Cultura

La metafisica del capitalismo di Emanuele Severino

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Ad Emanuele Severino, metafisico sommo, bisogna riconoscere il coraggio di essere uno dei pochi che, riferendosi all’odierna realtà del profitto privato, che con la sua dittatura soffoca la ricerca di ogni altra forma alternativa di produzione, non ricorre a perifrasi ed eufemismi, “economia di mercato” e quant’altro, ma usa il termine crudo e veritiero di “capitalismo”.

Nelle sue opere, Severino ha evidenziato quello che potremmo chiamare il paradosso del capitalismo1, e in un suo intervento giornalistico di qualche tempo fa lo ha collegato al fondamentalismo e al terrorismo islamico2.

Secondo Severino, dal punto di vista capitalistico, il fondamentalismo e il terrorismo islamico sono forme degenerate del passato. Il capitalismo, invece, è il tempo intermedio tra il passato e il futuro, in cui esso ristagna per ignoranza filosofica. Infatti, se il capitalismo, spinto dalla sua intrinseca natura utilitaristica, non rifiutasse l’“inutile” conoscenza filosofica, vedrebbe che l’agire non ha alcun limite intrinseco, come invece pretende la falsa conoscenza del passato. D’altra parte, se acquisisse tale nuova conoscenza filosofica, e trapassasse nella pura e incontrollata potenza dell’agire, esso cesserebbe di essere capitalismo e diverrebbe altro da sé, cioè uno strumento subordinato della tecnica.

Per Severino, il paradosso del capitalismo è lo stesso in cui è intrappolato l’Islam. L’Islam identifica il capitalismo con Satana, ma non vede che rispetto a sé, e alla stessa religione cristiana, il vero Satana è la voce filosofica, l’inutile “voce del sottosuolo”, come egli la chiama con una metafora dostoevskiana, la quale chiarisce la potenza della tecnica, mettendo così la tecnica nella posizione di poter abolire tutti i limiti posti dal passato, che la voce ha dimostrato inesistenti, e quindi anche i limiti che l’Islam pone alla tecnica in nome del passato.

L’Islam, però, sostiene Severino, avrebbe un vantaggio rispetto al capitalismo, quando usa terroristicamente la tecnica moderna contro gli infedeli. Tuttavia, esso non solo è in ritardo rispetto alla gestione capitalistica della tecnica, ma, come già detto, pone a sua volta limiti alla tecnica ancora più rigidi di quelli che il capitalismo le pone non ascoltando la voce del sottosuolo in nome dell’utile immediato. Come il capitalismo, dunque, e nel conflitto con il capitalismo, anche l’Islam si avvia all’estinzione.

Certo, conclude Severino, l’Occidente, che è il luogo in cui per prima la voce filosofica del sottosuolo ha fatto conoscere l’illimitatezza della tecnica, può giungere al massimo della sua potenza rispetto all’Islam. Ma quando questo accadesse, quando il capitalismo si imponesse su ogni avversario, sia esso il cristianesimo o l’Islam, in quel momento cesserebbe di esistere, perché a vincere non sarebbe il capitalismo, bensì la tecnica dalla potenza illimitata, liberata cioè anche dai limiti che il capitalismo, in quanto età di mezzo che ignora l’inutile voce filosofica del sottosuolo, ancora le pone.

Come si vede, tutto ruota attorno alla “voce del sottosuolo”. E che cos’è tale voce, se non una trasfigurazione della conoscenza delle leggi oggettive della struttura? Severino probabilmente si ritrarrebbe contrariato da un simile accostamento “storico-materialistico”, ma tutto il suo ragionamento vi converge. La sua concezione della tecnica, suo storico cavallo di battaglia che egli cavalca senza la perfida malafede del mago di Todtnauberg, ne è una prova evidente. Per Severino, infatti, la tecnica non è solo la cultura, il sistema politico e il modo di vita, ma anche il modo di produzione che succederà al capitalismo, mettendo così fine al processo storico, divenuto un eterno presente.

E quindi non appaia fuori luogo opporgli la giustezza dell’affermazione di Gramsci, circa l’egemonia di Lenin come «grande avvenimento metafisico»3, perché organizza la dispersa volontà umana per finalizzarla non allo sviluppo economicistico, cioè tecnico, delle forze produttive, bensì allo stabilirsi di rapporti sociali da cui possa derivare lo sviluppo integrale della cognizione umana. La tecnica è dunque il destino dell’uomo se l’uomo resta prigioniero delle entificazioni produttive generate da un ascolto sbagliato della “voce del sottosuolo”. Al contrario, la tecnica diviene solo uno strumento se l’agire è impostato in modo ontologicamente corretto, cioè non scisso dall’ascolto, ma incorporato nell’organizzazione egemonica. Bisogna quindi distinguere tra agire e organizzazione. L’agire è illimitato, e quindi soggetto alla corruzione della tecnica. L’organizzazione è una potenza percettivo-motoria subordinata agli scopi “inutili” della cognizione umana. L’agire si reifica e ingloba in sé asservendolo l’agente; l’organizzazione è il controllo continuo da parte dell’agente del divenire dell’azione. L’agire è l’essere che si pietrifica, l’organizzazione è il divenire che sfida il nulla in cui l’azione può precipitare se non è istante per istante diretta alla sua “inutile” finalità.

Ovviamente, questa conclusione leninian-gramsciana per Severino è uno scandalo, lui che da una vita nega il divenire. Ma l’essere per il quale egli da una vita si batte è illusorio, poiché, pur scorgendo con le sue lenti metafisiche le condizioni materiali della cognizione umana, Severino rifugge dall’organizzazione egemonica. Si dirà che tutto il corso storico degli ultimi decenni giustifica tale rifuggire. Non è forse fallita in tutti gli scacchieri l’organizzazione egemonica? Non sta addirittura fallendo sotto i nostri occhi, oggi, in quell’America Latina che sembrava avviata verso il socialismo del XXI secolo?

Così, Severino, in suo ulteriore, recentissimo intervento, ha buon gioco nell’affermare che «non funziona l’idea che ci possa essere una forma storica così persuasiva e forte da impedire la dissoluzione delle cose del mondo»4. Ad un certo punto, infatti, la “voce filosofica del sottosuolo”, ovvero i Leopardi, i Dostoevskij, i Nietzsche, intervengono a mostrare «l’impossibilità di ogni eterno, di ogni unità definitiva del mondo»5. Ma, viene qui da obiettare, Severino, come abbiamo già prima ricordato, non ha forse passato tutta la sua vita filosofica a mostrare che la follia dell’Occidente è stata di allontanarsi dall’essere di Parmenide? In questo suo ultimo intervento, Severino illustra la pretesa dell’uomo di divenire altro da ciò che è, con il mito di Adamo che mangia la mela di Eva per divenire, da uomo che è, il Dio che vuole essere6. Con questo mito profondamente radicato nella tradizione occidentale, l’uomo ha allora inscritto tutta la civiltà sotto il segno di una colossale alienazione. E qui si chiarisce, allora, che in realtà Severino vuole emendare questo errore, curare questa follia, non con l’essere, non con un ritorno all’essere, ma con una modulazione tutta sua della “voce del sottosuolo”, ossia con il nulla che altro non è, se non la morte. Con quella morte che, come egli stesso ammette, lo mette di buon umore, e di cui teme solo il dolore e l’agonia7.

Un macabro ghigno, dunque, che Severino ha buon gioco di rivolgere pure all’Europa. Infatti, se tutti i grandi eventi della storia sono un tentativo di superare l’angoscia della separazione delle cose, che il divenire causa rispetto all’unità originaria dell’essere, e se tutte le figure della storia europea sono un tentativo di unificazione per superare la separatezza degli elementi che caratterizzano la terra del tramonto, allora, così come l’Occidente, anche l’Europa è nata vecchia, cioè sotto il segno dell’errore, della follia di voler unificare la dissoluzione delle cose del mondo8.

La scommessa di Severino è dunque che l’alienazione originaria da cui proviene l’Europa, l’Occidente, e ormai la civiltà mondiale, sia reintegrabile non tramite l’infinita e positiva pluralità di una forma che si trae incessantemente dal nulla che vorrebbe inghiottirla, ma nella morte che il divenire apporta alle cose, poiché è tramite la morte che, negando la spinta dissolutrice originaria, si può tornare all’essere. È un viluppo logico che, ogni volta che si attenua la spinta costruttrice dell’organizzazione egemonica, sembra elevarsi a verità storica. Ma la scommessa storica, in cui a ben pensarci consiste la vita dell’uomo, sta proprio nello smentire istante per istante quel viluppo logico che, senza quello sforzo contrario, attirerebbe l’uomo nella spaventevole beatitudine della morte.

  1. Da ultimo, in E. Severino, Dike, Milano, Adelphi, 2015, pp. 189-190. []
  2. E. Severino, Sfida tra Islam e Occidente. Il vincitore è la tecnica, “Corriere della sera”, 10 aprile 2016, supplemento “La Lettura”, pp. 6-7. []
  3. Quaderni del carcere, ediz. cr. Gerratana, 7, § 35, p. 886. []
  4. A. Gnoli, Intervista a Emanuele Severino, “la Repubblica”, 19 marzo 2017, p. 70. []
  5. Ibidem. []
  6. Ibidem. []
  7. Ibidem. []
  8. Ibidem. []

Le scarpette rosse di Joseph Ratzinger

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In una breve segnalazione dell’ultimo libro del filosofo, teologo ed esperto massimo di mistica cristiana, Marco Vannini, All’ultimo papa, Paolo Rodari, su “la Repubblica” di ieri, 3 aprile 2016, a pagina 43, spiega che secondo l’autore di tale opera, le vere ragioni delle dimissioni di Benedetto XVI non sono state gli intrighi di palazzo, la pedofilia, o le carte trafugate, ma il «venir meno dei fondamenti storici della fede». In sostanza, sosterrebbe Vannini, Ratzinger resta l’ultimo difensore di una credenza tradizionale, secondo la quale il «vecchio Dio Padre» è rex tremendae majestatis. È il Dio della tradizione ebraica che oggi, dal pronunciamento di Giovanni Paolo I fino al rilancio operato dalla teologia cosiddetta al femminile, è stato sostituito dal concetto di Dio-Madre. Secondo Vannini, Ratzinger avrebbe dovuto operare un’azione troppo ardita: far passare il cristianesimo da mitologia (appunto la credenza in un Dio potente e superiore) a conoscenza dello spirito nello spirito, un Dio privo di ogni attributo, pura luce: «Un pensiero che non crea né teologie né chiese, perché esso esprime soltanto l’esperienza di una realtà assolutamente diversa». Lo si chiama Dio per consuetudine ma, spiegherebbe Vannini, «non intendiamo affatto parlare di un ente supremo, lassù nei cieli», quanto della scoperta di ciò che siamo, «il nostro stesso essere». Ratzinger avrebbe dovuto spostare il cristianesimo su questo secondo livello. Ma, concluderebbe Vannini, l’impresa è sembrata «tale da richiedere forze molto superiori a quelle di un vecchio papa». E per non tradire se stesso, per non abbracciare un «nuovo umanesimo », ha preferito ritirarsi.

In attesa di verificare queste tesi direttamente sull’originale, si può già avanzare qualche osservazione. E, in primo luogo, verrebbe da chiedere quando e dove c’è stata questa transumanza dal Dio-Padre della tradizione ebraico-cristiana al Dio-Madre del pronunciamento di Giovanni Paolo I fino al rilancio operato dalla teologia cosiddetta al femminile. Questi ultimi, appunto, sono stati solo tentativi abortiti, mai divenuti neanche di lontano l’asse portante di una nuova pastorale, per usare il linguaggio chiesastico di Francesco, il quale si sta limitando, non a caso applaudito “laicamente” da Eugenio Scalfari, a parlare di misericordia. Dio-Padre sta dunque lì, ben conficcato sugli altari, che occhieggia da dietro la sempiterna croce ammonitrice. Se ci fosse stato un tale passaggio, si sarebbe dovuti arrivare all’abolizione del celibato e al sacerdozio delle donne, miraggi che tutto il cattolicesimo per bene aborrisce come la peste, anzi come il diavolo. Il motivo per cui tale passaggio, sic stantibus rebus, non sia possibile, lo si è cercato di spiegare altrove1, e provo qui a ridirlo in poche parole: il Dio-Padre è la sublimazione finale di un assetto storico-genetico che, in una Chiesa precorritrice e poi succube del lacaniano “discorso del capitalista”, è caratterizzato dalla scissione di desiderio e godimento, che diventa perciò cieco e ricorsivo, come dimostra la divorante e inarrestabile pratica della pedofilia. Un assetto che trova il suo suggello in una “vocazione” divenuta sempre più l’amplificazione immaginaria di un soggetto che si realizza come un uno chiuso, totalmente identificato in una missione, un compito, un appello inaggirabile. Il prete come funzionario del godimento assoluto. Per puro spirito di sopravvivenza, Francesco sta cercando di scrostare questa parete imbiancata, con qualche scalpellata dadaista. Ma sono dosi di eparina in un circuito sanguigno pietrificato. Egli è dunque un ultimo papa, tanto quanto lo è stato Ratzinger, che però seguì la strada dettatagli dalla sua indole professorale, formatasi in un astuto ascolto, venato da vaghe allusioni protestanti, dell’esserismo ontologico di Martin Heidegger. Non è per caso che Vannini parlerebbe di un tentativo che, salvandolo dal rischio mortale di dover abbracciare un «nuovo umanesimo», già bestia nera dello sciamano di Todtnauberg, avrebbe dovuto del tutto “spiritualizzare” Dio, per fare emergere, appunto, «il nostro stesso essere». La religione, dunque, ridotta ad una branca dell’esserismo omtologico che, però, tra i fumi di incenso del culto latino richiamato in servizio, si rovescia in spiritualità assoluta che fa l’occhiolino agli austeri fratelli protestanti, nel frattempo del tutto mondanizzatisi. E laddove quindi il vecchio Martin metteva capo in un neo-paganesimo per i pochi, gli eletti, gli autentici, il vecchio e stanco Joseph approda al Dio-spirito assoluto per i “vocati” che in esso ritrovano il loro «stesso essere». Un intellettualismo tanto sottile, da non riuscire ad attutire l’ansima proveniente dall’attiguo appartamento neo-pagano, ma sufficiente a ribadire una religone dalle scarpette rosse che alla massa riserva, oltre ai fasti del vecchio culto, anche le storielle “scientifiche” del buon Gesù pubblicate da Mondadori. In tutto ciò, più che la stanchezza colpisce l’ingenuità del disegno, nonché quella superbia che faceva dire a Gramsci, essere i cattolici del tutto impermeabili alle “confutazioni perentorie” dei loro avversari non cattolici: «la tesi confutata essi la riprendono imperturbati e come se nulla fosse»2. Infatti, alla confutazione, stavolta opera di un’intera epoca storica non cattolica, essi hanno risposto imperturbati con Francesco, il papa venuto dalla fine del mondo che forse accompagnerà la Chiesa alla fine del suo mondo.

  1. F. Aqueci, Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, 2013, pp. 153 sgg. []
  2. A. Gramsci, Quaderni del carcere, p. 1871. []

Heidegger cabalista degli abissi contemporanei

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1. La premiata ditta Heidegger ha fatto le cose per bene. Dovendosi pubblicare le note segrete che il filosofo tedesco, sin dagli anni Trenta, aveva affidate a dei quaderni scolastici dalla copertina nera, che sarebbero dovute restare inedite sino al completamento della monumentale opera omnia, nel senso di monumento al culto ossessivo della propria personalità, cosa c’era di meglio che pubblicizzare su tutti i media che contano le pagine di contenuto antisemita, magari inscenando dei bisticci tra nipotini che si accapigliano sulle parole del vate? E siccome non bisogna farsi mancare mai niente, cosa c’era di meglio che segnalare all’edotto pubblico i presunti temi no global, anti-liberali e cripto-comunisti che il veggente avrebbe riposto in detti quaderni? La traduzione italiana del primo blocco di tali note1 è così venuta alla luce nella trepida attesa del pubblico pagante, che non si è certo sobbarcata la levataccia come per uno smartphone, ma insomma, la curiosità c’era, e la vendita, si presume, è andata bene. Aperto il volume e trangugiatone il contenuto, viene però alla mente, ma con il significato opposto, la famosa domanda di Derrida: ma avete mai letto Essere e tempo? Certo che sì, e certamente non ieri2. Ed è per questo che le distanze che Heidegger prende in questi quaderni da quell’opera, verso la cui celebrità si mostra ora sdegnoso, non impressionano per niente, perché, insomma, a parte la posa, esibita con movenze così ieratiche da risultare comiche, il contenuto è sempre quello, e cioè un esserismo o essenzismo che con gli anni diviene sempre più un eroico ruminare, o meglio un ruminare che si vuole eroico. Qualcosa, però, in questi quaderni appare in una luce più chiara. Qui, infatti, la filosofia è ridotta ad un fisicalismo metafisico il cui oggetto è l’essenza che decade nella presenza dell’essere, laddove l’essenza è l’unità originaria, e l’essenzismo l’anelito a ricomporre tale unità, per permettere all’ente di accedere alla potenza. Ma questo fisicalismo metafisico dove lo si è già incontrato? Da Rosenzweig ad Altmann a Löwith, e più recentemente e più precisamente da Marlène Zarader a Elliot Wolfson, si è sempre notata la vicinanza di Heidegger alle modalità di pensiero della teologia ebraica e in particolare della cabala. Nelle note di questi quaderni questa somiglianza è particolarmente evidente. Come la cabala, infatti, Heidegger costruisce una fisica della creazione il cui contenuto è l’elaborazione linguistica dell’essenza da cui deriva l’essere. In particolare, l’essenza di Heidegger corrisponderebbe nella cabala al Nome di Dio, da cui, in quanto essere linguistico, tutto promana3. Tuttavia, nonostante Heidegger ce la metta tutta, la sua cabala è molto più povera di quella ebraica. Manca, infatti, tutto il simbolismo razionale delle vie della sophia, che Heidegger sostituisce, appunto, con il suo ossessivo ruminare intorno alla domanda del domandare sull’essenza, che dovrebbe consentire di risalire a quell’inizio dispersosi nella decadenza dell’essere, contro la quale bisogna linguisticamente imbastire il ritorno al cominciamento, in modo da ottenere il potenziamento dell’essenza indebolitasi nella decadenza dell’essere. Un vero e proprio “gnommero”, avrebbe detto Gadda, che sembra la formula di un culto, il culto della fissità originaria, che guarda al divenire come alla lebbra dell’essere. Qui entra in ballo il compito della filosofia e del filosofo che Heidegger, quando non è impegnato a salmodiare la formula esseristica, affronta. Per Heidegger, la filosofia ha due compiti. Il primo è mostrare che all’iniziale esperienza panico-beante dell’essenza è subentrata la macchinazione tecno-scientifica e la fatica morale della cultura e della formazione culturale. Il secondo è mantenere aperta la domanda dell’essenza, in modo da poter tornare ad esperire i grandi stati d’animo propri dell’essenza, ovvero lo spavento e la benedizione. Ma chi deve svolgere questo gravoso compito essenzialistico, e chi deve e può tornare ad esperire tale originario stato d’animo essenzistico? Forse i più, i molti, i tanti individui accalcati nelle masse? Non ce n’è bisogno e non è neanche possibile. Bastano i pochi, gli eletti, gli autentici che, magari da qualche cattedra di filosofia ben avviata del glorioso Reich tedesco, sanno e agiscono tacendo. Non c’è altro. Questa è la grandiosa filosofia di Heidegger, che giustappunto stava già tutta contenuta in Essere e tempo, ma solo in forma più urbana e controllata. Una filosofia per la quale Heidegger ha ragione di rifiutare l’etichetta di filosofia dell’esistenza, della quale anzi si fa beffe. Ad Heidegger, infatti, non interessa minimamente la situaziome umana dell’individuo contemporaneo, ma interessa la questione materialistica dell’essenza debilitata dal suo precipitare nell’essere. Una cabala irrazionale, insomma, sbocciata su una cattedra di filosofia tenuta da un filosofo tedesco di tendenze politiche antisemite.

 

2. Negli stessi anni in cui Heidegger metteva a punto questa (povera) fisica linguistica dell’essere, nella quale uno psicoanalista potrebbe scorgere una raggelata nostalgia del grembo materno, altri si interrogavano sulla natura e il compito della filosofia e dei filosofi. Uno di questi era György Lukács, che non ebbe timore di temprare l’essenza dell’essere nella corrente del divenire. Non mancano le comparazioni tra il vate dell’essere e Lukács, che andrebbero però rinfrescate, non foss’altro che per rimarcare che la reificazione, amputata della sua determinazione di merce, diventa una edulcorata protesta contro l’aggressione che l’essere subirebbe da un Gestell, la cui generica identificazione con la tecnica e la scienza non lo rende meno fuorviante ai fini di una corretta analisi dell’alienazione dell’essere sociale. E un altro che si interrogò sulla natura e il compito della filosofia e dei filosofi fu Antonio Gramsci, che casualmente, e per ben più tragiche circostanze, condivide con Heidegger la modalità di scrittura, i quaderni, ma il cui percorso è esattamente l’opposto di Heidegger. Tanto Heidegger, infatti, tiene alla fissità dell’essenza, tanto Gramsci è proteso al suo divenire: “tutto si muove”, poiché l’essenza si preserva se può slanciarsi nel divenire, che non è l’impulso meccanico di un esserismo verbalistico, ma una pratica etico-politica intesa come “tutto ciò che è possibile per mezzo della libertà”. E tanto Heidegger oppone alla fatica morale della cultura e della formazione culturale il disprezzo dell’autentico asserragliato nella cerchia degli eletti, tanto Gramsci fa della filosofia un compito di tutti, perché tutti sono dotati di quella cognizione il cui vertice normativo sta nella creazione permanente. Non meraviglia perciò che Heidegger e Gramsci mettano capo in teorie politiche ugualmente opposte: l’uno in una metapolitica etnica in cui il popolo tedesco è destinato dal suo “radicamento” alla missione mondiale di restaurare l’essenza dell’“esserci”; l’altro nell’egemonia, in cui il “popolo-nazione” supera il particolarismo etnico e culturale, e si inscrive nello sviluppo della cognizione universale.

 

3. L’approdo völkisch di Heidegger ci consente di tornare al paradosso di un filosofo che, partendo dai Greci, dà fuori una cabala antisemita. Michael Fagenblat, docente al Shalem College di Gerusalemme, ha osservato che Heidegger è il filosofo che, nonostante il suo antisemitismo, offre il miglior sostegno per un‘articolazione filosofica della teologia ebraica, in particolare delle “teologie del sionismo” sorte intorno alla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso4. Lo “scandalo” dell’antisemitismo di Heidegger, continua Fagenblat, basato sulla sua visione dello sradicamento metafisico dell‘Ebraismo mondiale, non deve indurre a facili indignazioni, ma deve spingere ad un confronto con «l‘abisso interno al pensiero ebraico»5. E alludendo all’affermazione con cui Heidegger, con l’usuale modestia, giustificò il suo coinvolgimento nel nazismo, ovvero “Grandi pensieri, grandi errori”, Fagenblat conclude: «il radicamento della teologia ebraica in una terra santa è il “grande pensiero” in cui noi ebrei vaghiamo oggi»6. Come si vede, qui siamo ben oltre il dibattito erudito sull’antisemitismo metafisico di Heidegger. Infatti, se la teologia ebraica, specie nelle sue più recenti manifestazioni sionistiche, è un “grande pensiero”, allora non si ha torto di pensare che siano in corso “grandi errori”. Beninteso, nella “terra santa” non è in corso nulla di comparabile all’Olocausto, e sicuramente Fagenblat sopravvaluta il ”grande pensiero“ tanto di Heidegger, quanto della teologia ebraica. Ma la sua tortuosa ammissione autorizza a pensare che l’esserismo, o meglio l’essenzismo, tanto nella versione heideggeriana, quanto in quella della teologia tardo-sionista, sia una sorta di ideologia permanente, a disposizione di chi, in nome della purezza di un mitologico inizio, intende imporre nel presente il suo dominio assoluto. E in questo complesso ideologico, forse che le “teologie del sionismo” non si rispecchiano paradossalmente nelle riesumazioni di altrettanti mitologici califfati, in cui restaurare con il jihad la purezza della sharia originaria? Chi si preoccupa, allora, che si possa prendere congedo da Heidegger, ritenendo che ormai non abbia più nulla da dire7, si tranquillizzi. Heidegger è quanto mai attuale, è anzi l’ideologo degli “abissi” contemporanei. Un’attualità sinistra, però, che richiede una presa di distanza per troppo tempo rimandata.

 

4. Fuori sacco, vorrei far notare che la pur brava traduttrice dei Quaderni neri incorre in una imprecisione traducendo völkisch con nazionalistico. Con tale termine, infatti, si perde la fondamentale connotazione etnica di völkisch, senza considerare che nazionalistico, nasce in Herder con una connotazione negativa che l’italiano mantiene. Si sarebbe potuto tradurre con nazional-popolare ma, alla luce di quanto abbiamo visto circa la puntuale contrapposizione tra Gramsci e Heidegger, sarebbe stato provocatorio, poiché avrebbe volto in positivo un termine che, proprio a causa del suo etnicismo, gli eredi della Rivoluzione francese, nella cui temperie il termine nazional-popolare è coniato, giudicano a ragione come regressivo e reazionario. Ma qui ciò che importa è rendere in italiano il punto di vista di Heidegger, per il quale völkisch è una qualificazione positiva dell’“esserci”. Traducendo con nazional-popolare, il lettore però avrebbe sempre dovuto tenere presente il fondo etnico da cui Heidegger muove. Sicché una soluzione più adeguata sarebbe stata etnico-popolare, che in italiano però non ha la scioltezza di nazional-popolare, e forse allora la soluzione più giusta sarebbe stata di lasciare il termine nell’originale tedesco e mettere tra parentesi il significato italiano di etnico-popolare8.

  1. M. Heidegger, Quaderni neri. 1931/1938, (2014), trad. it. di Alessandra Iadicicco, Milano, Bompiani, 2015. []
  2. F. Aqueci, Modelli della comunicazione non-dialogica: Pareto e Heidegger, “Le Forme e la Storia”, n.s. II (1990), pp. 335-336, ora in Id., Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, 2013, pp. 15-33. []
  3. G. Scholem, Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Milano, Adelphi, 1998. []
  4. M. Fagenblat, Quello che più mi spaventa. L‘antisemitismo di Heidegger e il ritorno a Sion, “Kasparhauser”, rivista on line di cultura filosofica, anno 4, numero 12, 2015, pp. 40-71, pp. 67 e 70. []
  5. Ivi, p. 71. []
  6. Ibidem. []
  7. G. Vattimo, Non basta un Quaderno nero per liquidare Heidegger, “Il Fatto Quotidiano”, 12 dicembe 2015, p. 22. []
  8. Ringrazio Nicolao Merker, dalle cui osservazioni su questo punto ho tratto utili chiarimenti. []

Un powerpoint di Buon Natale

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Forse perché pressati dalle pirotecniche esibizioni islamiche, quest’anno ci si scambiano auguri da buoni cristiani, ricordando quando il Natale (come la Pasqua) era una  festa che aveva un sapore diverso e portava ai bambini (fortunati di avere una famiglia) un’intensa gioia, e si depreca che il Natale sia diventato  un evento materialistico in cui bisogna consumare e scambiare regali, per essere felici solo un paio d’ore, fino a quando non si è assaliti dal desiderio di possedere un’altra cosa. Ma in questa nostalgica contrizione si dimentica che anche i musulmani deprecano questo tempo materialistico. Astraendo per un momento dai truci pistoleri dell’Islam, ci sono bravi seguaci di Maometto che, indossando una pettorina gialla con su scritto “Polizia islamica”, vanno in giro per i quartieri di piccole cittadine tedesche, invitando le signore a velarsi e i loro mariti a non bere più una goccia di qualsivoglia alcolico. Non contenti, affiggono volantini qua e là agli angoli delle strade in cui si proclama che quei quartieri sono “zona controllata dalla sharia”, e si bandisce alcol, droghe, gioco d’azzardo, musica, concerti, pornografia e prostituzione1. Esagerati, certo, ma il sospetto è che, tanto nella nostalgia “cristiana” per il parco Natale, quanto nel disprezzo “islamico” per la depravazione occidentale, la radice sia uguale, una reazione “morale” basata sull’identità fornita dal proprio Dio, che taciti la coscienza di fronte ad una pratica che, per quanto si voglia, non riesce a districarsi da quel “materialismo” da tutti deprecato. Cristiani e musulmani, infatti, ma anche ebrei e confuciani, continuano a consumare e a vivere per consumare. Se non fossero attratti da questo modo di vita, perché mai quei bravi maomettani in pettorina gialla brigherebbero tanto per andare a vivere fra i “materialisti” tedeschi, quando potrebbero restare a casa propria, a coltivare la loro “pura” povertà? Le guerre, certo, ma quattro milioni di turchi non si sono mica trasferiti in Germania per sfuggire al genocidio. Il sospetto grande, allora, è che a trionfare sia la religione più subdola, la religione della merce, che approfitta delle vecchie divisioni religiose in cui il genere umano si attarda, per imporre silenziosamente il proprio culto, che si annida implacabile come un parassita nella vita stessa (nei sommovimenti demografici, direbbero gli studiosi positivi). Piuttosto quindi, come impone il politicamente corretto, di astenersi nelle scuole dal celebrare il Natale, sarebbe opportuno riaprire gli occhi su quel modo di vita, che è anche un modo di produzione, magari proiettando, al posto delle canzoncine natalizie, un powerpoint sul-modo-di-produzione-capitalistico-giunto-nella-sua-fase-di-dominio-assoluto. E, in quest’epoca di disdegno per le ideologie, per evitare l’effetto “libretto rosso”, lo si potrebbe fare illustrare da Roberto Benigni.

  1. La Germania legalizza la polizia islamica?, “Il Foglio”, 12 dicembre 2015. []

Lo sciopero dei Quaderni. Sul libro di Fabre su Gramsci

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Da qualche decennio, la storiografia rimuginatrice, appuntandosi su qualche episodio controverso, dipingeva un quadro di tradimenti inconfessabili a spese di un Gramsci impegnato a scrivere für ewig i suoi Quaderni, sottoposti poi a tagli e mutilazioni che ne avrebbero stravolto il senso. Fortunatamente, la ricostruzione di Giorgio Fabre dei tentativi di liberazione di Gramsci1 si stacca da questa rappresentazione ormai frusta e, sia con indagini nuove, sia utilizzando in modo nuovo elementi già noti, ne dipinge un’altra dai colori inconsueti. Certo, per un’opera di storia, molti sono i punti cui solo si allude o si accenna di passata, rifugiandosi nella comoda formula che poco e confusamente si sa, e se la storiografia rimuginatrice tedia, quella allusiva inquieta, ma nel complesso la ricostruzione di Fabre tratteggia oggettivamente il dipanarsi della vicenda, nella quale il prigioniero, benché sempre promotore e protagonista delle trattative, appare come schiacciato dalla trama d’insieme, le cui forze e personaggi si possono sinteticamente così indicare:

1) l’oggettiva e in qualche caso soggettiva ostilità degli “antigramsciani” del piccolo e debole Pcd’I, per i quali Gramsci è solo uno strumento politico da utlizzare nelle campagne internazionali per la liberazione dei prigionieri politici, alle quali non ci si può e non ci si deve sottrarre, pena il discredito politico;

2) il comportamento “mediatorio” di Palmiro Togliatti, stretto tra l’antico legame di stima e d’amicizia per Gramsci e la ragion di partito, che è anche ragione di vita, per le quali non ostacola e a partire da un certo momento anche promuove le mobilitazioni internazionali pro prigionieri tanto temute da Gramsci per i loro effetti dirompenti sulle trattative da lui intraprese;

3) l’atteggiamento imprudente delle sorelle Schucht che spesso diffondono incautamente notizie riservate sulle trattative, contribuendo così a creare “disastri”, giusto il termine di Sraffa, a sua volta responsabile almeno in parte di qualcuno di essi;

4) la reazione di Gramsci a questo insieme oggettivo e soggettivo di nequizie, che si concretizza in ciò che si potrebbe chiamare “lo sciopero dei Quaderni”, quando, giudicando che il partito lo ha a tutti gli effetti “scaricato”, ritiene che non ha più senso quel suo lavoro di scrittura, portato avanti per la vita e l’educazione del partito e del “proletariato”;

5) la sostanziale leatà dei sovietici, leggi Stalin, i quali sono gli unici che, tanto nel 1927-28 quanto nel 1933-34, assecondando propositi di Gramsci, pongono in essere tentativi ad altissimo livello, partitico, statuale e diplomatico, per la sua liberazione ed espatrio in Russia;

6) il comportamento freddamente strumentale di Mussolini, che usando tutti gli organi dello Stato, dalla diplomazia alla polizia ai servizi segreti, anticipa e prevede le mosse di Gramsci, il quale tuttavia, consapevole di ciò, fa in modo che quel che ottiene appaia come concessione del carceriere;

7) infine, l’atteggiamento altrettanto strumentale della Chiesa cattolica, per la quale Gramsci è solo una pedina da giocare in trattative “maggiori”, il cui esito negativo per altro è segnato da una pregiudiziale chiusura verso i “bolscevichi”.

Come si vede, emerge chiaramente da questa ricostruzione che i bolscevichi, i sovietici, Stalin in persona, non esitano a spendersi per Gramsci, un leader che da sempre giudicano ideologicamente e politicamente affidabile, anche nei momenti controversi, come ad esempio nel 1926, quando tramite l’ambasciatore a Roma, Gramsci anticipa riservatamente a Stalin il significato non trotzkista del suo richiamo all’unità del partito bolscevico, contenuto nella famosa lettera a Togliatti a Mosca (pp. 202-3). Certo, i sovietici vanno per la loro strada, e non sempre sono amichevoli. All’epoca delle purghe, tra la fine del 1936 e l’inizio del 1937, con l’NKVD premono su Gramsci per fargli dire tutto ciò che sa sui trotzkisti italiani, che avevano cercato di appropriarsi della sua figura, ma Gramsci li respinge irridendoli (p. 390 sgg.). L’immagine, allora, che viene fuori è quella di un Gramsci “gramsciano”, impossibile da ridurre a qualcuna delle fazioni in lotta, che porta avanti la sua ricerca ideologica sino a quando vede spazi politici di manovra. Ma quando, a suo giudizio, l’orizzonte si chiude, e non certo per colpa dei sovietici, la sua risposta non è la conversione, o l’abiura, magari consegnata a delle note segrete, bensì lo “sciopero dei Quaderni”, un silenzio eloquente rivolto al suo mondo di riferimento: “gli operai comprenderanno perché Gramsci non lavora”2. Mussolini, invece, le cui responsabilità sono state banalizzate dal polverone revisionistico dell’ultimo quarantennio, appare come il suo vero ed unico carceriere, spalleggiato da una Chiesa cattolica chiusa in una politica di duro, anche se sterile, realismo. Ma questo del rapporto di Gramsci con la Chiesa di Roma, e in generale con il cattolicesimo, è un punto della ricostruzione di Fabre che va discusso, così come la concezione che Gramsci avrebbe del suo ruolo di leader e, in generale, del metodo di lotta politica da lui praticato. Ma andiamo con ordine.

Religioni. Fabre giudica lunare, non chiara e vagamente saccente (p. 305 e p. 307) la fiducia di Gramsci a lungo riposta nel Vaticano per ottenere la sua liberazione con una trattativa tra l’URSS e la Santa Sede. In generale, poi, il suo rapporto con la Chiesa gli appare dettato da una concezione “religiosa” della politica e dello Stato sovietico, concepito come uno Stato-Religione (p. 308). L’identificazione della religione con l’ideologia, morta o viva che sia, è un abuso concettuale di questi tristi tempi. Sarebbe bene invece tenere conto dell’analisi di Gramsci nei Qauderni del Concordato intervenuto tra Chiesa e Stato ad opera del fascismo3. In quelle note appare chiaro che Gramsci vede la Chiesa cattolica come una monarchia teocratica cosmopolita, e non è inverosimile ipotizzare che la sua insistenza sulla mediazione vaticana discenda proprio dalla considerazione della Chiesa quale potenza statale “tolemaica”, giusto per usare una categoria gramsciana, alla quale egli si oppone in quanto membro eminente di un esercito internazionale in lotta per la modernità “copernicana”. Dunque, come riconosce lo stesso Fabre, uno scambio tra Gramsci e un qualche vescovo cattolico detenuto in URSS sarebbe stato un logico scambio di prigionieri di pari rango tra due potenze politico-ideologiche contrapposte (p. 142). In tutto ciò ci può anche essere della presunzione ideologica, ma bisogna pur notare che, come ricostruisce lo stesso Fabre, è la Chiesa a rispondere per prima con una chiusura ideologica pregiudiziale verso il “mondo nuovo” dei bolscevichi, con le disastrose missioni in URSS del gesuita d’Herbigny e la negativa influenza dei suoi rapporti su Papa Ratti (pp. 89-94). Una chiusura, si potrebbe dire, non molto diversa da quella che, ancora solo a livello dello strato intellettuale, essa qualche secolo prima aveva riservato alla scienza galileiana, e che ora, sul piano della “politica di massa”, secondo l’appropriato termine di un recente saggio4, si traduce in una sleale politica di decisioni segrete e finte trattative. Quello che sembra, dunque, un lunatismo ideologico di Gramsci, è semmai un errore di calcolo politico, poiché egli crede e continuerà a credere a lungo di trovarsi di fronte ad un avversario leale, se non sul piano della dottrina, almeno su quello politico-diplomatico, mentre invece la Chiesa si rivelerà un organismo segnato, come apparirà evidente almeno sino al papato giovanneo, da un aggressivo risentimento verso chi si fa interprete delle novità del corso storico. Le quali però non sono “negazioni” che si convertono automaticamente in “ricostruzioni”. Riferendosi ad un articolo del 1922 apparso su l’Ordine Nuovo5, Fabre nota che «Gramsci aveva simpatia per un eventuale “unionismo” in Russia perché pensava che il cattolicesmo, dinamico e moderno, sarebbe stato più utile all’URSS della religione ortodossa» (p. 305). Per la verità, in quell’articolo di tenore informativo, non c’è traccia di tale auspicio. Ma è indubbio che un certo modernismo “produttivistico”, che Gramsci condivide con il partito bolscevico, e che applicato all’Occidente si esprimerà nelle ambivalenti note su americanismo e fordismo, costituisce il punto critico della sua concezione. Senza attendere i fallimenti “copernicani” e le odierne risorgenze “tolemaiche”, già Sorel aveva intravisto il perdurare della vasta “cité cristiana” e la debolezza della “scissione” socialista, rispetto a quella antica che il cristianesimo operò nei confronti del paganesimo.6 Nel frattempo, inoltre, si è imposta la “scissione” della modernità “produttivistica”, che ha assorbito in un ciclo di “rivoluzione passiva” ancora in corso la “ricostruzione” cui sembravano destinati i dominati sociologicamente arroccati nelle fabbriche. Qui la “questione vaticana”, che oggi è divenuta “questione religiosa” tout court, diventa “questione territoriale”. C’è da chiedersi se l’alleanza tra operai e contadini, proposta da Gramsci in sostituzione del blocco agrario-industriale, non avrebbe dovuto mettere in discussione in primo luogo il “produttivismo” del blocco nordista. È un problema che, mutati i dati sociologici e geografici, oggi si pone a livello mondiale, dove l’“innaturalezza” del “produttivismo” richiede di essere contrastata da una “logica naturale” della modernità.

Capo. Ma veniamo alla concezione che, secondo Fabre, Gramsci avrebbe del suo ruolo di leader. A più riprese, Fabre avanza delle considerazioni sull’uso del termine “capo” nel lessico dell’Internazionale comunista, del PCUS e del Pcd’I, il cui succo è che mentre in quest’ultimo, anche da parte di Gramsci, si indulgeva all’uso di tale termine, con il quale ci si riferiva al leader che, in empatia con gli operai, è capace di esprimere le aspirazioni di tutta la classe, nel Comintern e nel partito sovietico, dove uno dei capi di imputazione a Trotskj era stato quello di avere creato il “culto della personalità”, si preferiva usare, anche dopo la vittoria di Stalin, il termine di dirigente, a sottolineare come fosse il collettivo a guidare il partito7. È interessante notare come i sovietici, in particolare gli stalinisti, e comunque gli ambienti del comunismo internazionale, demonizzati da tutta una storiografia “anti-totalitaria”, appaiano molto più attenti del partito italiano nel respingere una visione verticistica e, in qualche misura, irrazionalistica della leadership. Tuttavia, non si può certo dire, come sembra suggerire Fabre, che Gramsci, con il suo saggio, Capo, del 1924, e con le sparse note carcerarie sull’argomento, sia particolarmente interessato a tale concezione. In realtà, il suo vero interesse è per la questione più generale del rapporto tra governanti e governati. In proposito, senza considerare certe chiare formulazioni dei Quaderni,8 già la Questione meridionale, che soprattutto nella prima parte, a torto sempre trascurata, è anche un resoconto della sua pratica politica, va nel senso dell’assorbimento nelle masse della funzione dirigente delle élites, attraverso “lotte cognitive” che modifichino “molecolarmente” i rapporti di forza e la “mente collettiva”9. Cosa, invece, che non si può dire del partito che a Gramsci ufficialmente si richiamava, il PCI, dove, mondato dalle punte irrazionalistiche, il verticismo del leader o del “gruppo dirigente” è rimasto il tratto distintivo di un organismo che, dall’alto, coopta nello Stato parti della società sin allora rimaste escluse10. L’ideale gramsciano della fine della divisione tra governanti e governati sfuma così in un élitismo “gentile” che, nell’odierno disfacimento ideologico, rinuncia persino a formularsi11.

Segreti. Veniamo così all’ultimo punto su cui la ricostruzione di Fabre consente di avanzare qualche considerazione, cioè il metodo della politica praticato da Gramsci. Fabre osserva che Gramsci, probabilmente al corrente di dettagli segreti attinenti a trattative intercorse già negli anni Venti tra Italia e URSS, trasmette in generale l’impressione di essere interessato alle procedure segrete, da lui considerate come una parte del modo di fare politica (p. 135). E a proposito del fatto che Gramsci, come abbiamo visto, anticipi a Stalin, tramite l’ambasciatore sovietico a Roma, contenuto e significato della lettera dell’ottobre 1926 a Togliatti a Mosca, Fabre nota ancora che «c’erano dei fili segreti che lo legavano a Mosca e, parrebbe, a Stalin che, nel partito italiano, forse solo lui conosceva. Sono legami che possono spiegare molto meglio proprio l’atteggiamento benevolo che le autorità sovietiche continuarono sempre ad avere verso di lui» (p. 203). Alla luce di queste osservazioni, la contrapposizione che Gramsci in quella lettera instaura tra “pedagogia scolastica” e “pedagogia rivoluzionaria”, ovvero tra conformismo e reciprocità12, appare non come l’appello di un profeta disarmato, se non addirittura sprovveduto, ma come una solida costruzione politica a più livelli, riservata e pubblica, che trascende il realismo dei rapporti di forza tipico della lotta tra fazioni, cui invece si attiene Togliatti, suscitando in Gramsci la “penosissima impressione” di cui gli scrive nella lettera di risposta13. Tale “impressione” è perciò anche il disappunto di chi vede compromessa la propria iniziativa dall’intrusione di un metodo di lotta politica “inferiore”, in qualche misura “antiquato”. Su questo terreno del “metodo” della politica, questo contrasto non è l’unico attestato tra Gramsci e Togliatti. Come è stato mostrato, in quel vero e proprio confronto politico che è il dibattito intellettuale su Croce, mediato epistolarmente dal carcere da Tanja e Sraffa, all’interesse di Gramsci per la “discussione nel merito” Togliatti opporrà l’esigenza formale di “conoscere le tesi”, per poter fissare gli “schieramenti” attorno alla “linea”14. Fabre osserva che Gramsci non sbagliava a considerare il livello segreto come una parte del modo di fare politica, poiché «all’epoca gli “scambi” condizionavano i rapporti tra gli Stati europei e in qualche modo facevano parte della loro politica estera» (p. 135). Ma sembra plausibile supporre che non c’è solo questo motivo contingente e personale alla base dell’interesse di Gramsci per il livello segreto o riservato della politica, ma anche l’intento di elevare gli aspetti “machiavellici” della politica all’altezza di un metodo che privilegia la “mobilità” dei contenuti rispetto alla fissità delle “posizioni”, e ciò proprio in vista di quell’assorbimento dell’élite nelle masse che è l’ideale normativo di un agire politico in lotta per un cambiamento di paradigma della mente collettiva. Fabre si meraviglia che nel periodo in cui fu redatta la Costituzione, il partito non fece mai riferimento alla parola d’ordine dell’Assemblea Costituente, lanciata da Gramsci negli anni Trenta (p. 445). Ma un tale richiamo avrebbe comportato di riaprire i contrasti di quegli anni, che come si vede furono nell’essenza contrasti di metodo politico. E d’altra parte, l’aver glissato su di essi comportò l’instaurarsi di una “doppia coscienza”, quella “culturale” e quella “pratica”, da cui derivò un progressivo riassorbimento di quella ardita ricerca nel vecchio metodo élitistico, i cui effetti arrivano sino all’odierna afasia.

In conclusione, la ricostruzione di Fabre offre una utile base storiografica per evidenziare due caratteristiche ideologiche di Gramsci, e cioè il suo “galileismo etico-politco” al quale, dopo la “svolta rivoluzionaria”, si mantenne fedele sino alla fine; il suo “socratismo” politico, inteso non come rifiuto intellettualistico dei rapporti di forza, ma come pratica politica in cui anche gli aspetti “machiavellici” vengono riorganizzati in funzione di una trasformazione “copernicana” della cognizione sociale. Il silenzio che interrompe la redazione dei Quaderni è il segno degli ostacoli soggettivi e oggettivi che incontra questo impianto politico-ideologico, la cui attualità, pur nelle mutate condizioni odierne, è però evidente.

  1. G. Fabre, Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato, Palermo, Sellerio, 2015. Salvo in qualche caso, i riferimenti di pagina a quest’opera sono dati direttamente nel testo. []
  2. Rapporto Blagoeva, in appendice a G. Fabre, Lo scambio, cit., p. 510. Cfr, anche p. 371 e p. 389 []
  3. Q. 16, § 11, pp. 1866-1874. []
  4. M. Filippini, Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società, Roma, Carocci, 2015. []
  5. Il Papa e la chiesa scismatica, “l’Ordine Nuovo”, 23 gennaio 1922, poi in A. Gramsci, Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, Torino, Einaudi, 1972, pp. 450-452. []
  6. Per il concetto di cité in Sorel, pressoché misconosciuto, e in generale per un’interpretazione di Sorel come teorico dei fondamenti etici della cognizione sociale, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, La mente sociale in George Sorel, in S. Gensini, R. Petrilli, L. Punzo, (a cura di), «Il contesto è il filo d’Arianna». Studi in onore di Nicolao Merker, Pisa. ETS, 2010, pp. 177-200. []
  7. G. Fabre, Lo scambio, cit., pp. 44-48, 142-43, 150, 173, 218-19, 417, 454. []
  8. «Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale» (Q. 8, § 179, p. 1050). Cfr. anche Q. 10, § 41, p. 1320, Q. 12, § 2, p. 1547, Q. 15, § 4, p. 1752. []
  9. A questo proposito, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, Nord e Sud, Italia e America. La questione meridionale in due grandi nazioni industriali, “Paradigmi”, 3/2014, pp. 177-198. La Questione meridionale è forse uno dei primi scritti di Gramsci in cui appare il termine “molecolare”. []
  10. Questa concezione si ritrova ancora nelle parole di un supersttite del vecchio PCI, fra gli autori dello Statuto del nuovo PD, Alfredo Reichlin, che, alla domanda quale sia la sua idea di partito, risponde: «è una parte di società che si organizza in nome di una visione della realtà e per consentire a pezzi del Paese di entrare in una dimensione statale» (A. Ferrucci, Reichlin: “Lo so, alla fine noi di sinistra siamo stati sconfitti”, “Il Fatto Quotidiano”, 2 novembre 2015, p. 5). []
  11. Un altro più giovane supersstite del PCI, Antonio Bassolino, interrogandosi sulla natura del nuovo PD, in cui ora è impegnato a sostenere “l’uomo solo al comando” di turno, scrive su Fb: «“Che cos’è un partito?”, mi chiede il nipotino. “Lasciamo stare, oggi è difficile spiegarlo e capirlo” gli rispondo» (“la Repubblica”, 14 novembre 2015, p. 17). []
  12. Per questa interpretazione, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, 2013, pp. 149-150. []
  13. A. Gramsci, Lettere 1908-1926, Torino, Einaudi, 1992, p. 471. []
  14. A. Rossi, Gramsci in carcere, Napoli, Guida,2014, p. 262. []