Cultura

Darwin, Piaget e la nuova intelligenza umana

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Nei suoi lavori di botanica, Darwin evidenzia la presenza di una intelligenza naturale che si manifesta in apparati e comportamenti di varie specie di piante. È un’intelligenza tattilo-percettiva che dà luogo a scelte e che si propone scopi [1].

In filosofia, l’ipotesi di un’intelligenza simile configurerebbe una posizione idealistica. È lo spirito, il pensiero, la mente che si incorpora in apparati biologici più o meno elaborati, in grado di muoversi, percepire, calcolare. Se poi la manifestazione dello spirito segue un percorso finalistico che mette capo in uno Spirito assoluto, allora siamo in presenza di sistemi filosofici come quello di Hegel.

Non è il caso di Darwin, ovviamente, ma l’evidenza di una intelligenza naturale consente di riflettere sul finalismo dell’ontogenesi dell’intelligenza umana, senza entrare in conflitto con il modello evoluzionistico. Il finalismo hegeliano dello Spirito assoluto coglieva mitologicamente il problema. Diverso è il caso dell’ontogenesi studiata da Piaget, poiché si situa sullo stesso terreno osservativo-sperimentale di Darwin.

Jean-Blaise Grize, il geniale logico collaboratore di Piaget, e maestro di chi scrive, aveva avanzato l’ipotesi di una logica naturale, identificandola con l’argomentazione, intesa in senso ampio, per differenziarsi dalla logica formale su cui Piaget voleva “chiudere” il finalismo ontogenetico degli stadi, da quello sensorio-motorio a quello intuitivo a quello ipotetico-deduttivo. Passando dalla logica alla retorica, però, Grize era rimasto invischiato, sebbene attenuandolo, nel logicismo di Piaget.

L’evidenza più vasta dell’intelligenza naturale permette invece di guardare in modo non più logico, ma storico-genetico all’ontogenesi di Piaget. Alla luce dell’intelligenza naturale, infatti, l’ontogenesi appare come il modo di produzione sociale dell’intelligenza umana.

Ricercatori come Michael Tomasello, che si richiama a Piaget però equivocandolo, o anche etologi come Mark Bekoff, che ricerca la morale già presso gli animali, continuano a riportare l’intelligenza umana a moduli e comportamenti presenti in natura, come se tale intelligenza derivasse da un particolare assemblaggio cui casualmente ha arriso il successo.

In realtà, senza quel modo sociale di produzione, prodotto esso stesso dell’evoluzione, l’intelligenza umana non esisterebbe. Questa non è cattiva immanenza. Nel passaggio dall’intelligenza naturale all’intelligenza umana, infatti, c’è un momento formale e un momento reale. Nel momento formale, il cui prodursi deve essere oggetto esso stesso di indagini osservativo-sperimentali, il rapporto sociale assume determinate caratteristiche non più evoluzionistiche ma genetiche, per cui i ruoli naturali di dominanza si staccano dalla forza bruta, diventano ruoli sociali, e cominciano a richiedere un’equilibrazione finale che annulli l’asimmetria di potere iniziale. Con questo momento formale, si è solo generata una cellula germinale, ma il panorama dell’intelligenza naturale non cambia ancora in nulla. È solo con il momento reale che si ha non più una differenza di grado, ma un salto categoriale, poiché la forma nuova di intelligenza assoggetta ai propri scopi tutta la rimanente intelligenza naturale. Si direbbe che qui si innesca l’odierna questione ecologica, la quale però deriva non da quell’assoggettamento originario, ma dal blocco dell’equilibrazione finale. La questione ecologica non è dunque una questione naturale (rapporto uomo-natura), ma storico-genetica (rapporti tra gli uomini in riferimento alla natura).

L’ontogenesi dell’intelligenza umana ha ovviamente una sua storia, poiché è differente il modo di produzione della mente di homo habilis da quella di homo faber da quella di homo sapiens. Prova ne è che l’infanzia è un prodotto storico-genetico assai recente. Ma il punto da sottolineare è che il carattere non più evoluzionistico, ma genetico, di questa ontogenesi consente di porre l’ipotesi che essa non abbia raggiunto la sua equilibrazione finale nella logica formale, così come voleva Piaget nella sua veduta logicistica, poiché la storia potrà richiedere altri avanzamenti nel modo di produzione della mente umana che l’ontogenesi dovrà fissare, riaggiustando il proprio modo di produzione e adeguandolo ai compiti nuovi richiesti dagli ulteriori avanzamenti raggiunti. E anche da questo dipenderà la soluzione dell’odierna questione ecologica.

Molti individuano questo nuovo stadio nell’intelligenza artificiale, nel potenziamento umano, nello sganciamento della mente dal corpo, e nella sua virtualizzazione. Queste ipotesi però soffrono di tecnologismo, poiché identificano gli avanzamenti con la tecnica e i suoi risultati. Mentre, invece, in coerenza con il “salto” storico-genetico, è più probabile che saranno le nuove equilibrazioni degli originari ruoli naturali di dominanza a richiedere una “intelligenza nuova”, cui eventualmente la tecnica potrà offrire strumenti e materiali con cui concretizzarsi, ma il cui raggiungimento non potrà avvenire che tramite i conflitti e le lotte di emancipazione storico-sociali.

 


[1] F. Giaculli, Radici pensanti e orchidee seducenti. Charles Darwin e la botanica, http://lameladinewton-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2019/05/20/radici-pensanti-e-orchidee-seducenti-charles-darwin-e-la-botanica/

Il Gramsci di un nuovo inizio (Quaderno Agon)

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Il file completo del Quaderno 12, supplemento al n. 19, settembre-dicembre 2018, della rivista on line «Agon», che raccoglie un certo numero di miei scritti gramsciani, editi e inediti, può essere scaricato dal seguente link:

 

Il Gramsci di un nuovo inizio (Quaderno Agon)

 

17.III.2019                                                                                                 Francesco Aqueci.

 

Europa o rivoluzione?

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Secondo Alfredo D’Attorre, bisogna cogliere «il nucleo di verità che sta dietro il successo dei cosiddetti “populisti”», riconoscendo che «l’Europa reale costruita da Maastricht in poi si è rivelata distante dall’utopia di Ventotene non meno di quanto il socialismo reale lo sia stato da quello immaginato da Marx»1.

Anche i comunisti iraniani alla fine degli anni Settanta del secolo scorso volevano cogliere il «nucleo di verità» che stava dietro la rivoluzione khomeinista. Furono spazzati via, e nessuno si ricorda più di loro, mentre da quarant’anni il «nucleo di verità» degli ayatollah domina incontrastato l’Iran.

Bisogna stare attenti ai populisti, specie se sovranisti. Interloquire con loro, pensando di ammansirli con un «europeismo costituzionale», come pensa di fare ancora D’Attorre2, può rivelarsi una pericolosa illusione. Nel Manifesto di Chișinău, «Per la costruzione della Grande Europa», elaborato dai partecipanti alla Conferenza Internazionale «Dall’Atlantico al Pacifico: per un destino comune dei popoli eurasiatici», e reso pubblico nella cittadina moldava il 30 giugno 2017, si legge che la Grande Europa per la quale questi intellettuali d’ogni parte del Continente si battono, deve essere «un potere geopolitico sovrano, dotato di un’identità culturale affermata, che coltiva i propri modelli sociali e politici (basati sui principi dell’antica tradizione democratica europea e sui valori morali del cristianesimo), con proprie capacità di difesa (compreso il nucleare) e con propri accessi strategici alle energie fossili e alternative, così come alle risorse minerarie e organiche»3.

Spicca fra questi propositi il richiamo al nucleare militare, con cui corazzare la mite religione cristiana, su cui si basa l’antica tradizione democratica europea. Un bel nazionalismo grande-europeo, dunque, identitario e demotico, come spiega Aleksandr Dugin, ideologo massimo di questa impostazione, ovvero una democrazia in cui il leader trae la sua legittimità, non da procedure elettorali, ma dalla sua capacità di comprendere e interpretare la volontà del popolo, permettendogli di partecipare al suo destino. E se ancora non fosse chiaro, Dugin aggiunge che «le strutture economiche dipendono dalle particolarità storiche, culturali e climatiche». L’economia non deve avere dunque quella centralità che le assegna il materialismo storico4.

Un capo, dunque, e una comunità di destino, con tutte le classi al loro posto, così come le ha fatte la natura, e poi via al confronto multipolare con gli altri Stati-civiltà mondiali, brandendo pacifici missili nucleari a difesa degli accessi strategici alle energie fossili nonché alternative, così come alle risorse minerarie e ovviamente organiche. È con questi soavi monaci, discendenti dell’antica civiltà europea, che D’Attorre, e tutti gli odierni sostenitori del «nucleo di verità» populista e sovranista, intendono interloquire? Ad evitare brutte sorprese, forse sarebbe meglio riprendere la laica lezione di tutti coloro che, sulla scia di Marx, hanno teorizzato e praticato la scienza della lotta di classe, che risuona anche nella tutt’altro che utopica, bensì attualissima, proposta di una “dittatura federale” del Manifesto di Ventotene5. E questa ripresa sarebbe opportuna non certo per un pregiudizio ideologico, ma nella convinzione storicamente suffragata che solo il trascendimento rivoluzionario del nazionalismo grande-europeo, solo il trascendimento delle storiche divisioni di classe, solo il trascendimento del suo storico capitalismo proprietario, può rendere finalmente l’Europa quel continente di pace e di cooperazione che si vorrebbe invece edificare con i richiami a Costituzioni che restano lettera morta se non sono giorno per giorno vivificate da una lotta conseguente ed organizzata.

  1. A. D’Attorre, Sovranità non è una parola maledetta, «Italianieuropei», 3/2018. []
  2. Ibidem. []
  3. https://www.geopolitica.ru/it/article/manifesto-di-chisinau-la-costruzione-della-grande-europa []
  4. F. Aqueci, Tra Dugin e Huntington. Epistemologia dello scontro di civiltà, notizie di POLITEIA, XXXI, 119, 2015, pp. 10-23 []
  5. F. Aqueci, Semioetica, Roma, Carocci, 2017, cap. VIII. []

Un Gramsci lungo quarant’anni

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F. L. P. (30 aprile 2018 06:40): Anche se so che non sarai d’accordo mi fa piacere lo stesso inviarti l’articolo su Gramsci che il 27 aprile l’edizione online del Corriere della Sera ha pubblicato annunciandolo contemporaneamente  nell’edizione cartacea.

F. A. (30 aprile 2018 12:25): In effetti, dissento. Come da quarant’anni a questa parte, continuo a dissentire. Ma devo riconoscere che sei l’unico con cui vale la pena di discutere, nella desolazione della gramsciologia, che in tutti questi anni dal tuo Gramsci del 1979 non è riuscita a confutarti, e ho dovuto provarci io con un articolo che sicuramente non ti ha fatto piacere1. Ma non abbiamo sempre detto che prima di tutto viene l’etica della discussione scientifica? Peccato che hai questa visione così unilaterale del marxismo. Io per un certo periodo me ne sono allontanato, ma leggendo Piaget mi dicevo: “ma queste cose le conosco”. Poi mi sono reso conto che il furbacchione aveva occultamente incorporato Marx nella sua psico-socio-genesi e sedeva sornione nell’azzimato establishment svizzero. Credimi, il totalitarismo è una falsa pista. E capisco che la provocazione è il sale della discussione, ma non c’è bisogno di supporre note segrete per indovinare il tormento di un capo vinto quale fu Gramsci. Credo che il suo tormento dovrebbe invece farci riflettere sul nostro paese, così pronto a rigettare ai margini, incarcerando o santificando, chi ne contesta la sindrome autoritaria.

F. L. P. (1 maggio 2018 10:56): Il dissenso è più importante del consenso. Si impara di più da chi dissente. Se si vuole imparare. Se invece si vuole solo insegnare il consenso è indubbiamente la bussola fondamentale. Detta questa banalità liberal-popperiana (ti ricordi?) e, adesso posso aggiungere, anche gramsciana, poche cose sulla sostanza. Marxismo, comunismo, socialismo, liberalismo, democrazia, capitalismo, fascismo, e tutti i termini del lessico politico sono in grado di significare tutto e il contrario di tutto. Per questo ogni volta che si usano bisogna stare attenti al significato con cui si stanno dicendo. Gramsci è marxista? Formulata così è domanda insensata. Se Gramsci è il punto di partenza di un nuovo marxismo come fa a non essere marxista? Elementare, Watson. Sono giochetti verbali che non aiutano a capire. Allora, d’accordo, i Quaderni sono opera marxista. Anche opera comunista? Ma certo. Contento? Benissimo. Mi puoi adesso spiegare che cosa significava essere comunista negli anni Trenta? Si poteva essere comunisti e non leninisti? Per quello che ne so, un comunista non leninista in quegli anni si definiva e veniva chiamato socialista o qualcosa di simile. A me basta che tu riconosca che se i Quaderni fossero stati pubblicati negli anni Trenta, ossia quando furono scritti, Gramsci sarebbe stato immediatamente espulso dai ranghi del comunismo e, nella patria del comunismo, avrebbe pure fatto una brutta fine. Il dissenso può far parte di un marxismo e/o comunismo critico?  “Comunismo critico” è la formula magica che usa Liguori.  Ma certo, anche se non ho mai capito cosa significhi “comunismo critico” ma nessuno è perfetto e ciascuno di noi ha i propri limiti cognitivi e io limiti ne ho tanti. Perché, ad esempio, non chiamarlo “gentiliano critico”? Con tutti i significati politici che l’aggettivo “gentiliano” ha. Ti assicuro che non sarebbe difficile etichettare il pensiero di Gramsci in questo modo e spiegarlo a partire da Gentile. Cosa ci guadagneremmo? Nulla. Una volta appagate le nostre ansie ideologiche e stabilito che Gramsci (soprattutto quello dei Quaderni) è un comunista critico o un gentiliano critico proviamo a dare un contenuto all’aggettivo “critico”? Ecco a me interessa il vino e non la botte con relativa etichetta.

F. A. (1 maggio 2018 20:52): Non possiamo discutere attardandoci sempre a definire le parole che usiamo. Le usiamo sino a quando funzionano, e questo dovrebbe bastare. Il marxismo di Gramsci è una questione storiografica ma anche attuale. Negli anni Venti e Trenta i comunisti vissero un periodo settario. Elaborare pensieri originali in lingua marxista divenne pericoloso. Gramsci, se non arrestato, avrebbe sicuramente potuto correre dei rischi nel suo campo. Non sappiamo infatti che piega avrebbe preso il suo scontro con Togliatti. Ma, in spregio alle nome vigenti, venne arrestato, la sua vita cambiò, da capo divenne un’icona. Non era ciò che voleva, e questa fu la sua tragedia. I Quaderni e le Lettere (straziante quando alla moglie indirizza lunghe trattazioni politiche) divennero la sua redazione, il suo Comitato Centrale, la sua scuola di partito. Un gigantesco discorso in solitudine attraverso cui però restò sempre miracolosamente attaccato ad una precisa corrente di pensiero. Tanto è vero che, a metà dei Quaranta, fu possibile recepirlo in tale corrente. Non fu una ricezione indolore, anzi fu carica di equivoci, ma bisogna riconoscere che, senza questi equivoci, il marxismo e il comunismo in Italia non avrebbero avuto il seguito che ebbero tra i Cinquanta e i Settanta. Questi equivoci hanno poi portato all’estinzione del marxismo e del comunismo in Italia, dagli Ottanta in poi? Questione aperta che ci porta all’oggi. Cina, Cuba, Vietnam, Corea del Nord, Venezuela con qualche riserva nominale, sono paesi che si dichiarano comunisti e si rifanno al marxismo. Se ci tengono a dichiararsi tali, non possiamo dire che si tratta solo di una sopravvivenza verbale. In Venezuela, addirittura, ma in tutta l’America latina, Gramsci e la sua egemonia sono un punto di riferimento ideologico costante. C’è solo da augurarsi che questo fermento non diventi mai, di nuovo, dottrina di Stato, come c’è il rischio che accada in Cina, dove il marxismo, da intellettuali vicini a chi governa, è elaborato nella sua accezione deterministica. Ma sinché c’è lotta ideologica, c’è speranza. Certo, Gramsci è anche quello dei cultural studies, dei subaltern studies, dei teorici del sistema-mondo, e c’è il Gramsci liberale per il quale ti batti tu. Ma siccome Gramsci resta una estensione originale del marxismo, tutti questi usi di Gramsci, anche in negativo, testimoniano di una permanente irradiazione egemonica di questa corrente di pensiero. Qui, di nuovo, tu mi chiederai cos’è il marxismo. È qualcosa di talmente vivo, che Croce cercò di ammazzarlo, all’inizio del secolo scorso. E, per farlo, si alleò con il montante marginalismo di Böhm-Bawerk, salvo poi trovarsi disarmato nella polemica con Einaudi su liberismo e liberalesimo. Questa lezione dovrebbe bastare. A meno che non la si pensi come tutti quei teorici che, dal nostro Pareto a von Mises, hanno ispirato il detto di Margareth Thatcher: la società non esiste, esiste solo l’individuo. Ma allora bisogna essere conseguenti, e non parlare di individuo, ma di un corpo-organismo che nasce, cresce, si muove nello spazio-tempo in maniera più o meno incongrua rispetto alle sue finalità, e ad un certo punto deperisce, senza avere però alcun diritto di reclamare il conforto finale nemmeno dei propri cari.

F. L. P. (1 maggio 2018 21:09): Bene, mi pare che ci siamo detti civilmente l’essenziale. Una sola piccola annotazione. Non ti pare eccessivo chiamare comunista il regime cinese? Se fosse così, la definizione dei termini credo sia necessaria. Diversamente da quello che pensi. Per coerenza perché non chiamare neocomunista il fascismo?

F. A. (1 maggio 2018 23:20:07): Ma non sono io che definisco comunista la Cina, ma sono loro che ci tengono a definirsi tali. Non mi pare corretto poi assimilare l’attuale regime cinese al fascismo. Il fascismo coartava una “società civile” che si era formata spontaneamente, il comunismo cinese nella versione di Deng stimola la formazione di una “società civile” che in Cina è sempre stata carente. Non mi pare una differenza da poco.

  1. La teoria dell’espressività in Gramsci. A proposito della Gramsci-Wittgenstein connection, «Paradigmi», anno XXXI, nuova serie, 2-2013, maggio-agosto, pp. 151-168. Una precedente versione era già apparsa in «Critica marxista», n. 6, novembre-dicembre 2012, pp. 54-63, tradotta poi in giapponese, «La Città Futura», 2013, organo della Gramsci Tokio Society, http://gramsci-tokyo.com/会報/2013.aspx. []

Sraffa, le carote e la pericolosità dell’economia politica

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Ora che le note manoscritte di Sraffa cominciano a circolare,1 si capisce meglio perché Wittgenstein dicesse che, dopo una discussione con Sraffa, ci si sentiva come un albero spogliato di tutti i suoi rami. Le domande che Sraffa pone e si pone sono infatti spiazzanti, tali da non permettere mai di poterlo ascrivere ad un paradigma (i classici, Marx, i marginalisti). Antidogmatico, antimetafisico, realista, conscio dell’importanza della storia, come luogo in cui la mente sociale prende forma nelle concrete lotte di classe. Il materialismo storico, perciò, non è un a priori ideologico, ma un canone scientifico per spiegare la questione politica di quale «abisso di incomprensione» si sia aperto tra gli economisti classici e i marginalisti, tra l’economia politica e la scienza economica. Una incomprensione, appunto, non ristrettamente intellettuale, accademica, ma attinente alla mente sociale, che è tale se incorpora le divisioni di classe (mind class).

E, dunque, il valore come questione cruciale di questa incomprensione storico-sociale. Il valore proviene dal lavoro? «È una concezione puramente mistica quella che attribuisce al lavoro umano il dono speciale di determinare il valore». In effetti, si chiede Sraffa, che differenza fa per il capitalista, che è il vero soggetto di valutazione e scambio, pagare un salario o servirsi di uno schiavo? Lo stesso potremmo dire del valore linguistico. Che differenza fa se un enunciato è prodotto da un apparato fonatorio umano o da un sintetizzatore vocale? Ecco i materialisti duri e puri pronti a strapparsi le vesti: come, le forme storiche del comando sul lavoro, e la pienezza della “voce”, tutto ciò non ha forse importanza? Ma schiavo, salariato o macchina, una volta che il capitalista-imprenditore “enuncia” i fattori della produzione, il valore non è forse comunque prodotto? Dunque, radicale posizione antimetafisica, a costo di prosciugare l’oggetto, sin quasi a disseccarlo. Ma è il prezzo da pagare se si vuole vedere in fondo al pozzo del valore, in cui galleggiano… le carote. Con quel understatement che è del personaggio, e che Cambridge ha potuto solo affinare, Sraffa si chiede, infatti, se le carote sono necessarie se vogliamo che un asino funzioni. Solo che ci sono due tipi di carote: quelle che dobbiamo avergli dato prima per consentirgli di lavorare (altrimenti sarebbe morto), e quelle che devi mostrargli e promettergli per indurlo a lavorare. Il primo genere di carote cade sotto la categoria delle cause efficienti. Il secondo, sotto quella delle cause finali. Categorie quante altre mai differenti. La carota retta dal regime delle cause efficienti, infatti, è un numero definito o un peso di carote vere, determinato da condizioni fisiologiche, e dal momento che l’asino le ha effettivamente consumate, è stato possibile pesarle e sapere esattamente fino all’oncia la loro quantità: nessun trucco, nessun inganno. Le carote rette dal regime delle cause finali non hanno nemmeno bisogno di essere vere carote, perché si potrebbe trattare di un purè di carote di carta, strofinate contro carote vere per assorbirne l’odore, che semplicemente mostriamo al povero asino, al quale potremmo anche mostrare un bastone travestito da carota, o potremmo addirittura dargli alla fine della sua giornata lavorativa quel bel puré di carote di carta. Certo, l’indomani l’asino non funzionerebbe al meglio, e inoltre ai suoi occhi avremmo perso qualsiasi credibilità. Perciò, dato all’asino quel che è dell’asino, che cosa si vuole dimostrare con questa storia delle carote? Una cosa semplice ma fondamentale, e cioè che mentre l’economia classica si occupava di cause efficienti e di carote vere, la scienza economica pattina sulle cause finali e le carote immaginarie. L’economia classica si occupava di “cose materiali” esistite nel passato, mentre l’economia moderna si occupa di speranze per il futuro, come utilità, astinenza, disutilità, insomma, illusioni. L’economia politica era una scienza delle cose, la scienza economica è una scienza delle illusioni. Da ciò consegue che nei classici il valore è la quantità di lavoro incorporato nelle merci, e che nei moderni il valore sparisce perché la scienza economica è divenuta scienze delle illusioni del soggetto, che ha preso il posto del sistema. Sraffa, che ha evidentemente un penchant per la cristallina scienza dei classici, qui sembrerebbe aderire ad una concezione “referenzialista” del valore. Ma egli non si fa intrappolare dal suo pur robusto realismo e, continuando a scorticare la questione, non si nasconde che nei classici, compreso Marx, il lavoro che produce valore è un residuo metafisico. Per Sraffa, infatti, lavoro è il nome non della quantità di lavoro incorporato nelle merci, ma dell’intero processo di produzione. Come dobbiamo intendere questa profonda intuizione? Si potrebbe forse tradurre dicendo che il valore non è il nebuloso significato che si riferisce ad una cosa fisica, ma neanche una tale metafisicheria da essere seppellita tout court dal soggettivismo della scienza economica. Né significato di un referente, né astruseria sostanzialistica, il valore, allora, può essere concepito come una proprietà normativa della struttura produttiva. Per analogia, è questo infatti che mostra il valore linguistico, il quale non è né il significato del segno, rinviante ad un referente, né il gioco illusorio del significante, ma è una proprietà normativa del sistema linguistico, descrivibile saussurianamente in termini di identità e differenza2. È Marx stesso, d’altra parte, a suggerire questa soluzione, quando nel Capitale afferma che «la determinazione degli oggetti d’uso come valori è un loro [degli uomini] prodotto sociale non meno del linguaggio». Il che significa che lo scambio economico non è una nomenclatura linguistica (cartellino del prezzo –> bene economico), e che il sistema economico non è una totalità additiva (prezzo + prezzo + n). Esso invece è un sistema di scambi, retto da valori la cui produzione, come evidenziò a suo tempo Claudio Napoleoni, socializza individui privati. Anche qui, dunque, come nel linguaggio, il fatto sociale della collettività presiede al sistema dei valori, la cui unica ragion d’essere è nel consenso generale derivante dalla possibilità che esso continui a generare valori. Senza di essi, infatti, gli oggetti che sorgono continuamente dal sostrato naturale dei bisogni e degli interessi, sono economicamente “indicibili”, cioè non scambiabili. Tali valori, infine, non sono fissati dagli individui, poiché il sistema funziona indipendentemente dal loro controllo e dal loro agire, cioè come cosa ad essi aliena ed estranea. E, riprendendo fiato, si ritrova qui quella che forse a Sraffa, nel suo spietato realismo antimetafisico, dovette sempre sembrare un retaggio non scientifico di Marx, cioè il feticismo della merce e l’alienazione capitalistica. Ma certi eccessi sono benefici, se possono servire a diradare equivoci e a porre domande stimolanti. Sraffa infatti conclude tutto il suo ragionamento chiedendosi cosa sia successo nel frattempo, per cambiare così tanto la mente degli economisti, e indurre i marginalisti a distruggere tutto ciò che i classici avevano fatto fino a quel momento. Solo un cambio di paradigma nell’algido cielo dell’epistemologia? No, fu il socialismo la causa di questa cesura. Infatti, l’economia politica classica, con il suo surplus da dividere secondo scelte dettate dai rapporti di forza, conduce direttamente al socialismo. Perciò, quando dopo la morte di Ricardo furono fatti i primi timidi tentativi di usare socialisticamente la sua teoria del valore, Senior & Mill & Cairnes si strinsero a coorte facendo dei costi un fatto psicologico. E quando Marx mosse il suo potente attacco, e la dilagante Internazionale minacciò la matrice sociale che generava quel determinato sistema di valori, fu necessaria una difesa ancora più drastica: non solo sacrificio, ma utilità, donde il successo dei Jevons, dei Menger, dei Walras e, non si può non aggiungere, dei Pareto. L’economia classica, insomma, stava diventando troppo pericolosa socialmente, e doveva essere demolita. Era una casa in fiamme che minacciava di incendiare la struttura dell’intera società capitalista, termine quanto mai felice per un sistema che funziona strutturalisticamente!

In conclusione, l’economia politica classica, con il suo valore come corrispettivo referenziale di una cosa fisica, il lavoro, era sbagliata perché metafisicamente sostanzialistica. Essa era però politicamente pericolosa, poiché implicava il socialismo. Abbiamo visto però che il valore, almeno in Marx, non è un residuo metafisico, e che Sraffa in qualche modo avverte ciò, nella misura in cui parla di lavoro come nome dell’intero sistema produttivo, autorizzando così una interpretazione strutturalistica, cioè saussuriana, dell’intera questione. Potremmo chiudere, allora, a nostra volta, chiedendoci quali sono le implicazioni politiche di una concezione “semiotica” del valore economico, ovvero quale mind class essa porta alla luce, che possa di nuovo insidiare la struttura dell’intera società capitalistica. La risposta è alquanto ovvia. La concezione “semiotica” del valore economico rianima il fantasma politico del feticismo della merce e dell’alienazione, contro cui tanto ad Oriente quanto ad Occidente muovono le truppe cammellate dell’economicismo globale. E il paradosso è che, al momento, mentre ciò che resta della sinistra è attestato sul fronte morale dei diritti civili, del merito, e dell’onestà, o scambia le lanterne cinesi per le lucciole del socialismo, l’unico che inconsapevolmente, e per tutt’altri fini, getta qualche manciata di sabbia in questo infernale meccanismo ontologico, è quel populista, quel plutocrate, quel demagogo di Donald Trump.

  1. Le note cui faccio riferimento in questo scritto, sono citate nel perspicuo saggio di Saverio M. Fratini, Sraffa on the Degeneration of the Notion of Cost, Centro Sraffa Working papers on line, agosto 2016, e possono essere consultate in originale al seguente link: https://www.trin.cam.ac.uk/Piero_Sraffa []
  2. Per una esposizione analitica di questa interpretazione, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, L’arbitrarietà della merce, «Il pensiero economico italiano», a. XVII, n. 2, 2009, pp. 129-158. []