ripartire da quegli snodi la cui mancata o insufficiente elaborazione ha provocato quella fatale rottura i cui deleteri effetti oggi constatiamo. Riflettendo sul rapporto Krusciov, Bobbio considerava la mancata previsione della tirannia di Stalin nel periodo di transizione della dittatura del proletariato come l’indizio di una deficienza della dottrina marxista (Bobbio, Politica e cultura, p. 248). Infatti, posto che si consideri la dittatura personale come il regime che esprime le difficoltà in cui si viene a trovare una classe dirigente in declino, la denuncia del regime di Stalin come una dittatura personale significava ammettere le difficoltà della trasformazione economica nel passaggio dal regime della proprietà privata a quello collettivistico (Bobbio, Politica e cultura, p. 259). Due punti non tornano in questo ragionamento. Anzitutto, le difficoltà non equivalgono al declino. Come si evince dagli indici di sviluppo economico, sociale e demografico, sotto Stalin la società sovietica pur tra grandi difficoltà non declinò, bensì avanzò. Fu piuttosto il rapporto Krusciov a segnalare l’inizio del declino che, dopo la stagnazione brezneviana, culminò nella mortale stagione della perestrojka. In secondo luogo, se la dittatura personale esprime il declino di una classe dirigente, che dire della dottrina liberale che non previde il sorgere della dittatura mussoliniana? Se il buco teorico c’è, ciò vale per la dottrina marxista come per quella liberale. Evidentemente, è la nozione di dittatura di classe che va qui chiarita. Essa non concerne la sfera politica bensì l’ontologia economica. La dittatura di una classe nella struttura può ben convivere nella sfera politica con una democrazia, diretta o parlamentare che sia, oppure con una dittatura personale. Ciò non vuol dire che non vi sia un rapporto tra i due livelli, ma il fatto che vi è una distinzione, storicamente attestata dall’oscillazione tra democrazia e dittatura politica nel regime di dittatura capitalistica nella struttura, significa che la dittatura del proletariato nella struttura, qualora la contingenza storica lo consenta, non necessariamente deve comportare la dittatura personale o comunque politica nella sfera politica. Quindi, benché ai puristi possa dispiacere, un comunismo democratico è possibile (il Venezuela attuale con il suo “costituzionalismo egemonico” è qualcosa che si approssima a questo modello). Il problema è nel trapasso dall’una all’altra ontologia economica. È evidente che il passaggio è violento, ma è stata violenta l’instaurazione dell’ontologia economica capitalistica ed è violenta la sua difesa, affidata com’è alla forza “legale” e al suo simulacro, il consenso. Imputare la violenza solo al progetto “rivoluzionario” di mutare il fondamento dell’ontologia in essere equivale ad affermare che l’unico ordine possibile è quello esistente. Il che è già un atto intellettualmente violento. Il cozzo delle ontologie si può evitare accordandosi a monte circa la legittimità della loro pluralità, almeno per un lungo periodo di transizione. Il liberalismo, dunque, se vuole risorgere staccandosi dall’abbraccio mortale con il liberismo cui ha incautamente affidato le proprie sorti, deve richiamare presso di sé il comunismo e chiedergli di farsi carico della sua gravosa eredità. Su questo sfondo di pluralismo ontologico, la formula della dittatura del proletariato può essere allora ripresa come architrave di una nuova alleanza internazionale che si proponga di riportare all’antico splendore l’edificio non tanto della civiltà liberale, ma della ragione, di cui la civiltà liberale è stato solo il primo, imperfettissimo passo. I detriti della storia non possono più essere un alibi per procrastinare questo accordo. Ogni giorno che passa, i nemici della ragione acquistano terreno, religioni vecchie e nuove, irrazionalismi del passato e del presente rialzano la testa e si propongono come il solo rifugio dell’uomo angosciato, la politica diventa puro confronto di potere e nella struttura ristagna il tanfo di un’antropologia sempre più corrotta. Per l’Occidente, è l’ultima chiamata.

La coscienza di classe a cent’anni da Storia e coscienza di classe

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Per una celebrazione non puramente celebrativa del centenario di Storia e coscienza di classe un gruppo di tesi sulla natura della società capitalistica rinvenibile in essa può essere adoperato per chiarire il significato di due rivendicazioni avanzate da odierni esponenti della classe capitalistica, quella dell’uomo d’affari Warren Buffett circa il fatto che nei decenni successivi alla caduta del Muro di Berlino la lotta di classe l’avrebbero vinta i capitalisti, e quella dell’ideologo Francis Fukuyama secondo cui in seguito a quell’evento la storia è finita nel senso che con la vittoria del liberalismo sul comunismo essa avrebbe raggiunto il suo culmine. Le tesi utili a chiarire tali rivendicazioni possono essere così sinteticamente riassunte. La prima sostiene che nella società capitalistica l’essere sociale è lo stesso sia per la borghesia che per il proletariato, nel senso che per entrambe esso è immediatamente economico. La seconda pone che tale immediatezza comporta l’artificiale separazione e isolamento degli oggetti dalla totalità delle loro determinazioni reali al fine della loro quantificazione economica quali valori di merci. La terza afferma che, sotto la spinta degli interessi di classe, mentre la classe borghese dimora nell’immediatezza occultando la tensione dialettica tra gli oggetti e la totalità delle loro determinazioni con categorie astratte come appunto la quantificazione, il proletariato deve oltrepassarla perché solo ripristinando la totalità delle determinazioni reali degli oggetti può risolvere la propria tensione dialettica in quanto esso stesso oggetto, quale forza lavoro mercificata, del processo produttivo. La quarta stabilisce che la conoscenza della totalità sociale e delle sue leggi di sviluppo storico prodotta dalla presa di coscienza di tale tensione dialettica da parte del proletariato pone le premesse rivoluzionarie per la fine dello sfruttamento capitalistico e per il passaggio a una forma superiore di organizzazione sociale1.

Alla luce di questo insieme di tesi, la rivendicazione della vittoria capitalistica nella lotta di classe e l’affermazione che la storia è finita con il trionfo del liberalismo sul comunismo che abbiamo citato sopra, significano che la classe borghese non solo ha trovato il modo di impedire al proletariato di andare oltre l’immediatezza economica neutralizzando così la sua funzione rivoluzionaria, ma ha anche imposto tale immediatezza come modo d’essere esclusivo dell’essere sociale. In altri termini, rivendicare la vittoria capitalistica nella lotta di classe significa dichiarare apertis verbis la dittatura capitalistica, trasformando così il portato spontaneo del processo storico in un contenuto esplicito della coscienza di classe borghese. E poiché ciò avviene non nell’involucro di una aperta dittatura politica, come accadde negli anni Trenta del secolo scorso, ma sotto il regime trionfante della democrazia liberale, ciò equivale a esplicitare il contenuto politicamente dittatoriale di tale regime pur continuando a proclamarlo come il regime della libertà universale.

Di fronte a tale pretesa, non è ozioso allora ritornare ai fondamenti teorici della dialettica storica della coscienza di classe, non solo in riferimento alle prese di posizione sopra discusse ma anche ad ambiziosi sistemi teorici, eretti ancor prima che il trionfo del liberalismo venisse dichiarato, volti a universalizzare la posizione di classe borghese. Al fine di un loro esame, necessariamente limitato agli aspetti essenziali, partiamo da una definizione neutralmente “scientifica” di coscienza sociale, secondo la quale essa è la visione idealmente razionale che i membri di una classe sono in grado di assumere riguardo all’intera struttura sociale al fine di determinare corsi di azione che siano universalmente accettabili dall’intera società. All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso una tale ricostruzione “universale” della coscienza sociale, proposta dal punto di vista liberale, è stata avanzata nei termini di un “velo d’ignoranza” inteso come posizione originaria assunta da individui desiderosi di dar vita a istituzioni giuste, spogliandosi da ogni condizionamento particolare, primo fra tutti il condizionamento di classe2. Ne è risultata una imparzialità astratta con cui statuire sulla distribuzione della ricchezza e del potere, non a caso denominati “beni primari”, in base al principio secondo il quale è legittimo che alcuni possano godere di una maggior quota di essi se il modo in cui li ottengono migliora la condizione di coloro che ne possono godere di meno3. A ben rifletterci, forse è in base a tale “diseguaglianza benefica” che oggi sembra accettabile che un manager possa guadagnare non quaranta volte, come nel 1970, bensì seicentocinquanta volte più di un operaio, a patto che il sistema complessivo consenta al governante di turno di concedere all’operaio un bonus fiscale di trenta euro in più al mese in busta paga.

Comunque sia, al fine di mitigare diseguaglianze simili, dall’attiguo campo liberale cosmopolitico si è levata la richiesta che nella competizione per i “beni primari” la perequazione non sia affidata solo alla tardiva comparsa di misure per “bisogni speciali”, ad esempio quelli di individui affetti da evidenti minorazioni come la cecità, ma che tali misure, anche per impedimenti come il maggior rischio di ammalarsi o vari gradi e tipi di patologie fisiche o mentali socialmente determinate, siano inserite sin da subito alla base dell’architettura istituzionale “giusta”, in modo da consentire che la complessiva dotazione umana degli individui (“funzionamenti”) possa essere messa in opera (“capacitazioni”) per il raggiungimento di una vita degna di essere vissuta (“vita fiorente”)4. Di questa richiesta già in sé limitata si direbbe che nella pratica neanche la parte concernente la perequazione delle minorazioni più evidenti sia stata pienamente accolta, ma ciò che qui importa osservare è che, con grande anticipo circa le pretese di imparzialità della “giustizia come equità” e le limitate richieste ad essa rivolte di un’imparzialità più “aperta”, dal campo teorico alternativo del proletariato proprio in Storia e coscienza di classe erano state avanzate lungimiranti concezioni critiche.

Si è mostrato anzitutto che i cosiddetti “beni primari” non sono oggetti in sé conclusi di cui soggetti isolati gli uni dagli altri possono appropriarsi in una gara in cui può rilucere la loro competenza morale, innata quanto quella linguistica5, ma appartengono invece, come abbiamo accennato già sopra, a un universo reificato in cui gli oggetti, in realtà merci, risultano da un isolamento artificiale dal complesso delle loro determinazioni reali, ad opera delle operazioni produttive del soggetto capitalistico che per i suoi interessi di classe non può andare oltre l’immediatezza economica e deve pertanto tramite teorie ad hoc occultarne il fondamento parziale6. Questa reificazione in cui tale soggetto è irretito si manifesta in una molteplicità di contraddizioni, dalla contraddizione storica, a quella sociologica, a quella ideologica, a quella infine epistemologica7. Ai nostri fini, quest’ultima è quella che qui ci interessa maggiormente. Essa mostra infatti che, essendo il capitalismo l’ordinamento produttivo in cui l’economia assimila l’intera società, la coscienza borghese dovrebbe razionalmente possedere la conoscenza della totalità del processo di produzione, ma a causa dei suoi interessi di classe ciò le è precluso, divenendo così impossibile la gestione teorica e pratica dei problemi incessantemente posti dallo sviluppo capitalistico8. Ora, l’ambiziosa e influente teoria morale della “giustizia come equità”, enunciata ben dopo il quadro critico cui abbiamo accennato, appare oggettivamente ricadere in tale contraddizione, poiché se da un lato con il “velo d’ignoranza” vuole ottenere la conoscenza razionale derivante dall’assimilazione economica capitalistica dell’intera società, dall’altro basa l’assetto morale “giusto” che con tale “velo d’ignoranza” vuole instaurare sull’ontologia economica parziale degli interessi capitalistici, come dimostra la giustificazione teorica delle crescenti sperequazioni derivanti dall’applicazione di principi come quello della “diseguaglianza benefica”.

Tuttavia, poiché contrariamente a quanto si possa pensare il campo teorico del proletariato è tutt’altro che monolitico ma anzi vi dominano contrapposizioni anche sin troppo vivaci, la concezione critica espressa in Storia e coscienza di classe, nonostante i cospicui risultati con essa ottenibili, è stata variamente contestata e rigettata. In particolare, la critica della società borghese da essa sostenuta servendosi della categoria della “contraddizione” è stata giudicata “ideologica”, cioè non “scientifica”, perché determinata dall’ideologia filosofica della contraddizione e dall’ideologia morale dell’uomo onnilateralmente sviluppato9. La nozione di coscienza di classe, inoltre, poiché privilegia la coscienza rispetto all’essere, è stata giudicata di natura idealistica e, con riferimento al proletariato, si è proposto di sostituirla con quella materialisticamente più tangibile di istinto di classe10, per la cui indagine si ritiene necessario indagare non solo i rapporti di produzione e quelli politici ma anche quelli ideologici, che sarebbero costituiti da sistemi di idee-rappresentazioni e sistemi pratici di attitudini-comportamenti (costumi)11.

Qui si può già osservare che più che al funzionamento dei rapporti sociali ideologici si è interessati a una classificazione dei loro contenuti, uno slittamento che, come vedremo, non può non avere conseguenze negative nella teoria e nella pratica. Ma andiamo avanti. In questa visione “scientifica” della coscienza di classe, si afferma che una rivoluzione deve agire non solo a livello delle idee ma anche dei costumi, siano essi politici, tecnici, burocratici, e ciò tramite forme organizzative specifiche12. Ora, posto che in rapporto ai differenti livelli di ogni formazione sociale devono esistere differenti organizzazioni della lotta di classe, al livello economico il sindacato, al livello politico il partito, al livello ideologico l’organismo di controllo ideologico, si richiama il fatto che, storicamente, mentre nella Rivoluzione sovietica Lenin propose di far corrispondere al livello ideologico un organismo emanazione del partito denominato “Ispezione operaia e contadina” che, nell’inedita situazione della dittatura del proletariato, traduzione statuale dell’egemonia del proletariato, doveva regolare i rapporti tra Stato e Partito, nella Rivoluzione Culturale cinese degli anni Sessanta del secolo scorso l’organo di controllo dei rapporti tra Partito e Stato fu individuato in un’organizzazione espressione autonoma delle masse con il compito di denunciare e criticare i dirigenti che, attenendosi ancora ai vecchi costumi, si distaccavano dalle esigenze della nuova vita rivoluzionaria. In questo modo si sarebbe realizzato un avanzamento teorico e pratico, poiché partito, Stato e organizzazione di controllo ideologico risultavano distinti13. Resta il fatto però che, permanendo la concezione dei rapporti ideologici non come ruoli da modificare ma come contenuti da sanzionare, l’azione di controllo di questo platonico Consiglio notturno14 si scaricava sull’esteriorità del comportamento e non sulla matrice soggiacente che lo produceva e riproduceva, sboccando così, com’è storicamente accaduto, nella repressione e nell’autoritarismo anche se esercitati dalle masse.

È qui che può soccorrere l’elaborazione successiva a Storia e coscienza di classe, sia dello stesso Lukács con la proposta di una democratizzazione della vita quotidiana, sia di Gramsci di una nuova egemonia come superamento del rapporto di subalternità. È evidente che il perseguimento di tali scopi comporta un processo di apprendimento che deve potersi riprodurre da sé inserendo nella sua struttura di base il principio cui corrisponde il senso etico-politico che si vuole far acquisire. Ma questo residuo “educativo” si scioglie nel fatto che non viene instillato un contenuto bensì una forma, la forma compiutamente razionale della reciprocità cooperatoria la cui più vivida descrizione, per una volta, si può rinvenire in una fonte del tutto indipendente dai dibattiti marxisti, quella dell’onesta critica conservatrice del modo di produzione capitalistico:

 

quando un governo ha preso possesso di tutti i mezzi di produzione e del controllo di tutte le imprese non può distribuire in salari e servizi pubblici più di quanto l’industria, così organizzata, sarà in grado di produrre; probabilmente, e forse beneficamente, produrrà piuttosto meno di quanto prima è stato prodotto da capitalisti privati e rivali, dal momento che ci sarà meno ardimento nel correre rischi e minore ansia di ottenere salari più alti. La società sarà forse più felice ma più debole e più rassegnatamente tradizionalista. La febbre del diciannovesimo secolo per l’improvvisa ricchezza e del ventesimo per le meraviglie della meccanica avranno ceduto ad una saggezza classica, ad un nuovo livello industriale della vita. Penso che un tale governo, se razionalmente guidato dalla scienza e dalla storia, potrebbe rivelarsi un custode più sicuro di tutti gl’interessi naturali e quindi moralmente più rappresentativo sia del governo tribale che di quello patriarcale nonché di quello elettivo. I governanti e gli amministratori sarebbero nominati non per mezzo di elezioni popolari, ma per cooptazione tra i membri di ciascun ramo dell’amministrazione, come una sorta di promozione quale quella in uso nell’esercito, nelle banche, nelle università o nelle gerarchie ecclesiastiche15.

 

Solo una lettura superficiale potrebbe scorgere qui il vagheggiamento romantico della “decrescita felice”, quando invece vi è il riconoscimento politico che un piano razionale fondato sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e guidato dalla scienza e dalla storia è ciò che può dare luogo al nuovo livello industriale della vita ispirato a una saggezza classica. Per gli apologeti dell’esistente, che da tempo immemorabile spendono le migliori energie per scacciare questo spettro, si tratta di offrire sempre nuovi alimenti alla febbre delle vecchie tendenze secolari. Alle ricchezze improvvise e alle meraviglie della meccanica ora si sono aggiunte le mirabilie della scienza cognitiva, dalle reti neurali alla robotica all’intelligenza artificiale, con tutti i benefici per il corpo e per l’anima che promettono di arrecare. Ma se scatta l’allarme per qualche loro possibile conseguenza indesiderata, allora arruolando Gödel e Aristotele si rassicura che l’intelligenza umana non potrà mai essere assorbita da quella artificiale né logicamente, stando ai teoremi di incompletezza algoritmica, né antropologicamente, data la determinazione affettiva dei ragionamenti umani che l’intelligenza artificiale potrà solo simulare ma mai effettivamente provare16. Ma la mente desiderante, la sola che provando dolore e piacere produrrebbe religioni e ideologie, non la si mette in salvo magnificando le caratteristiche che la natura le avrebbe conferito dall’eternità. Non è la mente umana in astratto che produce religioni e ideologie, ma sono i modi di produzione, con cui i bisogni umani vengono soddisfatti, che estendendosi lungo le ere producono la storia. E i modi di produzione non sono semplici classificazioni ad uso degli storici ma modalità d’esistenza dei rapporti sociali. Bisogna capire allora cosa accade nei rapporti sociali capitalistici se l’esigenza di profitto intrinseca al capitale si afferma sostituendo progressivamente il lavoro vivo manuale e intellettuale con il lavoro artificiale robotico e algoritmico. E la conseguenza principale non può che essere, da un lato, la rarefazione dei rapporti produttivi e, dall’altro, il rigonfiamento di quelli ideologici in cui masse sempre più vaste di piccoli signori, divenuti tali dopo l’espulsione dai rapporti di produzione, soddisfano bisogni sempre più artificiosi comandando legioni di schiavi logico-meccanici per definizione incapaci di quella “presa di coscienza” di cui invece sono state storicamente capaci le masse salariate. Di fronte all’evenienza di un simile parassitismo, anziché adeguarsi alla presunta forza irresistibile dell’“innovazione”, appare invece sempre più necessario perseguire quel nuovo livello industriale della vita il cui governo non più tribale, non più patriarcale, non più elettivo, ma semplicemente “amministrativo” l’onesto critico conservatore del capitalismo addita come il sistema che meglio può garantire tutti gli interessi naturali. Con le sue vittorie e le sue disfatte, con le sue acquisizioni e i suoi errori, sinora l’interprete più coerente di questa prospettiva è stata la coscienza di classe proletaria così profondamente indagata in Storia e coscienza di classe, che nella politica secolare può però allargarsi a coscienza di specie per tradurre finalmente quella prospettiva in una forma di vita universale.

 

  1. G. Lukács, Storia e coscienza di classe (1923), trad. it. Sugar Editore, Milano 1967, p. 214 ss. []
  2. J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), trad. it. Feltrinelli, Milano 20083, p. 142 []
  3. Ivi, p. 104 []
  4. A. Sen, L’idea di giustizia (2009), trad. it. Mondadori, Milano 2011, p. 240 ss., p. 270 []
  5. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 64 []
  6. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, cit., p. 85, p. 216 []
  7. Ivi, pp. 80-83 []
  8. Ivi, p. 83 []
  9. L. Althusser, Socialisme idéologique et socialisme scientifique (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, Puf, Paris 2022, pp. 67-68 e p. 97 []
  10. Ivi, p. 99 e nota 2 []
  11. L. Althusser, Sur la révolution culturelle (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, cit., pp. 302-03; Id., Sur l’idéologie. Fragment inédit de «Sur la révolution Culturelle» (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, cit., p. 320 []
  12. L. Althusser, Sur la révolution culturelle (1966), cit., pp. 303-04 []
  13. Ivi, p. 307 []
  14. Platone, Leggi, XII, 960-966 (Tutte le Opere, Sansoni, Firenze 1974, p. 1389 ss.). []
  15. G. Santayana, Dominazioni e Poteri (1951), trad. it. a cura di G. Buttà, in corso di pubblicazione, pp. 555-556 []
  16. F. Lo Piparo, Rassicurazioni utili per i catastrofisti e gli apocalittici. Tranquilli, l’intelligenza artificiale non soppianterà mai quella umana, «Il Foglio», 19 maggio 2023, p. 2 []

Politica secolare

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Nel sesto cerchio dell’Inferno di Dante, la legge del contrappasso condanna gli eresiarchi epicurei che vi sono rinchiusi a non conoscere nulla del presente, mentre vedono oltre un certo limite nel passato e nel futuro. Nell’epoca di transizione in cui viviamo, potremmo paragonare la nostra condizione a quella di questi dannati. Archivi, documenti, ricostruzioni e interpretazioni storiche ci fanno conoscere con una certa approssimazione un passato più o meno remoto, e del futuro più o meno lontano intravediamo anche se vagamente qualche contorno, ma il presente, il passato e il futuro immediati sono immersi in una fitta nebbia che la nostra vista non riesce a penetrare. Parlare quindi di politica secolare, la politica del XXI secolo che giorno dopo giorno prende corpo nella “mala luce” del nostro sguardo offuscato, può avere un senso se almeno fissiamo alcuni criteri che ne elevino l’analisi a qualcosa di più che una vuota convenzione cronologica. Il primo di questi criteri è che obiettivo dell’analisi siano questioni rappresentative delle tendenze mondiali; il secondo, che l’analisi teorica sia ancorata a questioni storiche anch’esse di livello mondiale; il terzo, che le questioni analizzate abbiano un ruolo essenziale nelle modificazioni possibili della realtà avvenire. Con una scelta certamente soggettiva, dovuta a quell’oscura visuale di cui dicevamo prima, le questioni che ci sembrano soddisfare tali criteri sono la guerra mondiale endemica che ancora una volta ha il suo epicentro in Europa, i nuovi centri di potere mondiali che a causa e per effetto della guerra emergono nell’arena internazionale, i nuovi rapporti di classe, infine, che intrecciati con i nuovi rapporti internazionali delineano il corso politico complessivo del secolo. Dunque, l’Europa in guerra, l’egemonismo come fase ulteriore dell’imperialismo, il socialismo come terreno su cui ricercare le soluzioni delle nuove contraddizioni secolari – questi i tre nomi delle questioni che sembrano soddisfare i criteri sopra enunciati. Può sembrare strano che in un periodo in cui si proclama a gran voce la dissoluzione delle classi, si scelga il criterio di classe per l’analisi della politica secolare. In realtà il problema non consiste nelle classi il cui divenire sociologico scorre incessantemente, bensì nella coscienza di classe che fluisce più lenta e richiede la cura continua dei suoi argini. Negli ultimi decenni, l’incuria di chi avrebbe dovuto manutenerli e l’opera interessata di chi voleva arrestarne il corso, l’ha rinsecchita facendola ristagnare in piccole pozze non comunicanti tra di loro. Si prenda il caso delle ondate di emigrati italiani che negli ultimi decenni, circonfusi dalla destinazione glamour, si sono riversati su Londra e altre località inglesi alla ricerca di occupazione. Molti di essi, specie i meno istruiti, dapprima sono approdati nei casermoni di periferia zeppi di “negri” in cui già alle cinque della sera ci si barrica negli appartamenti; in seguito, indirizzati da efficienti uffici dell’offerta verso mansioni spesso rifiutate in patria – camerieri di bar e ristoranti, personale di servizio, baby sitter e dog sitter per la buona borghesia inglese, personale delle pulizie e della reception negli alberghi, ecc., hanno poi avuto accesso alle più sicure case a schiera della vecchia working class indigena e con il prestito iniziale assicurato loro dall’astuto governo inglese hanno messo su l’impresa di pulizie o la pensione per i cani quando i loro padroni vanno a svernare nell’assolata Italia, paese in cui questi lavoratori, quando vi ritornano in visita ai parenti, constatano l’inefficienza dell’avvio al lavoro, la mancanza di una politica della casa, la precarietà e l’arbitrio dell’impiego e della paga, finendo così per sentirsi a casa propria più nella nuova patria, che in quella vecchia di cui diventa inutile persino ricordare le lotte per il lavoro che pure le precedenti generazioni vi hanno combattuto. Ma, nella nuova patria, quando anche i “negri” dei casermoni di periferia hanno cominciato ad affiorare nei quartieri delle case a schiera adattando magari a moschea un umido garage, allora il proletariato indigeno, che già aveva mal tollerato l’intraprendenza degli immigrati bianchi di provenienza UE, ha protestato e ha votato per la Brexit, nel frattempo che in Italia ondate di “negri”, fortunati di non essere annegati nell’attraversamento del Mediterraneo, si accalcavano malvisti nelle periferie delle città, senza neanche la prospettiva delle terraced houses e del gruzzolo iniziale offerti dal più efficiente governo inglese. E tutto questo sommovimento è avvenuto senza che la “sinistra”, né quella inglese né quella italiana, si ponesse più il problema di tenere viva in questo proletariato, inglese italiano o “negro” che fosse, la consapevolezza dei rapporti di produzione in cui era immerso, impegnata com’era ad acquisire rispettabilità presso l’establishment. Questo esempio che, variando nazionalità e destinazioni, si potrebbe riscontrare in altre realtà europee e occidentali, si pensi all’ormai proverbiale idraulico polacco, mostra chiaramente come la coscienza di classe da totalità organica si sia rinsecchita in tanti bracci separati e in conflitto tra di loro, la questione di classe, quella nazionale, quella migratoria, quella razziale, quella religiosa, lasciando sulle mappe politiche il vuoto di un luogo incognito, la cui realtà di sfruttamento addirittura aggravatasi è divenuta invisibile agli stessi sfruttati che la assumono nella sua irreversibile fatticità. E, tuttavia, se all’operaio inglese che ha votato per la Brexit o all’italiano che ha messo su l’impresa di pulizie è cresciuto un figlio gay e al “negro” affiorato nei vecchi quartieri operai o sprofondato nelle periferie urbane o nei casolari dell’agricoltura intensiva è capitata in sorte una figlia ribelle conquistata dai liberi costumi occidentali, allora il silenzio che grava su quel deserto della coscienza di classe sembra sgretolarsi e il clamore con cui vengono rivendicati i diritti civili trascina con sé anche i negletti diritti sociali. Anche perché ricerche sui non-binary workers, cioè i lavoratori che rifiutano di essere classificati in base allo schema binario maschio/femmina, attestano che essi sono più numerosi nelle fasce basse delle retribuzioni – servizi di vendita, agricoltura, che in quelle alte – cultura, spettacolo, giornalismo. Anche questo, però, è solo un dato sociologico che l’irruenza dalla questione sessuale non basta a trasformare in fatto di coscienza. Se è un diritto civile l’unione tra individui dello stesso sesso, se è un diritto civile l’adozione da parte di una coppia omosessuale, sarà anche un diritto incontestabile accedere alla GPA, cioè alla maternità surrogata o, più crudamente, all’utero in affitto? Una pratica, tra l’altro, che viene strumentalmente collegata alla questione omosessuale ma che, come dicono le statistiche, riguarda principalmente le coppie eterosessuali che possono scegliere fra costi diversi. Problemi simili, allora, di ordine morale ma anche economico e sociale, evidenziano un altro e più profondo significato della politica secolare. La forma di vita di merce, infatti, si estende su nuovi territori come quelli della nascita, ma anche quelli della morte, se è vero che in alcuni paesi la “buona morte” è una merce al pari della maternità surrogata. La politica secolare è dunque anche un passaggio di testimone con il secolo scorso sul terreno della mercificazione e dei connessi fenomeni di reificazione e alienazione, in cui emergono nuove contraddizioni per di più in presenza di scelte solo apparentemente alternative. Infatti, nella lotta contro la vecchia morale repressiva, da un lato, sembra imporsi un’etica “libertina” che coronerebbe la società capitalistico-borghese nel suo stadio globale; dall’altro, avanza un’etica “sociale” per la quale le distinzioni di genere sono effetto delle pratiche oppressive di potere messe in atto da quella stessa società. Entrambe però sfociano nella esaltazione della “volontà assoluta” di un individuo che, in assenza di legami con una cerchia più vasta distrutti dalla forma di vita di merce, è alla ricerca spasmodica di una qualche salvezza, la quale però quando è in qualche modo raggiunta ribadisce la base esistenzialmente negativa del volontarismo assoluto. È l’alienazione come effetto e causa dei disequilibri con cui la società in atto alimenta la propria esistenza. La lotta per una rinnovata coscienza di classe, di cui la politica secolare vuole chiarire alcune condizioni di realizzazione, concerne quindi il significato del divenire, se deve permanere come antinomia incomponibile o mirare a una ricomposizione della totalità. Nel primo caso continueranno a succedersi generazioni di homo sapiens la cui brutalità sarà uguale alla presunzione di essere moralmente superiori agli altri esseri viventi; nel secondo caso germinerà un essere sociale nuovo, cavalli sapienti o cervi fatati, dal cui legame razionale però potrà sorgere una società finalmente umana.

La filosofia e lo Stato

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Lo Stato è il luogo in cui la filosofia si lega alla politica in senso non metafisico bensì concretamente storico, ma per le sue divisioni interne e per le forme di sapere alternative con cui è in concorrenza ha dovuto sempre lottare per affermare in esso la propria voce1. Per limitarci all’epoca moderna, nel suo Progetto filosofico per la pace perpetua Kant prevede un articolo segreto che prescrive l’obbligo per gli Stati di prendere in considerazione le massime dei filosofi circa le condizioni che rendono possibile la pace pubblica2. La clausola era diretta contro i giuristi visti da Kant come i principali rivali dei filosofi nell’influenza esercitata sullo Stato. Compito del giurista infatti è di applicare le leggi vigenti e non di ricercare il loro miglioramento, su cui invece verte la competenza dei filosofi che indagano la natura intrinseca della politica. In questo modo però il filosofo, constatava Kant sconsolatamente, si viene a trovare su un gradino inferiore. D’altra parte, lo stesso Kant prevedeva che a imporre la pace tramite un diritto cosmopolitico sarebbe stata la forza del denaro in quanto la più efficace tra tutte quelle in potere dello Stato. Essa infatti, aggiungeva Kant, ben si accorda allo spirito commerciale che prima o poi si impadronisce di ogni popolo. Enunciata come una sorta di legge di natura, questa constatazione era in effetti il riconoscimento implicito dell’avvento del capitalismo che avrebbe fatto emergere dei nuovi concorrenti dei filosofi, gli economisti. Così come i giuristi fornivano giustificazioni per lo Stato armato per la guerra, così pure gli economisti avrebbero fornito giustificazioni per lo Stato garante dello spirito economico capitalistico che aveva soggiogato l’intera società. Il nesso statuale tra politica e filosofia diventa dunque storicamente concreto nel succedersi di differenti egemonie intellettuali corrispondenti a differenti stadi di sviluppo della società. Da ultimo, agli economisti, screditati dall’incalzare di crisi economiche di cui non sono stati in grado di spiegare né l’origine né le cause, è subentrata l’estesa classe degli operatori dei mass media, dello spettacolo e dello sport che assicurano allo Stato l’armamentario discorsivo adatto alla società dominata dalla volatilità del capitale finanziario. Forse è per superare questa agguerrita concorrenza che i filosofi hanno sempre incontrato nel loro rapporto con lo Stato che Marx, nelle condizioni date dell’epoca capitalistica, affermò l’esigenza che la filosofia finalmente passasse dall’interpretazione del mondo alla sua trasformazione.

  1. Il partito-Stato

I tentativi di trasformazione della realtà intrapresi sulla spinta di questa esigenza sono andati incontro a gravi insuccessi, ma non tutto quello che è stato tentato merita di essere liquidato. In questo senso, è utile riprendere alcuni spunti della critica che Lukàcs sviluppò nell’ultima fase della sua riflessione filosofica contro i metodi staliniani di governo dello Stato. Nel suo opuscolo L’uomo e la democrazia3, allo scopo di mostrare come Stalin manipolasse il marxismo per giustificare la sua tirannia, Lukács contesta la sua concezione della legge del valore avanzata nell’opera I problemi economici del socialismo nell’Unione sovietica (1952), in un modo però che sbocca alla fine in un paradossale ribaltamento di posizioni teoriche. Nel suo scritto, Stalin sostiene che la legge del valore, ovvero il tempo di lavoro che i fattori produttivi variano incessantemente così determinando il valore di scambio dei prodotti del lavoro, è legata all’esistenza della produzione mercantile, la cui soppressione a opera del socialismo determinerà la sparizione sia del valore che della legge del valore. È una veduta che traduce in maniera rozza e tranchant ciò che Marx in maniera più indiretta e sfumata sostiene nel Capitale. Lukács invece è del parere che Stalin incorra qui in una “papera” e, riferendosi a un brano finale del primo capitolo del Capitale dedicato al feticismo della merce, spiega che in realtà secondo Marx la legge del valore rimane valida anche nel socialismo4. In realtà, Marx in quel brano semplicemente suppone di far funzionare il socialismo come un modo di produzione retto ancora dal tempo di lavoro, allo scopo di chiarire a chi è culturalmente prigioniero delle categorie dell’economia politica borghese come in effetti funzionano produzione e distribuzione in un modo di produzione retto non più dalla spontaneità del mercato ma da un piano sociale fissato consapevolmente dai produttori5. La supposizione non è di poco conto. Se la legge del valore continuasse a essere in vigore anche nel socialismo e ancor più nel comunismo, non si avrebbe quella trasparenza dei rapporti tra gli uomini, tanto nella produzione quanto nella distribuzione, che invece manca nel capitalismo, dove invece la merce è quel feticcio misterioso che Marx descrive lungo tutto il capitolo in questione. È davvero sorprendente che proprio Lukács, che del feticismo e dell’alienazione di merce fu nel 1923 il riscopritore con la sua opera Storia e coscienza di classe, oscuri questo punto sostenendo che nel socialismo e nel comunismo la legge del valore, o tempo di lavoro, si estende e approfondisce perché in tali nuovi assetti sociali sempre più il lavoro diventa il primo bisogno della vita. È evidente che qui vengono fusi due significati distinti di lavoro, ovvero lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana e lavoro come quantità sociale astratta, il primo significato attinente al comunismo, il secondo al capitalismo. Se si ripristina la distinzione, si vede che la posizione di Stalin, benché meno raffinata teoricamente rispetto a quella di Marx, è paradossalmente più libertaria di quella di Lukács, poiché non pretende che la costrizione collettiva ancora vigente nel socialismo, volta ad accumulare lavoro come quantità sociale astratta, sia considerata un’auto-costrizione liberante per l’individuo. Lukács, invece, con un moralismo implicito che privilegia la società rispetto all’individuo, rinvia a un nebuloso domani la fase in cui il pluslavoro prodotto dal lavoro socialmente necessario potrà servire allo scopo sociale generale dello sviluppo della personalità, finendo per eternizzare uno sviluppo delle forze produttive dominato dalla reificazione di merce qualunque sia il regime di proprietà dei mezzi di produzione. Lukács è pensatore troppo sagace per essere incorso lui stesso in una “papera”. È probabile invece che nel momento in cui con il suo opuscolo si batteva affinché l’opinione pubblica e il dibattito democratico avessero più spazio nel governo dello Stato rispetto ai metodi costrittivi staliniani, egli intendesse consolidare la base economica entro cui il processo di democratizzazione avrebbe dovuto svolgersi, di modo che il passaggio dal lavoro come quantità sociale astratta al lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana rimanesse sempre sotto la guida dello Stato guidato dal Partito. Se si tiene conto di ciò, si vede che la paradossale confutazione di Stalin da parte di Lukács non è un capitolo dell’esegesi marxista di un’epoca ormai tramontata ma illumina ancora oggi il presente. Non è forse questo infatti il dilemma della Cina odierna, dove la crescita impetuosa delle forze produttive promossa dal partito-Stato determina un socialismo dove il pluslavoro è più quantità sociale astratta che strumento di sviluppo onnilaterale dell’essenza umana? E non è un problema della Cina odierna quello di un partito-Stato che si legittima perseguendo la crescita costante del pluslavoro, rinviando però sempre a un indeterminato domani il giorno in cui tale pluslavoro potrà servire allo scopo sociale generale dello sviluppo individuale?

  1. Dialettica dell’abitudine

Nel suo opuscolo, e qui veniamo ai problemi dell’Occidente, Lukács, richiamando l’interesse di Lenin per l’abitudine quale categoria sociologica generale, ricorda che egli concepiva il comunismo come il momento in cui la morale predicata da millenni viene finalmente a poco a poco per abitudine praticata da tutti. Con il suo tipico modo di argomentare Lukács rende omaggio a questa dialettica dell’abitudine in cui è la società che per auto-regolazione passa da un costume all’altro, ma in realtà poi esige che sia lo Stato a promuoverla partendo dalla considerazione di come funziona l’abitudine nella società capitalistica dove, attraverso istituzioni quale il diritto, rafforza l’egoismo dell’uomo quotidiano, abituandolo a considerare il prossimo solo come limite negativo della propria esistenza e del proprio agire6. Per il superamento di tale stato di fatto Lukács individua due forze, la prima costituita dall’entusiasmo rivoluzionario delle masse che fa sì che in determinate epoche storiche le questioni della vita quotidiana si colleghino organicamente con le grandi prospettive politiche, la seconda data appunto dall’azione sistematica dello Stato. Lukács constata l’apatia delle masse rispetto alla fase rivoluzionaria del primo ventennio del XX secolo di cui egli fu testimone e partecipe, e si affida quindi al ruolo dello Stato il cui nerbo però, come sappiamo, è costituito dal Partito quale garante della nuova base economica. Nel tempo intercorso dal suo scritto a oggi più che l’apatia delle masse, in realtà prostrate dal dissolversi del Partito che organizzava il loro entusiasmo rivoluzionario, si è approfondito il connubio dello Stato con il mercato che all’apparenza sembra operare in virtù del libero spirito commerciale, ma in realtà si serve dello Stato per rinforzare con i suoi apparati vecchi e nuovi, magistratura e polizia ma anche televisione e social media7, quell’egoismo economico che sempre più pesa sulle masse come una dittatura senza volto. Lo sfondo della democrazia liberale, allora, sempre meno è il senso civico con cui i teorici del liberalismo spiegano il suo radicamento storico, e sempre più invece è il bruto comando statale mascherato però da una ingannevole spontaneità volta a ribadire l’egoismo economico.

  1. Coronavirus

Dunque, il demiurgo etico-politico che nella prospettiva di Lukács doveva essere lo Stato supportato dal Partito, nella superstite realtà sociale capitalistica è lo Stato fattosi mercato. Ma inaspettatamente una forza che non è lo Stato-Partito né lo Stato-mercato è piombata sulla realtà quotidiana provocando un cambiamento di abitudini che nessuno prima avrebbe mai potuto immaginare. È il coronavirus, all’apparenza un’irruzione della natura nell’organismo sociale, in realtà una porzione di natura incorporata nello Stato-mercato che con forza incontrollata si rivolta contro di esso sconvolgendo le abitudini acquisite. Prima della pandemia era considerato normale intraprendere lunghi spostamenti in auto o con i mezzi pubblici per raggiungere ogni giorno il proprio posto di lavoro. Oggi si registrano forti resistenze a tornare a quelle abitudini di cui si è potuto constatare repentinamente l’alienante artificiosità. E così si potrebbe continuare con esempi simili restando sempre nella cornice quotidiana dell’uomo economico. In generale il coronavirus ha realizzato bruscamente quella “decrescita” materiale per cui tanti si battevano invano. Cosa sono infatti quelle cifre che segnalano l’arretramento catastrofico del Prodotto interno lordo rispetto all’ultimo anno prima della pandemia? È vero, la pubblicità come in un incantesimo ha continuato a somministrare i suoi stimoli consumistici, ma interi settori produttivi si sono contratti per milioni di ore di lavoro la cui inutilità è apparsa all’improvviso lampante. Purtroppo il coronavirus è pura negazione che in assenza di una adeguata dialettica dell’abitudine ha prodotto solo rabbia e frustrazione. Ispirato questa volta non dai giuristi e nemmeno dagli economisti bensì dagli scienziati, lo Stato si è limitato alla stretta sanitaria e i filosofi si sono divisi tra chi denunciava i pericoli della “biopolitica” e chi dava manforte alle proteste dell’uomo economico contro ogni pretesa di “pedagogia sociale”. Così le vecchie abitudini hanno potuto riconquistare facilmente il terreno perduto e come in un immenso esperimento sociale è stata solo ribadita la lezione sociologica generale che le abitudini inveterate possono essere cambiate da uno Stato capace di incutere lo stesso terrore assoluto destato dal coronavirus.

  1. Governi

Il cambiamento di cui si avverte sempre più l’esigenza non può però basarsi sul ritorno del Leviatano ma ha bisogno di quelle conoscenze critiche che in passato hanno cercato di sottrarre lo Stato all’automatismo dei suoi meccanismi di potere. “Spezzare lo Stato” è stata la metafora per indicare la presa di coscienza delle sue basi economiche e delle sue strutture ideologiche su cui fondare il passaggio a una “società civile” di tipo nuovo. La grave battuta d’arresto subita da questa impresa difficile ma necessaria ha di fatto consegnato la politica a un surrogato dello Stato, i “governi”, il cui scopo è la compensazione degli interessi fra i differenti comparti di quell’immenso agglomerato produttivo che è il capitalismo. Lo si vede bene nel pseudo-cambiamento della transizione verde per la quale ci si aspetta che i governi svolgano al meglio la loro opera di comitati d’affari: pareggiare per tutti i settori produttivi tramite la stabilizzazione del prezzo del carbonio il plusvalore da sottrarre a profitti e salari da girare alla rendita, favorire la nuova rendita verde a discapito di quella marrone dei carburanti fossili, foraggiare l’industria digitale legata alla nuova rendita verde. Il tutto naturalmente al fine magnificato dalla scienza ambientale del raggiungimento del punto di equilibrio tra le emissioni di gas serra e la capacità della Terra di assorbirle. Ma per conseguire questa mitologica neutralità climatica, quanti parchi eolici, fotovoltaici, marini e geotermici potrà assorbire la Grande Madre Terra senza entrare in conflitto con le attività e le forme di vita esistenti negli spazi richiesti da tali nuove installazioni? E quante nuove rendite si costituiranno? La risposta sembra essere che per i prossimi cinquant’anni di terra ce n’è abbastanza e per il resto l’importante è rompere gli oligopoli esistenti perché le nuove rendite saranno solo innocue integrazioni di reddito. Così, per restare all’UE, governo di tutti i governi, si programma il “Fit for 55” per il 2030 e ci si propone la “carbon neutrality” per il 2050 cui potranno concorrere virtuosi coltivatori di grano che riscuoteranno la rendita delle apparecchiature energetiche installate nelle loro piccole proprietà dove il palo eolico sostituirà il vecchio mulino. E che c’è di male se usando meno energia si può ottenere la stessa quantità di beni e servizi? Un idillio bucolico che solo i “governi” dediti a una gestione economica rivolta al “benessere” del consumatore possono alimentare in cambio del suo consenso.

  1. Dialettica del finito

L’instaurazione di una democrazia non più scissa tra la sfera astratta dei diritti politici e quella materiale degli interessi economici richiederebbe uno Stato non più asservito al desiderio che rincorre all’infinito se stesso, e ciò non per rinverdire il vecchio sogno sconfitto di dominare la produzione, che basterebbe liberare dalla servitù di miliardi di ore di lavoro inutili, ma piuttosto per capovolgere la prassi consumatrice erede dello stadio arcaico in cui l’individuo si realizza nel possesso di ricchezza. Ma per l’uomo economico che rifugge da ogni “pedagogia sociale” un tale Stato è una inammissibile dittatura che contrasta con la “presa diretta” libidica sulla realtà esterna con cui egli riduce al minimo l’Io collettivo portatore di una decrepita morale. È dall’epoca della Rivoluzione francese che De Sade incita i borghesi ad abolire la morale corrente e a emanare poche, miti leggi che si confacciano alle pulsioni fondamentali dell’essere umano. Ma non c’è società più inconseguente di quella capitalistica. Essa apre le porte dell’Inferno ma si arresta sulla soglia lasciando che chi vi si precipita dentro venga istantaneamente giudicato secondo i dettami della vecchia morale. Né è in grado di proporre una morale nuova che non sia quella ipocrita di chi per censo o per status può sottrarsi a tale condanna. Trionfa così la fluidità infinita del comando assoluto sul lavoro cui ambisce il capitale. Così come infatti si aspira all’infinitezza del desiderio andando oltre incessantemente la finitezza delle cose possedute, così pure si polverizza la merce lavoro in un flusso immateriale e infinito in cui il capitale nel riprodursi non possa bagnarsi più di una volta.

  1. Programma costituzionale

L’arresto di questo vizioso divenire richiederebbe uno Stato basato su una morale finalmente capace di colmare gli abissi scavati dall’economia capitalistica nelle fondamenta della società. Ma così come la morale è costretta all’ipocrisia, così pure lo Stato è sdoppiato nella sua eticità. Nei manuali lo Stato liberal-democratico si auto-celebra come una democrazia costituzionale ma nella realtà al suo interno alberga uno Stato occulto anti-popolare. Il capitolo più recente di tale doppiezza è la teoria socio-economica della modernizzazione che tale Stato anti-popolare ha perseguito lungo tutta la seconda metà del Novecento e che aveva come corollario politico la “strategia della tensione” come strumento di stabilizzazione repressiva rispetto a domande di emancipazione dal basso. Tale strategia non ha riguardato solo i punti caldi del confronto Est-Ovest durante la guerra fredda, ma ogni parte del pianeta in cui l’autonomia popolare potesse implicare la messa in discussione degli interessi occidentali8. Un momento di svolta di tale assetto è stato la caduta del Muro di Berlino, quando la teoria della modernizzazione è stata sostituita dalle privatizzazioni. Mentre nella modernizzazione, che pure implicava il mantenimento dei divari sociali, era consentito un certo trasferimento di risorse dall’alto al basso sociale, con le privatizzazioni le classi disagiate sono destinate a essere abbandonate a se stesse e le classi privilegiate si integrano sempre più in una ristretta area mondiale cosmopolitica. Un esempio paradigmatico di ciò si ha nell’area europea, dove si passa dai vari capitalismi di Stato più o meno declinati in chiave clientelare al liberismo dei parametri di Maastricht verso cui i governi convergono dando vita all’Unione Europea. Naturalmente tale passaggio non avviene meccanicamente ma comporta anzi un violento scontro fra le diverse fazioni riunite nello Stato anti-popolare occulto. Restando all’area europea e in particolare all’Italia, si scontrano da un lato l’élite che fonda il suo nuovo potere anticipando i diktat che provengono dal nuovo potere sovra-statuale eurocratico, dall’altro una frazione più numerosa, chiassosa e “provinciale” che intende continuare a praticare il capitalismo clientelare ma non sino al punto da essere emarginata dal nuovo gioco euro-atlantico globale. La “trattativa” che in Italia i giudici indagano da anni con i loro scarni strumenti giudiziari non è il rapporto illecito tra lo Stato e l’Anti-Stato ma la lotta tra le diverse fazioni dello Stato anti-popolare occulto da cui emerge il precario ma, a livello planetario, emblematico regime di una videocrazia che, ammantata di “bipolarismo”, aspira a sottrarsi a controlli giudiziari e politici che possano ostacolarne il peculiare “vitalismo”. Di fronte a tale deriva, i virtuosi della Costituzione vigente da un lato rivendicano formalmente il “programma costituzionale” di uno Stato che si fa carico dei divari sociali, dall’altro o per scelta o per debolezza soggiacciono al “vincolo esterno” del comando eurocratico inserendo in Costituzione obblighi come il pareggio di bilancio che eternizza non più il capitalismo bensì la contingenza storica della gestione liberistica del capitalismo.

  1. Conoscenza a posteriori

Populismo e sovranismo sono i tizzoni ardenti dell’esplosione avvenuta nello scontro tra l’élite cosmopolita al comando nelle varie diramazioni nazionali di tale Stato anti-popolare e i sogni popolari accesi dai programmi full time dell’egemonia videocratica rinforzata dai tablet e dagli smart phone. Questi movimenti abborracciati, incapaci di imporre l’esigenza confusamente avvertita di un “benessere” non più affidato alle false promesse dell’ascesa economica, in poco tempo sono stati riassorbiti nelle categorie del vecchio ordine e quando, dopo la pandemia, con i piani di spesa e resilienza, le transizioni energetiche e qualche accenno di “spesa pubblica” stava per ripartire il meccanismo di compensazione dei “governi”, improvvisamente è riemersa la frattura profonda che, coinvolgendo il mondo intero, passa in Europa tra lo Stato amorfo del vizioso divenire e lo Stato assoluto della statualità sacralizzata. L’epicentro della scossa è avvenuto in Ucraina dove negli anni scorsi l’inserimento in Costituzione del progetto di aderire alla Nato ha esplicitato la natura di apparato internazionale di Stato di tale organizzazione volta ad assicurare lo “sfondo”, in termini di “sicurezza” e di “valori” militarmente presidiati, dell’attuale gestione liberistica del capitalismo9. Nel discorso del 22 febbraio 2022, base ideologica dell’intervento della Russia in Ucraina, tra le molte cose che Putin imputa a Lenin vi è quella di avere inoculato nella macchina statale sovietica il germe della sua catastrofica dissoluzione riconoscendo il diritto di secessione delle repubbliche che all’inizio degli anni Venti si riunirono nell’URSS10. In realtà, questa rabbiosa accusa è il miglior riconoscimento della giustezza della posizione della dirigenza dell’epoca che con l’autodeterminazione dei popoli, la pace senza condizioni e l’instaurazione di una base economica sganciata dal plusvalore stava delineando il “nuovo mondo” sottratto all’alternativa tra lo Stato del cattivo divenire e quello della statualità assoluta, entrambi saldamente anche se diversamente ancorati nell’alienazione di merce. Alla fine della Seconda guerra mondiale, soprattutto a livello di “entusiasmo delle masse” tale prospettiva era ancora aperta, ma le atomiche sganciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki quando ormai la guerra con il Giappone era vinta furono l’avvertimento che il terreno di sfida non era più quello della risoluzione sociale delle contraddizioni sociali, bensì quello della loro gestione tecnica e di potere su un fondamento inscalfibile di economia capitalistica comunque gestita. Il vero errore storico fu dunque l’accettazione di questo terreno di scontro da parte di una dirigenza che, anche dopo la scomparsa di Stalin, non disdegnò i suoi metodi dispotici di gestione dello Stato. Budapest 1956, Praga 1968, Belgrado 1999, Kiev 2022 si chiariscono allora come gli attacchi e i contrattacchi in cui, venendo meno progressivamente sino a dissolversi la contrapposizione tra comunismo e capitalismo, emerge chiaramente lo scontro tra le due rocce barbariche dell’euro-atlantismo e dell’eurasismo che costituiscono i focolai di un’alienazione totale che solo una “organizzazione estranea”, non più Stato, non più partito, non più governo, può farne risaltare  la contingenza altrimenti non più percepibile. Come questo “salvatore” senza più la vaghezza del mito religioso si concretizzerà storicamente, dipende dalla creatività della specie che la filosofia conoscerà se la scommessa sarà vinta. Allora, essa potrà dileguare.

 

 

  1. Questo testo è la Premessa di un libro di prossima pubblicazione intitolato Tra filosofia e politica. Saggi, recensioni, interventi. []
  2. I. Kant, Per la pace perpetua. Progetto filosofico (1795), trad. it. a cura di N. Merker in Id., Lo Stato di diritto, Roma, Editori Riuniti 1973, p. 102. []
  3. G. Lukács, L’uomo e la democrazia (1968), trad. it. Roma, Lucarini 1987. []
  4. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 92. []
  5. Il Capitale, (1867), trad. it. a cura di A. Macchioro e B. Maffi, Torino, UTET 1974, libro I, sezione I, cap. I, p. 157. []
  6. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 68. []
  7. F. Aqueci, Capitalismo e cognizione sociale, Roma, Tab Edizioni 2021, cap. IV. []
  8. Per una ricostruzione degli effetti di tale missione modernizzatrice su paesi “periferici” dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina, cfr. V. Bevins, Il metodo Giacarta (2020), Torino, Einaudi 2021. []
  9. A che punto è il cammino dell’Ucraina verso la NATO? – discussione pubblica, 8 marzo 2021, https://uacrisis.org/it/punto-del-cammino-ucraina-verso-nato. []
  10. V. Putin, Donbass sovrano, il discorso di Putin alla nazione: cosa vuole davvero lo Zar, 22 Febbraio 2022, https://it.insideover.com/politica/donbass-sovrano-la-traduzione-integrale.html. []