Cultura

Un powerpoint di Buon Natale

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Forse perché pressati dalle pirotecniche esibizioni islamiche, quest’anno ci si scambiano auguri da buoni cristiani, ricordando quando il Natale (come la Pasqua) era una  festa che aveva un sapore diverso e portava ai bambini (fortunati di avere una famiglia) un’intensa gioia, e si depreca che il Natale sia diventato  un evento materialistico in cui bisogna consumare e scambiare regali, per essere felici solo un paio d’ore, fino a quando non si è assaliti dal desiderio di possedere un’altra cosa. Ma in questa nostalgica contrizione si dimentica che anche i musulmani deprecano questo tempo materialistico. Astraendo per un momento dai truci pistoleri dell’Islam, ci sono bravi seguaci di Maometto che, indossando una pettorina gialla con su scritto “Polizia islamica”, vanno in giro per i quartieri di piccole cittadine tedesche, invitando le signore a velarsi e i loro mariti a non bere più una goccia di qualsivoglia alcolico. Non contenti, affiggono volantini qua e là agli angoli delle strade in cui si proclama che quei quartieri sono “zona controllata dalla sharia”, e si bandisce alcol, droghe, gioco d’azzardo, musica, concerti, pornografia e prostituzione1. Esagerati, certo, ma il sospetto è che, tanto nella nostalgia “cristiana” per il parco Natale, quanto nel disprezzo “islamico” per la depravazione occidentale, la radice sia uguale, una reazione “morale” basata sull’identità fornita dal proprio Dio, che taciti la coscienza di fronte ad una pratica che, per quanto si voglia, non riesce a districarsi da quel “materialismo” da tutti deprecato. Cristiani e musulmani, infatti, ma anche ebrei e confuciani, continuano a consumare e a vivere per consumare. Se non fossero attratti da questo modo di vita, perché mai quei bravi maomettani in pettorina gialla brigherebbero tanto per andare a vivere fra i “materialisti” tedeschi, quando potrebbero restare a casa propria, a coltivare la loro “pura” povertà? Le guerre, certo, ma quattro milioni di turchi non si sono mica trasferiti in Germania per sfuggire al genocidio. Il sospetto grande, allora, è che a trionfare sia la religione più subdola, la religione della merce, che approfitta delle vecchie divisioni religiose in cui il genere umano si attarda, per imporre silenziosamente il proprio culto, che si annida implacabile come un parassita nella vita stessa (nei sommovimenti demografici, direbbero gli studiosi positivi). Piuttosto quindi, come impone il politicamente corretto, di astenersi nelle scuole dal celebrare il Natale, sarebbe opportuno riaprire gli occhi su quel modo di vita, che è anche un modo di produzione, magari proiettando, al posto delle canzoncine natalizie, un powerpoint sul-modo-di-produzione-capitalistico-giunto-nella-sua-fase-di-dominio-assoluto. E, in quest’epoca di disdegno per le ideologie, per evitare l’effetto “libretto rosso”, lo si potrebbe fare illustrare da Roberto Benigni.

  1. La Germania legalizza la polizia islamica?, “Il Foglio”, 12 dicembre 2015. []

Lo sciopero dei Quaderni. Sul libro di Fabre su Gramsci

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Da qualche decennio, la storiografia rimuginatrice, appuntandosi su qualche episodio controverso, dipingeva un quadro di tradimenti inconfessabili a spese di un Gramsci impegnato a scrivere für ewig i suoi Quaderni, sottoposti poi a tagli e mutilazioni che ne avrebbero stravolto il senso. Fortunatamente, la ricostruzione di Giorgio Fabre dei tentativi di liberazione di Gramsci1 si stacca da questa rappresentazione ormai frusta e, sia con indagini nuove, sia utilizzando in modo nuovo elementi già noti, ne dipinge un’altra dai colori inconsueti. Certo, per un’opera di storia, molti sono i punti cui solo si allude o si accenna di passata, rifugiandosi nella comoda formula che poco e confusamente si sa, e se la storiografia rimuginatrice tedia, quella allusiva inquieta, ma nel complesso la ricostruzione di Fabre tratteggia oggettivamente il dipanarsi della vicenda, nella quale il prigioniero, benché sempre promotore e protagonista delle trattative, appare come schiacciato dalla trama d’insieme, le cui forze e personaggi si possono sinteticamente così indicare:

1) l’oggettiva e in qualche caso soggettiva ostilità degli “antigramsciani” del piccolo e debole Pcd’I, per i quali Gramsci è solo uno strumento politico da utlizzare nelle campagne internazionali per la liberazione dei prigionieri politici, alle quali non ci si può e non ci si deve sottrarre, pena il discredito politico;

2) il comportamento “mediatorio” di Palmiro Togliatti, stretto tra l’antico legame di stima e d’amicizia per Gramsci e la ragion di partito, che è anche ragione di vita, per le quali non ostacola e a partire da un certo momento anche promuove le mobilitazioni internazionali pro prigionieri tanto temute da Gramsci per i loro effetti dirompenti sulle trattative da lui intraprese;

3) l’atteggiamento imprudente delle sorelle Schucht che spesso diffondono incautamente notizie riservate sulle trattative, contribuendo così a creare “disastri”, giusto il termine di Sraffa, a sua volta responsabile almeno in parte di qualcuno di essi;

4) la reazione di Gramsci a questo insieme oggettivo e soggettivo di nequizie, che si concretizza in ciò che si potrebbe chiamare “lo sciopero dei Quaderni”, quando, giudicando che il partito lo ha a tutti gli effetti “scaricato”, ritiene che non ha più senso quel suo lavoro di scrittura, portato avanti per la vita e l’educazione del partito e del “proletariato”;

5) la sostanziale leatà dei sovietici, leggi Stalin, i quali sono gli unici che, tanto nel 1927-28 quanto nel 1933-34, assecondando propositi di Gramsci, pongono in essere tentativi ad altissimo livello, partitico, statuale e diplomatico, per la sua liberazione ed espatrio in Russia;

6) il comportamento freddamente strumentale di Mussolini, che usando tutti gli organi dello Stato, dalla diplomazia alla polizia ai servizi segreti, anticipa e prevede le mosse di Gramsci, il quale tuttavia, consapevole di ciò, fa in modo che quel che ottiene appaia come concessione del carceriere;

7) infine, l’atteggiamento altrettanto strumentale della Chiesa cattolica, per la quale Gramsci è solo una pedina da giocare in trattative “maggiori”, il cui esito negativo per altro è segnato da una pregiudiziale chiusura verso i “bolscevichi”.

Come si vede, emerge chiaramente da questa ricostruzione che i bolscevichi, i sovietici, Stalin in persona, non esitano a spendersi per Gramsci, un leader che da sempre giudicano ideologicamente e politicamente affidabile, anche nei momenti controversi, come ad esempio nel 1926, quando tramite l’ambasciatore a Roma, Gramsci anticipa riservatamente a Stalin il significato non trotzkista del suo richiamo all’unità del partito bolscevico, contenuto nella famosa lettera a Togliatti a Mosca (pp. 202-3). Certo, i sovietici vanno per la loro strada, e non sempre sono amichevoli. All’epoca delle purghe, tra la fine del 1936 e l’inizio del 1937, con l’NKVD premono su Gramsci per fargli dire tutto ciò che sa sui trotzkisti italiani, che avevano cercato di appropriarsi della sua figura, ma Gramsci li respinge irridendoli (p. 390 sgg.). L’immagine, allora, che viene fuori è quella di un Gramsci “gramsciano”, impossibile da ridurre a qualcuna delle fazioni in lotta, che porta avanti la sua ricerca ideologica sino a quando vede spazi politici di manovra. Ma quando, a suo giudizio, l’orizzonte si chiude, e non certo per colpa dei sovietici, la sua risposta non è la conversione, o l’abiura, magari consegnata a delle note segrete, bensì lo “sciopero dei Quaderni”, un silenzio eloquente rivolto al suo mondo di riferimento: “gli operai comprenderanno perché Gramsci non lavora”2. Mussolini, invece, le cui responsabilità sono state banalizzate dal polverone revisionistico dell’ultimo quarantennio, appare come il suo vero ed unico carceriere, spalleggiato da una Chiesa cattolica chiusa in una politica di duro, anche se sterile, realismo. Ma questo del rapporto di Gramsci con la Chiesa di Roma, e in generale con il cattolicesimo, è un punto della ricostruzione di Fabre che va discusso, così come la concezione che Gramsci avrebbe del suo ruolo di leader e, in generale, del metodo di lotta politica da lui praticato. Ma andiamo con ordine.

Religioni. Fabre giudica lunare, non chiara e vagamente saccente (p. 305 e p. 307) la fiducia di Gramsci a lungo riposta nel Vaticano per ottenere la sua liberazione con una trattativa tra l’URSS e la Santa Sede. In generale, poi, il suo rapporto con la Chiesa gli appare dettato da una concezione “religiosa” della politica e dello Stato sovietico, concepito come uno Stato-Religione (p. 308). L’identificazione della religione con l’ideologia, morta o viva che sia, è un abuso concettuale di questi tristi tempi. Sarebbe bene invece tenere conto dell’analisi di Gramsci nei Qauderni del Concordato intervenuto tra Chiesa e Stato ad opera del fascismo3. In quelle note appare chiaro che Gramsci vede la Chiesa cattolica come una monarchia teocratica cosmopolita, e non è inverosimile ipotizzare che la sua insistenza sulla mediazione vaticana discenda proprio dalla considerazione della Chiesa quale potenza statale “tolemaica”, giusto per usare una categoria gramsciana, alla quale egli si oppone in quanto membro eminente di un esercito internazionale in lotta per la modernità “copernicana”. Dunque, come riconosce lo stesso Fabre, uno scambio tra Gramsci e un qualche vescovo cattolico detenuto in URSS sarebbe stato un logico scambio di prigionieri di pari rango tra due potenze politico-ideologiche contrapposte (p. 142). In tutto ciò ci può anche essere della presunzione ideologica, ma bisogna pur notare che, come ricostruisce lo stesso Fabre, è la Chiesa a rispondere per prima con una chiusura ideologica pregiudiziale verso il “mondo nuovo” dei bolscevichi, con le disastrose missioni in URSS del gesuita d’Herbigny e la negativa influenza dei suoi rapporti su Papa Ratti (pp. 89-94). Una chiusura, si potrebbe dire, non molto diversa da quella che, ancora solo a livello dello strato intellettuale, essa qualche secolo prima aveva riservato alla scienza galileiana, e che ora, sul piano della “politica di massa”, secondo l’appropriato termine di un recente saggio4, si traduce in una sleale politica di decisioni segrete e finte trattative. Quello che sembra, dunque, un lunatismo ideologico di Gramsci, è semmai un errore di calcolo politico, poiché egli crede e continuerà a credere a lungo di trovarsi di fronte ad un avversario leale, se non sul piano della dottrina, almeno su quello politico-diplomatico, mentre invece la Chiesa si rivelerà un organismo segnato, come apparirà evidente almeno sino al papato giovanneo, da un aggressivo risentimento verso chi si fa interprete delle novità del corso storico. Le quali però non sono “negazioni” che si convertono automaticamente in “ricostruzioni”. Riferendosi ad un articolo del 1922 apparso su l’Ordine Nuovo5, Fabre nota che «Gramsci aveva simpatia per un eventuale “unionismo” in Russia perché pensava che il cattolicesmo, dinamico e moderno, sarebbe stato più utile all’URSS della religione ortodossa» (p. 305). Per la verità, in quell’articolo di tenore informativo, non c’è traccia di tale auspicio. Ma è indubbio che un certo modernismo “produttivistico”, che Gramsci condivide con il partito bolscevico, e che applicato all’Occidente si esprimerà nelle ambivalenti note su americanismo e fordismo, costituisce il punto critico della sua concezione. Senza attendere i fallimenti “copernicani” e le odierne risorgenze “tolemaiche”, già Sorel aveva intravisto il perdurare della vasta “cité cristiana” e la debolezza della “scissione” socialista, rispetto a quella antica che il cristianesimo operò nei confronti del paganesimo.6 Nel frattempo, inoltre, si è imposta la “scissione” della modernità “produttivistica”, che ha assorbito in un ciclo di “rivoluzione passiva” ancora in corso la “ricostruzione” cui sembravano destinati i dominati sociologicamente arroccati nelle fabbriche. Qui la “questione vaticana”, che oggi è divenuta “questione religiosa” tout court, diventa “questione territoriale”. C’è da chiedersi se l’alleanza tra operai e contadini, proposta da Gramsci in sostituzione del blocco agrario-industriale, non avrebbe dovuto mettere in discussione in primo luogo il “produttivismo” del blocco nordista. È un problema che, mutati i dati sociologici e geografici, oggi si pone a livello mondiale, dove l’“innaturalezza” del “produttivismo” richiede di essere contrastata da una “logica naturale” della modernità.

Capo. Ma veniamo alla concezione che, secondo Fabre, Gramsci avrebbe del suo ruolo di leader. A più riprese, Fabre avanza delle considerazioni sull’uso del termine “capo” nel lessico dell’Internazionale comunista, del PCUS e del Pcd’I, il cui succo è che mentre in quest’ultimo, anche da parte di Gramsci, si indulgeva all’uso di tale termine, con il quale ci si riferiva al leader che, in empatia con gli operai, è capace di esprimere le aspirazioni di tutta la classe, nel Comintern e nel partito sovietico, dove uno dei capi di imputazione a Trotskj era stato quello di avere creato il “culto della personalità”, si preferiva usare, anche dopo la vittoria di Stalin, il termine di dirigente, a sottolineare come fosse il collettivo a guidare il partito7. È interessante notare come i sovietici, in particolare gli stalinisti, e comunque gli ambienti del comunismo internazionale, demonizzati da tutta una storiografia “anti-totalitaria”, appaiano molto più attenti del partito italiano nel respingere una visione verticistica e, in qualche misura, irrazionalistica della leadership. Tuttavia, non si può certo dire, come sembra suggerire Fabre, che Gramsci, con il suo saggio, Capo, del 1924, e con le sparse note carcerarie sull’argomento, sia particolarmente interessato a tale concezione. In realtà, il suo vero interesse è per la questione più generale del rapporto tra governanti e governati. In proposito, senza considerare certe chiare formulazioni dei Quaderni,8 già la Questione meridionale, che soprattutto nella prima parte, a torto sempre trascurata, è anche un resoconto della sua pratica politica, va nel senso dell’assorbimento nelle masse della funzione dirigente delle élites, attraverso “lotte cognitive” che modifichino “molecolarmente” i rapporti di forza e la “mente collettiva”9. Cosa, invece, che non si può dire del partito che a Gramsci ufficialmente si richiamava, il PCI, dove, mondato dalle punte irrazionalistiche, il verticismo del leader o del “gruppo dirigente” è rimasto il tratto distintivo di un organismo che, dall’alto, coopta nello Stato parti della società sin allora rimaste escluse10. L’ideale gramsciano della fine della divisione tra governanti e governati sfuma così in un élitismo “gentile” che, nell’odierno disfacimento ideologico, rinuncia persino a formularsi11.

Segreti. Veniamo così all’ultimo punto su cui la ricostruzione di Fabre consente di avanzare qualche considerazione, cioè il metodo della politica praticato da Gramsci. Fabre osserva che Gramsci, probabilmente al corrente di dettagli segreti attinenti a trattative intercorse già negli anni Venti tra Italia e URSS, trasmette in generale l’impressione di essere interessato alle procedure segrete, da lui considerate come una parte del modo di fare politica (p. 135). E a proposito del fatto che Gramsci, come abbiamo visto, anticipi a Stalin, tramite l’ambasciatore sovietico a Roma, contenuto e significato della lettera dell’ottobre 1926 a Togliatti a Mosca, Fabre nota ancora che «c’erano dei fili segreti che lo legavano a Mosca e, parrebbe, a Stalin che, nel partito italiano, forse solo lui conosceva. Sono legami che possono spiegare molto meglio proprio l’atteggiamento benevolo che le autorità sovietiche continuarono sempre ad avere verso di lui» (p. 203). Alla luce di queste osservazioni, la contrapposizione che Gramsci in quella lettera instaura tra “pedagogia scolastica” e “pedagogia rivoluzionaria”, ovvero tra conformismo e reciprocità12, appare non come l’appello di un profeta disarmato, se non addirittura sprovveduto, ma come una solida costruzione politica a più livelli, riservata e pubblica, che trascende il realismo dei rapporti di forza tipico della lotta tra fazioni, cui invece si attiene Togliatti, suscitando in Gramsci la “penosissima impressione” di cui gli scrive nella lettera di risposta13. Tale “impressione” è perciò anche il disappunto di chi vede compromessa la propria iniziativa dall’intrusione di un metodo di lotta politica “inferiore”, in qualche misura “antiquato”. Su questo terreno del “metodo” della politica, questo contrasto non è l’unico attestato tra Gramsci e Togliatti. Come è stato mostrato, in quel vero e proprio confronto politico che è il dibattito intellettuale su Croce, mediato epistolarmente dal carcere da Tanja e Sraffa, all’interesse di Gramsci per la “discussione nel merito” Togliatti opporrà l’esigenza formale di “conoscere le tesi”, per poter fissare gli “schieramenti” attorno alla “linea”14. Fabre osserva che Gramsci non sbagliava a considerare il livello segreto come una parte del modo di fare politica, poiché «all’epoca gli “scambi” condizionavano i rapporti tra gli Stati europei e in qualche modo facevano parte della loro politica estera» (p. 135). Ma sembra plausibile supporre che non c’è solo questo motivo contingente e personale alla base dell’interesse di Gramsci per il livello segreto o riservato della politica, ma anche l’intento di elevare gli aspetti “machiavellici” della politica all’altezza di un metodo che privilegia la “mobilità” dei contenuti rispetto alla fissità delle “posizioni”, e ciò proprio in vista di quell’assorbimento dell’élite nelle masse che è l’ideale normativo di un agire politico in lotta per un cambiamento di paradigma della mente collettiva. Fabre si meraviglia che nel periodo in cui fu redatta la Costituzione, il partito non fece mai riferimento alla parola d’ordine dell’Assemblea Costituente, lanciata da Gramsci negli anni Trenta (p. 445). Ma un tale richiamo avrebbe comportato di riaprire i contrasti di quegli anni, che come si vede furono nell’essenza contrasti di metodo politico. E d’altra parte, l’aver glissato su di essi comportò l’instaurarsi di una “doppia coscienza”, quella “culturale” e quella “pratica”, da cui derivò un progressivo riassorbimento di quella ardita ricerca nel vecchio metodo élitistico, i cui effetti arrivano sino all’odierna afasia.

In conclusione, la ricostruzione di Fabre offre una utile base storiografica per evidenziare due caratteristiche ideologiche di Gramsci, e cioè il suo “galileismo etico-politco” al quale, dopo la “svolta rivoluzionaria”, si mantenne fedele sino alla fine; il suo “socratismo” politico, inteso non come rifiuto intellettualistico dei rapporti di forza, ma come pratica politica in cui anche gli aspetti “machiavellici” vengono riorganizzati in funzione di una trasformazione “copernicana” della cognizione sociale. Il silenzio che interrompe la redazione dei Quaderni è il segno degli ostacoli soggettivi e oggettivi che incontra questo impianto politico-ideologico, la cui attualità, pur nelle mutate condizioni odierne, è però evidente.

  1. G. Fabre, Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato, Palermo, Sellerio, 2015. Salvo in qualche caso, i riferimenti di pagina a quest’opera sono dati direttamente nel testo. []
  2. Rapporto Blagoeva, in appendice a G. Fabre, Lo scambio, cit., p. 510. Cfr, anche p. 371 e p. 389 []
  3. Q. 16, § 11, pp. 1866-1874. []
  4. M. Filippini, Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società, Roma, Carocci, 2015. []
  5. Il Papa e la chiesa scismatica, “l’Ordine Nuovo”, 23 gennaio 1922, poi in A. Gramsci, Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, Torino, Einaudi, 1972, pp. 450-452. []
  6. Per il concetto di cité in Sorel, pressoché misconosciuto, e in generale per un’interpretazione di Sorel come teorico dei fondamenti etici della cognizione sociale, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, La mente sociale in George Sorel, in S. Gensini, R. Petrilli, L. Punzo, (a cura di), «Il contesto è il filo d’Arianna». Studi in onore di Nicolao Merker, Pisa. ETS, 2010, pp. 177-200. []
  7. G. Fabre, Lo scambio, cit., pp. 44-48, 142-43, 150, 173, 218-19, 417, 454. []
  8. «Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale» (Q. 8, § 179, p. 1050). Cfr. anche Q. 10, § 41, p. 1320, Q. 12, § 2, p. 1547, Q. 15, § 4, p. 1752. []
  9. A questo proposito, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, Nord e Sud, Italia e America. La questione meridionale in due grandi nazioni industriali, “Paradigmi”, 3/2014, pp. 177-198. La Questione meridionale è forse uno dei primi scritti di Gramsci in cui appare il termine “molecolare”. []
  10. Questa concezione si ritrova ancora nelle parole di un supersttite del vecchio PCI, fra gli autori dello Statuto del nuovo PD, Alfredo Reichlin, che, alla domanda quale sia la sua idea di partito, risponde: «è una parte di società che si organizza in nome di una visione della realtà e per consentire a pezzi del Paese di entrare in una dimensione statale» (A. Ferrucci, Reichlin: “Lo so, alla fine noi di sinistra siamo stati sconfitti”, “Il Fatto Quotidiano”, 2 novembre 2015, p. 5). []
  11. Un altro più giovane supersstite del PCI, Antonio Bassolino, interrogandosi sulla natura del nuovo PD, in cui ora è impegnato a sostenere “l’uomo solo al comando” di turno, scrive su Fb: «“Che cos’è un partito?”, mi chiede il nipotino. “Lasciamo stare, oggi è difficile spiegarlo e capirlo” gli rispondo» (“la Repubblica”, 14 novembre 2015, p. 17). []
  12. Per questa interpretazione, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, 2013, pp. 149-150. []
  13. A. Gramsci, Lettere 1908-1926, Torino, Einaudi, 1992, p. 471. []
  14. A. Rossi, Gramsci in carcere, Napoli, Guida,2014, p. 262. []

Europa, a proposito del suo contributo al mondo di domani

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Con onestà pari all’ostinazione con cui prevede che il mondo finirà inghiottito nel buco nero della tecnica, Emanuele Severino riconosce che «proporsi l’unità politica dell’Europa è comunque mirare a una politica che garantisca la gestione unitaria, dunque efficiente, del capitalismo europeo»1. Guido Rossi trova giustamente stimolante quest’analisi, e alla potenza della tecnica oppone giudiziosamente quella dell’idea. Peccato però che l’idea alla quale si appella, sia quella di un’Europa politica federalista, la quale secondo Rossi addirittura «potrà ristabilire l’ordine mondiale, dopo la fine della pax Britannica e il declino della pax Americana»2. In questi voli pindarici, Rossi è in buona compagnia. La pensa così Habermas, e la pensa così Scalfari, per citarne solo alcuni. Scalfari, in particolare, nei suoi articoli domenicali prospetta un mondo globalizzato governato da un direttorio composto da USA, UE, Russia, India e Cina. È una prospettiva che si ammanta di realistica saggezza, ma che in realtà occulta dati di fatto essenziali. Un tale direttorio, infatti, è tutt’altro che una meta di stabilità, per fatti logici e storici. Il fatto logico è che il federalismo non è portatore né di reciprocità tra governanti e governati, né di pace tra le nazioni. Il federalismo comporta una verticalizzazione del potere, e dà luogo a Stati che perseguno in vario modo la potenza. Basta ripassarsi la storia degli Stati Uniti, ma anche solo della Confederazione elvetica, per avere molte conferme storiche. Si dirà, ma come, la pacifica Svizzera persegue la potenza? A parte che la pacifica Svizzera è fra i paesi con la più alta diffusione di armi da fuoco, che fanno la loro comparsa nelle non infrequenti esplosioni psicotiche che rodono quel paradiso terrestre. Ma questa è una violenza interna. Ciò che conta è che con la potenza finanziaria dei suoi gnomi, la Svizzera ha prefigurato ciò che oggi sta diventando l’Europa con l’euro, il quale è la sublimazione finanziaria di ciò che un tempo fu la potenza militare. La sublimazione è un processo difficilmente controllabile, così a Rossi con le migliori intenzioni scappa di dire che l’Europa finalmente federale ristabilirà l’ordine mondiale. Come volevasi dimostrare. Un altro fatto che Scalfari occulta con la sua prospettiva di un direttorio mondiale composto dai cinque “grandi”, è che Russia, India e Cina non sono né Stati né nazioni, ma solo “grandi spazi”. In Russia, c’è chi, come Aleksandr Dugin, ascoltato consigliere di Putin, rivendica questo fatto, parlando di “grande spazio eurasiatico”. Ora, il “grande spazio” è stabile come un castello di carte. Non è un caso che la millenaria Cina è colta dal terrore davanti alla fermezza con cui un uomo solo come Liu Xiaobo rivendica, sebbene, come lui stesso riconosce, con l’antiquato linguaggio della scienza politica occidentale, la “democratizzazione” della Cina, cioè la scomposizione ed emancipazione delle molte etnie che formano il suo spazio imperiale, di cui ciò che fu il glorioso Partito comunista cinese si è ridotto ad essere l’ultimo, ringhioso cane da guardia. Lo stesso si può dire dell’India, dove la presenza in superfice di istituzioni rappresentative rende solo più flessibili le oscillazioni profonde del castello di carte. Un mondo retto da un direttorio di tal fatta è dunque un mondo in cui popoli e nazioni saranno governati con il bastone del lavoro servile e con la carota di qualche lustrino consumistico. Non meraviglia che Scalfari non veda tutto ciò, essendo egli fermatosi nella sua analisi del capitalismo alla nozione puramente polemica di “razza padrona”. Severino, invece, nella sua analisi delle prospettive europee e mondiali, non ha nessuna remora a ricollegarsi alle analisi di Marx sul denaro, anche se la redazione del Corriere gli fa i brutti scherzi, come Landini al Marchionne di Maurizio Crozza. In una didascalia che dovrebbe spiegare all’inclita chi è Karl Marx, di cui si riproduce la classica icona del Carlo barbuto, il redattore scrive infatti che costui «nel suo famoso libro Il Capitale elaborò un’analisi dell’economia industriale moderna che oggi appare superata». Come mai allora il Corriere pubblica un articolo che si rifà alle tesi di tale “superato” filosofo? Tornando alle cose serie, il capitalismo di cui Severino con tanta spregiudicatezza vede lo stato di crisi terminale, è lo stesso sistema che, specie in questa fase di capitalismo assoluto, non ammette né pace, né reciprocità tra governanti e governati, ovvero le due cose di cui più ha bisogno il mondo di domani. Se c’è dunque un contributo che l’Europa può dare a tale mondo a venire, è quello di coltivare e sviluppare le differenze, ma in modo tale che ogni differenza sia una lingua universale in cui tutte le altre possano essere comprese e tradotte. È quello cui aspirarono gli uomini dell’Umanesimo, del Rinascimento e dell’Illuminismo, ma fermandosi per vincoli strutturali davanti all’invalicabile limite delle piccole cerchie intellettuali. La sfida ora è di scrivere quel grande libro passando dall’intelletto individuale alla mente collettiva.

  1. E, Severino, La tecnica unirà l’Europa, “Corriere della sera”, 3.8.2015, p. 30 []
  2. G. Rossi, L’Europa si salverà solo se sarà federale, “Il Sole-24 Ore”, 9.8.2015, pp. 1 e 14 []

Heidegger, la filosofa e il Corriere antigermanico

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Sul Corriere della sera del 31 luglio 2015, a pagina 41, la “Terza pagina”, appare un altro articolo della filosofa Donatella Di Cesare sui Quaderni neri del filosofo crociouncinato, Martin Heidegger. Titolo: Il monito di Heidegger ai tedeschi: «Non piegatevi alla democrazia». Occhiello: Rimase salda la fede del pensatore nella missione mondiale della Germania. La filosofa dichiara in apertura che non le basta il ritornello di un Heidegger hitleriano e antisemita. Lei ritiene doveroso «comprendere quel che è avvenuto in Germania, prima e dopo il 1945». Questa dichiarazione è molto importante, perché fa capire perché il Corriere pubblichi articoli di questo tenore, con l’asettica titolazione redazionale sopra riportata, e in cui si possono leggere espressioni come «l’aggettivo “metafisico” indica la profondità di un antisemitismo a cui è attribuito un rango filosofico». Il fatto è che la filosofia in questa storia non c’entra niente, o meglio, è la foglia di fico di un sordo fronte antigermanico, economico politico e culturale, che non ha il coraggio di affrontare a viso aperto l’odierna Germania eurocratica, e la punzecchia con simili polemiche culturali, in cui vengono fatte passare enormità che in tempi normali non sarebbero degne nemmeno del cestino della carta. Insomma, più che alla filosofa, è al Corriere della sera e a quegli ambienti di cui dicevamo, che importa non tanto capire, ma cercare di contenere la debordante Germania del dopo 1945, un dopo che riguarda soprattutto i nostri giorni. Le prove di questa che si ritiene una astutissima tattica polemica politico-culturale stanno nel contenuto dell’articolo in questione, stilato con il solito sprezzo del ridicolo dalla filosofa “comprendente”, autrice per altro di un altro articolo sul Corriere in cui, guarda caso, dava per morta la filosofia tedesca1. Insomma, la Di Cesare è vox clamantis, ma dietro c’è chi ghigna, pensando di far chissà quale dispetto all’odiata Teutonia. Dicevamo, le prove. La filosofa, infatti, al di là dell’ormai stucchevole antisemitismo, è interessata a far emergere ulteriori contenuti di cui i nuovi Quaderni neri sarebbero una preziosa testiomonianza. Quali sono questi contenuti? Il primo è l’interrogazione di Heidegger circa la «scrupolosa radicalità con cui i tedeschi compiono anche gli errori più eclatanti». La filosofa subito ci rassicura: rispetto a ciò, in Heidegger non c’è critica o ripensamento, poiché «Heidegger fa corpo con il popolo tedesco». Tradotto: i tedeschi non cambiano mai, come dimostra l’ostinazione con cui stanno imponendo l’austerità che ci sta devastando, ma alla quale non possiamo sottrarci se vogliamo continuare a partecipare al gran ballo di società, anche se, come direbbe Berlusconi, ci tocca ballare con la zitella coi baffi. Il secondo contenuto è la denuncia da parte di Heidegger dello «scandalo» non dello sterminio degli ebrei, ma del fatto che alla Germania «è stato impedito di compiere la sua missione nella storia». Per Heidegger, lo scandalo mondiale che minaccerebbe la Germania è «l’incapacità di immergersi nel proprio destino, disprezzando il “mondo” della modernità». Qui la traduzione, anche per colpa di Heidegger, che infila una delle sue frasi a gomitolo pazzo, non è proprio immediata, e bisogna aspettare la fine dell’articolo per coglierne il senso, che intanto provvisoriamente è il seguente: questi tedeschi sono folli, fissati con questa missione mondiale cui li chiamerebbe il loro destino. Il terzo contenuto è la preoccupazione di Heidegger che la Germania perda la propria essenza: secondo la filosofa, «Heidegger incita i tedeschi a non tradire se stessi, a non arrendersi all’occupazione, a non sottomettersi alla “democrazia mondiale”». Anche qui, la traduzione non può che essere provvisoria, ma è abbastanza chiara: questi tedeschi non si sono mai arresi, e sotto sotto non sono affatto “democratici”, perché con la scusa delle “regole” e dei “compiti a casa” tengono il banco tutto per loro. Il quarto contenuto, infine, con cui si chiude l’articolo, chiarisce tutti quelli che precedono. Infatti, la conclusione della filosofica vox clamantis è che il resoconto degli anni tra il 1945 e il 1948 che Heidegger opera nei Quaderni neri, è quello di un Germania «violata, esausta e dissanguata, ma non definitivamente sconfitta, pronta a ritrarsi nel proprio autunno, in attesa che torni la sua ora nella storia. Perché quell’ora verrà. E la Germania non potrà più mancarla». E, infatti, l’ora è giunta, e la Germania la sta cogliendo in pieno, con grande scorno degli ambienti antigermanici di cui dicevamo, ai quali, nella loro pavidità, non sta restando altro che nascondersi dietro i patetici sofismi della “filosofa che vuole capire”.

  1. La filosofia tedesca è morta. Dopo 300 anni []

Una storia che potrebbe non cominciare mai

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Elaborare universalmente la propria particolarità. Lo chiamano nazionalismo. Il referendum greco sarebbe espressione di nazionalismo. Roba deteriore. Ma si può davvero pensare che i popoli si dissolvano in una nuvola di regole, parametri e compiti fatti a casa? Si può davvero pensare che la salvezza sia nel fare le riforme? Questa è la pretesa delle cerchie governanti che i media amplificano con voce stentorea. Dov’è la forza di questo discorso da prefetto di disciplina? La forza, secondo alcuni, sta nelle ricchezze improvvise, nelle bolle destinate a sgonfiarsi, nelle strane abbondanze di questi decenni dopati dagli status symbol e da un’opulenza fondata sul nulla. I popoli, in tutti questi anni, si sarebbero fatti corrompere. Erano poveri e dignitosi, ma all’improvviso, si sono scoperti diversi, e ora cercano una strada. Le regole e i parametri, allora, sarebbero la faccia della propria estraneazione. Ma questo discorso funzionerebbe se regole, paramteri e riforme assicurassero ricchezza. Regole e parametri sono invece il regno della miseria, dove pochi gozzovigliano. E, d’altra parte, abbandonare una dignitosa povertà, coi debiti che comporta, non può essere una colpa. Mentre è stupido affidarsi ad una ricchezza che si sgonfia al primo refolo speculativo. Bisognerebbe essere dignitosamente ricchi. È questo che significa quel voler restare nell’euro senza dover fare quegli odiosi compiti a casa? L’euro così non sarebbe più una camicia di forza, ma un moltiplicatore unitario di differenze. Lo sappiamo, oltre alla moneta, ci vorrebbe una fiscalità e una spesa pubblica comuni. E non è un caso che prima sia venuta la moneta. Segno che l’euro non era fatto per fare felici i popoli, che infatti ora fanculeggiano. Come se ne esce? Come possono i popoli ritrovare se stessi, quando altri popoli stanno per perdersi? Perché, come ci fu spiegato, la felicità è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in una volta e simultaneamente1. Così, si credeva di essere andati tanto avanti, ma ci si riscopre ancora nella preistoria. Perché se i popoli sono infelici, è perché hanno appena cominciato a porsi sul piano della storia universale. E le forze produttive sono ben lontane da quell’immenso incremento necessario ad evitare che si socializzi la miseria e tutta la vecchia merda2. Ma come si incrementano queste forze produttive? Se il loro sviluppo comporta la totale espropriazione dell’intera massa dell’umanità, quale condizione della sua rivolta contro chi di esse si è appropriato, l’umanità sarà così fortunata da arrivare un attimo prima che il sistema nel suo insieme non abbia divorato le condizioni della propria sostenibilità? L’ecologia. Ovvero la sensazione che la storia non possa cominciare mai. Che chi se l’è goduta, se l’è goduta, e gli altri, semplice materiale biologico che non ha mai preso forma. Bisognerebbe accellerare. Rendere infinitamente più veloce l’elaborazione degli uomini da parte degli uomini, rispetto all’elaborazione della natura da parte degli uomini. Ma è qui che si è perso il bandolo della matassa. Per questo, da un lato ci sono i banditori delle regole, dall’altro le prèfiche dell’imminente disastro. Laudato si’. Ammuina, o una ironica provvidenza riavvia il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente?

  1. K. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Roma, Editori Riuniti, 19722, p. 25 []
  2. Ibidem []