Cultura

Marxismo e transizione

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Nel suo opuscolo L’uomo e la democrazia1, pregevole come tutti i suoi scritti, Lukács, nella foga di mostrare come Stalin non solo manipolasse il marxismo allo scopo di giustificare i suoi metodi di governo ma anche tacitasse il dibattito con le sue minacce poliziesche, si lancia in una critica della concezione della legge del valore, avanzata da Stalin nella sua opera della vecchiaia I problemi economici del socialismo nell’Unione sovietica (1952), che sbocca alla fine in un curioso ribaltamento di posizioni. Nel suo scritto, Stalin, quali che fossero le sue finalità politiche che qui non discuteremo, sostiene l’idea che la legge del valore, ovvero il tempo di lavoro che i fattori produttivi variano incessantemente così determinando il valore di scambio dei prodotti del lavoro, è legata all’esistenza della produzione mercantile, scomparsa la quale, spariranno sia il valore con le sue forme, che la legge del valore. È una veduta che forse in maniera troppo rozza e tranchant traduce il modo più indiretto e sfumato con cui Marx sostiene la stessa idea nel Capitale. Lukács invece sostiene che Stalin incorra qui in una “papera”2 e spiega per più pagine, riferendosi ad un brano finale del primo capitolo del Capitale dedicato al feticismo della merce, che in realtà secondo Marx la legge del valore rimane valida anche nel socialismo, mentre invece Marx in quel brano semplicemente suppone di far funzionare il socialismo come un modo di produzione retto ancora dal tempo di lavoro, allo scopo di spiegare a chi è mentalmente prigioniero delle categorie dell’economia politica borghese come in realtà funzionano produzione e distribuzione in un modo di produzione retto non più dalla spontaneità del mercato ma da un piano sociale fissato consapevolmente dai produttori3. La supposizione non è di poco conto. Se la legge del valore continuasse a essere in vigore anche nel socialismo e ancor più nel comunismo, non si avrebbe quella trasparenza dei rapporti tra gli uomini, tanto nella produzione quanto nella distribuzione, che invece manca nel capitalismo, dove invece la merce è quel feticcio misterioso che Marx descrive lungo tutto il capitolo in questione. È davvero sorprendente che proprio Lukács, che del feticismo e dell’alienazione di merce fu nel 1923 il riscopritore con la sua opera Storia e coscienza di classe, oscuri questo punto sostenendo che nel socialismo e nel comunismo la legge del valore, o tempo di lavoro, si estende e approfondisce perché in tali nuovi assetti sociali sempre più il lavoro diventa il primo bisogno della vita. È evidente infatti che qui vengono fusi due significati distinti di lavoro, ovvero lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana e lavoro come quantità sociale astratta, il primo significato attinente al comunismo, il secondo al capitalismo. Se si ripristina questa distinzione, si vede che la posizione di Stalin, benché meno sofisticata teoricamente, è paradossalmente più libertaria di quella di Lukács, poiché non pretende che una costrizione, la costrizione collettiva ancora vigente nel socialismo in costruzione a contribuire al lavoro come quantità sociale astratta, diventi un’auto-costrizione liberante, per giunta nemmeno operata autonomamente dall’individuo, ma effetto dello sviluppo delle forze produttive. Lukács, invece, con un kantismo implicito, il cui fulcro non è più la persona ma la specie che nei suoi avanzamenti produttivi impone alla persona una paradossale “libera necessità”, arriva a sostenere di fatto una tesi finalistica iperbolica poiché, opponendo la costante diminuzione tendenziale del lavoro socialmente necessario per la riproduzione della vita alla crescita tendenzialmente altrettanto costante del pluslavoro, e rinviando a un nebuloso domani in cui tale pluslavoro «può anche servire allo scopo sociale generale dello sviluppo della personalità»4, finisce per eternizzare uno sviluppo delle forze produttive determinato dalla reificazione di merce qualunque sia il regime di proprietà dei mezzi di produzione. Ora, Lukács è pensatore troppo sagace per essere sospettato di essere incorso lui in una “papera”. È probabile invece che nel momento in cui con il suo opuscolo apriva al ruolo dell’opinione pubblica e del dibattito nel processo di democratizzazione delle allora società socialiste sovietiche, egli volesse consolidare la base economica entro cui tale processo doveva svolgersi, il cui finalismo dal lavoro come quantità sociale astratta al lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana doveva essere stimolato da un rinnovato ruolo guida del partito e dello Stato. Se si pone mente a tutto ciò, si vede che la confutazione all’incontrario di Stalin da parte di Lukács non è affatto un curioso capitolo dell’esegesi marxista di un’epoca ormai tramontata ma riverbera ancora oggi, illuminandolo, sullo stato di cose presenti. Non è forse questo infatti il dilemma della Cina odierna, dove la crescita impetuosa delle forze produttive determina un socialismo dove il pluslavoro è più quantità sociale astratta che strumento di sviluppo onnilaterale dell’essenza umana? E non è un problema della Cina odierna quello di un partito-Stato che si legittima perseguendo la crescita costante del pluslavoro, rinviando però sempre a un indeterminato domani il giorno in cui tale pluslavoro potrà servire allo scopo sociale generale dello sviluppo della personalità?

Nel suo opuscolo, e qui veniamo ai dolori dell’Occidente, Lukács più volte richiamandosi a Lenin fa riferimento all’abitudine quale categoria sociologica generale. Lenin concepiva il comunismo come lo stato di cose morali in cui la morale predicata da millenni viene finalmente a poco a poco per abitudine praticata da tutti. Lukács accetta questa concezione ma al tempo stesso, con il suo tipico modo esegetico di argomentare, sottolinea come Lenin avesse in mente qualcosa di più di una semplice generalità sociologica astratta e pensasse invece a una dialettica dell’abitudine per la quale le istituzioni dello Stato mirassero ad abituare gli uomini a quei comportamenti spontanei ma per tanto tempo rimasti solo puramente verbali. Ora, si chiede Lukács, qual è nella società capitalistica la dialettica dell’abitudine? La dialettica dell’abitudine è quella di consolidare, attraverso istituzioni quali ad esempio il diritto, l’egoismo dell’uomo quotidiano, abituandolo a considerare il prossimo solo come limite dell’esistenza e della prassi proprie. Perché tale egoismo economico venga superato c’è bisogno allora di qualcosa che nella realtà sociale non sorge spontaneamente ma derivi da un rivoluzionamento non solo dell’ideologia ma anche dell’essere e dell’operare materiale della vita quotidiana5. Lungo tutto il suo scritto, Lukács individua due forze capaci di operare una tale trasformazione. La prima l’abbiamo già vista ed è l’azione sistematica dello Stato e di tutte le sue istituzioni per formare negli uomini delle nuove abitudini morali. Ciò vale però nei periodi storici di “pausa”. Ci sono invece periodi di movimento in cui tale forza è costituita dall’entusiasmo rivoluzionario delle masse che fa sì che le questioni della vita quotidiana si colleghino organicamente con le grandi prospettive politiche. Già quando Lukács abbozzava questa dialettica dell’abitudine egli stesso però denunciava l’apatia e l’indifferenza delle masse rispetto alla fase rivoluzionaria del primo ventennio del secolo XX e con uno sforzo volontaristico egli allora tornava ad affidarsi al ruolo dello Stato. Nel tempo intercorso dal suo scritto a oggi, non solo tale indifferenza, all’Est come all’Ovest, si è approfondita ma lo Stato, quello borghese rimasto in piedi, è fortemente deperito e le abitudini sono dettate sempre più dai condizionamenti del mercato. Ma è inutile prodursi in geremiadi contro tale stato di cose. Piuttosto va osservato come una forza che non è lo Stato né l’afflato rivoluzionario, ovvero il coronavirus, abbia prodotto un cambiamento di abitudini che nessuno prima poteva mai immaginare. Prima della pandemia era considerato naturale fare lunghi viaggi in auto o con i mezzi pubblici per raggiungere ogni giorno il proprio posto di lavoro. Oggi si registrano forti resistenze a tornare a quelle abitudini di cui si è potuto constatare repentinamente l’alienante artificiosità. E così si potrebbe continuare con esempi simili restando sempre nella cornice quotidiana dell’uomo economicamente egoistico. Ma in generale il coronavirus ha realizzato bruscamente quella “decrescita” materiale e quella “transizione” ideologica che tanti si industriavano a realizzare con dibattiti e provvedimenti normativi. Cosa sono infatti quelle cifre che segnalano l’arretramento catastrofico del Prodotto interno lordo rispetto all’ultimo anno prima della pandemia? È vero, la pubblicità come un disco rotto ha continuato a girare, ma interi settori produttivi si sono contratti per milioni di ore di lavoro la cui inutilità è apparsa all’improvviso lampante. Purtroppo il coronavirus, sia nato a Fort Detrick o a Wuhan, è solo negazione che in questo anno abbondante di pandemia nessuno si è curato di riempire con un piano di vita alternativo. Quando si prospetta una qualche coordinazione, l’uomo egoistico leva subito le sue proteste contro la “pedagogia sociale”, così le vecchie abitudini riconquistano facilmente il terreno perduto, e resta solo la lezione che per indurre i cambiamenti di cui si avverte sempre più l’esigenza c’è bisogno di un potere la cui assolutezza sia pari alla gravità dei problemi da risolvere.

 

  1. G. Lukács, L’uomo e la democrazia (1968), trad. it. Roma, Lucarini 1987 []
  2. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 92 []
  3. K. Marx, Il Capitale (1867), trad. it. a cura di A. Macchioro e B. Maffi, Torino, UTET 1974, libro I, sezione I, cap. I, p. 157 []
  4. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 93 []
  5. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 68 []

Su due recenti ricette per l’avvenire

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Due recenti libri di critica filosofica dalle evidenti ambizioni politiche discutono di come rilanciare il fronte alternativo del lavoro nella lotta di classe attualmente in pugno al capitale.

Il primo1, da una vasta esegesi del pensiero di Gramsci, già oggetto di un precedente lavoro2, fa discendere il compito di tutelare l’interesse dei dominati da uno Stato visto come fortilizio resistenziale contro la competitività sconfinata e come ultimo baluardo del primato della potenza politica sull’economia. A tal fine, lo Stato dovrà nazionalizzare i principali mezzi della produzione, assicurare salari dignitosi e rivitalizzare i sindacati. Tutto ciò sulla base di una teorizzazione rivoluzionaria capace di tradursi gramscianamente in “senso comune”, ovvero in egemonia culturale e politica risultante da una riforma intellettuale e morale delle masse nazionali-popolari. Questa lotta dovrà basarsi sull’accettazione da parte di tali masse delle regole della democrazia parlamentare in connessione sentimentale con un nuovo gruppo intellettuale in grado di far brillare una progettualità centrata sulla deglobalizzazione dell’immaginario, la rieticizzazione della società, la risovranizzazione del mercato planetario, il riorientamento politico non atlantista, la lotta per l’emancipazione degli sfruttati per una società democratica e non classista di individui liberi.

Il secondo libro3, volto a demistificare con categorie filosofiche di matrice hegeliana teorie e pratiche sedicenti democratiche dietro cui si celerebbero le pretese imperialistiche di un Occidente dominato dalla potenza americana, all’opposto del particolarismo statuale propugnato dal libro precedente propone nelle sue conclusioni una piattaforma ideologica che, ispirata a teorici quali Gramsci e Lukács, Said e Fanon, Togliatti e Mao, possa costituire la base di una rinnovata forza interessata a promuovere un universale politicamente concreto alternativo al falso universalismo della globalizzazione. A tal fine, riprendendo distinzioni avanzate a più riprese dal pensiero rivoluzionario cinese tra un Primo, un Secondo e un Terzo mondo, si sottolineano le differenze esistenti tra gli Stati Uniti, superstiti del Primo mondo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e l’Unione Europea esponente di un Secondo mondo oscillante tra le pretese egemoniche del Primo mondo e le politiche di accordo e di cooperazione portate avanti dal Terzo mondo. La rinnovata forza promotrice dell’universale politicamente concreto dovrebbe, allora, nel campo ben circoscritto della questione europea, mettere in atto tre procedure politiche, ovvero la lotta contro l’ideologia “eccezionalistica” del “secolo americano” per isolare l’asse USA-Israele e assegnare maggiore autonomia all’UE anche con uno sganciamento dalla NATO e dalle politiche imperialistiche americane; la lotta per un’estensione dei confini dell’UE dall’Atlantico agli Urali, sulla base di un policentrismo già di marca togliattiana in grado di integrare economie emergenti quali la Russia e la Cina per configurare un’arena internazionale multipolare e maggiormente democratica; una maggiore coordinazione infine tra le forze democratiche e anticapitaliste europee, per una lotta di classe all’interno dell’UE finalizzata a maggiori diritti sociali, dignità del lavoro, pianificazione economica volta allo sviluppo delle forze produttive del continente.

Come si vede, i due programmi, più semplice il primo, più articolato il secondo, accomunati dal rifiuto dell’egemonismo americano e dalla scelta anticapitalistica si dividono, però, circa il raggio d’azione e gli strumenti con cui porre in essere queste opzioni. Nel primo programma, le poderose operazioni di rovesciamento dei rapporti tra capitale e lavoro, dalle nazionalizzazioni alla redistribuzione della ricchezza dal profitto al salario, vengono messe a carico di uno Stato teso a restaurare la sovranità nazionale nel segno dei dominati. La domanda perciò è da dove esso trarrà questa rinnovata potenza leviatanica e con quali strumenti i ceti subalterni dovranno appropriarsi dei suoi apparati di forza e di consenso. L’unica indicazione in tal senso è che essi dovranno muoversi dentro il recinto della rappresentanza parlamentare, sullo sfondo di una riforma intellettuale e morale in grado di assicurare l’egemonia culturale con la quale operare altrettante poderose operazioni sovrastrutturali quali la deglobalizzazione dell’immaginario e la rieticizzazione della società. Ma cosa intendere per “cultura”? Sono le idee già costituite che un ceto intellettuale rivoluzionario infonde nella massa nazionale-popolare per trarla dall’oscurità in cui giace, oppure si tratta di individuare un nuovo principio educativo e le relative istituzioni che lo inverino? Nell’uno come nell’altro caso le questioni che si pongono sono assai complesse. Perché sia tale, una cultura come contenuti storicamente stabiliti impone delle scelte che la stabilizzino rispetto alle infiltrazioni migratorie e al deperimento demografico, altrettanto quanto la cultura come principio educativo la quale, inoltre, rimette in gioco i rapporti con le istituzioni educative esistenti, dalla Chiesa cattolica alla scuola ai vecchi e nuovi media, e richiede una valutazione critica dell’operato delle antiche formazioni politiche dei subalterni per non doverne ripetere gli stessi errori. Purtroppo l’autore che, come già detto, è al suo secondo libro sull’argomento, continua a non dire nulla su tali questioni, sicché il suo programma sembra risolversi in un fraseggiare che dovrebbe imporsi per la forza intrinseca delle sue formule.

Venendo al secondo programma, si individua in esso un economicismo che, ben dissimulato dal ricorso alle categorie dialettiche hegeliane, emerge chiaramente quando, trattando dei rapporti da instaurare con Russia e Cina, si privilegia il loro carattere di “economie emergenti”, come se in questi paesi non esistesse una fioritura sovrastrutturale storicamente determinata che essi stessi rivendicano. Basti pensare all’eurasiatismo che, costituendo un ingrediente ideologico essenziale benché strumentale nella complessiva visione politica di Putin, rimette in gioco il rapporto con la tradizione ortodossa grande-russa quale matrice degli autentici valori cristiani. Altrettanto si può dire del multipolarismo di cui si fa banditrice la Cina contemporanea, la cui base non è certo l’internazionalismo proletario della Cina degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, bensì un’introiezione dello spazio mondiale nell’ideologia interna dell’armonia confuciana quale condizione per prolungare all’esterno lo sviluppo nazionale delle forze produttive. Pensare che tutto ciò possa passare in secondo piano rispetto ad accordi di cooperazione economica e finanziaria significa nutrire la stessa fiducia nell’azione omogeneizzatrice dell’economia degli adepti della globalizzazione che si vuole combattere. C’è poi in questo programma una sorprendente sottovalutazione del capitale finanziario, sicché i contrasti intercapitalistici vengono calcolati in termini di basi militari disseminate in giro per il mondo, guerre intraprese attivamente, conflitti cui ci si accoda. Uno schema che serve ad attenuare le responsabilità dell’UE, raffigurandola come un’entità che nelle sue obbligate oscillazioni tra Primo e Terzo mondo può essere utile per minare l’egemonismo americano. Ma sminuire il fatto pur noto che il capitalismo da tempo sublima nei flussi finanziari il “distruttivismo” della guerra e il “produttivismo” dell’industria, impedisce di evidenziare i divergenti interessi finanziari non solo tra USA e UE ma all’interno della stessa UE, all’origine delle politiche austeritarie che deprimono il salario e perpetuano i dualismi economici. In una tale gabbia, dunque, è impensabile per un paese come l’Italia poter affrontare il divario tra Nord e Sud, questione su cui in questo programma si sorvola del tutto, e in generale l’intento di perseguire in essa tutti quegli avanzamenti del lavoro fissati nel programma appare un miraggio di cui Lenin, che nella bibliografia del libro è citato da tutte le possibili edizioni in italiano, sorriderebbe, lui che già nel 1916, per nulla in soggezione per il fatto che tra i fautori dell’idea di un’Europa unita ci fosse addirittura l’illustre Napoleone, aveva mostrato che in regime capitalistico gli Stati Uniti d’Europa sono impossibili o reazionari. In questo programma, infine, rispetto a quello precedentemente discusso, c’è una particolare insistenza sullo sviluppo delle forze produttive del continente, sorta di adesione alla stessa lettura “sviluppistica” del marxismo adottata in Cina negli ultimi trent’anni. Ma questa lettura, oltre a risultare più arretrata non solo dei fautori della decrescita ma di certe contestazioni riformistiche della dittatura del Prodotto interno lordo, comporta l’assoluta mancanza di attenzione per l’alienazione del lavoro e in generale per i fenomeni dell’alienazione sociale, la vera pietra di inciampo per il marxismo orientale che, se si esclude il caotico tentativo maoista della Rivoluzione culturale, non a caso considerata dalla dirigenza cinese da Deng Xiaoping in poi come la parte erronea dell’eredità di Mao, ha sempre eluso la dimensione ontologico-sociale dell’edificazione socialista invocando un movimento dialettico le cui scansioni però sono determinate da una dirigenza che si legittima spingendo continuamente in avanti lo sviluppo delle forze produttive. Di fronte a questa cattiva circolarità, sarebbe un ben grave arretramento per il già malconcio marxismo occidentale recedere dalle acquisizioni che, dal Marx dei Manoscritti economico-filosofici al Lukács di Storia e coscienza di classe4, lo hanno visto all’avanguardia in questo campo, e soprattutto sarebbe un drammatico offuscamento dell’unica prospettiva che può rilanciare il socialismo in Occidente e quindi nel mondo, ovvero il porre al centro del programma di una rinnovata forza politica anticapitalistica i problemi dell’ontologia sociale critica.

 

 

  1. D. Fusaro, Bentornato Gramsci, Milano, La Nave di Teseo 2021. []
  2. D. Fusaro, Antonio Gramsci. La passione di essere nel mondo, Milano, Feltrinelli 2015. []
  3. E. Alessandroni, Dittature democratiche e democrazie dittatoriali. Problemi storici e filosofici, Roma, Carocci 2021. []
  4. Di Lukács in questi ultimi anni non sono mancate traduzioni e curatele di nuovi testi, ma in modi tali che Solmi, Codino, Cases e tutti gli altri che nel secolo scorso si occuparono di lui onorevolmente si stanno ancora rivoltando furiosamente, vivi o morti che siano. Non resta che sperare in meglio per il futuro. []

Il Montaigne di Montaleone

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Mentre medici e scienziati gettano manciate di oscurità sul virus venuto dall’Oriente, riprendo in mano i molti appunti di lettura del libro su Montaigne di Carlo Montaleone1, dove l’incertezza del sapere medico, ai limiti della cialtroneria, è tema ricorrente. Montaigne, infatti, alle prese con i suoi calcoli renali, per i quali gli venivano prescritti i più fantasiosi rimedi, fu anche il protagonista di una “lotta di liberazione” da un ordine normativo, la medicina del tempo, che era in effetti un’impostura, la cui denuncia era necessaria per dare avvio a quel sommovimento culturale che sarebbe culminato nello sperimentalismo moderno. Oggi, sembra di essere tornati ai tempi dell’impostura, forse perché di quello sperimentalismo moderno si è inaridita la sorgente vitale e non libresca, il corpo in frammenti che Montaigne provocatoriamente opponeva alla norma imputridita. Ma non corriamo. Anzitutto, visto che parliamo di sapere, vediamo chi è il saggio per Montaigne. Per lui, il saggio è chi nel suo foro interno si separa dalla folla, ma nel foro esterno segue interamente i modi e le forme acquisite (p. 101). Siamo agli antipodi, dunque, del contemporaneo Bovillus (1475-1566), per il quale il sapiente, quanto più si concentra in se stesso, tanto più è pubblico, cioè rivolto verso l’esterno2. Non dimentichiamo che la radice della “lotta di liberazione” di Montaigne è corporale. E se la mente relativizza ciò che il corpo presenta come assoluto (p. 53), l’assolutezza del corpo, la sua “chiusura” rispetto al jeu à part della mente (p. 190), per quanto ci si sforzi, è ineliminabile. Questa immanente terrestrità attinge i molteplici temi di Montaigne che Montaleone porta alla luce, l’esistenza nella sua nuda empiricità, il nesso di immagine, corpo e movimento, che suggerisce inferenze su lotta di classe e rivoluzione, l’omologia di costumi, corpo e forme di vita, caratterizzati dalla stessa “chiusura”, la reciprocità come acquisizione strategica che non cancella la contro-voce denigratoria, la ragione moderna, infine, indagata nella sua fase aurorale e polimorfa. Questo è il tema dei temi, poiché tutto il libro di Montaleone ruota attorno ad esso, ed è un viaggio all’indietro, verso l’alba luminosa di un giorno dal cupo tramonto. Sicché, Montaigne non è il Pareto inacidito di quattro secoli appresso. Egli ammette, infatti, che la ragione è una “tintura” data alle nostre tradizioni e ai nostri costumi, la “vernice logica” data ai “residui”, ma constata anche che “l’abitudine ci nasconde il vero aspetto delle cose” (p. 100). Qualcosa di vero, dunque, esiste, che non sia la tetra natura di Pareto. Il vero di Montaigne non è essenzialistico, ma aperto alle metamorfosi “corporali” dovute alla forza dell’immaginazione (p. 171). Ancora una volta, è la vita che con il gioco a parte della mente inscrive i cambiamenti nella materia ineliminabile. Perciò, il cogito di Montaigne non è un dinamismo dialettico ma pendolare, in cui il pensiero, scoperto un limite, non lo “supera”, ma se ne libera subito generando pensieri opposti (p. 153). E alla fine, dunque, la realtà di Montaigne non è liscia e omogenea, ma piena di fratture e scatti, è una realtà morale, se si intende con ciò la possibilità di introdurre nel pulviscolo delle infinite “forme di vita” la discontinuità di dubbi morali (p. 103). Certo, ciò deve avvenire senza escludere il senso della realtà, la cui mancanza spesso si rimprovera ai portatori di dubbi, ma il gioco della mente, se vuole aderire alla vita, se vuole dare veramente voce alla vita, non deve cedere alla somiglianza metaforica, ma deve privilegiare la contiguità della metonimia, poiché è questa figura la più adatta a rendere il patimento dell’individuo che non riesce a scollare cose le une contigue alle altre (p. 132). Il risvolto sociale di questa ontologia screziata è la vertigine di travestimenti confessati e inconfessabili che la persona, cioè la maschera, chiede in prestito alla società sotto forma di ruoli (nella vicenda biografica di Montaigne, l’amico Étienne, l’eiaculatore precoce e dal membro esiguo che fu lo stesso Michel, l’ottimo padre, la madre anaffettiva, ecc.), che si accumulano nell’individuo sociale, e che per Montaigne sono paradossalmente lo stimolo a godere della vita anche nel suo estremo declino (p. 52), e a incontrare uomini e cose come se tutto si svolgesse in un eterno teatro (p. 138). Paradossalmente sino a un certo punto, se si pensa che, quando arriverà il cupo tramonto, la psicanalisi svelerà il copione di questa recita perfetta. E così siamo alla ragione borghese. Che in Montaigne è ancora felice, perché la sua universalità non è stata ancora attirata nei limiti della sua ristrettezza di classe. Con l’usuale tecnica del vedo/non vedo, Montaigne si può così permettere di far emergere il conflitto sociale, ma tramite un falso, ovvero l’osservazione del capo Tupi che, invitato all’evento dell’entrata regale di Carlo IX a Rouen, nota nella folla i segni distintivi della ricchezza e della povertà (uomini smagriti dalla fame, opposti a quelli satolli di ogni sorta di agi), e la passività e l’acquiescenza che caratterizza i primi (non prendono gli altri per la gola e non appiccano il fuoco alle loro case). L’osservazione, nota Montaleone, non può che essere inventata, perché in occasione delle entrate regali, i poveri e i mendicanti venivano spostati al di là delle mura (pp. 74-75). Insomma, Montaigne, tramite la finzione, non solo non si nasconde la lotta di classe, ma ne descrive una vinta, un po’ come oggi, dai ricchi. Ma il comunismo è barbarico e, ennesimo jeu à part della mente linguistica, tocca quindi al capo Tupi enunciarlo. Questo tema della coscienza borghese nell’epoca della sua infanzia felice percorre tutto il libro di Montaleone, se è vero che, verso la fine, egli sente il bisogno di annodarlo a quello più esplicito e dominante del corpo, chiamando in causa Foucault e Gramsci. Per Foucault, egli nota, il corpo è direttamente immerso in un campo politico, mentre per Gramsci il corpo dei lavoratori (produttori) incorpora volontariamente gli automatismi produttivi affinché la mente sia libera di pensare a tutto ciò che “vuole”. Gramsci, dunque, conclude Montaleone, si vedeva dall’esterno di un’oggettività storica che chiedeva all’individuo di rispondere nel modo dovuto a ciò che la storia attendeva da lui, come se non fosse lo stesso Gramsci l’interprete primo di questa attesa (pp. 187-88). Ma, vien da chiedere, questo rispondere non è la protensione dei fenomenologi, di cui Montaleone ha discusso poco prima (p. 180), a proposito del corpo come un viluppo sensibile di protensioni, attraverso le quali decorrono delle attese di qualcosa che non è già saputo, e che non era nemmeno alle viste? E, allora, l’auto-incorporazione dei meccanismi produttivi non è forse il tentativo di superare la cecità del tutto sociale rispetto al suo proprio divenire? Ecco, allora, le inferenze circa la rivoluzione di cui si diceva in apertura. Montaleone pone che, in Montaigne, le immagini sono significanti della coscienza ordinate dalla memoria (p. 72). Ma a cosa servono le immagini? La loro funzione è di articolare lucrezianamente una catena di eventi preordinata dalle leggi di natura (foedera naturae). In altri termini, l’individuo deve realizzare ciò che “può essere”, per non cadere nell’errore di desiderare di essere “quel che invece non può” (p. 82). In chiaro, la rivoluzione deve realizzare ciò che può essere, non ciò che non può essere. In ciò consiste quell’assecondamento del divenire, “istante per istante”, che traduce la necessità in libertà. E le “immagini” altro non sono che l’analisi concreta della situazione concreta, che articola la catena preordinata di eventi, la quale però se adombra linguisticamente il necessario, non è essa a partorirlo, poiché c’è bisogno di qualcosa di più del linguaggio, ovvero il corpo-mente-movimento. La rivoluzione, quindi, non come astratta esecuzione dell’idea da parte del movimento (p. 180), ma come movimento protensivo di quel corpo-mente-movimento che è il tutto sociale. Al giorno d’oggi, è proprio questo nesso che si è dissolto. Da un lato, il corpo stravolto nella letteratura di genere e nell’odierna, rutilante società delle immagini (p. 179); dall’altro, la mente del tutto intellettualizzata; nel mezzo, il movimento accecato, pura coazione a ripetere. Tristi tempi, in cui, si intuisce da un veloce richiamo al Don Chisciotte (p. 60), il mondo circostante è il Grande Inganno, cioè la realtà capitalistica, e la caballeria andante, in quanto critica di tale realtà, è la vera realtà. Ma una cosa è mostrare l’alienazione della realtà capitalistica facendo riferimento ad un passato mitologizzato; altra cosa è fondarla su un’analisi “scientifica” delle sue tendenze attuali e future. Oggi, non è il tempo delle analisi storico-materialistiche, ma prevalgono i miti, le narrazioni, le identità. Di qui, la repulsione per lo scambio dei costumi, e si capisce, perché in sé tale repulsione è un argine tanto al disordine mentale dei singoli, quanto alla disgregazione politica del tutto (p. 89). Ma è anche vero che suolo e sangue flettono sempre verso implicazioni tiranniche (p. 93). E ci vorrebbe, invece, quella logica empirica, ricercata da Montaigne, che rendesse inassimilabili i molti all’uno, a meno di non dichiarare che il Vecchio mondo, ora come allora, avendone i mezzi, deve vincere, una vittoria il cui unico valore è la mera contingenza di poter vincere (p. 99). Ma, dopo l’alba luminosa, non siamo forse al cupo tramonto? Questa arroganza, un tempo felice, non è più consentita. Bisogna prendere atto, allora, della cecità delle rappresentazioni sociali (p. 95), e decentrarsi, ma senza l’illusione aurorale del saggio che si auto-rappresenta come “pubblica creatura”. Qui, il modello è l’amicizia con Étienne. Un codice a due fasi, chiarisce Montaleone, dove il più aggiunto alla figura di Étienne è in realtà solo apparente, fissando invece un meno che sbilancia l’asserita comunistica parità fra i due a favore di uno solo fra i due, l’altro lui, cioè Michel (p. 144). In altri termini, l’amicizia in Montaigne come un comunismo in cui opera una trazione modale che la stabilizza a favore di uno solo fra i due, il quale, analogamente alle “forme di vita” e alle regole locali (p. 103), include/esclude (p. 144). Nessuna fusione perfetta, dunque, perché da essa deriverebbe un’identità che renderebbe gli amanti mutualmente inclassificabili, vittime di uno sconvolgimento ossessivo. L’avere fame reciproca di se stessi, infatti, compromette il sé di ciascuno dei due, quel sé che, per natura, rinasce nel desiderio che non può affrancarsi da se stesso. Nel microcosmo dell’amicizia con Étienne come nel tutto sociale, c’è dunque la presenza di una ineliminabile contro-voce denigratoria, che fa della reciprocità una tribolatissima conquista strategica.

  1. C. Montaleone, Atomi, corpi, amori. Saggio su Montaigne, Milano, Mimesis, 2019. I rimandi vengono indicati direttamente nel testo []
  2. E. Garin, Introduzione a C. Bovillus, Il sapiente, Torino, Einaudi, 1943, p. XIII []

La banana di Cattelan

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Dopo aver mangiato la banana di Cattelan, David Datuna ha dichiarato: «L’arte è intoccabile. Io ho potuto mangiare la banana, o meglio il concetto che quella banana esprimeva, solo perché sono un artista anche io e il mio atto ha lo stesso valore dell’opera che lo ha provocato»1. Sembra una smargiassata, ma è la realtà. L’artista che riesce a farsi riconoscere come tale ha un mandato sociale, e Datuna e Cattelan l’hanno esercitato al meglio, l’uno affiggendo la banana con lo scotch, l’altro mangiandola. Datuna ha però aggiunto: «D’altronde il frutto era destinato a essere sostituito in ogni caso. La mia domanda allora è: che senso ha acquistarlo per rimpiazzarlo continuamente?». Qui è come se Datuna fosse stato preso dalla vertigine della sua funzione di artista, perciò si giustifica (il frutto andava sostituito in ogni caso) e fa emergere la grettezza dell’arte mercificata (le banane da comprare necessarie per mantenere in vita quell’opera d’arte e la sua quotazione). Ma emerge anche un altro aspetto che, al di là del rutilante circo artistico, fa vedere in trasparenza l’opera d’arte contemporanea. Il frutto era destinato a essere sostituito in ogni caso, dice Datuna. Ecco la materialità dell’opera d’arte, la sua sintassi: un frutto deperibile, dello scotch, una parete bianca di una galleria d’arte. E se c’è una sintassi, ci deve essere una semantica e una pragmatica. La semantica della banana di Cattelan è piuttosto usurata da quando un cesso è stato tolto da sotto il culo del comune mortale e esposto come opera d’arte. Questo straniamento pizzica, ma ha stufato. Resta solo la pragmatica, che Datuna con il suo gesto fagico ha portato alle estreme conseguenze, forse ancor più del quadro di Bansky che, appena acquistato, si autodistrugge. Ma così facendo, Datuna volontariamente o meno ha mostrato che l’arte oggi è solo questo, pura pragmatica di una sintassi elementare priva di ogni semantica. C’è il mandato sociale, che si risolve però in un rispecchiamento della società senza alcun surplus di significato, che non sia il lievitare delle quotazioni. Dalla mela di Eva alla banana di Cattelan non c’è più niente da mangiare, che sveli un mondo di possibilità. Solo fare, disfare, comprare.

 

  1. N. Distefano, “La mia fame d’artista”, «Corriere della sera», 9.12.2019, p. 13. []

Prezzi, valore, egemonia. A proposito di una recente distinzione

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Con uno scavo nella struttura formale del concetto di egemonia, recentemente si è proposto di distinguere tra l’egemonia-consenso e l’egemonia-direzione1. L’egemonia-consenso consisterebbe nel potere democratico fondato sulla partecipazione e sulla trasparenza dei meccanismi decisionali; l’egemonia-direzione, nel saper offrire le soluzioni più efficienti e convincenti ai problemi sociali ed economici. Quest’ultima, si tradurrebbe in una “razionalità sostanziale” che starebbe alla base di una tecnocrazia in cui, dopo il declino dei partiti di massa e la crescente irrilevanza dei parlamenti, dominerebbe l’élite degli “esperti”, lontani dalle contraddizioni e dalle istanze della politica e delle “masse”, queste ultime troppo ignoranti per capire sia il proprio interesse che la direzione da far prendere alla società. Contro questa deriva elitaria, si propone allora di rafforzare il potere democratico a tutti i livelli, locale, nazionale e transnazionale, mettendo la rappresentanza al centro delle riforme istituzionali, e potenziando lo Stato di diritto rispetto alle nuove sfide.

La “razionalità sostanziale” che si ritiene alla base dell’odierna tecnocrazia, è già stata analizzata molti anni fa dai teorici della razionalità, che ne hanno trattato sotto la dizione di “razionalità adattiva”2. Al contrario di chi ne denuncia la potenza e la pervasività, i teorici della razionalità sono preoccupati dei suoi limiti, che si propongono di superare con misure ad hoc. Fra queste misure, ci sono l’utilizzazione della razionalità insita nei prezzi di mercato, l’adozione della ricerca operativa, della gestione aziendale e dell’intelligenza artificiale dei computers, l’estensione ad altri ambiti dei procedimenti per contraddittorio tipici dei sistemi giudiziari. Effettivamente, tutto ciò che può configurare un pernicioso “governo dei tecnici”. I teorici della razionalità adattiva ritengono però che mezzi altrettanto efficaci per superare i limiti di tale forma di razionalità siano una conoscenza adeguata dei procedimenti politici e istituzionali propri dello Stato di diritto, nonché l’affermarsi di mass media che non diano spazio alle novità quotidiane e all’effimero, ma agiscano adottando procedimenti come il contraddittorio dei sistemi giudiziari sopra richiamato.

Come si vede, è difficile tagliare l’anguria perfettamente a metà, perché i tecnocrati o, quanto meno, coloro che forniscono una filosofia di sfondo all’egemonia-efficienza, sono preoccupati anch’essi dell’egemonia-consenso, dello Stato di diritto e delle istituzioni democratiche. Come si spiega questa bizzarra confluenza? L’impressione è che la distinzione tra egemonia-consenso e egemonia-efficienza sia una barriera troppo fragile per scalzare il fondamento teorico della razionalità adattiva o sostanziale che dir si voglia. Essa infatti si basa sulla riduzione del fatto economico strutturale a un fattore fra gli altri, tramite l’enucleazione del solo aspetto della razionalità insita nei prezzi di mercato. La sfera produttiva, dove è in ballo la formazione del valore e la sua appropriazione privata, viene così occultata e fatta sparire in una conoscenza sociale che vede nel prezzo l’utile meccanismo per risparmiare informazione (se pago un tot, non ho bisogno di indagare ulteriormente sull’origine della merce acquistata, su chi l’ha prodotta, quando è stata prodotta, secondo quali modalità, ecc.). Il resto, viene da sé, compresa la riduzione della storia ad appendice culturale dell’evoluzione naturale, di cui un tetragono darwinismo possiede la chiave teorica. La distinzione tutta sovrastrutturale tra egemonia-consenso e egemonia-direzione non sembra cogliere il nocciolo di questa costruzione ideologica. Appuntandosi sul solo livello della politica e delle sue istituzioni, non si avvede che i teorici della razionalità adattiva arrivano in anticipo su questo terreno, occultando la struttura in un sovrastruttura dipinta come la prosecuzione di processi naturali, che possono essere saggiamente migliorati facendo affidamento sugli stessi strumenti cognitivi forniti dalla natura (livelli di attenzione, ecc.).

Questi esiti nulli di pur nobili battaglie ideologiche mostrano che nell’analisi egemonica è sempre indispensabile tenere fermo l’elemento della “riforma economica”. A rinforzo polemico della distinzione tra egemonia-consenso e egemonia-direzione, si sostiene che la “teoria critica” avrebbe sbagliato sia a confondere la burocrazia con la tecnocrazia, sia a seguire Weber sulla strada della separazione della razionalità strumentale da quella sostanziale. Qualsiasi cosa ciò voglia dire, non si può non osservare che la “teoria critica” ha affrontato le distinzioni weberiane da molti decenni, almeno dal Lukács di Storia e coscienza di classe3. Ritornando al pericolo della tecnocrazia imperante, esso non sembra consistere tanto nel deperimento dello Stato di diritto, di cui, come abbiamo visto, sono preoccupati da tempo anche i teorici della razionalità adattiva. E, en passant, tale pericolo non sta neppure nel Gestell aborrito dall’idealismo reazionario cripto-nazista di Heidegger4 né, con ben altra dignità, nel compimento della follia dell’Occidente nel quale vagheggia leopardianamente di annegare Severino5. Il pericolo della tecnocrazia è la pietrificazione dell’ideologia proprietaria, che avviene, come abbiamo accennato, naturalizzando la sfera della produzione, cioè sciogliendone la specificità storica, attestata dai modi di produzione, in una speciosa continuità con l’evoluzione naturale. Perciò, nella lunga e confusa transizione verso la nuova egemonia, oggi come non mai bisogna provocatoriamente affermare la necessità di portare dall’esterno la coscienza di tale pietrificazione alla classe, qualsiasi cosa essa sia oggi sociologicamente. Laddove tale esteriorità non è l’opera pedagogica e autoritaria di un qualche soggetto precostituito, ma è l’operazione di presa di coscienza che la classe opera su se stessa. Questo è ciò che si trae da una lettura sine ira et studio del Che fare? di Lenin. Che poi tale operazione non possa esaurirsi in interiore homine, ma debba avere un luogo dove organizzarsi, sia esso un movimento, un partito o un novello Principe, questa è una necessità cui sinora nessuno è riuscito a sottrarsi. E, comunque, fa parte della tattica e della strategia politica inventare eventualmente luoghi nuovi dove accogliere tale presa di coscienza, evitando magari di cadere nelle allucinazioni di partiti digitali et similia6.

 

  1. “Tecnocrazia e democrazia. L’egemonia al tempo della società digitale” di Francesco Antonelli, https://www.letture.org/tecnocrazia-e-democrazia-l-egemonia-al-tempo-della-societa-digitale-francesco-antonelli/ []
  2. H. Simon, La ragione nelle vicende umane, (1983), trad. it. Bologna, Il Mulino, 20192. []
  3. Su questo punto, cfr. F. Aqueci, Semioetica, Roma, Carocci, 2016, p. 85 sgg. []
  4. https://www.duemilaventi.net/heidegger-cabalista-gli-abissi-contemporanei/ []
  5. https://www.duemilaventi.net/la-metafisica-del-capitalismo-emanuele-severino/ []
  6. https://www.duemilaventi.net/le-false-promesse-del-partito-digitale/ []