Cultura

Europa, a proposito del suo contributo al mondo di domani

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Con onestà pari all’ostinazione con cui prevede che il mondo finirà inghiottito nel buco nero della tecnica, Emanuele Severino riconosce che «proporsi l’unità politica dell’Europa è comunque mirare a una politica che garantisca la gestione unitaria, dunque efficiente, del capitalismo europeo»1. Guido Rossi trova giustamente stimolante quest’analisi, e alla potenza della tecnica oppone giudiziosamente quella dell’idea. Peccato però che l’idea alla quale si appella, sia quella di un’Europa politica federalista, la quale secondo Rossi addirittura «potrà ristabilire l’ordine mondiale, dopo la fine della pax Britannica e il declino della pax Americana»2. In questi voli pindarici, Rossi è in buona compagnia. La pensa così Habermas, e la pensa così Scalfari, per citarne solo alcuni. Scalfari, in particolare, nei suoi articoli domenicali prospetta un mondo globalizzato governato da un direttorio composto da USA, UE, Russia, India e Cina. È una prospettiva che si ammanta di realistica saggezza, ma che in realtà occulta dati di fatto essenziali. Un tale direttorio, infatti, è tutt’altro che una meta di stabilità, per fatti logici e storici. Il fatto logico è che il federalismo non è portatore né di reciprocità tra governanti e governati, né di pace tra le nazioni. Il federalismo comporta una verticalizzazione del potere, e dà luogo a Stati che perseguno in vario modo la potenza. Basta ripassarsi la storia degli Stati Uniti, ma anche solo della Confederazione elvetica, per avere molte conferme storiche. Si dirà, ma come, la pacifica Svizzera persegue la potenza? A parte che la pacifica Svizzera è fra i paesi con la più alta diffusione di armi da fuoco, che fanno la loro comparsa nelle non infrequenti esplosioni psicotiche che rodono quel paradiso terrestre. Ma questa è una violenza interna. Ciò che conta è che con la potenza finanziaria dei suoi gnomi, la Svizzera ha prefigurato ciò che oggi sta diventando l’Europa con l’euro, il quale è la sublimazione finanziaria di ciò che un tempo fu la potenza militare. La sublimazione è un processo difficilmente controllabile, così a Rossi con le migliori intenzioni scappa di dire che l’Europa finalmente federale ristabilirà l’ordine mondiale. Come volevasi dimostrare. Un altro fatto che Scalfari occulta con la sua prospettiva di un direttorio mondiale composto dai cinque “grandi”, è che Russia, India e Cina non sono né Stati né nazioni, ma solo “grandi spazi”. In Russia, c’è chi, come Aleksandr Dugin, ascoltato consigliere di Putin, rivendica questo fatto, parlando di “grande spazio eurasiatico”. Ora, il “grande spazio” è stabile come un castello di carte. Non è un caso che la millenaria Cina è colta dal terrore davanti alla fermezza con cui un uomo solo come Liu Xiaobo rivendica, sebbene, come lui stesso riconosce, con l’antiquato linguaggio della scienza politica occidentale, la “democratizzazione” della Cina, cioè la scomposizione ed emancipazione delle molte etnie che formano il suo spazio imperiale, di cui ciò che fu il glorioso Partito comunista cinese si è ridotto ad essere l’ultimo, ringhioso cane da guardia. Lo stesso si può dire dell’India, dove la presenza in superfice di istituzioni rappresentative rende solo più flessibili le oscillazioni profonde del castello di carte. Un mondo retto da un direttorio di tal fatta è dunque un mondo in cui popoli e nazioni saranno governati con il bastone del lavoro servile e con la carota di qualche lustrino consumistico. Non meraviglia che Scalfari non veda tutto ciò, essendo egli fermatosi nella sua analisi del capitalismo alla nozione puramente polemica di “razza padrona”. Severino, invece, nella sua analisi delle prospettive europee e mondiali, non ha nessuna remora a ricollegarsi alle analisi di Marx sul denaro, anche se la redazione del Corriere gli fa i brutti scherzi, come Landini al Marchionne di Maurizio Crozza. In una didascalia che dovrebbe spiegare all’inclita chi è Karl Marx, di cui si riproduce la classica icona del Carlo barbuto, il redattore scrive infatti che costui «nel suo famoso libro Il Capitale elaborò un’analisi dell’economia industriale moderna che oggi appare superata». Come mai allora il Corriere pubblica un articolo che si rifà alle tesi di tale “superato” filosofo? Tornando alle cose serie, il capitalismo di cui Severino con tanta spregiudicatezza vede lo stato di crisi terminale, è lo stesso sistema che, specie in questa fase di capitalismo assoluto, non ammette né pace, né reciprocità tra governanti e governati, ovvero le due cose di cui più ha bisogno il mondo di domani. Se c’è dunque un contributo che l’Europa può dare a tale mondo a venire, è quello di coltivare e sviluppare le differenze, ma in modo tale che ogni differenza sia una lingua universale in cui tutte le altre possano essere comprese e tradotte. È quello cui aspirarono gli uomini dell’Umanesimo, del Rinascimento e dell’Illuminismo, ma fermandosi per vincoli strutturali davanti all’invalicabile limite delle piccole cerchie intellettuali. La sfida ora è di scrivere quel grande libro passando dall’intelletto individuale alla mente collettiva.

  1. E, Severino, La tecnica unirà l’Europa, “Corriere della sera”, 3.8.2015, p. 30 []
  2. G. Rossi, L’Europa si salverà solo se sarà federale, “Il Sole-24 Ore”, 9.8.2015, pp. 1 e 14 []

Heidegger, la filosofa e il Corriere antigermanico

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Sul Corriere della sera del 31 luglio 2015, a pagina 41, la “Terza pagina”, appare un altro articolo della filosofa Donatella Di Cesare sui Quaderni neri del filosofo crociouncinato, Martin Heidegger. Titolo: Il monito di Heidegger ai tedeschi: «Non piegatevi alla democrazia». Occhiello: Rimase salda la fede del pensatore nella missione mondiale della Germania. La filosofa dichiara in apertura che non le basta il ritornello di un Heidegger hitleriano e antisemita. Lei ritiene doveroso «comprendere quel che è avvenuto in Germania, prima e dopo il 1945». Questa dichiarazione è molto importante, perché fa capire perché il Corriere pubblichi articoli di questo tenore, con l’asettica titolazione redazionale sopra riportata, e in cui si possono leggere espressioni come «l’aggettivo “metafisico” indica la profondità di un antisemitismo a cui è attribuito un rango filosofico». Il fatto è che la filosofia in questa storia non c’entra niente, o meglio, è la foglia di fico di un sordo fronte antigermanico, economico politico e culturale, che non ha il coraggio di affrontare a viso aperto l’odierna Germania eurocratica, e la punzecchia con simili polemiche culturali, in cui vengono fatte passare enormità che in tempi normali non sarebbero degne nemmeno del cestino della carta. Insomma, più che alla filosofa, è al Corriere della sera e a quegli ambienti di cui dicevamo, che importa non tanto capire, ma cercare di contenere la debordante Germania del dopo 1945, un dopo che riguarda soprattutto i nostri giorni. Le prove di questa che si ritiene una astutissima tattica polemica politico-culturale stanno nel contenuto dell’articolo in questione, stilato con il solito sprezzo del ridicolo dalla filosofa “comprendente”, autrice per altro di un altro articolo sul Corriere in cui, guarda caso, dava per morta la filosofia tedesca1. Insomma, la Di Cesare è vox clamantis, ma dietro c’è chi ghigna, pensando di far chissà quale dispetto all’odiata Teutonia. Dicevamo, le prove. La filosofa, infatti, al di là dell’ormai stucchevole antisemitismo, è interessata a far emergere ulteriori contenuti di cui i nuovi Quaderni neri sarebbero una preziosa testiomonianza. Quali sono questi contenuti? Il primo è l’interrogazione di Heidegger circa la «scrupolosa radicalità con cui i tedeschi compiono anche gli errori più eclatanti». La filosofa subito ci rassicura: rispetto a ciò, in Heidegger non c’è critica o ripensamento, poiché «Heidegger fa corpo con il popolo tedesco». Tradotto: i tedeschi non cambiano mai, come dimostra l’ostinazione con cui stanno imponendo l’austerità che ci sta devastando, ma alla quale non possiamo sottrarci se vogliamo continuare a partecipare al gran ballo di società, anche se, come direbbe Berlusconi, ci tocca ballare con la zitella coi baffi. Il secondo contenuto è la denuncia da parte di Heidegger dello «scandalo» non dello sterminio degli ebrei, ma del fatto che alla Germania «è stato impedito di compiere la sua missione nella storia». Per Heidegger, lo scandalo mondiale che minaccerebbe la Germania è «l’incapacità di immergersi nel proprio destino, disprezzando il “mondo” della modernità». Qui la traduzione, anche per colpa di Heidegger, che infila una delle sue frasi a gomitolo pazzo, non è proprio immediata, e bisogna aspettare la fine dell’articolo per coglierne il senso, che intanto provvisoriamente è il seguente: questi tedeschi sono folli, fissati con questa missione mondiale cui li chiamerebbe il loro destino. Il terzo contenuto è la preoccupazione di Heidegger che la Germania perda la propria essenza: secondo la filosofa, «Heidegger incita i tedeschi a non tradire se stessi, a non arrendersi all’occupazione, a non sottomettersi alla “democrazia mondiale”». Anche qui, la traduzione non può che essere provvisoria, ma è abbastanza chiara: questi tedeschi non si sono mai arresi, e sotto sotto non sono affatto “democratici”, perché con la scusa delle “regole” e dei “compiti a casa” tengono il banco tutto per loro. Il quarto contenuto, infine, con cui si chiude l’articolo, chiarisce tutti quelli che precedono. Infatti, la conclusione della filosofica vox clamantis è che il resoconto degli anni tra il 1945 e il 1948 che Heidegger opera nei Quaderni neri, è quello di un Germania «violata, esausta e dissanguata, ma non definitivamente sconfitta, pronta a ritrarsi nel proprio autunno, in attesa che torni la sua ora nella storia. Perché quell’ora verrà. E la Germania non potrà più mancarla». E, infatti, l’ora è giunta, e la Germania la sta cogliendo in pieno, con grande scorno degli ambienti antigermanici di cui dicevamo, ai quali, nella loro pavidità, non sta restando altro che nascondersi dietro i patetici sofismi della “filosofa che vuole capire”.

  1. La filosofia tedesca è morta. Dopo 300 anni []

Una storia che potrebbe non cominciare mai

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Elaborare universalmente la propria particolarità. Lo chiamano nazionalismo. Il referendum greco sarebbe espressione di nazionalismo. Roba deteriore. Ma si può davvero pensare che i popoli si dissolvano in una nuvola di regole, parametri e compiti fatti a casa? Si può davvero pensare che la salvezza sia nel fare le riforme? Questa è la pretesa delle cerchie governanti che i media amplificano con voce stentorea. Dov’è la forza di questo discorso da prefetto di disciplina? La forza, secondo alcuni, sta nelle ricchezze improvvise, nelle bolle destinate a sgonfiarsi, nelle strane abbondanze di questi decenni dopati dagli status symbol e da un’opulenza fondata sul nulla. I popoli, in tutti questi anni, si sarebbero fatti corrompere. Erano poveri e dignitosi, ma all’improvviso, si sono scoperti diversi, e ora cercano una strada. Le regole e i parametri, allora, sarebbero la faccia della propria estraneazione. Ma questo discorso funzionerebbe se regole, paramteri e riforme assicurassero ricchezza. Regole e parametri sono invece il regno della miseria, dove pochi gozzovigliano. E, d’altra parte, abbandonare una dignitosa povertà, coi debiti che comporta, non può essere una colpa. Mentre è stupido affidarsi ad una ricchezza che si sgonfia al primo refolo speculativo. Bisognerebbe essere dignitosamente ricchi. È questo che significa quel voler restare nell’euro senza dover fare quegli odiosi compiti a casa? L’euro così non sarebbe più una camicia di forza, ma un moltiplicatore unitario di differenze. Lo sappiamo, oltre alla moneta, ci vorrebbe una fiscalità e una spesa pubblica comuni. E non è un caso che prima sia venuta la moneta. Segno che l’euro non era fatto per fare felici i popoli, che infatti ora fanculeggiano. Come se ne esce? Come possono i popoli ritrovare se stessi, quando altri popoli stanno per perdersi? Perché, come ci fu spiegato, la felicità è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in una volta e simultaneamente1. Così, si credeva di essere andati tanto avanti, ma ci si riscopre ancora nella preistoria. Perché se i popoli sono infelici, è perché hanno appena cominciato a porsi sul piano della storia universale. E le forze produttive sono ben lontane da quell’immenso incremento necessario ad evitare che si socializzi la miseria e tutta la vecchia merda2. Ma come si incrementano queste forze produttive? Se il loro sviluppo comporta la totale espropriazione dell’intera massa dell’umanità, quale condizione della sua rivolta contro chi di esse si è appropriato, l’umanità sarà così fortunata da arrivare un attimo prima che il sistema nel suo insieme non abbia divorato le condizioni della propria sostenibilità? L’ecologia. Ovvero la sensazione che la storia non possa cominciare mai. Che chi se l’è goduta, se l’è goduta, e gli altri, semplice materiale biologico che non ha mai preso forma. Bisognerebbe accellerare. Rendere infinitamente più veloce l’elaborazione degli uomini da parte degli uomini, rispetto all’elaborazione della natura da parte degli uomini. Ma è qui che si è perso il bandolo della matassa. Per questo, da un lato ci sono i banditori delle regole, dall’altro le prèfiche dell’imminente disastro. Laudato si’. Ammuina, o una ironica provvidenza riavvia il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente?

  1. K. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Roma, Editori Riuniti, 19722, p. 25 []
  2. Ibidem []

Il Gramsci di un nuovo inizio

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I libri, come il vino, hanno bisogno di tempo. Quando nel 2012 uscì il libro di Vacca su Gramsci1, ci si concentrò soprattutto sul suo carattere di indagine storica. Lo sfondo ideologico si intravedeva, eccome, ma lo si poteva tralasciare, in attesa che la realtà si incaricasse di verificarne le ambizioni. Non che, per i criteri di un’indagine storica, tutto fosse soddisfacente. Ad esempio, non si precisava mai in che lingua o lingue fossero redatti i documenti d’archivio inediti della Corrispondenza Schucht cui Vacca faceva continui riferimenti. Del ricco, variegato e drammatico mondo degli Schucht, verso il quale Vacca non nascondeva la sua insofferenza (p. 187), Tania, una donna colta e poliglotta, veniva fatta apparire, quando non «tortuosa ed allusiva» nella sua prosa epistolare (p. 269), semplicemente come colei che «traduce», «trasmette», «trascrive», «copia», insomma un semplice tramite tra Gramsci e i suoi ben più importanti interlocutori. Lo stesso ruolo, d’altra parte, Vacca assegnava a Sraffa, da Wittgenstein considerato la sua “miniera” filosofica2, e da Sen indicato come l’autore di una “svolta comunicazionale” in economia3, ma qui giudicato filosoficamente non all’altezza di dialogare con Gramsci (p. 217). Comunque sia, l’intreccio di vita e pensieri di Gramsci che l’opera proponeva, anche nelle esagerazioni della tesi del linguaggio esopico, era certamente innovativa, riuscendo ad evidenziare un profilo del prigioniero non solo come grande teorico, ma anche come fine politico. Dal 2012, però, è passata un’era geologica, e due fatti nuovi si sono imposti: la “ditta”, come da ultimo ci si era ridotti a chiamare ciò che restava del vecchio PCI, non controlla più il pacchetto di maggioranza del PD, e alla sua sinistra si è aperto un formicolio di iniziative, la più grossa delle quali è la “coalizione sociale”. Cosa c’entra, si dirà, il libro di Vacca con questo sommovimento politico, innescato dall’irrompere a colpi di primarie dell’ex strillone fiorentino? C’entra, perché quel libro, e in altra misura anche quello di Rossi, su cui in questo sito si è già intervenuti4, e su cui tornerò più sotto, apparivano come il manifesto ideologico di un PD che, avvicinandosi alla meta di un governo riformista ritenuto di lunga durata, si proponeva come il compimento della tradizione comunista togliattiana, le cui radici stavano in un Gramsci depurato dalla contaminazione bolscevica, democratico, moderno, americanista, strettamente incardinato nel produttivismo occidentale. Ecco qualche esempio in cui questa elaborazione ideologica appariva chiara nel suo metodo. Prendiamo la parola d’ordine dell’Assemblea Costituente, su cui Gramsci insiste dal carcere, come strumento per attuare nella nuova situazione del fascismo imperante l’alleanza rivoluzionaria tra operai e contadini già prospettata all’inizio degli anni Venti. Nella ricostruzione che con lunghe formule Vacca ne fa alle pagine 155-157, Gramsci ipotizzerebbe che se il proletariato vuole riattivare le condizioni della lotta per il socialismo, deve prioritariamente battersi per rimuovere l’occupazione politico-militare del territorio nazionale da parte del fascismo. Questo obiettivo preliminare è imposto dal fatto che tale lotta avviene in un contesto mondiale dominato dalla rivoluzione passiva e dalla guerra di posizione, che trasformano la politica da lotta rivoluzionaria in lotta per l’egemonia. Ma che cos’è l’egemonia? L’egemonia è la lotta che si svolge sul terreno di uno Stato democratico, il quale però non prevede nelle sue finalità l’avvento della dittatura del proletariato. Ma prevede almeno il raggiungimento del socialismo? Su questo Vacca nella sua ricostruzione è assai riservato, anzi, se si considera che egli attribuisce a Gramsci un giudizio secondo il quale il comunismo sarebbe un comprimario, importante ma subordinato, del movimento mondiale di programmazione economica della struttura del mondo, guidato dalla borghesia più moderna (p. 140), si direbbe che anche il socialismo non è compreso nelle finalità dello Stato democratico partorito dall’Assemblea Costituente. Ciò che l’egemonia assicurerebbe, allora, sarebbe solo l’esistenza di un partito la cui lotta per definizione non può concretarsi né nella dittatura del proletariato, né tanto meno nel socialismo. Si dirà che è quel che è accaduto. Ed è anche ideologicamente legittimo ricostruire il passato in modo che l’Assemblea Costituente di Gramsci appaia come il germe di quel gramscitogliattismo che dalle vicende del dopoguerra in poi culmina nel PD, cioè nel partito divenuto ormai compiutamente “macchina per il governo” perfettamente adattata alla “democrazia”. Ma siccome qui siamo in sede di ricostruzione storiografica, non si capisce perché attribuire a Gramsci una ricostruzione ideologica in cui il proletariato dovrebbe lottare per la propria auto-dissoluzione. Gramsci è un pensatore paradossale, dilemmatico, se si vuole, anche utopistico, ma mai sofistico. Vacca, e veniamo così ad un secondo esempio del suo metodo, è molto attaccato all’idea della grande borghesia moderna che programma la struttura del mondo, e così, a proposito di Q. 8, § 185, p. 1053, dicembre 1931, si inerpica in un funambolico commento sulla povertà di elementi di piano della pianificazione sovietica, ahimé basata solo sugli schemi della riproduzione allargata del volume II del Capitale, e non sugli elaborati diagrammi della performante regolazione fordista. Ma se si legge quel passo di Gramsci senza l’ansia di essere più fordisti di Ford, si vede che esso ha tutt’altro senso che il riconoscimento della subalternità del comunismo, e in particolare del comunismo sovietico, rispetto alla potenza programmatoria della “borghesia più moderna”. Anzi, quel brano appare assai simile a quanto Stalin sosterrà, vent’anni dopo, nel suo famoso intervento sulla linguistica, a proposito dei rapporti tra struttura e sovrastrutura. Leggiamo il brano di Gramsci:

Fase economica‑corporativa dello Stato. Se è vero che nessun tipo di Stato non può non attraversare una fase di primitivismo economico‑corporativa, se ne deduce che il contenuto dell’egemonia politica del nuovo gruppo sociale che ha fondato il nuovo tipo di Stato deve essere prevalentemente di ordine economico: si tratta di riorganizzare la struttura e i rapporti reali tra gli uomini e il mondo economico o della produzione. Gli elementi di superstruttura non possono che essere scarsi e il loro carattere sarà di previsione e di lotta, ma con elementi «di piano» ancora scarsi: il piano culturale sarà soprattutto negativo, di critica del passato, tenderà a far dimenticare e a distruggere: le linee della costruzione saranno ancora «grandi linee», abbozzi, che potrebbero (e dovrebbero) essere cambiate in ogni momento, perché siano coerenti con la nuova struttura in formazione5.

E adesso leggiamo il passo di Stalin:

Inoltre, la sovrastruttura è un prodotto della base; ma ciò non significa che essa rifletta semplicemente la base, che essa sia passiva, neutrale, indifferente alla sorte della sua base, alla sorte delle classi, al carattere del sistema. Al contrario non appena sorge, essa diviene una forza eccezionalmente attiva, che aiuta energicamente la sua base ad assumere una forma e a consolidarsi facendo quanto è in suo potere per aiutare il nuovo sistema a distruggere e liquidare la vecchia base e le vecchie classi. Né potrebbe essere altrimenti. La sovrastruttura viene dalla base creata precisamente perché possa servirla, perché possa attivamente aiutarla ad assumere una forma e a consolidarsi, perché possa attivamente contribuire alla liquidazione della base antica, decrepita, assieme alla sua vecchia sovrastruttura. Basta che la sovrastruttura rinunci alla sua funzione ausiliaria, basta che la sovrastruttura passi da una posizione di attiva difesa della sua base a un atteggiamento di indifferenza verso di essa, a un atteggiamento eguale verso tutte le classi, perché essa perda il suo valore e cessi di essere una sovrastruttura. Per questo aspetto, la lingua differisce radicalmente dalla sovrastruttura6.

Somiglianze e differenze fra i due brani sono evidenti. Stalin è concentrato sulla funzione permanentemente strumentale della sovrastruttura, mentre Gramsci evidenzia un processo nel quale tale funzione è iniziale e comunque sempre transeunte. Entrambi però fanno parte di un campo ideologico che non mostra alcuna subalternità verso l’avversario capitalistico grande-borghese. Ma ecco un terzo esempio del metodo di Vacca, che si evidenzia in una sua definizione di rivoluzione passiva: «Il concetto di rivoluzione passiva designa un mutamento del processo storico mondiale, caratterizzato da una soggettività delle masse che si può condizionare e dirigere in un senso o in un altro, ma non si può sopprimere. Nella sua generalizzazione, si applica a tutta l’epoca moderna e, per quanto attiene al periodo fra le due guerre presuppone una (temporanea?) subalternità del movimento comunista internazionale alla direzione capitalistica del processo storico mondiale» (p. 129). In questa sinfonia verbale, la nota dominante, sapientemente nascosta, è quel “temporanea” messo tra parentesi e seguito da un punto interrogativo. La domanda è: subalternità temporanea nel periodo fra le due guerre, o temporanea in tutta l’epoca moderna? Nel primo caso, indicherebbe la speranza-illusione di Gramsci, nel secondo il dubbio di Vacca. Ora, tenuto conto che Gramsci muore nel ’37, e non possiede quindi il concetto di qualcosa che sta tra le due guerre, logica impone che il referente sia il dubbio di Vacca, il quale non solo possiede tale concetto ma, fortunato lui, ha tutta la visuale dell’epoca moderna. Peccato, però, che nonostante ciò, questo dubbio non possa mai essere risolto. Non abbiamo forse visto che il proletariato è svanito tra le spire della lotta democratica per il potere? Niente proletariato, niente comunismo, niente subalternità del comunismo alla direzione capitalistica del processo storico mondiale. Solo la notte nera della rivoluzione passiva dove, ancora una volta, non resta che il partito, come “macchina per il governo” propria dell’epoca della “borghesia più moderna”7. Ma nella fascinazione, per la verità ormai démodé, per la “grande borghesia moderna” e per “i punti alti dello sviluppo capitalistico”, c’è chi va molto più in là di Vacca, ed è Angelo Rossi, suo alterno compagno di ricerche e di sentire politico. Nella contrapposizione che egli ritiene di rilevare in Gramsci, tra il “marxismo sovietico” e la “filosofia della praxis”, tra Oriente e Occidente, il marxismo-leninismo costituirebbe «il dogmatismo, l’ideologia di un paese arretrato, “troppo contadino”, che non può costiuire un modello per i paesi che si collocano nei punti alti dello sviluppo capitalistico»8. Secondo Rossi, «il giudizio di Gramsci è che l’URSS […] può raggiungere risultati che la mettano in condizioni di competere solo quando si sarà formata un’intellettualità capace di svolgere le stesse funzioni assolte in Occidente, in America e in Europa, dagli intellettuali»9. E ancora: «La rozzezza del marxismo-leninismo, la sua pretesa di costituire la verità, il suo approccio alla varietà dei saperi e alla complicazione delle tecniche, tutto gli appariva così povero da costituire un insormontabile ostacolo ad una partecipazione cosciente alla modernizzaizone che lo sviluppo dell’americanismo imponeva»10. Eppure questo Gramsci così liquidatorio dell’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre, è lo stesso individuo che nel 1919 scriveva:

I bolscevichi in Russia hanno ristabilito l’ordine sociale, corrotto dai burocratici dello zarismo e dalla fraseologia democratica di Kerenskij. Hanno riorganizzato l’industria, per quanto era possibile farlo col blocco e con la guerra. Hanno eliminato tutte le cause di sperprero e di dissoluzione; perciò hanno resistito due anni alle aggressioni militiari su un fronte di 15 mila kilometri, e dopo due anni, vinti, nella guerra coi tedeschi, hanno vinto la coalizione mondiale delle nazioni vincitrici dell’intesa e della Germania stessa. Solo una società ordinata, disciplinata, forte nelle sue istituzioni economiche e politiche, poteva resistere tanto tempo e vincere così clamorosamente. Il bolscevismo (il comunismo) è l’ordine e la disciplina che i lavoratori hanno instaurato solidalmente. L’antibolscevismo è la corruzione, il disordine, la dissoluzione che continua fino alla catastrofe11.

D’accordo, qui siamo prima della morte di Lenin, prima dello scontro nel partito fra i suoi eredi, prima della lettera a Togliatti del 1926, prima del regime staliniano e di tutto quello che ne è seguito, sino alla caduta del Muro di Berlino e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica che Gramsci, a differenza di Rossi, non vide. Ma prendiamo quanto Gramsci scriveva qualche tempo dopo il passo che prima abbiamo letto:

Costruire una società comunistica vuol dire anzitutto fare in modo che la lotta di classe porti alla creazione di organismi i quali abbiano la capacità di poter dar forma a tutta la umanità. Un organismo, un istituto è tanto più rivoluzionario quanto più contiene in sé questa possibilità di sviluppo12.

Qui non siamo più davanti ad un giudizio storico, ma ad una definizione teorica, così come del resto si può constatare in quest’altro passo, che risale addirittura al Gramsci pre-ordinovista, quello che, un po’ maliziosamente, quasi a svalutarne la portata, viene chiamato il Gramsci degli “scritti giovanili”:

La rivoluzione russa ha ignorato il giacobinismo. […] Il giacobinismo è un fenomeno puramente borghese: esso caraterizza la rivoluzione borghese di Francia. La borghesia, quando ha fatto la rivoluzione, non aveva un programma universale: essa serviva degli interessi particolaristici, gli interessi della sua classe. […] Il fatto violento delle rivoluzioni borghesi è doppiamente violento: distrugge l’ordine vecchio, impone l’ordine nuovo. La borghesia impone la sua forza e le sue idee non solo alla casta prima dominante, ma anche al popolo che essa si accinge a dominare. È un regime autoritario che si sostituisce a un altro regime autoritario. La rivoluzine russa ha distrutto l’autoritarismo e gli ha sostituito il suffragio universale, estendendolo anche alle donne. All’autoritarismo ha sostituito la libertà, alla costituzione ha sostiuito la libera voce della coscienza universale13.

Di fronte a questi paradossi, che prosciugano fiumi di chiacchiere sul “giacobinismo” della rivoluzione russa, e storicizzano l’elitismo che pretende invece di essere atemporale (la casta borghese che, restando sul terreno autoritario, sostituisce la casta aristocratica), la domanda che bisognerebbe porsi è se la loro ispirazione non sopravviva sin dentro ai Quaderni, sin dentro al cruciale concetto di egemonia. Che cos’è, infatti, questo rifiuto dell’elitismo, se non il germe dell’egemonia come sarà poi sviluppata nei Quaderni? Certo, se per egemonia si intende lotta non violenta per il potere, oppure potere prestigioso con cui controllare il potenziale d’azione altrui, allora di quel germe giovanile non resta niente. Ma se per egemonia si intende sostituzione del comando con la reciprocità, allora non deve sorprendere se Gramsci, già dirigente politico, già combattente sconfitto e incarcerato, ancora nel 1931-32, in stesura unica, quindi definitiva, nei Quaderni può scrivere:

Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale14.

Un passo, come si vede, dove si manifesta nel modo più sintentico il nucleo permanente del pensiero di Gramsci, che è lotta teorica e pratica per l’affermazione del valore universale della reciprocità. Opporre dunque un giovane Gramsci “liberal-libertario”, caduto nella “deviazione” bolscevica, ad un Gramsci maturo che con il concetto di egemonia sposa la lotta di potere democratica, moderna, riformatrice e produttivistica, è una mistificazione che, nel mentre nega l’unità ideologica del pensiero di Gramsci, finisce per inscriversi in posizione subalterna nel più generale paradigma del Gramsci che abiura. Ritornando a Vacca, un ultimo esempio del suo metodo su cui voglio soffermarmi, è il modo in cui tratta le note sul Concordato contenute nel Quaderni. Qui Gramsci si sofferma sulle cause culturali di lungo periodo che inducono lo Stato a cedere con il Concordato una parte della sua sovranità alla Chiesa, e delinea una concezione della questione cattolica tutt’altro che compromissoria, poiché indica nella riunificazione intellettuale e morale del paese, di cui i nuovi intellettuali espressione delle classi subalterne dovrebbero essere protagonisti, la via per il superamento, ad un tempo, del confessionalismo e del laicismo cavourriano del “libera Chiesa in libero Stato”15. Dal canto suo, in una presa di posizione della fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, Togliatti spiegò l’intento con cui votò l’art. 7 che recepiva il Concordato nella nuova Costituzione repubblicana: sarebbe stata la trasformazione strutturale derivante dall’applicazione progressiva e integrale del programma della Costituzione, a rendere così forte la sovranità della Repubblica, da ridurre la Chiesa ad un’articolazione “interna” della Repubblica stessa. Il Concordato, allora, avrebbe costituito la disciplina formale di questo rapporto di forze favorevole allo Stato repubblicano16. A quasi settant’anni di distanza, bisognerebbe ammettere che questa ardita scommessa è fallita, poiché da subito i rapporti di forza volsero contro il processo assimilatore, e il Concordato che doveva diventare il limite, in realtà divenne fonte di privilegi, che le successive revisioni hanno sistematizzato ed ampliato sino a quello che gli stessi cattolici “adulti” denunciano come una oscenità simoniaca, ovvero l’8 per mille17. Ora, di fronte a questi esiti storici, che imporrebbero una discussione sulla differenza tra l’analisi egemonica di Gramsci e la pratica assimilatrice di Togliatti, anche al fine di una riflessione attuale sulla questione cattolica scevra da fideismi di ritorno, Vacca, sempre facondo nell’esegesi, in questo caso si limita a relegare le note di Gramsci in una assai poco onorevole nota furtiva (pp. 180-81, n. 14). È qui, allora, che si ha netta l’impressione che il manifesto ideologico sotteso al suo palinsesto storiografico, non solo arriva a tempo scaduto ma, ascrivendo Gramsci ad una tradizione politica che ne ha, se non mistificato, certo edulcorato il pensiero, ne fa un monumento che non ha più nulla da dire su un presente in cui il capitalismo si trova in un punto non già alto, ma addirittura assoluto, del suo sviluppo. La realtà, però, non si adegua a tale assolutezza e, come ho ricordato all’inizio, alla metamorfosi finale del PD è seguita la reazione di un formicolio di iniziative, fra le quali quella della “coalizione sociale”. La “coalizione sociale”, o qualsiasi altra cosa che, per vastità e influenza, dovesse un giorno prendere il posto delle defunta “ditta”, non può però che avere un’ispirazione egemonica, perché un semplice ritorno al mutualismo arrabbiato non avrebbe futuro. Ma deve trattarsi di un’egemonia presa sul serio. L’egemonia è un concetto critico e analitico, da un lato, finalistico e normativo, dall’altro. Nel suo lato critico e analitico, corrisponde all’egemonia in atto, insediatasi nel momento in cui il capitale si è trasformato da momento logico-formale in fatto storico-reale, radicandosi nel sentimento di distinzione, che alimenta la “privatezza” della “società svivile”, e nel comando, che, a seconda delle epoche storiche, può essere alternativamente a predominanza economica o statuale. Nel suo lato finalistico e normativo, esso corrisponde alla nuova egemonia, che è la sostituzione della distinzione con la cooperazione e del comando con la reciprocità. La nuova egemonia, nella misura in cui le nazioni nel loro sviluppo sono tutte attratte nella cerchia del capitale, è un ideale che concerne la stessa condizione umana. Fra queste due forme di egemonia, esiste un’egemonia di transizione, che non può che essere strategica, nel senso che si articola in patti associativi in cui viene riconosciuto il punto di vista dell’altro, per assimilarlo alla norma di reciprocità, sul cui riconoscimento verte il conflitto egemonico. Dal dopoguerra ad oggi, nelle differenti tradizioni nazionali, questa strategia è stata praticata però in modo tale che la forza proponente, anziché assimilare l’altro a tale norma più universale ed astratta, è stata assimilata dall’egemonia in atto. Il mezzo è così divenuto il fine, e l’egemonia si è ridotta ad una “ragion di partito”, mascherata da un vago solidarismo umanitario. Per limitarci alla nostra tradizione nazionale, la riscoperta del fine dovrebbe tradursi in quella “repubblica federale” che già Gramsci, nella morfologia sociale del suo tempo, proponeva quale reciproco riconoscimento tra gli operai e i contadini, e che oggi può riproporsi fra i differenti soggetti che, tanto sulla superfice nazionale, quanto nella struttura produttiva, hanno oggettivamente l’interesse al superamento dell’assolutismo capitalistico. C’è bisogno, allora, tramontati definitivamente i tempi della compassata “battaglia delle idee”, di un’intensa lotta ideologica volta a promuovere questa “presa di coscienza”, ad opera di una nuova leva di intellettuali interessati a ristabilire un’autonomia di pensiero lesa prima da quella antica cessione di sovranità denunciata da Gramsci, poi dal più recente asservimento mediatico. E questo non può che preludere ad un rapporto meno irenico e subalterno con il cattolicesimo che, per quanto scosso e sfibrato, con il rilancio sulla “questione sociale” dell’attuale papato mantiene la sua presa ideologica, specie in questo momento di disunione nazionale. La revisione dell’art. 7 sarebbe perciò altrettanto necessaria dell’abolizione dell’art. 81 sul pareggio di bilancio e di una disciplina “dissolutrice” dei monopoli mediatici, e su questi assi potrebbe prendere corpo il progetto di una nuova scuola, riportata alla sua funzione di formatrice della mente nazionale. Queste ed altre suggestioni si potrebbero trarre da una lettura non più ossessivamente filologica e nemmeno surrettiziamente ideologica dell’opera di Gramsci, non solo dei Quaderni, ma anche degli scritti pre-carcerari. Recentemente, è stato messo in evidenza come lo specifico della filosofia italiana consista nella tensione tra vita e norma18. Come ho cercato di mostrare, una lettura unitaria dell’opera di Gramsci mostra che il suo autore è sì un eterodosso, ma non solo rispetto al marxismo sovietico, con il suo recupero dell’idea marxiana di libertà, bensì anche nei confronti di una cultura nazionale, tanto marxista quanto e ancor più liberale o generalmente “laica”, che più o meno inconsapevolmente è elitistica, di quell’elitismo con cui l’ideologia italiana sublima in una chiusura verticistica la sua irrisolta tensione tra vita e norma, la quale dunque non è da rivendicare, ma da sottoporre a quella terapia riformatrice, per la quale Gramsci impegnò la sua vita19.

  1. G. Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci. 1926-1937, Torino, Einaudi, 2012. I riferimenti a quest’opera vengono dati direttamente nel testo. []
  2. L. Wittgenstein, Lettere 1941-1951, Milano, Adelphi, 2012, p. 398. []
  3. A. Sen, Sraffa, Wittgenstein and Gramsci, “Journal of Economics Literature”, vol. XLI (Dec. 2003), p. 1252. []
  4. F. Aqueci, L’ineludibile principio. A proposito del Gramsci di A. Rossi, http://duemilaventi.net/lineludibile-principio-proposito-libro-angelo-rossi-gramsci/ []
  5. Q. 8, § 185, p. 1053 []
  6. J. V. Stalin, A proposito del marxismo nella linguistica, (1950), in L. Formigari, Marxismo e teorie della lingua. Fonti e discussioni, Messina, La Libra, 1973, pp. 238-39. []
  7. Su questo punto, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, Lo spettacolo della corruzione. Élites e partiti in Pareto, «Politeia», anno XXIX, n. 109, 2013, pp. 55-64. []
  8. A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), Napoli, Guida, 2014,p. 22. []
  9. Ibidem. []
  10. A. Rossi, Gramsci in carcere, cit., p. 23. []
  11. “Bolscevichi e antibolscevichi”, Avanti!, XXIII, n. 317, 16 novembre 1919, ripubblicato in A. Gramsci, Per la verità, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 90. []
  12. “L’esempio della Russia”, Ordine nuovo, I, n. 33, 10-17 gennaio 1920, ripubblicato in A. Gramsci, Per la verità, cit., p. 97. []
  13. Note sulla rivoluzione russa, “Il grido del Popolo”, 29 aprile 1917, XXII, n. 666, ripubblicato in Scritti giovanili, Torino, Einaudi, 19754, p. 106. []
  14. Q. 8, § 179, p. 1050. []
  15. Q. 4, § 53, pp. 493-498, poi Q. 16, § 11, pp. 1866-1874. []
  16. P. Togliatti, Una proposta massimalista: abolire il Concordato, “Rinascita”, a. XVI, n. 5, maggio 1957, pp. 206-209, poi in Id., La politica nel pensiero e nell’azione. Scritti e discorsi 1917-1964, a cura di M. Ciliberto e G. Vacca, Milano, Bompiani, 2014, pp. 2242-2251. []
  17. A. Melloni, G. Ruggeri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Roma, Carocci, 2010, p. 139. Nella progressiva spoliazione della sovranità dello Stato che caratterizza il momento presente, si parla addirittura di un Concordato con gli atei, in base ad un principio di eguaglianza costituzionale evidentemente ridotto al suo puro formalismo. Cfr. R. Alciati, Rivedendo la revisione. Trent’anni dopo il nuovo Concordato. Intervista a Francesco Margiotta Broglio, “Historia magistra”, VI, 16, 2014, pp. 91-101 []
  18. R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino, Einaudi, 2010. []
  19. È singolare che, nella sua ricostruzione, Roberto Esposito non abbia dedicato alcun cenno all’elitismo di Mosca e soprattutto di Pareto, che si può considerare come la formalizzazione filosofica di una costante dell’ideologia italiana. []

De Monticelli su Heidegger. Accordi e disaccordi.

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La vibrante confutazione che Roberta De Monticelli, in nome del valore della verità logica affermato da Frege e Husserl, opera delle patetiche posizioni assunte dagli heideggeriani, dopo la pubblicazione di alcuni degli indifendibili Quaderni neri del loro ancor più nero maestro1, appare però fuori bersaglio quando, dopo aver richiamato l’interpretazione di Jeanne Hersch del nazismo di Heidegger, nella quale si separa nettamente la “modernità” dal “destino dell’Occidente”, la ragion pratica da Auschwitz, l’Illuminismo dal nazismo, alla fine si commenta: “Con buona pace di Adorno-Horkheimer, e della loro oscura Dialettica del’Illuminismo2. Questa chiosa frettolosa, come di chi vuol regolare tutti i conti in un colpo solo, indebolisce l’accusa capitale che De Monticelli muove a Heidegger, di essere stato non tanto nazista, non tanto antisemita, quanto piuttosto e soprattutto sofista, con ciò negando la funzione critica che, da Socrate in poi, fa della filosofia quel che è. Perché sarebbe oscura la Dialettica del’Illuminismo di Adorno-Horkheimer? Forse perché anch’essa è in qualche modo sofistica? O semplicemente perché è, appunto, oscura? Insomma, non sarebbe stata inopportuna una parola di chiarimento sui gradi con cui è possibile negare il criterio del vero e del falso, e quindi distinguere ciò che è semplicemente oscuro, ma non infondato, e ciò che è irrimediabilmente sofistico. Una simile distinzione avrebbe probabilmente portato a ribadire – senza per questo doversi accodare a coloro che insegnano che la verità è violenza, che l’Illuminismo preso di mira da Adorno-Horkheimer ha rivestito troppe volte quel sommo valore con gli stivali dell’oppressore. E avrebbe fatto emergere che non è tanto la forma sofistica dell’argomentazione il motivo per il quale Heidegger appare come un traditore del compito critico della filosofia, quanto piuttosto – senza anche qui doversi adeguare a chi processa la filosofia per evitare di giudicare i cattivi filosofi, la sua adesione al pregiudizio antisemita, quale contenuto culturale che percorre senza soluzione di continuità la mente europea sin dalla prima epoca cristiana. Una mente che, rispetto a quella di altre civiltà, appare in grado di decentrarsi ma solo in rapporto al raggiungimento della potenza, che è caratterizzata da una maggiore motorietà e da un desiderio vitale più pronunciato, ma come sfrenato movimento che si traveste di libertà, e che riconosce l’altro ma quale misura del proprio sentimento di superiorità. È stato Hegel a definire questa morfologia:

«All’europeo interessa il mondo; egli vuole conoscerlo, vuole appropriarsi dell’altro, che gli sta di fronte, vuole porre in luce nella particolarità del mondo il genere, l’universale, il pensiero, l’intera universalità […] Lo spirito europeo contrappone il mondo a sé, si rende libero da esso, ma risolve di nuovo questa antitesi, riprende il suo altro, il molteplice, in sé, nella sua semplicità […] Come nel dominio teoretico, così anche in quello pratico lo spirito europeo aspira all’unità da produrre fra esso e il mondo esterno […] Esso sottopone il mondo esterno ai suoi scopi con un’energia che gli ha assicurato il dominio del mondo»3.

Come si vede, con una narcisistica autocomprensione, la mente europea qui prende coscienza di sé, ma è una coscienza in cui l’altro diviene il simulacro in cui iniettare l’energia esplosiva del proprio sé. Ora, in questa mente che riconosce l’altro divorandolo, sin da sempre l’ebreo incarna il persecutore interno. Se c’è un motivo culturale che accomuna le generazioni europee, e che unisce tanti esponenti del “pensiero più elevato”, come si esprime comicamente l’ostinata heideggeriana4, con lo sterminato “senso comune” popolare, questo è il pregiudizio antiebraico. Se c’è una colpa, allora, che si può, che si deve imputare al nero filosofo della Foresta Nera, è di aver rinunciato non tanto alla critica filosofica in astratto, ma alla critica filosofica del senso comune europeo, trasformando la filosofia in una nenia con cui cullare il sonno di una ragione mai effettivamente divenuta regolatrice dell’azione, neanche nella pura formulazione di Kant. E c’è bisogna qui di richiamare la critica marxiana della scissione di uomo e cittadino? Oppure, a proposito di indifferenza e di indistinzione, si deve accettare l’idea che le formule paranoiche dello pseudosciamano di Todtnauberg possano stare sullo stesso piano del paradosso critico con cui Marx, nella Questione ebraica, mette il senso comune europeo di fronte alla miseria della sua condizione cristiano-borghese?5 Ma questo discorso della mente europea che, ossessionata dal suo interiore persecutore errante, vaga inquieta per il mondo facendolo esplodere della sua libidine di potenza, può sembrare un discorso antiquato, ora che l’Europa non ha più eserciti, ma solo una Banca centrale che amministra con “rigore” il tasso di inflazione dell’eurozona. E se questo “rigore” fosse parente stretto del “rigore” che l’heideggeriana inconsolabile ammira rapita nel delirio antifilosofico con cui Heidegger liscia il pelo alla belva dell’antisemitismo europeo?6 E se la Banca, insomma, fosse la sublimazione di quella potenza che ora non è più politicamente corretto perseguire con gli eserciti?7 Qui è possibile delinerare una risposta differente alla pur coraggiosa domanda che Roberta De Monticelli pone alla fine della sua confutazione, e cioè come fu possibile? Come fu possibile che, dopo il ’45, Heidegger, sdoganato prima in Francia e poi in Italia, dominò con il suo pensiero sul continente per mezzo secolo ancora. Per De Monticelli, Heidegger vinse perché la sofistica del suo pensiero, negatrice di ogni differenza fra nazismo e no, fra vittime e carnefici, fra Illuminismo e Auschwitz, fra ragione e delirio, si impose anche nella mente di chi per sentimenti, storia personale, adesioni profonde si situava su un altro fronte politico8. Questa risposta, non se ne abbia a male l’intrepida autrice, ci sembra una non risposta. Come ci mostra la psicogenesi, la verità è una morale dell’azione se l’azione ha già sperimentato la moralità della cooperazione. È forte invece l’impressione che, in tutta la sua storia, ma ancora nel mezzo secolo e oltre dominato dall’“elevato pensiero” del vate dell’Essere, la mente europea, presa nella socievole insocievolezza della sua “società civile”, non è mai pervenuta a quella moralità cooperatoria da cui può scaturire un genuino attaccamento alla verità logica. È questa la ragione per cui Heidegger con il suo culto del Führer quale interprete del principio di comunità, radice e destino, ha trionfato e trionfa. È questa la malattia dello spirito europeo, che non può essere certo curata, qui non si può che essere d’accordo con De Monticelli9, con quella ultra-indeterminata astrazione del “Potere” su cui, da Foucault a Agamben a Žižek all’Italian theory, rimugina con le migliori intenzioni una certa versione pop della funzione critica della filosofia. Per questo appare fuori luogo l’ironia che De Monticelli riserva, fra le tante entità assimilabili alla Macchinazione heideggeriana, anche al Capitalismo, alla Finanza e al Neoliberismo10. Nessuno può negare la flebile presa che questi termini esercitano sulla desolata realtà del nostro tempo. Ma se il linguaggio difetta, l’assolutismo dell’odierna realtà sociale capitalistica è così compatto che frantuma anche la felice oasi dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, magari sotto specie di una sin troppo impudente offerta di cattedra alla figlia del magnate fresca di laurea da scambiare con qualche lauto finanziamento. Offerta contro cui, con una presa di posizione che le fa onore, Roberta De Monticelli ha pubblicamente protestato. E questa non indifferenza si fa ammirare più di un’ironia che conduce troppo in là la pur essenziale funzione critica della filosofia.

  1. Roberta De Monticelli, L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”, consultabile on line nel sito di “Micromega”. I riferimenti sono al pdf scaricabile da quel sito. []
  2. Ivi, p. 5. []
  3. G. W. F. Hegel, Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften, a cura di H. Glockner, Stuttgart, Fromman, 1927-39, X, pp. 71-80, tr. it. in Pietro Rossi, Storia universale e geografia in Hegel, Firenze, Sansoni, 1975, pp. 102-103, cit. in B. De Giovanni, La filosofia e l’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 230. []
  4. “Il pensiero più elevato si è prestato all’orrore più abissale” (D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri», Bollati Boringhieri 2014, p. 3, cit. in De Monticelli, L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”, cit., p. 1. []
  5. Su questo punto mi permetto di rinviare a F. Aqueci, Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, parte I, cap. VII. []
  6. “Rigoroso e coerente, Heidegger non fa che trarre la conclusione di ciò che ha detto in precedenza. Gli ebrei sono agenti della modernità: hanno diffuso i mali…complici della Metafisica, hanno portato ovunque l’accelerazione della tecnica. L’accusa non potrebbe essere più grave” (D. De Cesare, Heidegger: “Gli ebrei si sono autoannientati”. Nei nuovi “Quaderni neri” del filosofo l’interpretazione choc della Shoah, “Corriere della sera”, 8 febbraio 2015, articolo consultabile on line, e citato da R. De Monticelli, L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”, cit. p. 6). []
  7. Su questo punto mi permetto ancora di rinviare a F. Aqueci, Ricerche semioetiche, cit., parte II, cap. IV. []
  8. De Monticelli, L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”, cit., p. 10. []
  9. Ivi, p. 8. []
  10. Ivi, p. 4. []