Cultura

Europa o rivoluzione?

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Secondo Alfredo D’Attorre, bisogna cogliere «il nucleo di verità che sta dietro il successo dei cosiddetti “populisti”», riconoscendo che «l’Europa reale costruita da Maastricht in poi si è rivelata distante dall’utopia di Ventotene non meno di quanto il socialismo reale lo sia stato da quello immaginato da Marx»1.

Anche i comunisti iraniani alla fine degli anni Settanta del secolo scorso volevano cogliere il «nucleo di verità» che stava dietro la rivoluzione khomeinista. Furono spazzati via, e nessuno si ricorda più di loro, mentre da quarant’anni il «nucleo di verità» degli ayatollah domina incontrastato l’Iran.

Bisogna stare attenti ai populisti, specie se sovranisti. Interloquire con loro, pensando di ammansirli con un «europeismo costituzionale», come pensa di fare ancora D’Attorre2, può rivelarsi una pericolosa illusione. Nel Manifesto di Chișinău, «Per la costruzione della Grande Europa», elaborato dai partecipanti alla Conferenza Internazionale «Dall’Atlantico al Pacifico: per un destino comune dei popoli eurasiatici», e reso pubblico nella cittadina moldava il 30 giugno 2017, si legge che la Grande Europa per la quale questi intellettuali d’ogni parte del Continente si battono, deve essere «un potere geopolitico sovrano, dotato di un’identità culturale affermata, che coltiva i propri modelli sociali e politici (basati sui principi dell’antica tradizione democratica europea e sui valori morali del cristianesimo), con proprie capacità di difesa (compreso il nucleare) e con propri accessi strategici alle energie fossili e alternative, così come alle risorse minerarie e organiche»3.

Spicca fra questi propositi il richiamo al nucleare militare, con cui corazzare la mite religione cristiana, su cui si basa l’antica tradizione democratica europea. Un bel nazionalismo grande-europeo, dunque, identitario e demotico, come spiega Aleksandr Dugin, ideologo massimo di questa impostazione, ovvero una democrazia in cui il leader trae la sua legittimità, non da procedure elettorali, ma dalla sua capacità di comprendere e interpretare la volontà del popolo, permettendogli di partecipare al suo destino. E se ancora non fosse chiaro, Dugin aggiunge che «le strutture economiche dipendono dalle particolarità storiche, culturali e climatiche». L’economia non deve avere dunque quella centralità che le assegna il materialismo storico4.

Un capo, dunque, e una comunità di destino, con tutte le classi al loro posto, così come le ha fatte la natura, e poi via al confronto multipolare con gli altri Stati-civiltà mondiali, brandendo pacifici missili nucleari a difesa degli accessi strategici alle energie fossili nonché alternative, così come alle risorse minerarie e ovviamente organiche. È con questi soavi monaci, discendenti dell’antica civiltà europea, che D’Attorre, e tutti gli odierni sostenitori del «nucleo di verità» populista e sovranista, intendono interloquire? Ad evitare brutte sorprese, forse sarebbe meglio riprendere la laica lezione di tutti coloro che, sulla scia di Marx, hanno teorizzato e praticato la scienza della lotta di classe, che risuona anche nella tutt’altro che utopica, bensì attualissima, proposta di una “dittatura federale” del Manifesto di Ventotene5. E questa ripresa sarebbe opportuna non certo per un pregiudizio ideologico, ma nella convinzione storicamente suffragata che solo il trascendimento rivoluzionario del nazionalismo grande-europeo, solo il trascendimento delle storiche divisioni di classe, solo il trascendimento del suo storico capitalismo proprietario, può rendere finalmente l’Europa quel continente di pace e di cooperazione che si vorrebbe invece edificare con i richiami a Costituzioni che restano lettera morta se non sono giorno per giorno vivificate da una lotta conseguente ed organizzata.

  1. A. D’Attorre, Sovranità non è una parola maledetta, «Italianieuropei», 3/2018. []
  2. Ibidem. []
  3. https://www.geopolitica.ru/it/article/manifesto-di-chisinau-la-costruzione-della-grande-europa []
  4. F. Aqueci, Tra Dugin e Huntington. Epistemologia dello scontro di civiltà, notizie di POLITEIA, XXXI, 119, 2015, pp. 10-23 []
  5. F. Aqueci, Semioetica, Roma, Carocci, 2017, cap. VIII. []

Un Gramsci lungo quarant’anni

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F. L. P. (30 aprile 2018 06:40): Anche se so che non sarai d’accordo mi fa piacere lo stesso inviarti l’articolo su Gramsci che il 27 aprile l’edizione online del Corriere della Sera ha pubblicato annunciandolo contemporaneamente  nell’edizione cartacea.

F. A. (30 aprile 2018 12:25): In effetti, dissento. Come da quarant’anni a questa parte, continuo a dissentire. Ma devo riconoscere che sei l’unico con cui vale la pena di discutere, nella desolazione della gramsciologia, che in tutti questi anni dal tuo Gramsci del 1979 non è riuscita a confutarti, e ho dovuto provarci io con un articolo che sicuramente non ti ha fatto piacere1. Ma non abbiamo sempre detto che prima di tutto viene l’etica della discussione scientifica? Peccato che hai questa visione così unilaterale del marxismo. Io per un certo periodo me ne sono allontanato, ma leggendo Piaget mi dicevo: “ma queste cose le conosco”. Poi mi sono reso conto che il furbacchione aveva occultamente incorporato Marx nella sua psico-socio-genesi e sedeva sornione nell’azzimato establishment svizzero. Credimi, il totalitarismo è una falsa pista. E capisco che la provocazione è il sale della discussione, ma non c’è bisogno di supporre note segrete per indovinare il tormento di un capo vinto quale fu Gramsci. Credo che il suo tormento dovrebbe invece farci riflettere sul nostro paese, così pronto a rigettare ai margini, incarcerando o santificando, chi ne contesta la sindrome autoritaria.

F. L. P. (1 maggio 2018 10:56): Il dissenso è più importante del consenso. Si impara di più da chi dissente. Se si vuole imparare. Se invece si vuole solo insegnare il consenso è indubbiamente la bussola fondamentale. Detta questa banalità liberal-popperiana (ti ricordi?) e, adesso posso aggiungere, anche gramsciana, poche cose sulla sostanza. Marxismo, comunismo, socialismo, liberalismo, democrazia, capitalismo, fascismo, e tutti i termini del lessico politico sono in grado di significare tutto e il contrario di tutto. Per questo ogni volta che si usano bisogna stare attenti al significato con cui si stanno dicendo. Gramsci è marxista? Formulata così è domanda insensata. Se Gramsci è il punto di partenza di un nuovo marxismo come fa a non essere marxista? Elementare, Watson. Sono giochetti verbali che non aiutano a capire. Allora, d’accordo, i Quaderni sono opera marxista. Anche opera comunista? Ma certo. Contento? Benissimo. Mi puoi adesso spiegare che cosa significava essere comunista negli anni Trenta? Si poteva essere comunisti e non leninisti? Per quello che ne so, un comunista non leninista in quegli anni si definiva e veniva chiamato socialista o qualcosa di simile. A me basta che tu riconosca che se i Quaderni fossero stati pubblicati negli anni Trenta, ossia quando furono scritti, Gramsci sarebbe stato immediatamente espulso dai ranghi del comunismo e, nella patria del comunismo, avrebbe pure fatto una brutta fine. Il dissenso può far parte di un marxismo e/o comunismo critico?  “Comunismo critico” è la formula magica che usa Liguori.  Ma certo, anche se non ho mai capito cosa significhi “comunismo critico” ma nessuno è perfetto e ciascuno di noi ha i propri limiti cognitivi e io limiti ne ho tanti. Perché, ad esempio, non chiamarlo “gentiliano critico”? Con tutti i significati politici che l’aggettivo “gentiliano” ha. Ti assicuro che non sarebbe difficile etichettare il pensiero di Gramsci in questo modo e spiegarlo a partire da Gentile. Cosa ci guadagneremmo? Nulla. Una volta appagate le nostre ansie ideologiche e stabilito che Gramsci (soprattutto quello dei Quaderni) è un comunista critico o un gentiliano critico proviamo a dare un contenuto all’aggettivo “critico”? Ecco a me interessa il vino e non la botte con relativa etichetta.

F. A. (1 maggio 2018 20:52): Non possiamo discutere attardandoci sempre a definire le parole che usiamo. Le usiamo sino a quando funzionano, e questo dovrebbe bastare. Il marxismo di Gramsci è una questione storiografica ma anche attuale. Negli anni Venti e Trenta i comunisti vissero un periodo settario. Elaborare pensieri originali in lingua marxista divenne pericoloso. Gramsci, se non arrestato, avrebbe sicuramente potuto correre dei rischi nel suo campo. Non sappiamo infatti che piega avrebbe preso il suo scontro con Togliatti. Ma, in spregio alle nome vigenti, venne arrestato, la sua vita cambiò, da capo divenne un’icona. Non era ciò che voleva, e questa fu la sua tragedia. I Quaderni e le Lettere (straziante quando alla moglie indirizza lunghe trattazioni politiche) divennero la sua redazione, il suo Comitato Centrale, la sua scuola di partito. Un gigantesco discorso in solitudine attraverso cui però restò sempre miracolosamente attaccato ad una precisa corrente di pensiero. Tanto è vero che, a metà dei Quaranta, fu possibile recepirlo in tale corrente. Non fu una ricezione indolore, anzi fu carica di equivoci, ma bisogna riconoscere che, senza questi equivoci, il marxismo e il comunismo in Italia non avrebbero avuto il seguito che ebbero tra i Cinquanta e i Settanta. Questi equivoci hanno poi portato all’estinzione del marxismo e del comunismo in Italia, dagli Ottanta in poi? Questione aperta che ci porta all’oggi. Cina, Cuba, Vietnam, Corea del Nord, Venezuela con qualche riserva nominale, sono paesi che si dichiarano comunisti e si rifanno al marxismo. Se ci tengono a dichiararsi tali, non possiamo dire che si tratta solo di una sopravvivenza verbale. In Venezuela, addirittura, ma in tutta l’America latina, Gramsci e la sua egemonia sono un punto di riferimento ideologico costante. C’è solo da augurarsi che questo fermento non diventi mai, di nuovo, dottrina di Stato, come c’è il rischio che accada in Cina, dove il marxismo, da intellettuali vicini a chi governa, è elaborato nella sua accezione deterministica. Ma sinché c’è lotta ideologica, c’è speranza. Certo, Gramsci è anche quello dei cultural studies, dei subaltern studies, dei teorici del sistema-mondo, e c’è il Gramsci liberale per il quale ti batti tu. Ma siccome Gramsci resta una estensione originale del marxismo, tutti questi usi di Gramsci, anche in negativo, testimoniano di una permanente irradiazione egemonica di questa corrente di pensiero. Qui, di nuovo, tu mi chiederai cos’è il marxismo. È qualcosa di talmente vivo, che Croce cercò di ammazzarlo, all’inizio del secolo scorso. E, per farlo, si alleò con il montante marginalismo di Böhm-Bawerk, salvo poi trovarsi disarmato nella polemica con Einaudi su liberismo e liberalesimo. Questa lezione dovrebbe bastare. A meno che non la si pensi come tutti quei teorici che, dal nostro Pareto a von Mises, hanno ispirato il detto di Margareth Thatcher: la società non esiste, esiste solo l’individuo. Ma allora bisogna essere conseguenti, e non parlare di individuo, ma di un corpo-organismo che nasce, cresce, si muove nello spazio-tempo in maniera più o meno incongrua rispetto alle sue finalità, e ad un certo punto deperisce, senza avere però alcun diritto di reclamare il conforto finale nemmeno dei propri cari.

F. L. P. (1 maggio 2018 21:09): Bene, mi pare che ci siamo detti civilmente l’essenziale. Una sola piccola annotazione. Non ti pare eccessivo chiamare comunista il regime cinese? Se fosse così, la definizione dei termini credo sia necessaria. Diversamente da quello che pensi. Per coerenza perché non chiamare neocomunista il fascismo?

F. A. (1 maggio 2018 23:20:07): Ma non sono io che definisco comunista la Cina, ma sono loro che ci tengono a definirsi tali. Non mi pare corretto poi assimilare l’attuale regime cinese al fascismo. Il fascismo coartava una “società civile” che si era formata spontaneamente, il comunismo cinese nella versione di Deng stimola la formazione di una “società civile” che in Cina è sempre stata carente. Non mi pare una differenza da poco.

  1. La teoria dell’espressività in Gramsci. A proposito della Gramsci-Wittgenstein connection, «Paradigmi», anno XXXI, nuova serie, 2-2013, maggio-agosto, pp. 151-168. Una precedente versione era già apparsa in «Critica marxista», n. 6, novembre-dicembre 2012, pp. 54-63, tradotta poi in giapponese, «La Città Futura», 2013, organo della Gramsci Tokio Society, http://gramsci-tokyo.com/会報/2013.aspx. []

Sraffa, le carote e la pericolosità dell’economia politica

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Ora che le note manoscritte di Sraffa cominciano a circolare,1 si capisce meglio perché Wittgenstein dicesse che, dopo una discussione con Sraffa, ci si sentiva come un albero spogliato di tutti i suoi rami. Le domande che Sraffa pone e si pone sono infatti spiazzanti, tali da non permettere mai di poterlo ascrivere ad un paradigma (i classici, Marx, i marginalisti). Antidogmatico, antimetafisico, realista, conscio dell’importanza della storia, come luogo in cui la mente sociale prende forma nelle concrete lotte di classe. Il materialismo storico, perciò, non è un a priori ideologico, ma un canone scientifico per spiegare la questione politica di quale «abisso di incomprensione» si sia aperto tra gli economisti classici e i marginalisti, tra l’economia politica e la scienza economica. Una incomprensione, appunto, non ristrettamente intellettuale, accademica, ma attinente alla mente sociale, che è tale se incorpora le divisioni di classe (mind class).

E, dunque, il valore come questione cruciale di questa incomprensione storico-sociale. Il valore proviene dal lavoro? «È una concezione puramente mistica quella che attribuisce al lavoro umano il dono speciale di determinare il valore». In effetti, si chiede Sraffa, che differenza fa per il capitalista, che è il vero soggetto di valutazione e scambio, pagare un salario o servirsi di uno schiavo? Lo stesso potremmo dire del valore linguistico. Che differenza fa se un enunciato è prodotto da un apparato fonatorio umano o da un sintetizzatore vocale? Ecco i materialisti duri e puri pronti a strapparsi le vesti: come, le forme storiche del comando sul lavoro, e la pienezza della “voce”, tutto ciò non ha forse importanza? Ma schiavo, salariato o macchina, una volta che il capitalista-imprenditore “enuncia” i fattori della produzione, il valore non è forse comunque prodotto? Dunque, radicale posizione antimetafisica, a costo di prosciugare l’oggetto, sin quasi a disseccarlo. Ma è il prezzo da pagare se si vuole vedere in fondo al pozzo del valore, in cui galleggiano… le carote. Con quel understatement che è del personaggio, e che Cambridge ha potuto solo affinare, Sraffa si chiede, infatti, se le carote sono necessarie se vogliamo che un asino funzioni. Solo che ci sono due tipi di carote: quelle che dobbiamo avergli dato prima per consentirgli di lavorare (altrimenti sarebbe morto), e quelle che devi mostrargli e promettergli per indurlo a lavorare. Il primo genere di carote cade sotto la categoria delle cause efficienti. Il secondo, sotto quella delle cause finali. Categorie quante altre mai differenti. La carota retta dal regime delle cause efficienti, infatti, è un numero definito o un peso di carote vere, determinato da condizioni fisiologiche, e dal momento che l’asino le ha effettivamente consumate, è stato possibile pesarle e sapere esattamente fino all’oncia la loro quantità: nessun trucco, nessun inganno. Le carote rette dal regime delle cause finali non hanno nemmeno bisogno di essere vere carote, perché si potrebbe trattare di un purè di carote di carta, strofinate contro carote vere per assorbirne l’odore, che semplicemente mostriamo al povero asino, al quale potremmo anche mostrare un bastone travestito da carota, o potremmo addirittura dargli alla fine della sua giornata lavorativa quel bel puré di carote di carta. Certo, l’indomani l’asino non funzionerebbe al meglio, e inoltre ai suoi occhi avremmo perso qualsiasi credibilità. Perciò, dato all’asino quel che è dell’asino, che cosa si vuole dimostrare con questa storia delle carote? Una cosa semplice ma fondamentale, e cioè che mentre l’economia classica si occupava di cause efficienti e di carote vere, la scienza economica pattina sulle cause finali e le carote immaginarie. L’economia classica si occupava di “cose materiali” esistite nel passato, mentre l’economia moderna si occupa di speranze per il futuro, come utilità, astinenza, disutilità, insomma, illusioni. L’economia politica era una scienza delle cose, la scienza economica è una scienza delle illusioni. Da ciò consegue che nei classici il valore è la quantità di lavoro incorporato nelle merci, e che nei moderni il valore sparisce perché la scienza economica è divenuta scienze delle illusioni del soggetto, che ha preso il posto del sistema. Sraffa, che ha evidentemente un penchant per la cristallina scienza dei classici, qui sembrerebbe aderire ad una concezione “referenzialista” del valore. Ma egli non si fa intrappolare dal suo pur robusto realismo e, continuando a scorticare la questione, non si nasconde che nei classici, compreso Marx, il lavoro che produce valore è un residuo metafisico. Per Sraffa, infatti, lavoro è il nome non della quantità di lavoro incorporato nelle merci, ma dell’intero processo di produzione. Come dobbiamo intendere questa profonda intuizione? Si potrebbe forse tradurre dicendo che il valore non è il nebuloso significato che si riferisce ad una cosa fisica, ma neanche una tale metafisicheria da essere seppellita tout court dal soggettivismo della scienza economica. Né significato di un referente, né astruseria sostanzialistica, il valore, allora, può essere concepito come una proprietà normativa della struttura produttiva. Per analogia, è questo infatti che mostra il valore linguistico, il quale non è né il significato del segno, rinviante ad un referente, né il gioco illusorio del significante, ma è una proprietà normativa del sistema linguistico, descrivibile saussurianamente in termini di identità e differenza2. È Marx stesso, d’altra parte, a suggerire questa soluzione, quando nel Capitale afferma che «la determinazione degli oggetti d’uso come valori è un loro [degli uomini] prodotto sociale non meno del linguaggio». Il che significa che lo scambio economico non è una nomenclatura linguistica (cartellino del prezzo –> bene economico), e che il sistema economico non è una totalità additiva (prezzo + prezzo + n). Esso invece è un sistema di scambi, retto da valori la cui produzione, come evidenziò a suo tempo Claudio Napoleoni, socializza individui privati. Anche qui, dunque, come nel linguaggio, il fatto sociale della collettività presiede al sistema dei valori, la cui unica ragion d’essere è nel consenso generale derivante dalla possibilità che esso continui a generare valori. Senza di essi, infatti, gli oggetti che sorgono continuamente dal sostrato naturale dei bisogni e degli interessi, sono economicamente “indicibili”, cioè non scambiabili. Tali valori, infine, non sono fissati dagli individui, poiché il sistema funziona indipendentemente dal loro controllo e dal loro agire, cioè come cosa ad essi aliena ed estranea. E, riprendendo fiato, si ritrova qui quella che forse a Sraffa, nel suo spietato realismo antimetafisico, dovette sempre sembrare un retaggio non scientifico di Marx, cioè il feticismo della merce e l’alienazione capitalistica. Ma certi eccessi sono benefici, se possono servire a diradare equivoci e a porre domande stimolanti. Sraffa infatti conclude tutto il suo ragionamento chiedendosi cosa sia successo nel frattempo, per cambiare così tanto la mente degli economisti, e indurre i marginalisti a distruggere tutto ciò che i classici avevano fatto fino a quel momento. Solo un cambio di paradigma nell’algido cielo dell’epistemologia? No, fu il socialismo la causa di questa cesura. Infatti, l’economia politica classica, con il suo surplus da dividere secondo scelte dettate dai rapporti di forza, conduce direttamente al socialismo. Perciò, quando dopo la morte di Ricardo furono fatti i primi timidi tentativi di usare socialisticamente la sua teoria del valore, Senior & Mill & Cairnes si strinsero a coorte facendo dei costi un fatto psicologico. E quando Marx mosse il suo potente attacco, e la dilagante Internazionale minacciò la matrice sociale che generava quel determinato sistema di valori, fu necessaria una difesa ancora più drastica: non solo sacrificio, ma utilità, donde il successo dei Jevons, dei Menger, dei Walras e, non si può non aggiungere, dei Pareto. L’economia classica, insomma, stava diventando troppo pericolosa socialmente, e doveva essere demolita. Era una casa in fiamme che minacciava di incendiare la struttura dell’intera società capitalista, termine quanto mai felice per un sistema che funziona strutturalisticamente!

In conclusione, l’economia politica classica, con il suo valore come corrispettivo referenziale di una cosa fisica, il lavoro, era sbagliata perché metafisicamente sostanzialistica. Essa era però politicamente pericolosa, poiché implicava il socialismo. Abbiamo visto però che il valore, almeno in Marx, non è un residuo metafisico, e che Sraffa in qualche modo avverte ciò, nella misura in cui parla di lavoro come nome dell’intero sistema produttivo, autorizzando così una interpretazione strutturalistica, cioè saussuriana, dell’intera questione. Potremmo chiudere, allora, a nostra volta, chiedendoci quali sono le implicazioni politiche di una concezione “semiotica” del valore economico, ovvero quale mind class essa porta alla luce, che possa di nuovo insidiare la struttura dell’intera società capitalistica. La risposta è alquanto ovvia. La concezione “semiotica” del valore economico rianima il fantasma politico del feticismo della merce e dell’alienazione, contro cui tanto ad Oriente quanto ad Occidente muovono le truppe cammellate dell’economicismo globale. E il paradosso è che, al momento, mentre ciò che resta della sinistra è attestato sul fronte morale dei diritti civili, del merito, e dell’onestà, o scambia le lanterne cinesi per le lucciole del socialismo, l’unico che inconsapevolmente, e per tutt’altri fini, getta qualche manciata di sabbia in questo infernale meccanismo ontologico, è quel populista, quel plutocrate, quel demagogo di Donald Trump.

  1. Le note cui faccio riferimento in questo scritto, sono citate nel perspicuo saggio di Saverio M. Fratini, Sraffa on the Degeneration of the Notion of Cost, Centro Sraffa Working papers on line, agosto 2016, e possono essere consultate in originale al seguente link: https://www.trin.cam.ac.uk/Piero_Sraffa []
  2. Per una esposizione analitica di questa interpretazione, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, L’arbitrarietà della merce, «Il pensiero economico italiano», a. XVII, n. 2, 2009, pp. 129-158. []

Egemonia, migrazioni, natalità, nuova etica sessuale in Gramsci

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Il principio della condizione borghese ossia della società civile è il godimento, la capacità di fruire.

(Marx)

Occorre insistere sul fatto che nel campo sessuale il fattore ideologico più depravante e «regressivo» è la concezione illuministica e libertaria propria delle classi non legate strettamente al lavoro produttivo, e che da queste classi viene contagiata alle classi lavoratrici.

(Gramsci)

A metà degli anni Trenta del secolo scorso, Antonio Gramsci, osservando le tendenze demografiche e migratorie delle principali nazioni occidentali, particolarmente emblematiche negli Stati Uniti, notava come l’aumento medio della vita, con la scarsa natalità e coi bisogni di far funzionare un ricco e complesso apparato produttivo, poneva problemi nuovi di natura sia sovrastrutturale che strutturale. Infatti, all’interno di una stessa nazione, le generazioni vecchie si ponevano in un rapporto culturale sempre più anormale con le generazioni giovani, e le masse lavoratrici si impinguavano di elementi stranieri immigrati che modificavano la divisione del lavoro: mestieri qualificati per gli indigeni, oltre alle funzioni di direzione e organizzazione; mestieri non qualificati per gli immigrati. Gramsci osservava anche che un rapporto simile, ma con rilevanti conseguenze antieconomiche, si poneva in queste stesse nazioni tra le città industriali a bassa natalità e la campagna prolifica: mentre i caratteri urbani acquisiti si tramandavano per ereditarietà o venivano assorbiti nello sviluppo dell’infanzia e dell’adolescenza, la vita nell’industria domandava un tirocinio generale, un processo di adattamento psico‑fisico a determinate condizioni di lavoro, di nutrizione, di abitazione, di costumi, che non era qualcosa di innato, di naturale, ma richiedeva di essere acquisito. La bassa natalità urbana implicava perciò una incessante e imponente spesa per il tirocinio dei sempre nuovi inurbati e portava con sé «un continuo mutarsi della composizione sociale‑politica della città, ponendo continuamente su nuove basi il problema dell’egemonia»1.

Se veniamo all’oggi, le tendenze descritte da Gramsci appaiono confermate e approfondite. L’Italia, dove pure è vivo il desiderio di avere dei figli, è caratterizzata da uno sbilancio sempre più accentuato tra natalità e flussi migratori, e la regressione demografica ormai trentennale tocca anche la “campagna” interna, cioè il Sud. L’Italia intera, quindi, si meridionalizza, e la questione dell’egemonia non riguarda più solo i rapporti tra Nord e Sud, ma dell’intero paese nei confronti del blocco europeo egemonizzato dalla Germania. Quest’ultima, che pure compensa l’invecchiamento della popolazione creando servizi e sostenendo il suo mercantilismo con un’immigrazione di “qualità”, appare politicamente logorata dallo sforzo di controllare le tendenze xenofobe che l’immigrazione scatena. L’Inghilterra, dopo il lungo periodo multiculturalista, con la cosiddetta Brexit ha cominciato ad alzare le paratie, ventilando la proposta che anche in settori come l’industria e la finanza sia d’obbligo il passaporto inglese. E la Francia, unica a non essere in regresso demografico, per stabilizzare la sua egemonia punta su una rigida ideologia repubblicana, che però non fa presa sui figli degli immigrati che negli anni scorsi l’hanno rimpinguata, alimentando così nei nativi il fosco presagio, cui la letteratura dà voce, di un presidente di fede islamica. Nel complesso, l’Europa appare senza risposta alla cruda domanda che ancora Gramsci poneva, su cosa può succedere alla “città”, se cresce non per la sua stessa forza genetica, ma per immigrazione: «potrà compiere la sua funzione dirigente o non sarà sommersa, con tutte le sue esperienze accumulate, dalla conigliera contadina?»2. La soluzione che Gramsci prospettava per questa sfida egemonica, consisteva in «una nuova etica sessuale piú elevata dell’attuale», che le nuove generazioni avrebbero dovuto elaborare3. Divorzio, aborto, contraccezione, certamente sono state tappe che, nel corso di questi decenni, non solo in Italia, ma in tutto l’Occidente, hanno delineato una nuova etica sessuale, ma c’è da chiedersi se esse hanno risposto più alle esigenze produttive immediate, che non a quelle riproduttive, se per riproduzione si intende non tanto il mito rurale della numerosità, come nel fascismo, ma il problema della funzione dirigente della “città”. L’ultimo atto è, ora, il riconoscimento del matrimonio omosessuale, che sembra segnato dallo stesso equivoco. Infatti, le rivendicazioni LGBT sono portate avanti anche in paesi che un tempo si sarebbero detti del Terzo mondo, come nel Venezuela di Chávez e Maduro. Ma mentre lì la nuova etica sessuale rientra nello sforzo di ridefinire il concetto stesso di “città”, che non sia quello imposto dai rapporti imperialistici e coloniali, in Occidente definisce l’identità di strati sociali cosmopoliti, dalla finanza all’economia digitale all’industria culturale e pubblicitaria alla moda, che costituiscono il nerbo dell’odierno capitalismo, cioè di quel sistema che, ancor più di quanto lo fosse già nell’epoca storica del connubio con la borghesia europea, è divenuto non solo un modo di produzione, ma anche un sistema ideologico e un modo di vita universali4. Qual è, allora, il significato della connessione tra la nuova etica sessuale, giunta al riconoscimento delle unioni omossessuali, e il capitalismo come forma di vita planetaria? Una risposta a questa domanda richiede di concepire il capitalismo non solo come un flusso incessante di riproduzione materiale, ma anche come un processo continuo di riproduzione simbolica, laddove il simbolico non è il riflesso ideologico sovrastrutturale, ma la matrice che definisce il rapporto tra struttura e sovrastruttura. Chi ha maggiormente analizzato questo nesso, in modo oggettivamente convergente con le classiche analisi marxiane, è Jacques Lacan, quando ha caratterizzato il capitalismo come il regime in cui il disciplinamento libidico, a causa di un blocco dell’identificazione simbolica inconscia, viene usurpato da un suo simulacro, che anziché disciplinare, sfrutta il desiderio, aprendo così la via al godimento compulsivo, un eccesso di piacere che compensa patologicamente la mancata identificazione inconscia5. Il capitalismo, allora, il capitalismo che Lacan analizza quale regime libidico, è quell’enorme cumulo di merci di cui parla Marx che, a causa di una usurpazione normativa, è anche un’enorme massa di oggetti di godimento.

Gramsci attribuì l’enorme diffusione della psicanalisi nel primo dopoguerra, alle crisi morbose provocate dall’aumentata coercizione morale, esercitata dall’apparato statale e sociale sui singoli individui (Q. 22, § 1, p. 2140). Ma appare evidente da quanto abbiamo appena detto circa la psicoanalisi lacaniana, che le crisi morbose, ormai non più dei singoli individui, ma dell’intera formazione sociale, dipendono non da un aumento, bensì da una degradazione della coercizione socio-statuale, dal momento che alla norma disciplinare, che Lacan chiama il “discorso del padrone”, subentra un suo simulacro, quello che sempre Lacan chiama il “discorso del capitalista”6. La coercizione, dunque, resta, ma essa non viene più esercitata per assuefare gli istinti ad una nuova forma di lavoro, come accadeva nel fordismo, o ad una transitoria esigenza sociale, come accadeva con la guerra (Q. 22, § 10, p. 2162), bensì per sfrenarli nel consumo del godimento ricorsivo. La creazione di una nuova etica, allora, che nella razionalizzazione fordista assumeva, come Gramsci osservava, l’apparenza di un “puritanesimo”, dal proibizionismo al controllo sui rapporti sessuali dei dipendenti e sulla sistemazione delle loro famiglie (Q. 22, § 3, p. 2150), nell’epoca dell’usurpazione normativa ad opera del capitalismo assoluto assume la forma di una nuova utopia illuministica (divorzio, aborto, unioni omossessuali, abolizione dei ruoli sessuali, procreazione tecnologizzata), che però entra in conflitto con la necessità di una qualche disciplina degli istinti sessuali, richiesta da una razionalizzazione del lavoro che, non solo non viene meno, ma addirittura si approfondisce, sia con un’ulteriore macchinalizzazione del lavoratore industriale (metrica del lavoro), sia con l’estensione dei metodi razionalizzanti all’economia dei servizi (prestazioni di lavoro regolate da algoritmi), e a branche sinora non coinvolte come la ricerca scientifica e accademica (metodologie di valutazione). Un contrasto che, paradossalmente, si risolve in un rafforzamento della famiglia, la cui tradizionale funzione di stabilizzazione dei rapporti sessuali arriva ora a comprendere anche forme nuove, prima facie non riproduttive, come la famiglia omosessuale.

Si direbbe, allora, coscienza morale “libertina” e pratica produttiva “virtuosa”. Ma è una pratica che, come abbiamo osservato, deve far posto al godimento quale essenza della forma di vita capitalistica. Non meraviglia, allora, che non vengano più pagati alti salari, la cui funzione, nel fordismo puritano, era di mantenere l’operaio in efficienza quale prezioso componente umano del meccanismo della fabbrica (Q. 22, § 11, p. 2166); e che i “bassi salari” di oggi servano paradossalmente a sostenere l’imperativo del godimento, dagli oggetti di distinzione (cellulari o vestiario griffato, magari reso abbordabile dal falso brand) alle pratiche compulsive (gioco d’azzardo di massa gestito dallo Stato). Lo Stato, allora, che nel vecchio fordismo era il presidio etico della razionalizzazione produttiva, nel capitalismo assoluto è il tempio sconsacrato di un deforme libertinismo, in cui esigenze produttive sempre più stringenti contrastano con impulsi al godimento totale, rivestiti della forma abbagliante delle relazioni sociali mediate dai social network, in cui è possibile coltivare un “romanticismo” bohémien, o comunque una doppia vita di loisirs illusori, negati dalla dura realtà produttiva.

Si scorge più agevolmente, a questo punto, il significato della connessione tra capitalismo e omosessualità che, alla luce anche del contrasto tra flussi migratori e regresso demografico, risponde all’esigenza di una riformulazione dell’egemonia, basata su una nuova divisione internazionale dell’etica sessuale: matrimoni “sterili”, sia etero che omo, nella “zona” ricca, dediti a finalizzare il sesso allo “stile di vita” improntato al godimento; matrimoni “riproduttivi” nella “zona” povera, finalizzati a riprodurre l’esercito internazionale di riserva di forza-lavoro e di consumatori di “primo livello”. Come sempre, però, l’egemonia deve fare i conti con le spinte contro-egemoniche dei subalterni, se con questo termine si intende in generale la condizione di chi lotta contro le costrizioni che ostacolano l’autodeterminazine degli esseri umani. In questo novero, allora, vanno compresi non solo i “poveri” dell’immensa “conigliera contadina” mondiale, tutt’altro che rassegnati alla loro funzione meramente riproduttiva, ma anche gli omosessuali, gay e lesbiche, che non si accontentano del semplice riconoscimento delle loro unioni come matrimonio “sterile”, funzionale al godimento, ma chiedono di poter praticare anch’essi il matrimonio “riproduttivo”, aprendo così l’ulteriore contraddizione di uno speciale mercato di uteri e spermatozoi. Si può dire, allora, parafrasando quanto aveva denunciato Gramsci, riferendosi alla norma puritana fordista (Q. 22, § 11, p. 2166), che questi “aggiustamenti” dell’egemonia non possono che produrre un equilibrio morale puramente esteriore e meccanico che, in assenza di una interiorizzazione, proposta con mezzi appropriati e originali da una nuova forma di società, si concretizza in tentativi più o meno energici di ripristinare il “discorso del padrone”. Di qui, certe maldestre campagne governative, volte a incentivare con argomenti equivoci, quando non chiaramente arcaici, i livelli di procreazione7. O, come accade nell’odierna Russia della ritrovata ortodossia religiosa, una politica di sostegno alla famiglia certamente efficace, essendo riuscita nell’ultimo quindicennio ad invertire la regressione demografica seguita al crollo dell’URSS8, ma che si accompagna alla riproposizione dell’ideologia omofoba e misogina di un certo autoritarismo patriarcale. Né sembrano poter aiutare ad attingere un nuovo equilibrio interiore le riforme tentate dalla Chiesa di Roma dove, per sottrarsi al “discorso del capitalista”, ben diffuso nel suo stesso organismo, come dimostra la cieca ricorsività della pedofilia, si esorta a rifuggire dal godimento o, nel linguaggio chiesastico, dalla concupiscenza9, si denuncia lo “spirito del mondo” come causa di ogni empietà10, ma poi ci si arresta all’annuncio rituale dell’“avvento del Regno”. Troppo poco, evidentemente, per approdare a quella interiorizzazione che una nuova forma di vita dovrebbe proporre con mezzi appropriati e originali.

Giunti a questo punto, però, la stessa riflessione di Gramsci, che sin ora ci ha fatto da battistrada, sembra spezzarsi. Interrogandosi sulla razionalizzazione fordista, Gramsci infatti si chiedeva se il metodo Ford fosse un fenomeno morboso, da combattere con la forza sindacale e con la legislazione, o se invece fosse un fenomeno “razionale”, che doveva cioè generalizzarsi per ottenere il tipo medio dell’operario moderno (Q. 22, § 13, p. 2173). Fiducioso nell’esperimento sovietico, di cui si compiaceva che fossero stati eliminati inaccettabili disciplinamenti “militaristici” (Q. 22, § 11, p. 2164), egli era favorevole ad enucleare dal fordismo quella “razionalità” insita nella modernità industriale, a patto però che la sua generalizzazione a tutta la società, come fenomeno non più “americanistico”, avvenisse non come reazione dei ceti parassitari, condannati alla rovina dallo stesso sviluppo produttivo, ma in forza dell’autodisciplina degli sfruttati, in grado di trasformare la dolorosa “necessità” dell’oggi nella “libertà” del “nuovo ordine” in costruzione (Q. 22, § 13, p. 2173; Q. 22, § 11, p. 2166; Q. 22, § 15, p. 2179). Ecco, dunque, l’interiorizzazione del comando, quale strumento per giungere alla nuova forma di vita compiutamente moderna, in cui avrebbero dovuto confluire il fordismo e l’industrialismo sovietico. La storia però ha dimostrato, non solo la debolezza dell’industrialismo sovietico, sorta di protestantesimo produttivo che, per parafrasare Marx, liberava il lavoratore dal comando capitalistico esteriore, facendo della produttività capitalistica l’interiorità del lavoratore11, ma anche la non generalizzabilità del metodo Ford e di ogni altro metodo razionalizzante, che anzi, fallendo nel lungo periodo nello scopo di tenere alti i profitti, si restringono, sboccando nel godimento compulsivo associato ai bassi salari, ai tagli pensionistici, alla distruzione del Welfare. La soluzione, quindi, contrariamente a quanto riteneva Gramsci, non può essere la generalizzazione in interiore homine della razionalità insita nel produttivismo industriale, poiché questo produttivismo contiene in sé i germi della propria degradazione.

La riflessione di Gramsci, però, offre ulteriori spunti che, ricombinati alla luce dell’esperienza storica, suggeriscono soluzioni differenti. Da un lato, infatti, Gramsci constata che le «crisi di libertinismo», tipiche di ogni tappa della razionalizzazione produttiva, coinvolgono soprattutto le classi medio-alte, e molto meno le classi lavoratrici, determinando una situazione di «ipocrisia sociale totalitaria», che provoca un «distacco di moralità» tra i gruppi sociali, trasformandoli in caste (Q. 22, § 10, p. 2161; Q. 22, § 11, p. 2169). Dall’altro, egli rileva che, in ogni ramo produttivo, c’è un limite invalicabile alla legge della concorrenza perfetta. Infatti, ogni unità produttiva, in una certa misura più o meno ampia, è «unica», e si forma una sua organizzazione propria: piccoli «segreti» di fabbricazione e di lavoro, «trucchi» che sembrano trascurabili in sé, ma che, ripetuti un’infinità di volte, possono avere una portata produttiva enorme (Q. 22, § 13, p. 2174). Ora, per restare al tema della nuova etica sessuale, non c’è dubbio che i grandi cambiamenti degli ultimi decenni (famiglie ricostituite, unioni omosessuali, declino della fecondità, tecnologie riproduttive), se da un lato hanno contribuito ad indebolire la pesante ipoteca patriarcale, dall’altro hanno trasformato gli individui in singoli senza storia, che quasi originano da se stessi, una sincronia simboleggiata dalla crescente caratterizzazione della parentela come affinità, invece che come consanguineità.12. Ma, per questa stessa condizione, gli individui, quali “segni” di una immensa langue economica, che li fa al tempo stesso differenti e identici gli uni con gli altri, diventano anche quasi intercambiabili, pronti per essere livellati nel grande scambio produttivo. La conseguenza è quella ipocrisia sociale totalitaria che frammenta la società in caste, scatenando crisi di libertinismo e distacchi morali, di cui le irresolvibili dispute bioetiche sono un tipico sintomo13. Posto, allora, che la razionalizzazione infinita dei contenuti della vita si dimostra storicamente fallace, la soluzione alternativa sembra consistere nell’incentivazione della tendenza produttiva opposta, ovvero nell’effettuazione di atti produttivi singoli, unici, irripetibili, così com’era nella produzione artigianale precapitalistica, e così come si ritrova oggi in certe produzioni di “qualità” (moda, design, tecnologie di punta, ecc.). Ma a questo proposito, con una critica precorritrice, Gramsci nota ancora che “qualità” significa volontà di impiegare molto lavoro su poca materia, perfezionando il prodotto all’estremo, cioè la volontà di specializzarsi per un mercato di lusso. Da cui consegue una divisione internazionale del lavoro, in cui la produzione quantitiva diventa qualitativa per la parte emergente della classe consumatrice di prodotti “distinti”. Una semplice ispezione del modo in cui oggi vengono prodotti e consumati gli oggetti di distinzione, nel frattempo divenuti le divinità che presiedono ad ogni aspetto della vita, verifica le premonizioni di Gramsci, che conclude sostenendo che «la politica della qualità determina quasi sempre il suo opposto: una quantità squalificata» (Q. 22, § 8, p. 2159). Una tendenza produttiva effettivamente alternativa, allora, non può che basarsi su quella “finalità senza scopo” che, come nota lo stesso Gramsci, è propria delle opere d’arte individue e non riproducibili (Q. 22, § 8, p. 2159). Ma questo non deve tradursi nell’esaltazione del non logico-spontaneo o del sentimentale-emozionale. L’irrazionale è una vuota istanza formale, derivante dalla lacerazione, ad opera della tendenza razionalizzante, del legame dialettico tra le molteplici potenze che compongono l’organismo sociale. Si diceva all’inizio che in Italia permane ancora vivo il desiderio di avere dei figli, e che la denatalità dipende dalla pressione delle esigenze produttive14. Differente è il caso del Giappone, un paese con un debito pubblico molto più alto di quello dell’Italia, dove il congelamento del desiderio in godimento si traduce in un diffuso feticismo sessuale (fidanzate “virtuali”, bambole sessuali)15. Se a ciò si aggiunge una politica particolarmente restrittiva circa l’immigrazione16, si ha l’idea di un paese in preda ad un sintomo lancinante di “purezza”, che evidentemente denota un “rimosso”. È dal lavoro politico su questa dimensione inconscia che può derivare quella razionalità produttiva senza scopo, di cui dicevamo prima. E tale dimensione inconscia è tutt’altro che una vaga regione socio-psiconalitica. Essa anzi può essere identificata con esattezza in quelle “questioni meridionali” che in ciascun paese si sono formate, al momento della loro attrazione nella cerchia della razionalizzazione capitalistica. Un “rimosso” che condiziona dolorosamente tutta la storia successiva, e che riemerge nei tempi di crisi. Nel caso del Giappone, che da vent’anni è alle prese con una stagnazione di alto livello, anche per gli stessi intellettuali critici, tale questione rimane ancora in larga parte da studiare17. Ma, come è ben noto, nel corso della crisi succeduta alla Grande Guerra, lo stesso Gramsci ha analizzato il “rimosso meridionale” italiano, in uno scritto pioneristico, steso nel 1926, pochi giorni prima del suo arbitrario arresto18. E altrettanto si può dire per gli Stati Uniti d’America, dove il “rimosso meridionale” americano, subito dopo il Grande Crollo del 1929, riemerge nella considerazione di filosofi e scrittori di quel Sud sconfitto nella Guerra Civile di settant’anni prima, punto di passaggio dalla placida Confederazione agraria alla aggressiva Federazione industriale19. Ecco quindi la premessa di un rinnovato lavoro politico: il capitalismo quale forma di vita universale è una omogeneizzazione che poggia sui piedi d’argilla di “rimossi” locali; la sua spinta alienante può essere contrastata se riemergono le molteplici, idiomatiche razionalità, sfigurate dalla corsa unilaterale allo sviluppo produttivo materiale. Le forme di tale lavoro politico sono però incerte e difficili, continuamente insidiate dall’usurpazione delle ricorrenti “rivoluzioni conservatrici”, con il loro equivoco appello alle “origini”, contro cui deve essere fatto valere il principio opposto dello sviluppo onnilaterale della moderna cognizione sociale. Ma ciò rimanda al problema dell’organizzazione e della presa di coscienza, riaperto dai fallimenti del Novecento.

  1. A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica a c. di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, voll. 4, Quaderno 22, § 3, p. 2149. D’ora in poi, mi riferirò a quest’opera direttamente nel testo, con la sigla Q., seguita dal numero del Quaderno, del paragrafo e della pagina []
  2. A. Gramsci, Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, 19734, p. 281, lettera alla moglie Julka, senza data, ma verosimilmente scritta il 3 giugno 1929 []
  3. Ibidem []
  4. W. Streeck, How to Study Contemporary Capitalism?, «Archives Européennes de Sociologie», tome LIII, 2012, numéro 1, pp. 1-28 []
  5. J. Lacan, Du discours psychanalytique, in G.B. Contri, (a c. di), Lacan in Italia 1953-78, Milano, La Salamandra, 1978, pp. 32-55 (tr. it. pp. 187-201) []
  6. J. Lacan, Du discours psychanalytique, cit. []
  7. Ministero della Salute, Fertlity day. Parliamo di salute, documento consultato on line 10/2016 []
  8. M. Bordoni, Il crollo demografico italiano e l’esempio russo, documento consultato on line 11/2017 []
  9. J. M. Bergoglio, Lo spirito del mondo, in Id., Pastorale sociale, Milano, Jaca Book, 2015, p. 282 []
  10. Ibidem []
  11. K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in K. Marx, F. Engles, Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 19743, p. 65; K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Id., Opere filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti, 19716, p. 219 []
  12. M. Barbagli, Patriarcato addio. E contano meno i legami di sangue, «Corriere della sera/La Lettura», 17.12.2017, pp. 14-15 []
  13. D. Neri, F. Aqueci, Un’etica senza verità è impotente a prescrivere?, «Segno», a. XXII, n. 171, gennaio 1996, p. 76 []
  14. L. Baratta, “Nessuno in Italia pensa al futuro, tra 40 anni sarà un disastro”, «Linkiesta», 5/12/2015, http://www.linkiesta.it/. []
  15. A. Valdambrini, No sesso, sì bambole. Il Giappone invecchia, «Il Fatto Quotidiano», 8 gennaio 2018, pp. 12-13. []
  16. Ibidem []
  17. «[…] la comparazione tra la questione meridionale italiana e quella degli Stati Uniti d’America […] penso che sia un tema da approfondire, ma ora non posso dire su come sia posta o meno una problematica “meridionalistica” anche in Giappone. Bisogna studiarla» (mail privata del 3 settembre 2016 di Koichi Ohara, già corrispondente dall’Europa, negli anni Settanta del secolo scorso, del quotidiano Daily Akahata, organo del Partito comunista giapponese, traduttore in giapponese di numerose opere di pensatori politici occidentali, responsabile della Tokyo Gramsci Society). []
  18. A. Gramsci, Note sul problema meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei comunisti, dei socialisti e dei democratici, ripubblicato da ultimo in L. Sturzo, A. Gramsci, Il Mezzogiorno e l’Italia, Roma, Edizioni Studium, 2013, pp. 161-196. []
  19. Twelve Southerners, (by), I’ll Take My Stand. The South and the Agrarian Tradition, (1930), Baton Rouge and London, Louisiana State University Press, 1977. []

Il gattopardismo, ideologia universale del capitalismo

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Nella Sicilia che si avvia al voto, una frenesia immobile percorre i raggruppamenti politici. Tutti promettono il cambiamento, tutti coniugano il futuro, tutti si proiettano sul domani, ma le vecchie facce, i vecchi nomi, le vecchie cordate presidiano come sempre i loro territori, pronti a riciclarsi nell’ennesima rivoluzione passiva. Imputare questo costume ai soli siciliani, sarebbe però a dir poco ingeneroso. Ormai tutti, o con rassegnata disillusione o con malcelata rivendicazione, si confanno all’assioma secondo cui «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», e semmai ci si deve chiedere com’è potuto accadere che il gattopardismo sia divenuto una regola universale. Tomasi di Lampedusa era uno scrittore, ma nel suo romanzo ha descritto meglio che un teorico questa ideologia, facendola apparire nelle parole e nei comportamenti dei suoi personaggi, alti e bassi, dominanti e dominati, intellettuali e minuta gente del volgo. Il principe Fabrizio e il nipote Tancredi sono naturalmente quelli che la incarnano per eccellenza, il primo con disincanto il secondo con fervore, ma lo scopo è lo stesso, conservare il potere: «se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?». Ma su quale concezione poggia questa spregiudicata regola d’azione? Anzitutto, il naturalismo: ciò che conta non è il caotico mondo sociale, ma il regolare mondo fisico. Così, nelle ore in cui ferve lo sfrenato movimento politico che abbatte i Borbone e innalza i Savoia, «sostenuti, guidati, sembrava, dai numeri, invisibili ma presenti gli astri rigavano l’etere con le loro traiettorie esatte. Fedeli agli appuntamenti le comete si erano avvezze a presentarsi puntuali sino al minuto secondo dinanzi a chi le osservasse. Ed esse non erano messaggere di catastrofi: la loro apparizione prevista era anzi il trionfo della ragione umana che si proiettava e prendeva parte alla sublime normalità dei cieli». La ragione umana è tale, dunque, perché è in sintonia con la perfezione matematica della natura, dalla cui altezza può guardare con distacco agli appetiti e alle passioni del mondo storico-sociale: «Lasciamo che qui giù i Bendicò inseguano rustiche prede e che il coltellaccio del cuoco trituri la carne di innocenti bestiole. All’altezza di quest’osservatorio le fanfaronate di uno, la sanguinarietà dell’altro si fondono in una tranquilla armonia». Perché il gattopardo, se ha un problema, è «quello di poter continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più astratti, più simili alla morte». Questa astrattezza funerea, che fa del dominante più un meccanismo naturale che un prodotto sociale, non impedisce però al gattopardo di vivere nel mondo, anzi, egli sa benissimo che «viviamo in una realtà mobile» alla quale bisogna adattarsi «come le alghe si piegano sotto la spinta del mare». Ritorna il naturalismo, ma il Principe spiega a Padre Pirrone, l’arrovellato intellettuale organico di una istituzione cui il gattopardo riserva solo un formale ossequio, che se «alla Santa Chiesa è stata esplicitamente promessa l’immortalità; a noi, in quanto classe sociale, no». Per la classe dominante, «un palliativo che promette di durare cento anni equivale all’eternità». Un pragmatismo assoluto, dunque, che baratta volentieri la dimensione spirituale, per quanto immortale, con il potere materiale, per quanto caduco. In questo mondo di cieche forze fisiche, in cui per sopravvivere, cioè per comandare, non bisogna nutrire nessuna fede, l’unica regola che vale è il calcolo politico. Così, se Garibaldi, l’avventuriero mazziniano tutto capelli e barba, è venuto quaggiù, non bisogna poi preoccuparsi tanto; vuol dire che il Galantuomo, il re Savoia, un altro della razza che comanda, è sicuro di poterlo imbrigliare. E Tancredi non può che essere l’alfiere di un contrattacco che, sotto mutate fogge, il vecchio ordine può portare contro il nuovo. Certo, ha bisogno di soldi, «e per farsi avanti in politica, adesso che il nome avrebbe contato di meno, di soldi ne occorrevano tanti: soldi per comperare i voti, soldi per far favori agli elettori, soldi per un treno di casa che abbagliasse». Dunque, lo sposalizio con Angelica, l’angelo sorto dagli inferi del denaro, la terra divenuta liquida. E quando Tumeo l’organista, altro intellettuale organico, preposto al bello quanto Padre Pirrone lo è al bene, categorie di una scheletrica esistenza, protesta con il Principe per il suo tradimento di classe che lo getta nella costernazione, come può infatti un Tancredi Falconieri sposare una volgare Angelica Sedara?, il Principe, benché furente di collera, riconosce che «Tumeo aveva ragione, in lui parlava la tradizione schietta. Però era uno stupido: questo matrimonio non era la fine di niente ma il principio di tutto; era nell’ambito di secolari consuetudini». Ma in quest’arido mondo sociale, mero dettaglio delle sterminate regolarità naturali, anche il calcolo di potere, per quanto scevro di illusioni spirituali, ha bisogno di una qualche fronda ideologica. E il gattopardo, che è pur sempre un animale politico dotato di linguaggio con il quale calcola l’utile e il nocivo, il giusto e l’ingiusto, ha una sua corposa ideologia. Una ideologia che rientra sempre nel suo naturalismo di base, in cui il giusto e l’ingiusto coincidono con il suo utile o il suo disutile, ma pur sempre un’ideologia. Così, al piemontese Chevalley, onesto funzionario della rivoluzione passiva, che gli propone di divenire un esponente di punta del nuovo ordine, il Principe spiega che lo sfrenato movimento che tale ordine vuole imprimere al corso sociale, non potrà facilmente dispiegarsi, perché «il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di “fare”. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso». Che paradosso! Un dominante che si sente un estraniato subalterno! Come può essere? Può essere. «Ho detto i Siciliani – continua infatti Fabrizio rivolto allo stupìto Chevalley – ma avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali». Ecco che ritorna la natura. La natura è il fondamento oggettivo della regola che tutto cambi perché tutto permanga, ma è anche la giustificazione soggettiva del comportamento che fa sì che tutto cambi perché tutto permanga. La giustificazione è ben congegnata, perché non è arrogante, ma illuminata da una superiore intelligenza, che si compiace di mettere in evidenza il proprio irrazionale fondamento: «i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla». Così, al naturalismo, al calcolo di potere, si affianca un nichilismo senza scampo per l’uomo intrappolato in questo inferno paradisiaco e per i risultati del suo comportamento. Perché il potere è dappertutto, in alta Italia, in Francia, in Inghilterra, ma se qui dà così cattivi frutti, «la ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità». Su questa lucida disamina, benché tutta morale, si potrebbe costruire un programma attivamente rivoluzionario, ma il gattopardo dovrebbe rinnegare se stesso. Ecco perciò l’ultimo tocco del quadro, il paternalismo: «questi sono discorsi che non si possono fare ai siciliani». L’uomo di potere, infatti, sa quali sono le verità che i subalterni possono conoscere, e quelle che nuocerebbero alla loro infantile coscienza. Perciò tutto ritorna a piombo sul proprio potere, che è oggettivo come il moto di un astro. E che se mai un giorno dovesse tramontare, sarà per cedere il posto ad un potere altrettanto oggettivo ed assoluto. Questa è una verità che il gattopardo non enuncia in prima persona, poiché l’autore, equanime, la fa dire a Padre Pirrone mentre parla con un uomo del volgo, l’umile erbuario don Pietrine: «e vi dirò pure, se, come tante volte è avvenuto, questa classe dovesse scomparire, se ne costituirebbe subito un’altra equivalente, con gli stessi pregi e gli stessi difetti: non sarebbe più basata sul sangue forse, ma che so io… sull’anzianità di presenza in un luogo o su pretesa miglior conoscenza di qualche testo presunto sacro». Questo presunto testo sacro è la Bibbia o Il Capitale? Qui sembra trasparire il motivo di una certa polemica conservatrice à la Pareto. Ma se è così, di quel paradigma il romanziere mutua anche l’onesto realismo, e non esita perciò a riconoscere che, in quest’universo di sfere che girano su se stesse di un moto perfetto, don Pietrine è l’atomo che devia dalla traiettoria. Al lungo sproloquio che gli infligge Padre Pirrone, egli infatti replica chiedendogli come è stata sopportata dal principe di Salina la rivoluzione. E alla risposta del gesuita, in tutto e per tutto allineata con la concezione del padrone cui monda periodicamente la coscienza, «non c’è stata nessuna rivoluzione e tutto continuerà come prima», l’erbuario obietta fulminandolo: «evviva il fesso! E a te non pare una rivoluzione che il Sindaco mi vuol far pagare per le erbe create da Dio e che io stesso raccolgo? o ti sei guastato la testa anche tu?». Il che d’un colpo e con semplicità svela, da un lato, quanto spontaneamente perspicace sia la percezione dell’ingiustizia da parte dei subalterni, dall’altro quanto pesi su di essi l’ideologia del gattopardo, la concezione di una finta natura che serve a mettere sempre nuove tasse sulla vera natura che Dio ha creato per tutti. E questo, alla fine, potrebbe spiegare com’è potuto accadere che il gattopardismo, nato e cresciuto nell’arretrata Sicilia, sia divenuto una regola universale. Il gattopardismo è l’ideologia di un potere che riduce la società alla natura, dopo avere ovviamente privatizzato la natura, e averla ridotta alla misura del proprio sentire e della propria ragione. E siccome il mondo d’oggi è totalmente dominato da questo potere, un potere che è maleducato chiamare con il nome storico che gli si addice, il potere capitalistico, allora il gattopardismo è l’«inferno ideologico» non solo siciliano, come denunciò lo scrittore, ma universale. Si dirà, ma c’è qualcosa di stonato in questo discorso. Il gattopardo era nobilmente conservatore, le piccole volpi di oggi sono troppo ignoranti per pensare che valga la pena di conservare. Ma quando si dice che, nei “paesi avanzati”, destra e sinistra non hanno più senso, non si eleva forse a sistema il gattopardismo? Che poi i gattopardini odierni, da Macron a Di Maio, non abbiano la grandezza di Fabrizio e la stoffa di Tancredi, perché meravigliarsi? Tutto ciò che diventa seriale e di massa si svalorizza, il nichilismo perde la sua aura, la poesia diventa prosa. E invece ciò che resta immutato, ma anzi si indurisce, è proprio quel potere capitalistico che Fabrizio e Tancredi, caratteri di superfice di immobili trasformazioni strutturali, annunciano al suo sorgere, e contro cui ancora oggi, più di ieri, tutti i don Pietrine del mondo protestano e si infuriano, anche perché stufi dei grandi ragionamenti dei tanti Padre Pirrone che, famelici di cooptazione negli esclusivi apparati di consenso, diventano esperti di una presunta oggettiva scienza sociale che però celebra sempre il trionfo del padrone.