Cultura

Su due recenti ricette per l’avvenire

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Due recenti libri di critica filosofica dalle evidenti ambizioni politiche discutono di come rilanciare il fronte alternativo del lavoro nella lotta di classe attualmente in pugno al capitale.

Il primo1, da una vasta esegesi del pensiero di Gramsci, già oggetto di un precedente lavoro2, fa discendere il compito di tutelare l’interesse dei dominati da uno Stato visto come fortilizio resistenziale contro la competitività sconfinata e come ultimo baluardo del primato della potenza politica sull’economia. A tal fine, lo Stato dovrà nazionalizzare i principali mezzi della produzione, assicurare salari dignitosi e rivitalizzare i sindacati. Tutto ciò sulla base di una teorizzazione rivoluzionaria capace di tradursi gramscianamente in “senso comune”, ovvero in egemonia culturale e politica risultante da una riforma intellettuale e morale delle masse nazionali-popolari. Questa lotta dovrà basarsi sull’accettazione da parte di tali masse delle regole della democrazia parlamentare in connessione sentimentale con un nuovo gruppo intellettuale in grado di far brillare una progettualità centrata sulla deglobalizzazione dell’immaginario, la rieticizzazione della società, la risovranizzazione del mercato planetario, il riorientamento politico non atlantista, la lotta per l’emancipazione degli sfruttati per una società democratica e non classista di individui liberi.

Il secondo libro3, volto a demistificare con categorie filosofiche di matrice hegeliana teorie e pratiche sedicenti democratiche dietro cui si celerebbero le pretese imperialistiche di un Occidente dominato dalla potenza americana, all’opposto del particolarismo statuale propugnato dal libro precedente propone nelle sue conclusioni una piattaforma ideologica che, ispirata a teorici quali Gramsci e Lukács, Said e Fanon, Togliatti e Mao, possa costituire la base di una rinnovata forza interessata a promuovere un universale politicamente concreto alternativo al falso universalismo della globalizzazione. A tal fine, riprendendo distinzioni avanzate a più riprese dal pensiero rivoluzionario cinese tra un Primo, un Secondo e un Terzo mondo, si sottolineano le differenze esistenti tra gli Stati Uniti, superstiti del Primo mondo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e l’Unione Europea esponente di un Secondo mondo oscillante tra le pretese egemoniche del Primo mondo e le politiche di accordo e di cooperazione portate avanti dal Terzo mondo. La rinnovata forza promotrice dell’universale politicamente concreto dovrebbe, allora, nel campo ben circoscritto della questione europea, mettere in atto tre procedure politiche, ovvero la lotta contro l’ideologia “eccezionalistica” del “secolo americano” per isolare l’asse USA-Israele e assegnare maggiore autonomia all’UE anche con uno sganciamento dalla NATO e dalle politiche imperialistiche americane; la lotta per un’estensione dei confini dell’UE dall’Atlantico agli Urali, sulla base di un policentrismo già di marca togliattiana in grado di integrare economie emergenti quali la Russia e la Cina per configurare un’arena internazionale multipolare e maggiormente democratica; una maggiore coordinazione infine tra le forze democratiche e anticapitaliste europee, per una lotta di classe all’interno dell’UE finalizzata a maggiori diritti sociali, dignità del lavoro, pianificazione economica volta allo sviluppo delle forze produttive del continente.

Come si vede, i due programmi, più semplice il primo, più articolato il secondo, accomunati dal rifiuto dell’egemonismo americano e dalla scelta anticapitalistica si dividono, però, circa il raggio d’azione e gli strumenti con cui porre in essere queste opzioni. Nel primo programma, le poderose operazioni di rovesciamento dei rapporti tra capitale e lavoro, dalle nazionalizzazioni alla redistribuzione della ricchezza dal profitto al salario, vengono messe a carico di uno Stato teso a restaurare la sovranità nazionale nel segno dei dominati. La domanda perciò è da dove esso trarrà questa rinnovata potenza leviatanica e con quali strumenti i ceti subalterni dovranno appropriarsi dei suoi apparati di forza e di consenso. L’unica indicazione in tal senso è che essi dovranno muoversi dentro il recinto della rappresentanza parlamentare, sullo sfondo di una riforma intellettuale e morale in grado di assicurare l’egemonia culturale con la quale operare altrettante poderose operazioni sovrastrutturali quali la deglobalizzazione dell’immaginario e la rieticizzazione della società. Ma cosa intendere per “cultura”? Sono le idee già costituite che un ceto intellettuale rivoluzionario infonde nella massa nazionale-popolare per trarla dall’oscurità in cui giace, oppure si tratta di individuare un nuovo principio educativo e le relative istituzioni che lo inverino? Nell’uno come nell’altro caso le questioni che si pongono sono assai complesse. Perché sia tale, una cultura come contenuti storicamente stabiliti impone delle scelte che la stabilizzino rispetto alle infiltrazioni migratorie e al deperimento demografico, altrettanto quanto la cultura come principio educativo la quale, inoltre, rimette in gioco i rapporti con le istituzioni educative esistenti, dalla Chiesa cattolica alla scuola ai vecchi e nuovi media, e richiede una valutazione critica dell’operato delle antiche formazioni politiche dei subalterni per non doverne ripetere gli stessi errori. Purtroppo l’autore che, come già detto, è al suo secondo libro sull’argomento, continua a non dire nulla su tali questioni, sicché il suo programma sembra risolversi in un fraseggiare che dovrebbe imporsi per la forza intrinseca delle sue formule.

Venendo al secondo programma, si individua in esso un economicismo che, ben dissimulato dal ricorso alle categorie dialettiche hegeliane, emerge chiaramente quando, trattando dei rapporti da instaurare con Russia e Cina, si privilegia il loro carattere di “economie emergenti”, come se in questi paesi non esistesse una fioritura sovrastrutturale storicamente determinata che essi stessi rivendicano. Basti pensare all’eurasiatismo che, costituendo un ingrediente ideologico essenziale benché strumentale nella complessiva visione politica di Putin, rimette in gioco il rapporto con la tradizione ortodossa grande-russa quale matrice degli autentici valori cristiani. Altrettanto si può dire del multipolarismo di cui si fa banditrice la Cina contemporanea, la cui base non è certo l’internazionalismo proletario della Cina degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, bensì un’introiezione dello spazio mondiale nell’ideologia interna dell’armonia confuciana quale condizione per prolungare all’esterno lo sviluppo nazionale delle forze produttive. Pensare che tutto ciò possa passare in secondo piano rispetto ad accordi di cooperazione economica e finanziaria significa nutrire la stessa fiducia nell’azione omogeneizzatrice dell’economia degli adepti della globalizzazione che si vuole combattere. C’è poi in questo programma una sorprendente sottovalutazione del capitale finanziario, sicché i contrasti intercapitalistici vengono calcolati in termini di basi militari disseminate in giro per il mondo, guerre intraprese attivamente, conflitti cui ci si accoda. Uno schema che serve ad attenuare le responsabilità dell’UE, raffigurandola come un’entità che nelle sue obbligate oscillazioni tra Primo e Terzo mondo può essere utile per minare l’egemonismo americano. Ma sminuire il fatto pur noto che il capitalismo da tempo sublima nei flussi finanziari il “distruttivismo” della guerra e il “produttivismo” dell’industria, impedisce di evidenziare i divergenti interessi finanziari non solo tra USA e UE ma all’interno della stessa UE, all’origine delle politiche austeritarie che deprimono il salario e perpetuano i dualismi economici. In una tale gabbia, dunque, è impensabile per un paese come l’Italia poter affrontare il divario tra Nord e Sud, questione su cui in questo programma si sorvola del tutto, e in generale l’intento di perseguire in essa tutti quegli avanzamenti del lavoro fissati nel programma appare un miraggio di cui Lenin, che nella bibliografia del libro è citato da tutte le possibili edizioni in italiano, sorriderebbe, lui che già nel 1916, per nulla in soggezione per il fatto che tra i fautori dell’idea di un’Europa unita ci fosse addirittura l’illustre Napoleone, aveva mostrato che in regime capitalistico gli Stati Uniti d’Europa sono impossibili o reazionari. In questo programma, infine, rispetto a quello precedentemente discusso, c’è una particolare insistenza sullo sviluppo delle forze produttive del continente, sorta di adesione alla stessa lettura “sviluppistica” del marxismo adottata in Cina negli ultimi trent’anni. Ma questa lettura, oltre a risultare più arretrata non solo dei fautori della decrescita ma di certe contestazioni riformistiche della dittatura del Prodotto interno lordo, comporta l’assoluta mancanza di attenzione per l’alienazione del lavoro e in generale per i fenomeni dell’alienazione sociale, la vera pietra di inciampo per il marxismo orientale che, se si esclude il caotico tentativo maoista della Rivoluzione culturale, non a caso considerata dalla dirigenza cinese da Deng Xiaoping in poi come la parte erronea dell’eredità di Mao, ha sempre eluso la dimensione ontologico-sociale dell’edificazione socialista invocando un movimento dialettico le cui scansioni però sono determinate da una dirigenza che si legittima spingendo continuamente in avanti lo sviluppo delle forze produttive. Di fronte a questa cattiva circolarità, sarebbe un ben grave arretramento per il già malconcio marxismo occidentale recedere dalle acquisizioni che, dal Marx dei Manoscritti economico-filosofici al Lukács di Storia e coscienza di classe4, lo hanno visto all’avanguardia in questo campo, e soprattutto sarebbe un drammatico offuscamento dell’unica prospettiva che può rilanciare il socialismo in Occidente e quindi nel mondo, ovvero il porre al centro del programma di una rinnovata forza politica anticapitalistica i problemi dell’ontologia sociale critica.

 

 

  1. D. Fusaro, Bentornato Gramsci, Milano, La Nave di Teseo 2021. []
  2. D. Fusaro, Antonio Gramsci. La passione di essere nel mondo, Milano, Feltrinelli 2015. []
  3. E. Alessandroni, Dittature democratiche e democrazie dittatoriali. Problemi storici e filosofici, Roma, Carocci 2021. []
  4. Di Lukács in questi ultimi anni non sono mancate traduzioni e curatele di nuovi testi, ma in modi tali che Solmi, Codino, Cases e tutti gli altri che nel secolo scorso si occuparono di lui onorevolmente si stanno ancora rivoltando furiosamente, vivi o morti che siano. Non resta che sperare in meglio per il futuro. []

Il Montaigne di Montaleone

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Mentre medici e scienziati gettano manciate di oscurità sul virus venuto dall’Oriente, riprendo in mano i molti appunti di lettura del libro su Montaigne di Carlo Montaleone1, dove l’incertezza del sapere medico, ai limiti della cialtroneria, è tema ricorrente. Montaigne, infatti, alle prese con i suoi calcoli renali, per i quali gli venivano prescritti i più fantasiosi rimedi, fu anche il protagonista di una “lotta di liberazione” da un ordine normativo, la medicina del tempo, che era in effetti un’impostura, la cui denuncia era necessaria per dare avvio a quel sommovimento culturale che sarebbe culminato nello sperimentalismo moderno. Oggi, sembra di essere tornati ai tempi dell’impostura, forse perché di quello sperimentalismo moderno si è inaridita la sorgente vitale e non libresca, il corpo in frammenti che Montaigne provocatoriamente opponeva alla norma imputridita. Ma non corriamo. Anzitutto, visto che parliamo di sapere, vediamo chi è il saggio per Montaigne. Per lui, il saggio è chi nel suo foro interno si separa dalla folla, ma nel foro esterno segue interamente i modi e le forme acquisite (p. 101). Siamo agli antipodi, dunque, del contemporaneo Bovillus (1475-1566), per il quale il sapiente, quanto più si concentra in se stesso, tanto più è pubblico, cioè rivolto verso l’esterno2. Non dimentichiamo che la radice della “lotta di liberazione” di Montaigne è corporale. E se la mente relativizza ciò che il corpo presenta come assoluto (p. 53), l’assolutezza del corpo, la sua “chiusura” rispetto al jeu à part della mente (p. 190), per quanto ci si sforzi, è ineliminabile. Questa immanente terrestrità attinge i molteplici temi di Montaigne che Montaleone porta alla luce, l’esistenza nella sua nuda empiricità, il nesso di immagine, corpo e movimento, che suggerisce inferenze su lotta di classe e rivoluzione, l’omologia di costumi, corpo e forme di vita, caratterizzati dalla stessa “chiusura”, la reciprocità come acquisizione strategica che non cancella la contro-voce denigratoria, la ragione moderna, infine, indagata nella sua fase aurorale e polimorfa. Questo è il tema dei temi, poiché tutto il libro di Montaleone ruota attorno ad esso, ed è un viaggio all’indietro, verso l’alba luminosa di un giorno dal cupo tramonto. Sicché, Montaigne non è il Pareto inacidito di quattro secoli appresso. Egli ammette, infatti, che la ragione è una “tintura” data alle nostre tradizioni e ai nostri costumi, la “vernice logica” data ai “residui”, ma constata anche che “l’abitudine ci nasconde il vero aspetto delle cose” (p. 100). Qualcosa di vero, dunque, esiste, che non sia la tetra natura di Pareto. Il vero di Montaigne non è essenzialistico, ma aperto alle metamorfosi “corporali” dovute alla forza dell’immaginazione (p. 171). Ancora una volta, è la vita che con il gioco a parte della mente inscrive i cambiamenti nella materia ineliminabile. Perciò, il cogito di Montaigne non è un dinamismo dialettico ma pendolare, in cui il pensiero, scoperto un limite, non lo “supera”, ma se ne libera subito generando pensieri opposti (p. 153). E alla fine, dunque, la realtà di Montaigne non è liscia e omogenea, ma piena di fratture e scatti, è una realtà morale, se si intende con ciò la possibilità di introdurre nel pulviscolo delle infinite “forme di vita” la discontinuità di dubbi morali (p. 103). Certo, ciò deve avvenire senza escludere il senso della realtà, la cui mancanza spesso si rimprovera ai portatori di dubbi, ma il gioco della mente, se vuole aderire alla vita, se vuole dare veramente voce alla vita, non deve cedere alla somiglianza metaforica, ma deve privilegiare la contiguità della metonimia, poiché è questa figura la più adatta a rendere il patimento dell’individuo che non riesce a scollare cose le une contigue alle altre (p. 132). Il risvolto sociale di questa ontologia screziata è la vertigine di travestimenti confessati e inconfessabili che la persona, cioè la maschera, chiede in prestito alla società sotto forma di ruoli (nella vicenda biografica di Montaigne, l’amico Étienne, l’eiaculatore precoce e dal membro esiguo che fu lo stesso Michel, l’ottimo padre, la madre anaffettiva, ecc.), che si accumulano nell’individuo sociale, e che per Montaigne sono paradossalmente lo stimolo a godere della vita anche nel suo estremo declino (p. 52), e a incontrare uomini e cose come se tutto si svolgesse in un eterno teatro (p. 138). Paradossalmente sino a un certo punto, se si pensa che, quando arriverà il cupo tramonto, la psicanalisi svelerà il copione di questa recita perfetta. E così siamo alla ragione borghese. Che in Montaigne è ancora felice, perché la sua universalità non è stata ancora attirata nei limiti della sua ristrettezza di classe. Con l’usuale tecnica del vedo/non vedo, Montaigne si può così permettere di far emergere il conflitto sociale, ma tramite un falso, ovvero l’osservazione del capo Tupi che, invitato all’evento dell’entrata regale di Carlo IX a Rouen, nota nella folla i segni distintivi della ricchezza e della povertà (uomini smagriti dalla fame, opposti a quelli satolli di ogni sorta di agi), e la passività e l’acquiescenza che caratterizza i primi (non prendono gli altri per la gola e non appiccano il fuoco alle loro case). L’osservazione, nota Montaleone, non può che essere inventata, perché in occasione delle entrate regali, i poveri e i mendicanti venivano spostati al di là delle mura (pp. 74-75). Insomma, Montaigne, tramite la finzione, non solo non si nasconde la lotta di classe, ma ne descrive una vinta, un po’ come oggi, dai ricchi. Ma il comunismo è barbarico e, ennesimo jeu à part della mente linguistica, tocca quindi al capo Tupi enunciarlo. Questo tema della coscienza borghese nell’epoca della sua infanzia felice percorre tutto il libro di Montaleone, se è vero che, verso la fine, egli sente il bisogno di annodarlo a quello più esplicito e dominante del corpo, chiamando in causa Foucault e Gramsci. Per Foucault, egli nota, il corpo è direttamente immerso in un campo politico, mentre per Gramsci il corpo dei lavoratori (produttori) incorpora volontariamente gli automatismi produttivi affinché la mente sia libera di pensare a tutto ciò che “vuole”. Gramsci, dunque, conclude Montaleone, si vedeva dall’esterno di un’oggettività storica che chiedeva all’individuo di rispondere nel modo dovuto a ciò che la storia attendeva da lui, come se non fosse lo stesso Gramsci l’interprete primo di questa attesa (pp. 187-88). Ma, vien da chiedere, questo rispondere non è la protensione dei fenomenologi, di cui Montaleone ha discusso poco prima (p. 180), a proposito del corpo come un viluppo sensibile di protensioni, attraverso le quali decorrono delle attese di qualcosa che non è già saputo, e che non era nemmeno alle viste? E, allora, l’auto-incorporazione dei meccanismi produttivi non è forse il tentativo di superare la cecità del tutto sociale rispetto al suo proprio divenire? Ecco, allora, le inferenze circa la rivoluzione di cui si diceva in apertura. Montaleone pone che, in Montaigne, le immagini sono significanti della coscienza ordinate dalla memoria (p. 72). Ma a cosa servono le immagini? La loro funzione è di articolare lucrezianamente una catena di eventi preordinata dalle leggi di natura (foedera naturae). In altri termini, l’individuo deve realizzare ciò che “può essere”, per non cadere nell’errore di desiderare di essere “quel che invece non può” (p. 82). In chiaro, la rivoluzione deve realizzare ciò che può essere, non ciò che non può essere. In ciò consiste quell’assecondamento del divenire, “istante per istante”, che traduce la necessità in libertà. E le “immagini” altro non sono che l’analisi concreta della situazione concreta, che articola la catena preordinata di eventi, la quale però se adombra linguisticamente il necessario, non è essa a partorirlo, poiché c’è bisogno di qualcosa di più del linguaggio, ovvero il corpo-mente-movimento. La rivoluzione, quindi, non come astratta esecuzione dell’idea da parte del movimento (p. 180), ma come movimento protensivo di quel corpo-mente-movimento che è il tutto sociale. Al giorno d’oggi, è proprio questo nesso che si è dissolto. Da un lato, il corpo stravolto nella letteratura di genere e nell’odierna, rutilante società delle immagini (p. 179); dall’altro, la mente del tutto intellettualizzata; nel mezzo, il movimento accecato, pura coazione a ripetere. Tristi tempi, in cui, si intuisce da un veloce richiamo al Don Chisciotte (p. 60), il mondo circostante è il Grande Inganno, cioè la realtà capitalistica, e la caballeria andante, in quanto critica di tale realtà, è la vera realtà. Ma una cosa è mostrare l’alienazione della realtà capitalistica facendo riferimento ad un passato mitologizzato; altra cosa è fondarla su un’analisi “scientifica” delle sue tendenze attuali e future. Oggi, non è il tempo delle analisi storico-materialistiche, ma prevalgono i miti, le narrazioni, le identità. Di qui, la repulsione per lo scambio dei costumi, e si capisce, perché in sé tale repulsione è un argine tanto al disordine mentale dei singoli, quanto alla disgregazione politica del tutto (p. 89). Ma è anche vero che suolo e sangue flettono sempre verso implicazioni tiranniche (p. 93). E ci vorrebbe, invece, quella logica empirica, ricercata da Montaigne, che rendesse inassimilabili i molti all’uno, a meno di non dichiarare che il Vecchio mondo, ora come allora, avendone i mezzi, deve vincere, una vittoria il cui unico valore è la mera contingenza di poter vincere (p. 99). Ma, dopo l’alba luminosa, non siamo forse al cupo tramonto? Questa arroganza, un tempo felice, non è più consentita. Bisogna prendere atto, allora, della cecità delle rappresentazioni sociali (p. 95), e decentrarsi, ma senza l’illusione aurorale del saggio che si auto-rappresenta come “pubblica creatura”. Qui, il modello è l’amicizia con Étienne. Un codice a due fasi, chiarisce Montaleone, dove il più aggiunto alla figura di Étienne è in realtà solo apparente, fissando invece un meno che sbilancia l’asserita comunistica parità fra i due a favore di uno solo fra i due, l’altro lui, cioè Michel (p. 144). In altri termini, l’amicizia in Montaigne come un comunismo in cui opera una trazione modale che la stabilizza a favore di uno solo fra i due, il quale, analogamente alle “forme di vita” e alle regole locali (p. 103), include/esclude (p. 144). Nessuna fusione perfetta, dunque, perché da essa deriverebbe un’identità che renderebbe gli amanti mutualmente inclassificabili, vittime di uno sconvolgimento ossessivo. L’avere fame reciproca di se stessi, infatti, compromette il sé di ciascuno dei due, quel sé che, per natura, rinasce nel desiderio che non può affrancarsi da se stesso. Nel microcosmo dell’amicizia con Étienne come nel tutto sociale, c’è dunque la presenza di una ineliminabile contro-voce denigratoria, che fa della reciprocità una tribolatissima conquista strategica.

  1. C. Montaleone, Atomi, corpi, amori. Saggio su Montaigne, Milano, Mimesis, 2019. I rimandi vengono indicati direttamente nel testo []
  2. E. Garin, Introduzione a C. Bovillus, Il sapiente, Torino, Einaudi, 1943, p. XIII []

La banana di Cattelan

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Dopo aver mangiato la banana di Cattelan, David Datuna ha dichiarato: «L’arte è intoccabile. Io ho potuto mangiare la banana, o meglio il concetto che quella banana esprimeva, solo perché sono un artista anche io e il mio atto ha lo stesso valore dell’opera che lo ha provocato»1. Sembra una smargiassata, ma è la realtà. L’artista che riesce a farsi riconoscere come tale ha un mandato sociale, e Datuna e Cattelan l’hanno esercitato al meglio, l’uno affiggendo la banana con lo scotch, l’altro mangiandola. Datuna ha però aggiunto: «D’altronde il frutto era destinato a essere sostituito in ogni caso. La mia domanda allora è: che senso ha acquistarlo per rimpiazzarlo continuamente?». Qui è come se Datuna fosse stato preso dalla vertigine della sua funzione di artista, perciò si giustifica (il frutto andava sostituito in ogni caso) e fa emergere la grettezza dell’arte mercificata (le banane da comprare necessarie per mantenere in vita quell’opera d’arte e la sua quotazione). Ma emerge anche un altro aspetto che, al di là del rutilante circo artistico, fa vedere in trasparenza l’opera d’arte contemporanea. Il frutto era destinato a essere sostituito in ogni caso, dice Datuna. Ecco la materialità dell’opera d’arte, la sua sintassi: un frutto deperibile, dello scotch, una parete bianca di una galleria d’arte. E se c’è una sintassi, ci deve essere una semantica e una pragmatica. La semantica della banana di Cattelan è piuttosto usurata da quando un cesso è stato tolto da sotto il culo del comune mortale e esposto come opera d’arte. Questo straniamento pizzica, ma ha stufato. Resta solo la pragmatica, che Datuna con il suo gesto fagico ha portato alle estreme conseguenze, forse ancor più del quadro di Bansky che, appena acquistato, si autodistrugge. Ma così facendo, Datuna volontariamente o meno ha mostrato che l’arte oggi è solo questo, pura pragmatica di una sintassi elementare priva di ogni semantica. C’è il mandato sociale, che si risolve però in un rispecchiamento della società senza alcun surplus di significato, che non sia il lievitare delle quotazioni. Dalla mela di Eva alla banana di Cattelan non c’è più niente da mangiare, che sveli un mondo di possibilità. Solo fare, disfare, comprare.

 

  1. N. Distefano, “La mia fame d’artista”, «Corriere della sera», 9.12.2019, p. 13. []

Prezzi, valore, egemonia. A proposito di una recente distinzione

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Con uno scavo nella struttura formale del concetto di egemonia, recentemente si è proposto di distinguere tra l’egemonia-consenso e l’egemonia-direzione1. L’egemonia-consenso consisterebbe nel potere democratico fondato sulla partecipazione e sulla trasparenza dei meccanismi decisionali; l’egemonia-direzione, nel saper offrire le soluzioni più efficienti e convincenti ai problemi sociali ed economici. Quest’ultima, si tradurrebbe in una “razionalità sostanziale” che starebbe alla base di una tecnocrazia in cui, dopo il declino dei partiti di massa e la crescente irrilevanza dei parlamenti, dominerebbe l’élite degli “esperti”, lontani dalle contraddizioni e dalle istanze della politica e delle “masse”, queste ultime troppo ignoranti per capire sia il proprio interesse che la direzione da far prendere alla società. Contro questa deriva elitaria, si propone allora di rafforzare il potere democratico a tutti i livelli, locale, nazionale e transnazionale, mettendo la rappresentanza al centro delle riforme istituzionali, e potenziando lo Stato di diritto rispetto alle nuove sfide.

La “razionalità sostanziale” che si ritiene alla base dell’odierna tecnocrazia, è già stata analizzata molti anni fa dai teorici della razionalità, che ne hanno trattato sotto la dizione di “razionalità adattiva”2. Al contrario di chi ne denuncia la potenza e la pervasività, i teorici della razionalità sono preoccupati dei suoi limiti, che si propongono di superare con misure ad hoc. Fra queste misure, ci sono l’utilizzazione della razionalità insita nei prezzi di mercato, l’adozione della ricerca operativa, della gestione aziendale e dell’intelligenza artificiale dei computers, l’estensione ad altri ambiti dei procedimenti per contraddittorio tipici dei sistemi giudiziari. Effettivamente, tutto ciò che può configurare un pernicioso “governo dei tecnici”. I teorici della razionalità adattiva ritengono però che mezzi altrettanto efficaci per superare i limiti di tale forma di razionalità siano una conoscenza adeguata dei procedimenti politici e istituzionali propri dello Stato di diritto, nonché l’affermarsi di mass media che non diano spazio alle novità quotidiane e all’effimero, ma agiscano adottando procedimenti come il contraddittorio dei sistemi giudiziari sopra richiamato.

Come si vede, è difficile tagliare l’anguria perfettamente a metà, perché i tecnocrati o, quanto meno, coloro che forniscono una filosofia di sfondo all’egemonia-efficienza, sono preoccupati anch’essi dell’egemonia-consenso, dello Stato di diritto e delle istituzioni democratiche. Come si spiega questa bizzarra confluenza? L’impressione è che la distinzione tra egemonia-consenso e egemonia-efficienza sia una barriera troppo fragile per scalzare il fondamento teorico della razionalità adattiva o sostanziale che dir si voglia. Essa infatti si basa sulla riduzione del fatto economico strutturale a un fattore fra gli altri, tramite l’enucleazione del solo aspetto della razionalità insita nei prezzi di mercato. La sfera produttiva, dove è in ballo la formazione del valore e la sua appropriazione privata, viene così occultata e fatta sparire in una conoscenza sociale che vede nel prezzo l’utile meccanismo per risparmiare informazione (se pago un tot, non ho bisogno di indagare ulteriormente sull’origine della merce acquistata, su chi l’ha prodotta, quando è stata prodotta, secondo quali modalità, ecc.). Il resto, viene da sé, compresa la riduzione della storia ad appendice culturale dell’evoluzione naturale, di cui un tetragono darwinismo possiede la chiave teorica. La distinzione tutta sovrastrutturale tra egemonia-consenso e egemonia-direzione non sembra cogliere il nocciolo di questa costruzione ideologica. Appuntandosi sul solo livello della politica e delle sue istituzioni, non si avvede che i teorici della razionalità adattiva arrivano in anticipo su questo terreno, occultando la struttura in un sovrastruttura dipinta come la prosecuzione di processi naturali, che possono essere saggiamente migliorati facendo affidamento sugli stessi strumenti cognitivi forniti dalla natura (livelli di attenzione, ecc.).

Questi esiti nulli di pur nobili battaglie ideologiche mostrano che nell’analisi egemonica è sempre indispensabile tenere fermo l’elemento della “riforma economica”. A rinforzo polemico della distinzione tra egemonia-consenso e egemonia-direzione, si sostiene che la “teoria critica” avrebbe sbagliato sia a confondere la burocrazia con la tecnocrazia, sia a seguire Weber sulla strada della separazione della razionalità strumentale da quella sostanziale. Qualsiasi cosa ciò voglia dire, non si può non osservare che la “teoria critica” ha affrontato le distinzioni weberiane da molti decenni, almeno dal Lukács di Storia e coscienza di classe3. Ritornando al pericolo della tecnocrazia imperante, esso non sembra consistere tanto nel deperimento dello Stato di diritto, di cui, come abbiamo visto, sono preoccupati da tempo anche i teorici della razionalità adattiva. E, en passant, tale pericolo non sta neppure nel Gestell aborrito dall’idealismo reazionario cripto-nazista di Heidegger4 né, con ben altra dignità, nel compimento della follia dell’Occidente nel quale vagheggia leopardianamente di annegare Severino5. Il pericolo della tecnocrazia è la pietrificazione dell’ideologia proprietaria, che avviene, come abbiamo accennato, naturalizzando la sfera della produzione, cioè sciogliendone la specificità storica, attestata dai modi di produzione, in una speciosa continuità con l’evoluzione naturale. Perciò, nella lunga e confusa transizione verso la nuova egemonia, oggi come non mai bisogna provocatoriamente affermare la necessità di portare dall’esterno la coscienza di tale pietrificazione alla classe, qualsiasi cosa essa sia oggi sociologicamente. Laddove tale esteriorità non è l’opera pedagogica e autoritaria di un qualche soggetto precostituito, ma è l’operazione di presa di coscienza che la classe opera su se stessa. Questo è ciò che si trae da una lettura sine ira et studio del Che fare? di Lenin. Che poi tale operazione non possa esaurirsi in interiore homine, ma debba avere un luogo dove organizzarsi, sia esso un movimento, un partito o un novello Principe, questa è una necessità cui sinora nessuno è riuscito a sottrarsi. E, comunque, fa parte della tattica e della strategia politica inventare eventualmente luoghi nuovi dove accogliere tale presa di coscienza, evitando magari di cadere nelle allucinazioni di partiti digitali et similia6.

 

  1. “Tecnocrazia e democrazia. L’egemonia al tempo della società digitale” di Francesco Antonelli, https://www.letture.org/tecnocrazia-e-democrazia-l-egemonia-al-tempo-della-societa-digitale-francesco-antonelli/ []
  2. H. Simon, La ragione nelle vicende umane, (1983), trad. it. Bologna, Il Mulino, 20192. []
  3. Su questo punto, cfr. F. Aqueci, Semioetica, Roma, Carocci, 2016, p. 85 sgg. []
  4. https://www.duemilaventi.net/heidegger-cabalista-gli-abissi-contemporanei/ []
  5. https://www.duemilaventi.net/la-metafisica-del-capitalismo-emanuele-severino/ []
  6. https://www.duemilaventi.net/le-false-promesse-del-partito-digitale/ []

Basso impero e lotte ideologiche

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A Roma, nel secondo secolo d.C., il cesarismo, che aveva stabilizzato la crisi della Repubblica, fu attinto da intense convulsioni. Gli imperatori, che spesso alla stravaganza e alla crudeltà univano origini umili o addirittura barbare, si succedevano nel giro di pochi anni, addirittura di pochi giorni, eletti dalla massa dei soldati, in odio al Senato e all’ozioso popolo romano. Il fisco era sempre più oppressivo, perché i donativi con cui gli Augusti si ingraziavano i soldati, imponevano requisizioni sempre più grandi e arbitrarie. Non era solo una lotta di potere, anzi, quest’ultima era il riflesso di una più generale lotta di classe in cui i contadini delle province, coscritti nell’esercito, la più grande fabbrica produttiva del tempo, combattevano contro la sempre più sproporzionata ricchezza dei privati, fossero essi aristocratici o nuovi ricchi. Questi spasmi politici e sociali di una società che galleggiava sull’immenso sottosuolo schiavile, avvenivano però sulla superfice di più lente ma profonde trasformazioni ideologiche. Il placido paganesimo era sempre più infiltrato dai culti misterici, dal misticismo orgiastico, dal furore religioso. Un’attesa di rinascita spirituale, nutrita sia dalla speranza del popolo, che dall’angoscia delle classi alte, segnava quei tempi. Gli imperatori tenevano nelle loro stanze, accanto ad effigi pagane, quella di Gesù Cristo, e venne un tempo in cui le statue degli antichi culti venivano tolte e rimesse nei templi, a seconda dell’andamento della lotta ideologica, finché il Cristianesimo, da questa lunga competizione con le altre religioni rivali, non emerse vittorioso.

Il basso impero romano presenta molte somiglianze con l’epoca contemporanea: volatilità del potere, bizzarria dei governanti, distorsione delle lotte di classe, rapacità del fisco, competizione tra nuove potenze ideologiche, sullo sfondo delle vecchie religioni. Probabilmente ciò è dovuto, più che ad un astratto andamento ciclico della storia, ai tanti fili che connettono la formazione antica greco-romana alla formazione moderna europeo-occidentale, impostasi ormai al mondo intero. Ma non è ciò che qui importa. Ciò che importa, è che il prisma della competizione ideologica permette di scorgere cos’è effettivamente la globalizzazione, e cioè il sistema imperialistico mondiale, al cui vertice sta, in posizione da ultimo assai precaria, l’imperialismo yankee. A lungo, l’ideologia unificatrice di tale sistema è stata quella laicistica dei diritti, ma dalle spinte e controspinte delle altre potenze ideologiche, più di recente sono riemersi i blocchi gerarchici e i conflitti al loro interno per la spartizione del potere e del mercato mondiali. In questi conflitti, ciascuna di quelle potenze ideologiche affina il proprio profilo, che consente di coglierne forza e contraddizioni. Così, ad esempio, confucianismo cinese e sovranismo russo-ortodosso, ovvero eurasismo, attualmente convergono in funzione anti-americana, ma a lungo andare il contrasto tra di essi potrebbe riesplodere, perché la Russia è economicamente molto più debole. Rispetto a tali potenze, il confucianismo, l’islamismo, il sovranismo cristiano-ortodosso, i movimenti neo-evangelizzatori, il nazionalismo induista, ecc., si staglia come cosa a sé il socialismo, in quanto svolgimento interno della moderna ragione laica, che ha fatto le sue prove storiche nelle rivoluzioni del 1789 e del 1917. È una fortuna che il socialismo si sia svincolato dal destino di un singolo stato, come fu nel Novecento con l’Unione Sovietica. Esso può così riprendere il suo slancio corrosivo nella competizione con le altre potenze ideologiche, incapaci di assumere sino in fondo la terrestrità della condizione umana, sempre pronte invece a sublimarla o in una ingannevole realtà celeste, o in una immanenza ciecamente strumentale. Così come nel basso impero romano nessuna predestinazione assegnava la vittoria al cristianesimo nella competizione con le altre religioni, altrettanto nella modernità europeo-occidentale, ormai mondiale, niente garantisce il predominio finale del socialismo. Esso raccoglie e fa intravvedere con i suoi schemi analitici le tendenze delle forze produttive e dei rapporti di produzione, la cui unificazione ideologica sotto le proprie insegne dipende però dall’attiva lotta di chi ad esso si richiama intellettualmente e praticamente. La sua superiorità scientifica è lettera morta se non è vivificata dalla scelta di adattarsi alla realtà nel suo farsi, per assimilarne gli elementi da portare ad un compiuto equilibrio storico.