Cultura

Il Gramsci di un nuovo inizio

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I libri, come il vino, hanno bisogno di tempo. Quando nel 2012 uscì il libro di Vacca su Gramsci1, ci si concentrò soprattutto sul suo carattere di indagine storica. Lo sfondo ideologico si intravedeva, eccome, ma lo si poteva tralasciare, in attesa che la realtà si incaricasse di verificarne le ambizioni. Non che, per i criteri di un’indagine storica, tutto fosse soddisfacente. Ad esempio, non si precisava mai in che lingua o lingue fossero redatti i documenti d’archivio inediti della Corrispondenza Schucht cui Vacca faceva continui riferimenti. Del ricco, variegato e drammatico mondo degli Schucht, verso il quale Vacca non nascondeva la sua insofferenza (p. 187), Tania, una donna colta e poliglotta, veniva fatta apparire, quando non «tortuosa ed allusiva» nella sua prosa epistolare (p. 269), semplicemente come colei che «traduce», «trasmette», «trascrive», «copia», insomma un semplice tramite tra Gramsci e i suoi ben più importanti interlocutori. Lo stesso ruolo, d’altra parte, Vacca assegnava a Sraffa, da Wittgenstein considerato la sua “miniera” filosofica2, e da Sen indicato come l’autore di una “svolta comunicazionale” in economia3, ma qui giudicato filosoficamente non all’altezza di dialogare con Gramsci (p. 217). Comunque sia, l’intreccio di vita e pensieri di Gramsci che l’opera proponeva, anche nelle esagerazioni della tesi del linguaggio esopico, era certamente innovativa, riuscendo ad evidenziare un profilo del prigioniero non solo come grande teorico, ma anche come fine politico. Dal 2012, però, è passata un’era geologica, e due fatti nuovi si sono imposti: la “ditta”, come da ultimo ci si era ridotti a chiamare ciò che restava del vecchio PCI, non controlla più il pacchetto di maggioranza del PD, e alla sua sinistra si è aperto un formicolio di iniziative, la più grossa delle quali è la “coalizione sociale”. Cosa c’entra, si dirà, il libro di Vacca con questo sommovimento politico, innescato dall’irrompere a colpi di primarie dell’ex strillone fiorentino? C’entra, perché quel libro, e in altra misura anche quello di Rossi, su cui in questo sito si è già intervenuti4, e su cui tornerò più sotto, apparivano come il manifesto ideologico di un PD che, avvicinandosi alla meta di un governo riformista ritenuto di lunga durata, si proponeva come il compimento della tradizione comunista togliattiana, le cui radici stavano in un Gramsci depurato dalla contaminazione bolscevica, democratico, moderno, americanista, strettamente incardinato nel produttivismo occidentale. Ecco qualche esempio in cui questa elaborazione ideologica appariva chiara nel suo metodo. Prendiamo la parola d’ordine dell’Assemblea Costituente, su cui Gramsci insiste dal carcere, come strumento per attuare nella nuova situazione del fascismo imperante l’alleanza rivoluzionaria tra operai e contadini già prospettata all’inizio degli anni Venti. Nella ricostruzione che con lunghe formule Vacca ne fa alle pagine 155-157, Gramsci ipotizzerebbe che se il proletariato vuole riattivare le condizioni della lotta per il socialismo, deve prioritariamente battersi per rimuovere l’occupazione politico-militare del territorio nazionale da parte del fascismo. Questo obiettivo preliminare è imposto dal fatto che tale lotta avviene in un contesto mondiale dominato dalla rivoluzione passiva e dalla guerra di posizione, che trasformano la politica da lotta rivoluzionaria in lotta per l’egemonia. Ma che cos’è l’egemonia? L’egemonia è la lotta che si svolge sul terreno di uno Stato democratico, il quale però non prevede nelle sue finalità l’avvento della dittatura del proletariato. Ma prevede almeno il raggiungimento del socialismo? Su questo Vacca nella sua ricostruzione è assai riservato, anzi, se si considera che egli attribuisce a Gramsci un giudizio secondo il quale il comunismo sarebbe un comprimario, importante ma subordinato, del movimento mondiale di programmazione economica della struttura del mondo, guidato dalla borghesia più moderna (p. 140), si direbbe che anche il socialismo non è compreso nelle finalità dello Stato democratico partorito dall’Assemblea Costituente. Ciò che l’egemonia assicurerebbe, allora, sarebbe solo l’esistenza di un partito la cui lotta per definizione non può concretarsi né nella dittatura del proletariato, né tanto meno nel socialismo. Si dirà che è quel che è accaduto. Ed è anche ideologicamente legittimo ricostruire il passato in modo che l’Assemblea Costituente di Gramsci appaia come il germe di quel gramscitogliattismo che dalle vicende del dopoguerra in poi culmina nel PD, cioè nel partito divenuto ormai compiutamente “macchina per il governo” perfettamente adattata alla “democrazia”. Ma siccome qui siamo in sede di ricostruzione storiografica, non si capisce perché attribuire a Gramsci una ricostruzione ideologica in cui il proletariato dovrebbe lottare per la propria auto-dissoluzione. Gramsci è un pensatore paradossale, dilemmatico, se si vuole, anche utopistico, ma mai sofistico. Vacca, e veniamo così ad un secondo esempio del suo metodo, è molto attaccato all’idea della grande borghesia moderna che programma la struttura del mondo, e così, a proposito di Q. 8, § 185, p. 1053, dicembre 1931, si inerpica in un funambolico commento sulla povertà di elementi di piano della pianificazione sovietica, ahimé basata solo sugli schemi della riproduzione allargata del volume II del Capitale, e non sugli elaborati diagrammi della performante regolazione fordista. Ma se si legge quel passo di Gramsci senza l’ansia di essere più fordisti di Ford, si vede che esso ha tutt’altro senso che il riconoscimento della subalternità del comunismo, e in particolare del comunismo sovietico, rispetto alla potenza programmatoria della “borghesia più moderna”. Anzi, quel brano appare assai simile a quanto Stalin sosterrà, vent’anni dopo, nel suo famoso intervento sulla linguistica, a proposito dei rapporti tra struttura e sovrastrutura. Leggiamo il brano di Gramsci:

Fase economica‑corporativa dello Stato. Se è vero che nessun tipo di Stato non può non attraversare una fase di primitivismo economico‑corporativa, se ne deduce che il contenuto dell’egemonia politica del nuovo gruppo sociale che ha fondato il nuovo tipo di Stato deve essere prevalentemente di ordine economico: si tratta di riorganizzare la struttura e i rapporti reali tra gli uomini e il mondo economico o della produzione. Gli elementi di superstruttura non possono che essere scarsi e il loro carattere sarà di previsione e di lotta, ma con elementi «di piano» ancora scarsi: il piano culturale sarà soprattutto negativo, di critica del passato, tenderà a far dimenticare e a distruggere: le linee della costruzione saranno ancora «grandi linee», abbozzi, che potrebbero (e dovrebbero) essere cambiate in ogni momento, perché siano coerenti con la nuova struttura in formazione5.

E adesso leggiamo il passo di Stalin:

Inoltre, la sovrastruttura è un prodotto della base; ma ciò non significa che essa rifletta semplicemente la base, che essa sia passiva, neutrale, indifferente alla sorte della sua base, alla sorte delle classi, al carattere del sistema. Al contrario non appena sorge, essa diviene una forza eccezionalmente attiva, che aiuta energicamente la sua base ad assumere una forma e a consolidarsi facendo quanto è in suo potere per aiutare il nuovo sistema a distruggere e liquidare la vecchia base e le vecchie classi. Né potrebbe essere altrimenti. La sovrastruttura viene dalla base creata precisamente perché possa servirla, perché possa attivamente aiutarla ad assumere una forma e a consolidarsi, perché possa attivamente contribuire alla liquidazione della base antica, decrepita, assieme alla sua vecchia sovrastruttura. Basta che la sovrastruttura rinunci alla sua funzione ausiliaria, basta che la sovrastruttura passi da una posizione di attiva difesa della sua base a un atteggiamento di indifferenza verso di essa, a un atteggiamento eguale verso tutte le classi, perché essa perda il suo valore e cessi di essere una sovrastruttura. Per questo aspetto, la lingua differisce radicalmente dalla sovrastruttura6.

Somiglianze e differenze fra i due brani sono evidenti. Stalin è concentrato sulla funzione permanentemente strumentale della sovrastruttura, mentre Gramsci evidenzia un processo nel quale tale funzione è iniziale e comunque sempre transeunte. Entrambi però fanno parte di un campo ideologico che non mostra alcuna subalternità verso l’avversario capitalistico grande-borghese. Ma ecco un terzo esempio del metodo di Vacca, che si evidenzia in una sua definizione di rivoluzione passiva: «Il concetto di rivoluzione passiva designa un mutamento del processo storico mondiale, caratterizzato da una soggettività delle masse che si può condizionare e dirigere in un senso o in un altro, ma non si può sopprimere. Nella sua generalizzazione, si applica a tutta l’epoca moderna e, per quanto attiene al periodo fra le due guerre presuppone una (temporanea?) subalternità del movimento comunista internazionale alla direzione capitalistica del processo storico mondiale» (p. 129). In questa sinfonia verbale, la nota dominante, sapientemente nascosta, è quel “temporanea” messo tra parentesi e seguito da un punto interrogativo. La domanda è: subalternità temporanea nel periodo fra le due guerre, o temporanea in tutta l’epoca moderna? Nel primo caso, indicherebbe la speranza-illusione di Gramsci, nel secondo il dubbio di Vacca. Ora, tenuto conto che Gramsci muore nel ’37, e non possiede quindi il concetto di qualcosa che sta tra le due guerre, logica impone che il referente sia il dubbio di Vacca, il quale non solo possiede tale concetto ma, fortunato lui, ha tutta la visuale dell’epoca moderna. Peccato, però, che nonostante ciò, questo dubbio non possa mai essere risolto. Non abbiamo forse visto che il proletariato è svanito tra le spire della lotta democratica per il potere? Niente proletariato, niente comunismo, niente subalternità del comunismo alla direzione capitalistica del processo storico mondiale. Solo la notte nera della rivoluzione passiva dove, ancora una volta, non resta che il partito, come “macchina per il governo” propria dell’epoca della “borghesia più moderna”7. Ma nella fascinazione, per la verità ormai démodé, per la “grande borghesia moderna” e per “i punti alti dello sviluppo capitalistico”, c’è chi va molto più in là di Vacca, ed è Angelo Rossi, suo alterno compagno di ricerche e di sentire politico. Nella contrapposizione che egli ritiene di rilevare in Gramsci, tra il “marxismo sovietico” e la “filosofia della praxis”, tra Oriente e Occidente, il marxismo-leninismo costituirebbe «il dogmatismo, l’ideologia di un paese arretrato, “troppo contadino”, che non può costiuire un modello per i paesi che si collocano nei punti alti dello sviluppo capitalistico»8. Secondo Rossi, «il giudizio di Gramsci è che l’URSS […] può raggiungere risultati che la mettano in condizioni di competere solo quando si sarà formata un’intellettualità capace di svolgere le stesse funzioni assolte in Occidente, in America e in Europa, dagli intellettuali»9. E ancora: «La rozzezza del marxismo-leninismo, la sua pretesa di costituire la verità, il suo approccio alla varietà dei saperi e alla complicazione delle tecniche, tutto gli appariva così povero da costituire un insormontabile ostacolo ad una partecipazione cosciente alla modernizzaizone che lo sviluppo dell’americanismo imponeva»10. Eppure questo Gramsci così liquidatorio dell’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre, è lo stesso individuo che nel 1919 scriveva:

I bolscevichi in Russia hanno ristabilito l’ordine sociale, corrotto dai burocratici dello zarismo e dalla fraseologia democratica di Kerenskij. Hanno riorganizzato l’industria, per quanto era possibile farlo col blocco e con la guerra. Hanno eliminato tutte le cause di sperprero e di dissoluzione; perciò hanno resistito due anni alle aggressioni militiari su un fronte di 15 mila kilometri, e dopo due anni, vinti, nella guerra coi tedeschi, hanno vinto la coalizione mondiale delle nazioni vincitrici dell’intesa e della Germania stessa. Solo una società ordinata, disciplinata, forte nelle sue istituzioni economiche e politiche, poteva resistere tanto tempo e vincere così clamorosamente. Il bolscevismo (il comunismo) è l’ordine e la disciplina che i lavoratori hanno instaurato solidalmente. L’antibolscevismo è la corruzione, il disordine, la dissoluzione che continua fino alla catastrofe11.

D’accordo, qui siamo prima della morte di Lenin, prima dello scontro nel partito fra i suoi eredi, prima della lettera a Togliatti del 1926, prima del regime staliniano e di tutto quello che ne è seguito, sino alla caduta del Muro di Berlino e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica che Gramsci, a differenza di Rossi, non vide. Ma prendiamo quanto Gramsci scriveva qualche tempo dopo il passo che prima abbiamo letto:

Costruire una società comunistica vuol dire anzitutto fare in modo che la lotta di classe porti alla creazione di organismi i quali abbiano la capacità di poter dar forma a tutta la umanità. Un organismo, un istituto è tanto più rivoluzionario quanto più contiene in sé questa possibilità di sviluppo12.

Qui non siamo più davanti ad un giudizio storico, ma ad una definizione teorica, così come del resto si può constatare in quest’altro passo, che risale addirittura al Gramsci pre-ordinovista, quello che, un po’ maliziosamente, quasi a svalutarne la portata, viene chiamato il Gramsci degli “scritti giovanili”:

La rivoluzione russa ha ignorato il giacobinismo. […] Il giacobinismo è un fenomeno puramente borghese: esso caraterizza la rivoluzione borghese di Francia. La borghesia, quando ha fatto la rivoluzione, non aveva un programma universale: essa serviva degli interessi particolaristici, gli interessi della sua classe. […] Il fatto violento delle rivoluzioni borghesi è doppiamente violento: distrugge l’ordine vecchio, impone l’ordine nuovo. La borghesia impone la sua forza e le sue idee non solo alla casta prima dominante, ma anche al popolo che essa si accinge a dominare. È un regime autoritario che si sostituisce a un altro regime autoritario. La rivoluzine russa ha distrutto l’autoritarismo e gli ha sostituito il suffragio universale, estendendolo anche alle donne. All’autoritarismo ha sostituito la libertà, alla costituzione ha sostiuito la libera voce della coscienza universale13.

Di fronte a questi paradossi, che prosciugano fiumi di chiacchiere sul “giacobinismo” della rivoluzione russa, e storicizzano l’elitismo che pretende invece di essere atemporale (la casta borghese che, restando sul terreno autoritario, sostituisce la casta aristocratica), la domanda che bisognerebbe porsi è se la loro ispirazione non sopravviva sin dentro ai Quaderni, sin dentro al cruciale concetto di egemonia. Che cos’è, infatti, questo rifiuto dell’elitismo, se non il germe dell’egemonia come sarà poi sviluppata nei Quaderni? Certo, se per egemonia si intende lotta non violenta per il potere, oppure potere prestigioso con cui controllare il potenziale d’azione altrui, allora di quel germe giovanile non resta niente. Ma se per egemonia si intende sostituzione del comando con la reciprocità, allora non deve sorprendere se Gramsci, già dirigente politico, già combattente sconfitto e incarcerato, ancora nel 1931-32, in stesura unica, quindi definitiva, nei Quaderni può scrivere:

Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale14.

Un passo, come si vede, dove si manifesta nel modo più sintentico il nucleo permanente del pensiero di Gramsci, che è lotta teorica e pratica per l’affermazione del valore universale della reciprocità. Opporre dunque un giovane Gramsci “liberal-libertario”, caduto nella “deviazione” bolscevica, ad un Gramsci maturo che con il concetto di egemonia sposa la lotta di potere democratica, moderna, riformatrice e produttivistica, è una mistificazione che, nel mentre nega l’unità ideologica del pensiero di Gramsci, finisce per inscriversi in posizione subalterna nel più generale paradigma del Gramsci che abiura. Ritornando a Vacca, un ultimo esempio del suo metodo su cui voglio soffermarmi, è il modo in cui tratta le note sul Concordato contenute nel Quaderni. Qui Gramsci si sofferma sulle cause culturali di lungo periodo che inducono lo Stato a cedere con il Concordato una parte della sua sovranità alla Chiesa, e delinea una concezione della questione cattolica tutt’altro che compromissoria, poiché indica nella riunificazione intellettuale e morale del paese, di cui i nuovi intellettuali espressione delle classi subalterne dovrebbero essere protagonisti, la via per il superamento, ad un tempo, del confessionalismo e del laicismo cavourriano del “libera Chiesa in libero Stato”15. Dal canto suo, in una presa di posizione della fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, Togliatti spiegò l’intento con cui votò l’art. 7 che recepiva il Concordato nella nuova Costituzione repubblicana: sarebbe stata la trasformazione strutturale derivante dall’applicazione progressiva e integrale del programma della Costituzione, a rendere così forte la sovranità della Repubblica, da ridurre la Chiesa ad un’articolazione “interna” della Repubblica stessa. Il Concordato, allora, avrebbe costituito la disciplina formale di questo rapporto di forze favorevole allo Stato repubblicano16. A quasi settant’anni di distanza, bisognerebbe ammettere che questa ardita scommessa è fallita, poiché da subito i rapporti di forza volsero contro il processo assimilatore, e il Concordato che doveva diventare il limite, in realtà divenne fonte di privilegi, che le successive revisioni hanno sistematizzato ed ampliato sino a quello che gli stessi cattolici “adulti” denunciano come una oscenità simoniaca, ovvero l’8 per mille17. Ora, di fronte a questi esiti storici, che imporrebbero una discussione sulla differenza tra l’analisi egemonica di Gramsci e la pratica assimilatrice di Togliatti, anche al fine di una riflessione attuale sulla questione cattolica scevra da fideismi di ritorno, Vacca, sempre facondo nell’esegesi, in questo caso si limita a relegare le note di Gramsci in una assai poco onorevole nota furtiva (pp. 180-81, n. 14). È qui, allora, che si ha netta l’impressione che il manifesto ideologico sotteso al suo palinsesto storiografico, non solo arriva a tempo scaduto ma, ascrivendo Gramsci ad una tradizione politica che ne ha, se non mistificato, certo edulcorato il pensiero, ne fa un monumento che non ha più nulla da dire su un presente in cui il capitalismo si trova in un punto non già alto, ma addirittura assoluto, del suo sviluppo. La realtà, però, non si adegua a tale assolutezza e, come ho ricordato all’inizio, alla metamorfosi finale del PD è seguita la reazione di un formicolio di iniziative, fra le quali quella della “coalizione sociale”. La “coalizione sociale”, o qualsiasi altra cosa che, per vastità e influenza, dovesse un giorno prendere il posto delle defunta “ditta”, non può però che avere un’ispirazione egemonica, perché un semplice ritorno al mutualismo arrabbiato non avrebbe futuro. Ma deve trattarsi di un’egemonia presa sul serio. L’egemonia è un concetto critico e analitico, da un lato, finalistico e normativo, dall’altro. Nel suo lato critico e analitico, corrisponde all’egemonia in atto, insediatasi nel momento in cui il capitale si è trasformato da momento logico-formale in fatto storico-reale, radicandosi nel sentimento di distinzione, che alimenta la “privatezza” della “società svivile”, e nel comando, che, a seconda delle epoche storiche, può essere alternativamente a predominanza economica o statuale. Nel suo lato finalistico e normativo, esso corrisponde alla nuova egemonia, che è la sostituzione della distinzione con la cooperazione e del comando con la reciprocità. La nuova egemonia, nella misura in cui le nazioni nel loro sviluppo sono tutte attratte nella cerchia del capitale, è un ideale che concerne la stessa condizione umana. Fra queste due forme di egemonia, esiste un’egemonia di transizione, che non può che essere strategica, nel senso che si articola in patti associativi in cui viene riconosciuto il punto di vista dell’altro, per assimilarlo alla norma di reciprocità, sul cui riconoscimento verte il conflitto egemonico. Dal dopoguerra ad oggi, nelle differenti tradizioni nazionali, questa strategia è stata praticata però in modo tale che la forza proponente, anziché assimilare l’altro a tale norma più universale ed astratta, è stata assimilata dall’egemonia in atto. Il mezzo è così divenuto il fine, e l’egemonia si è ridotta ad una “ragion di partito”, mascherata da un vago solidarismo umanitario. Per limitarci alla nostra tradizione nazionale, la riscoperta del fine dovrebbe tradursi in quella “repubblica federale” che già Gramsci, nella morfologia sociale del suo tempo, proponeva quale reciproco riconoscimento tra gli operai e i contadini, e che oggi può riproporsi fra i differenti soggetti che, tanto sulla superfice nazionale, quanto nella struttura produttiva, hanno oggettivamente l’interesse al superamento dell’assolutismo capitalistico. C’è bisogno, allora, tramontati definitivamente i tempi della compassata “battaglia delle idee”, di un’intensa lotta ideologica volta a promuovere questa “presa di coscienza”, ad opera di una nuova leva di intellettuali interessati a ristabilire un’autonomia di pensiero lesa prima da quella antica cessione di sovranità denunciata da Gramsci, poi dal più recente asservimento mediatico. E questo non può che preludere ad un rapporto meno irenico e subalterno con il cattolicesimo che, per quanto scosso e sfibrato, con il rilancio sulla “questione sociale” dell’attuale papato mantiene la sua presa ideologica, specie in questo momento di disunione nazionale. La revisione dell’art. 7 sarebbe perciò altrettanto necessaria dell’abolizione dell’art. 81 sul pareggio di bilancio e di una disciplina “dissolutrice” dei monopoli mediatici, e su questi assi potrebbe prendere corpo il progetto di una nuova scuola, riportata alla sua funzione di formatrice della mente nazionale. Queste ed altre suggestioni si potrebbero trarre da una lettura non più ossessivamente filologica e nemmeno surrettiziamente ideologica dell’opera di Gramsci, non solo dei Quaderni, ma anche degli scritti pre-carcerari. Recentemente, è stato messo in evidenza come lo specifico della filosofia italiana consista nella tensione tra vita e norma18. Come ho cercato di mostrare, una lettura unitaria dell’opera di Gramsci mostra che il suo autore è sì un eterodosso, ma non solo rispetto al marxismo sovietico, con il suo recupero dell’idea marxiana di libertà, bensì anche nei confronti di una cultura nazionale, tanto marxista quanto e ancor più liberale o generalmente “laica”, che più o meno inconsapevolmente è elitistica, di quell’elitismo con cui l’ideologia italiana sublima in una chiusura verticistica la sua irrisolta tensione tra vita e norma, la quale dunque non è da rivendicare, ma da sottoporre a quella terapia riformatrice, per la quale Gramsci impegnò la sua vita19.

  1. G. Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci. 1926-1937, Torino, Einaudi, 2012. I riferimenti a quest’opera vengono dati direttamente nel testo. []
  2. L. Wittgenstein, Lettere 1941-1951, Milano, Adelphi, 2012, p. 398. []
  3. A. Sen, Sraffa, Wittgenstein and Gramsci, “Journal of Economics Literature”, vol. XLI (Dec. 2003), p. 1252. []
  4. F. Aqueci, L’ineludibile principio. A proposito del Gramsci di A. Rossi, http://duemilaventi.net/lineludibile-principio-proposito-libro-angelo-rossi-gramsci/ []
  5. Q. 8, § 185, p. 1053 []
  6. J. V. Stalin, A proposito del marxismo nella linguistica, (1950), in L. Formigari, Marxismo e teorie della lingua. Fonti e discussioni, Messina, La Libra, 1973, pp. 238-39. []
  7. Su questo punto, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, Lo spettacolo della corruzione. Élites e partiti in Pareto, «Politeia», anno XXIX, n. 109, 2013, pp. 55-64. []
  8. A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), Napoli, Guida, 2014,p. 22. []
  9. Ibidem. []
  10. A. Rossi, Gramsci in carcere, cit., p. 23. []
  11. “Bolscevichi e antibolscevichi”, Avanti!, XXIII, n. 317, 16 novembre 1919, ripubblicato in A. Gramsci, Per la verità, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 90. []
  12. “L’esempio della Russia”, Ordine nuovo, I, n. 33, 10-17 gennaio 1920, ripubblicato in A. Gramsci, Per la verità, cit., p. 97. []
  13. Note sulla rivoluzione russa, “Il grido del Popolo”, 29 aprile 1917, XXII, n. 666, ripubblicato in Scritti giovanili, Torino, Einaudi, 19754, p. 106. []
  14. Q. 8, § 179, p. 1050. []
  15. Q. 4, § 53, pp. 493-498, poi Q. 16, § 11, pp. 1866-1874. []
  16. P. Togliatti, Una proposta massimalista: abolire il Concordato, “Rinascita”, a. XVI, n. 5, maggio 1957, pp. 206-209, poi in Id., La politica nel pensiero e nell’azione. Scritti e discorsi 1917-1964, a cura di M. Ciliberto e G. Vacca, Milano, Bompiani, 2014, pp. 2242-2251. []
  17. A. Melloni, G. Ruggeri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Roma, Carocci, 2010, p. 139. Nella progressiva spoliazione della sovranità dello Stato che caratterizza il momento presente, si parla addirittura di un Concordato con gli atei, in base ad un principio di eguaglianza costituzionale evidentemente ridotto al suo puro formalismo. Cfr. R. Alciati, Rivedendo la revisione. Trent’anni dopo il nuovo Concordato. Intervista a Francesco Margiotta Broglio, “Historia magistra”, VI, 16, 2014, pp. 91-101 []
  18. R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino, Einaudi, 2010. []
  19. È singolare che, nella sua ricostruzione, Roberto Esposito non abbia dedicato alcun cenno all’elitismo di Mosca e soprattutto di Pareto, che si può considerare come la formalizzazione filosofica di una costante dell’ideologia italiana. []

De Monticelli su Heidegger. Accordi e disaccordi.

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La vibrante confutazione che Roberta De Monticelli, in nome del valore della verità logica affermato da Frege e Husserl, opera delle patetiche posizioni assunte dagli heideggeriani, dopo la pubblicazione di alcuni degli indifendibili Quaderni neri del loro ancor più nero maestro1, appare però fuori bersaglio quando, dopo aver richiamato l’interpretazione di Jeanne Hersch del nazismo di Heidegger, nella quale si separa nettamente la “modernità” dal “destino dell’Occidente”, la ragion pratica da Auschwitz, l’Illuminismo dal nazismo, alla fine si commenta: “Con buona pace di Adorno-Horkheimer, e della loro oscura Dialettica del’Illuminismo2. Questa chiosa frettolosa, come di chi vuol regolare tutti i conti in un colpo solo, indebolisce l’accusa capitale che De Monticelli muove a Heidegger, di essere stato non tanto nazista, non tanto antisemita, quanto piuttosto e soprattutto sofista, con ciò negando la funzione critica che, da Socrate in poi, fa della filosofia quel che è. Perché sarebbe oscura la Dialettica del’Illuminismo di Adorno-Horkheimer? Forse perché anch’essa è in qualche modo sofistica? O semplicemente perché è, appunto, oscura? Insomma, non sarebbe stata inopportuna una parola di chiarimento sui gradi con cui è possibile negare il criterio del vero e del falso, e quindi distinguere ciò che è semplicemente oscuro, ma non infondato, e ciò che è irrimediabilmente sofistico. Una simile distinzione avrebbe probabilmente portato a ribadire – senza per questo doversi accodare a coloro che insegnano che la verità è violenza, che l’Illuminismo preso di mira da Adorno-Horkheimer ha rivestito troppe volte quel sommo valore con gli stivali dell’oppressore. E avrebbe fatto emergere che non è tanto la forma sofistica dell’argomentazione il motivo per il quale Heidegger appare come un traditore del compito critico della filosofia, quanto piuttosto – senza anche qui doversi adeguare a chi processa la filosofia per evitare di giudicare i cattivi filosofi, la sua adesione al pregiudizio antisemita, quale contenuto culturale che percorre senza soluzione di continuità la mente europea sin dalla prima epoca cristiana. Una mente che, rispetto a quella di altre civiltà, appare in grado di decentrarsi ma solo in rapporto al raggiungimento della potenza, che è caratterizzata da una maggiore motorietà e da un desiderio vitale più pronunciato, ma come sfrenato movimento che si traveste di libertà, e che riconosce l’altro ma quale misura del proprio sentimento di superiorità. È stato Hegel a definire questa morfologia:

«All’europeo interessa il mondo; egli vuole conoscerlo, vuole appropriarsi dell’altro, che gli sta di fronte, vuole porre in luce nella particolarità del mondo il genere, l’universale, il pensiero, l’intera universalità […] Lo spirito europeo contrappone il mondo a sé, si rende libero da esso, ma risolve di nuovo questa antitesi, riprende il suo altro, il molteplice, in sé, nella sua semplicità […] Come nel dominio teoretico, così anche in quello pratico lo spirito europeo aspira all’unità da produrre fra esso e il mondo esterno […] Esso sottopone il mondo esterno ai suoi scopi con un’energia che gli ha assicurato il dominio del mondo»3.

Come si vede, con una narcisistica autocomprensione, la mente europea qui prende coscienza di sé, ma è una coscienza in cui l’altro diviene il simulacro in cui iniettare l’energia esplosiva del proprio sé. Ora, in questa mente che riconosce l’altro divorandolo, sin da sempre l’ebreo incarna il persecutore interno. Se c’è un motivo culturale che accomuna le generazioni europee, e che unisce tanti esponenti del “pensiero più elevato”, come si esprime comicamente l’ostinata heideggeriana4, con lo sterminato “senso comune” popolare, questo è il pregiudizio antiebraico. Se c’è una colpa, allora, che si può, che si deve imputare al nero filosofo della Foresta Nera, è di aver rinunciato non tanto alla critica filosofica in astratto, ma alla critica filosofica del senso comune europeo, trasformando la filosofia in una nenia con cui cullare il sonno di una ragione mai effettivamente divenuta regolatrice dell’azione, neanche nella pura formulazione di Kant. E c’è bisogna qui di richiamare la critica marxiana della scissione di uomo e cittadino? Oppure, a proposito di indifferenza e di indistinzione, si deve accettare l’idea che le formule paranoiche dello pseudosciamano di Todtnauberg possano stare sullo stesso piano del paradosso critico con cui Marx, nella Questione ebraica, mette il senso comune europeo di fronte alla miseria della sua condizione cristiano-borghese?5 Ma questo discorso della mente europea che, ossessionata dal suo interiore persecutore errante, vaga inquieta per il mondo facendolo esplodere della sua libidine di potenza, può sembrare un discorso antiquato, ora che l’Europa non ha più eserciti, ma solo una Banca centrale che amministra con “rigore” il tasso di inflazione dell’eurozona. E se questo “rigore” fosse parente stretto del “rigore” che l’heideggeriana inconsolabile ammira rapita nel delirio antifilosofico con cui Heidegger liscia il pelo alla belva dell’antisemitismo europeo?6 E se la Banca, insomma, fosse la sublimazione di quella potenza che ora non è più politicamente corretto perseguire con gli eserciti?7 Qui è possibile delinerare una risposta differente alla pur coraggiosa domanda che Roberta De Monticelli pone alla fine della sua confutazione, e cioè come fu possibile? Come fu possibile che, dopo il ’45, Heidegger, sdoganato prima in Francia e poi in Italia, dominò con il suo pensiero sul continente per mezzo secolo ancora. Per De Monticelli, Heidegger vinse perché la sofistica del suo pensiero, negatrice di ogni differenza fra nazismo e no, fra vittime e carnefici, fra Illuminismo e Auschwitz, fra ragione e delirio, si impose anche nella mente di chi per sentimenti, storia personale, adesioni profonde si situava su un altro fronte politico8. Questa risposta, non se ne abbia a male l’intrepida autrice, ci sembra una non risposta. Come ci mostra la psicogenesi, la verità è una morale dell’azione se l’azione ha già sperimentato la moralità della cooperazione. È forte invece l’impressione che, in tutta la sua storia, ma ancora nel mezzo secolo e oltre dominato dall’“elevato pensiero” del vate dell’Essere, la mente europea, presa nella socievole insocievolezza della sua “società civile”, non è mai pervenuta a quella moralità cooperatoria da cui può scaturire un genuino attaccamento alla verità logica. È questa la ragione per cui Heidegger con il suo culto del Führer quale interprete del principio di comunità, radice e destino, ha trionfato e trionfa. È questa la malattia dello spirito europeo, che non può essere certo curata, qui non si può che essere d’accordo con De Monticelli9, con quella ultra-indeterminata astrazione del “Potere” su cui, da Foucault a Agamben a Žižek all’Italian theory, rimugina con le migliori intenzioni una certa versione pop della funzione critica della filosofia. Per questo appare fuori luogo l’ironia che De Monticelli riserva, fra le tante entità assimilabili alla Macchinazione heideggeriana, anche al Capitalismo, alla Finanza e al Neoliberismo10. Nessuno può negare la flebile presa che questi termini esercitano sulla desolata realtà del nostro tempo. Ma se il linguaggio difetta, l’assolutismo dell’odierna realtà sociale capitalistica è così compatto che frantuma anche la felice oasi dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, magari sotto specie di una sin troppo impudente offerta di cattedra alla figlia del magnate fresca di laurea da scambiare con qualche lauto finanziamento. Offerta contro cui, con una presa di posizione che le fa onore, Roberta De Monticelli ha pubblicamente protestato. E questa non indifferenza si fa ammirare più di un’ironia che conduce troppo in là la pur essenziale funzione critica della filosofia.

  1. Roberta De Monticelli, L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”, consultabile on line nel sito di “Micromega”. I riferimenti sono al pdf scaricabile da quel sito. []
  2. Ivi, p. 5. []
  3. G. W. F. Hegel, Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften, a cura di H. Glockner, Stuttgart, Fromman, 1927-39, X, pp. 71-80, tr. it. in Pietro Rossi, Storia universale e geografia in Hegel, Firenze, Sansoni, 1975, pp. 102-103, cit. in B. De Giovanni, La filosofia e l’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 230. []
  4. “Il pensiero più elevato si è prestato all’orrore più abissale” (D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri», Bollati Boringhieri 2014, p. 3, cit. in De Monticelli, L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”, cit., p. 1. []
  5. Su questo punto mi permetto di rinviare a F. Aqueci, Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, parte I, cap. VII. []
  6. “Rigoroso e coerente, Heidegger non fa che trarre la conclusione di ciò che ha detto in precedenza. Gli ebrei sono agenti della modernità: hanno diffuso i mali…complici della Metafisica, hanno portato ovunque l’accelerazione della tecnica. L’accusa non potrebbe essere più grave” (D. De Cesare, Heidegger: “Gli ebrei si sono autoannientati”. Nei nuovi “Quaderni neri” del filosofo l’interpretazione choc della Shoah, “Corriere della sera”, 8 febbraio 2015, articolo consultabile on line, e citato da R. De Monticelli, L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”, cit. p. 6). []
  7. Su questo punto mi permetto ancora di rinviare a F. Aqueci, Ricerche semioetiche, cit., parte II, cap. IV. []
  8. De Monticelli, L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”, cit., p. 10. []
  9. Ivi, p. 8. []
  10. Ivi, p. 4. []

Gramsci, un brutto scherzo

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Tutto cominciò con una contraddizione rilevata in pubblico circa il rapporto tra Gramsci e Wittgentein1. Nel commento ad un testo che attaccava aspramente il suo ultimo libro, si dichiarava ultraconvinto  che  non  sia  possibile  riscontrare  una  influenza  di  Wittgenstein  su  Gramsci2, quando invece in un articolo di qualche anno prima era parso che affermasse proprio il contrario. In quell’articolo, infatti, sosteneva che l’argomento così specialistico del Quaderno 29, il concetto di grammatica, era da far risalire probabilmente allo stimolo dei resoconti che Sraffa fece a Gramsci degli intensi colloqui che aveva con Wittgenstein, impegnato nella “svolta linguistica”3. Da quell’intervento, trascorse qualche giorno di silenzio, che già faceva intuire una comprensibile irritazione, ma quando la reazione arrivò, si concretizzò, anziché in un intervento pubblico, solo in una mail privata4. In essa lamentava che la discussione pubblica era viziata da certi toni da talk show televisivi, ai quali gli rimproverava di essersi ultimamente adeguato, prendendo anche il vezzo, tutto ideologico ed ecclesiastico, di criticare qualcuno per ammiccamenti comprensibili solo ai chierici della setta. Quella risposta privata, dunque, era un’eccezione che faceva in nome delle comuni e antiche frequentazioni dei testi gramsciani. Fatta questa premessa, veniva al dunque:

 

E’ così difficile leggere un testo con serenità? Ma quando mai ho scritto che Gramsci nella sua elaborazione teorica è stato influenzato da Wittgenstein? Per farlo dovrei rinnegare Lingua intellettuali egemonia (passi per gli altri ma tu quel libro dovresti conoscerlo; vi sei anche ringraziato) e non ho nessuna intenzione di farlo. Ho scritto che verosimilmente la scrittura del  Q 29 fu “sollecitata (has been spurred) dai racconti sraffiani dei problemi di filosofia del linguaggio su cui lavorava Wittgenstein”. Ma per te “essere sollecitato da qualcuno a scrivere qualcosa” e “essere influenzato nel modo di pensare da qualcuno” sono la stessa cosa? Debbo spiegarti la differenza? Qualcuno ti racconta delle discussioni che si conducono, poniamo, in una prestigiosa università tedesca sul rapporto tra grammatica e potere. L’argomento ti interessa e ti fa ricordare cose a te familiari. Decidi di scrivere un appunto per mettere in chiaro il tuo punto di vista. E’ chiaro che lo fai col bagaglio delle tue conoscenze e non con quello dei tuoi colleghi tedeschi che magari non sai neanche chi sono. Sei stato sollecitato dai racconti del tuo amico a scrivere il tuo appunto e però il contenuto e i riferimenti culturali che usi provengono dalla tua storia personale e nulla hanno a che fare coi riferimenti culturali di chi si trova in Germania. Ma perché mi fai spiegare queste cose? Gli equivoci di cui parli credo proprio che stiano tutti nella tua testa.

 

In effetti, in quel suo intervento, equivoci egli ne aveva rilevati più di uno. Andando oltre il fatto filologico, aveva infatti definito un equivoco l’affinità del pensiero di Gramsci con quello di Wittgenstein:

 

Sostenere, infatti, come tu fai ancora oggi nel commento che hai postato, l’esistenza di una “corrispondenza, in sede di elaborazione teorica, tra l’ultimo Wittgenstein e i Quaderni” (note a Naldi e De Vivo, p. 10), è a mio modo di vedere un equivoco. Non essendo uno specialista, e per di più nememno autorevole, del pensiero di Wittgenstein, non so se posso permettermi di dire che Wittgenstein è un custode delle “forme di vita”, e nel suo pensiero non c’è nessuna indicazione su come passare da una “forma di vita” o “gioco linguistico” all’altro. Prova ne è che l’etica, e oso dire la politica, per lui sono fatti mistici. All’opposto, Gramsci è un eversore delle “forme di vita”, e l’etico-politico per lui è lo strumento con cui il soggetto interviene razionalmente nel corso storico, per sollecitare i passaggi genetici da una “forma di vita” all’altra.

 

E un altro equivoco che gli era parso di dover rilevare era quello del Gramsci “democratico”:

 

Qui si lega l’altro equivoco, quello della democrazia, dove ora anche Angelo Rossi, con altri argomenti e prospettive, si unisce a te nel sostenere il Gramsci liberal-democratico. Quello che mi pare di capire è che la democrazia per Gramsci, ovvero la democrazia capitalistico-borghese, è una “forma di vita” che va violata nei suoi presupposti culturali, che si ritrovano formalizzati negli ideologi di tale “forma di vita” (penso, ad esempio, ma è un’aggiunta mia, all’opulenza e alla distinzione fissati da un Mandeville). Senza una simile “scissione”, ma con il tuo amato Bachelard potremmo anche dire “rupture”, “rottura” di una “sostanza” sociale, le istituzioni liberal-democratiche, proprio perché sono forme che processano contenuti, non possono che riprodurre il dominio capitalistico-borghese che Gramsci invece vuole superare.

 

Su questi punti, ecco la sua replica:

 

Il “Gramsci eversore delle forme di vita” e che programma di superare la  “democrazia capitalistico-borghese” appartiene a un altro ordine di discorso. Faresti bene a sostanziare con citazioni dai Quaderni le tue asserzioni. Detto con questa genericità non so né seguirti né confutarti. A me sembra che tu, insieme a tanti altri, ti sei costruita una immagine di Gramsci che poco ha a che fare col Gramsci in carne e ossa che pensava e scriveva tra carcere e cliniche. Può darsi che hai ragione tu. Quando mi convincerai non mi farà problema il riconoscerlo. Al momento non sono nemmeno in grado di confutarti.

 

A questa mail, che si chiudeva ricordando l’antica amicizia, egli rispose con un tentativo, che sapeva sarebbe stato vano, di riportare la discussione là dove era nata:

 

Perché non continuare a discutere in pubblico? Al netto di una comprensibile irritazione, cosa c’è nei tuoi argomenti, e nei contro argomenti che io potrei avanzare, da non poter essere detto in pubblico? Noi stessi saremmo sicuramente più rigorosi e controllati nelle nostre argomentazioni. Così, cosa vuoi che ti risponda? Che a me il Gramsci für ewig del ’35, ormai tutto preso da problemi filosofico-linguistici, non mi convince, e mi convince di più un Gramsci sempre politico interessato ai movimenti dell’egemonia? Vuoi le citazioni testuali che sostanzino il Gramsci eversore delle forme di vita? Me se tu stesso ricordi nel tuo commento al testo postato (note a Naldi e De Vivo) che Gramsci criticò Sraffa nel ’24 sulle libertà borghesi? E che cosa mi dovrebbe indurre a ritenere che la sua successiva e finale proposta di Assemblea costituente costituirebbe un ripensamento di quella posizione anti-borghese? Forse gli argomenti di Angelo Rossi, che proietta piamente su Gramsci la “politica democratica” del quadro medio comunista degli anni Settanta? Riguardo alla mia immagine di Gramsci, i miei più recenti interventi gramsciani non hanno avuto confutazioni, anzi l’articolo sull’espressività è stato tradotto in una lingua esotica come il giapponese. Vuol dire che il mio Gramsci non è poi così campato in aria.5

 

La risposta non fu molto conciliante:

 

Mio caro, la chiacchiera ideologica non ha vincoli: può dire tutto e il contrario di tutto purché non si perda di vista l’obiettivo finale (non importa quale esso sia); non sbaglia mai (sbagliano sempre gli altri); la lettura attenta di quello che l’interlocutore dice o scrive è del tutto irrilevante. Il dibattito scientifico ubbidisce a rigidi canoni etici: anzitutto ci si sforza di capire ciò che si legge; non si bara sul significato delle parole; si riconoscono i propri errori. Questi standard tu in poche righe riesci a violarli almeno due volte.

(1) Hai spiegato con susseguosa sapienza da grande intellettuale gli equivoci in cui è incorso Lo Piparo. Lo Piparo prova a spiegarti che quegli equivoci esistono solo nella tua testa non sapendo o non volendo tu fare la distinzione (banale) tra “essere sollecitato da X” e “essere influenzato nel modo di pensare da X”. Tu che fai? Taci. Cambi discorso. L’etica scientifica ti dà due alternative: spieghi dove sta l’errore di Lo Piparo; riconosci l’errore e lo dichiari negli stessi luoghi in cui hai pontificato. La chiacchiera ideologica al contrario pratica il coraggio virile del silenzio.

(2) Lo Piparo ti chiede di “sostanziare con citazioni dai Quaderni le tue asserzioni” sulla soggettività che rompe. Tu che fai? Sostanzi le tue asserzioni citando L’Ordine Nuovo del 1924. Tipica prassi teologica e ideologica.

Vorresti discutere in pubblico in questo modo? Sarebbe una perdita di tempo. Mi dispiace costatare con quanta facilità hai dimenticato le tue letture di Pareto e Vailati. O forse sono stato io a non avere capito che non avevi capito.

Quando mi convincerai che sbaglio lo ammetterò. Nessun problema.6

 

L’accusa frontale di “ideologia”, un suo vecchio cavallo di battaglia, restringeva di molto la possibilità di discussione. Decise perciò di aggirarla:

 

Va bene, per amore della discussione mi adeguo al tuo stile argomentativo:

(1) se “essere sollecitato da X” è un frammento logico del mondo, credo che sia più probabile che sia saturato dall’argomento “Y ha scritto un Quaderno 29 sollecitato dai fatti grammaticali del suo ambiente italiano interpretabili nell’ambito di un suo indirizzo teorico di azione politica detta egemonia”, anziché dall’argomento “Y ha scritto un Quaderno 29 sui fatti grammaticali del suo ambiente italiano sollecitato dai racconti dell’amico Piero circa le riflessioni linguistiche del suo amico Ludwig”, e ciò per il fatto che il primo argomento ha lasciato una traccia testuale (Q. 29, § 3, p. 2346), mentre il secondo è oggetto solo di indizi e supposizioni. Vale dunque, almeno per me, la maggiore certezza logica;

(2) una polarità che percorre i Quaderni è quella tra concezione tolemaica e concezione copernicana. Il senso comune è tolemaico, le masse cattoliche sotto il controllo morale della Chiesa sono tolemaiche, le classi subalterne che condividono la fede nella concezione fatalistica della filosofia della praxis sono tolemaiche. Al contrario, il “buon senso” derivato dalla critica filosofica del senso comune è copernicano, il mondo moderno è copernicano, la nuova filosofia della praxis che Gramsci si propone di elaborare è copernicana. Le citazioni le puoi trovare facilmente tu. Per me,  si tratta dell’opposizione tra due “forme di vita”, una delle quali, quella tolemaica, per Gramsci va attivamente violata e trasformata senza residui nella nuova, quella copernicana. La finalità è la seguente: «Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale» (Q. 8, § 179, p. 1050). Ovvero un organismo sociale dove il soggetto egemonico si autodissolve nella reciprocità.7

 

La mail si concludeva, oltreché con un reiterato invito a tornare a discutere in pubblico, anche ribattendo velocemente all’accusa di “ideologia”:

 

Qui mi fermo, perché ulteriori implicazioni potrebbero risultare per te ideologiche. Non vedo perché queste cose non avremmo potuto dirle in pubblico. Ti mando con un po’ di scetticismo un lavoro gramsciano in corso di pubblicazione. Perché non c’è imputazione più teologica dell’imputazione di ideologia.8

 

La risposta arrivò l’indomani mattina inoltrata. Avrebbe voluto rispondere a caldo, gli scriveva, ma aver desistito era stato un bene, perché quello che, nella fretta, aveva in mente di dirgli lo avrebbe sicuramente deluso. In ogni caso, però, ribadiva che rileggendo a freddo le sue osservazioni non aveva cambiato idea:

 

L’argomento (1) non capisco veramente in che cosa mi confuti. Vi trovo una conferma dell’idea, anche gramsciana ma già aristotelica, che è impossibile confutare con argomenti razionali una forte passione. Ci si può solo affidare al tempo che prima o dopo rasserena anche le passioni più estreme.

L’argomento (2) è proprio di un adolescente che crede negli angeli e in Padre Pio, volevo dire nello Stato etico comunista ovvero nel paradisiaco regno della libertà.

Il passo che citi è datato 1931-32. I testi gramsciani vanno letti non trascurandone la data; mi permetto di rimandarti a pp. 101 sgg. di I due carceri.  Il passo citato è la conclusione, ambigua e gramscianamente non chiara, di una tipica argomentazione gramsciana riguardante i due momenti dell’egemonia e della dittatura. La conclusione si può effettivamente leggere nel senso che esiste un gruppo sociale che istaurerà lo Stato etico dove esisterà solo e soltanto consenso. Ossia versione di sinistra di Gentile e del fascismo. Altrove, ma per fortuna si tratta di casi rarissimi, questo Stato etico (e, nell’impianto teorico, fascista e/o stalinista) lo chiamerà «società regolata». La conclusione del ragionamento di pp. 1049-50, se interpretata (è possibile) in senso gentiliano, contraddice tutto il resto dei Quaderni (quelli più recenti, soprattutto ma non soltanto) dove i due momenti (consenso spontaneo e forza coercitiva) sono detti ineliminabili e il volerne abolire la distinzione si dice che sia il proposito di «strutture governative illiberali» (sto citando).

I Quaderni sono il diario intellettuale di un pensatore che fa i conti con la propria cultura e la propria formazione, non bisogna quindi leggerli come espressione sistematica e coerente di un pensiero.

La definizione di una forma di vita copernicana non la trovo nei Quaderni che posseggo. O si tratta di una riformulazione, in terminologia wittgensteiniana, del gentiliano e fascista Stato etico?9

 

In questa discussione dai passaggi corti, per la verità alquanto fallosa, il tocco successivo avrebbe dovuto essere ora quello di ricordargli che non erano in questione le sue attardate credenze adolescenziali, bensì le possibilmente oggettive teorie di Gramsci. E avrebbe dovuto essere anche quello di ricordargli che il passo di Q. 8, § 179, p. 1050, era sì del 1931-32, ma Gramsci successivamente non lo cancellò e riscrisse, a differenza di altri paragrafi dello stesso Quaderno, ritenendolo quindi definitivo nella primitiva stesura10. E avrebbe dovuto essere infine quello di ricordargli che “fare i conti con la propria cultura e formazione” è nozione impropria in Gramsci, poiché le riscritture di brani dei Quaderni ebbero la funzione di sistematizzare e generalizzare, non certo di revisionare o peggio abiurare. E in effetti egli aveva già digitato qualcosa in tal senso, e stava per inviarlo, ma all’ultimo momento, pur sapendo che sicuramente la discussione si sarebbe così interrotta, non seppe resistere alla tentazione di un tiro “ideologico” secco all’incrocio dei pali:

 

Mio caro, dai tempi del tuo Lingua intellettuali egemonia, i tuoi sforzi di mantenere Gramsci sul terreno liberale sono ammirevoli. Solo che, per sorreggere il tentativo, hai bisogno di tante ipotesi ad hoc. In quanto scrivi, ce ne sono alcune: “ipotesi ambigua e gramscianamente non chiara”, virate verso il fascismo e il gentilismo di sinistra per fortuna rarissime, contraddizione con tutto il resto dei Quaderni, necessità di una interpretazine diacronica degli stessi Quaderni. Capisco, ma devi fartene una ragione. Gramsci ai liberali crociani italiani ha giocato un brutto scherzo, zufolando nel flauto dolce della “egemonia” li ha portati su un terreno che non è più il loro, facendogli credere però che sono sempre a casa propria. Di qui un continuo spaesamento che si cerca di placare riportando all’antico ceppo il geniale figliol prodigo. Rassegnati. Gramsci è andato via di casa, e dalle sue contaminazioni è venuto fuori altro, che non è più nella disponibilità di chi al liberalesimo crociano si richiama.11

  1. F. Aqueci, Intervento nella mailing list della IGS Italia del 10 marzo 2015, h 18:20, sul testo di F. Lo Piparo, Note a De Vivo e Naldi, Gramsci, Wittgenstein, Sraffa e il prof. Lo Piparo. Fatti e fantasie, postato nella mailing list della IGS Italia, 10 marzo 2015, h 12:08. []
  2. F. Lo Piparo, Note a De Vivo e Naldi, cit., p. 10. []
  3. F. Lo Piparo, Gramsci and Wittgenstein: an intriguing connection, in A. Capone (a cura di), Perspectives on language use and pragmatics, München, Lincom Europa, p. 293. []
  4. F. Lo Piparo, 12 marzo 2015, h 11:41. []
  5. F. Aqueci, 12 marzo 2015, h 20.10. []
  6. F. Lo Piparo, 13 marzo 2015, h 09:55. []
  7. F. Aqueci, 13 marzo 2015, h 17:55. []
  8. Ibidem. []
  9. F. Lo Piparo, 14 marzo 2015, h 11:10. []
  10. L’Edizione critica del 1975 lo riporta infatti in corpo maggiore, a differenza dei testi riscritti, stampati in corpo minore, com’è specificato a pag. XXXVI dell’Avvertenza editoriale. []
  11. F. Aqueci, 14 marzo 2015, h 13:15. []

Reductio Gramsci

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Radicamento nazionale contro l’internazionalismo mercatistico, socializzazione dei mezzi di produzione tramite la mediazione di una rinnovata potenza statale, previo abbandono della falsa opposizione tra destra e sinistra, antiquatamente basata su un antifascismo ridotto ormai ad alibi per sottrarsi all’impegno della lotta anticapitalistica, che invece deve essere alimentata da una rinascita dello spirito di scissione e deve avere come scopo l’ideale universalistico di un’umanità fine a se stessa. Questo il programma politico che Diego Fusaro tira dall’eredità di Gramsci, al cui pensiero dedica un suo recente libretto1. Ma qual è il Gramsci che serve per questo programma politico? Anzitutto, un Gramsci gentiliano. Grossi sbadigli per un tormentone che non finisce mai, quindi solo una breve messa a punto. Per Fusaro, i Quaderni, per quel loro sistematico dedurre l’essente dal porre soggettivo, rivelano un “gentilianesimo inconscio” che Gramsci tradirebbe con questa excusatio non petita: «Filosofia dell’atto (praxis), ma non dell’“atto puro”, ma proprio dell’“atto impuro”, cioè reale nel senso profano della parola»2. Ma dove starebbe l’excusatio? A quell’“impuro” Gramsci affida tutta la distanza che vuole mettere tra se stesso e il gentilianesimo, che al suo tempo si respirava come l’aria. E Gramsci dice pure in che consiste l’“impurità”, cioè nella “realtà nel senso profano della parola”, un realismo provocatoriamente ingenuo, che contraddice in toto il soggettivismo cui Fusaro vuole ridurre Gramsci. Nel Quaderno 29, quello sulla linguistica, Gramsci scrive che, circa l’apprendimento della lingua colta da parte della massa popolare, «nella posizione del Gentile c’è molta più politica di quanto si creda e molto reazionarismo inconscio, […] c’è tutto il reazionarismo della vecchia concezione liberale, c’è un “lasciar fare, lasciar passare” che non è giustificato, come era nel Rousseau […] dall’opposizione alla paralisi della scuola gesuitica, ma è diventato un’ideologia astratta, “astorica”»3. Come si vede, Gramsci, i suoi conti con Gentile, sia teorici che politici, li ha fatti, sostituendo una volta per tutte il vuoto divenire con la genesi storica, quale legalità del soggetto e dell’oggetto che, dopo Marx, solo un altro autore ha rivendicato con pari energia, cioè Lukács, un autore che Fusaro sicuramente conosce bene, ma di cui purtroppo – salvo un fugace cenno sull’alienazione, che avrebbe meritato ben altro approfondimento4 – non tiene conto, perché l’operazione ideologica che deve compiere, la fusione di destra e sinistra, gli sta più a cuore di una ricostruzione fedele del pensiero di Gramsci. E siamo all’altro Gramsci che serve per questa operazione ideologica, Gramsci ridotto ad elitista. Pareto sosteneva che la storia è un cimitero di élites, un rivolgimento ciclico che abbatte i vecchi governanti e innalza i nuovi5. Ed ecco come Fusaro caratterizza l’egemonia in Gramsci: «la crisi di un’egemonia si verifica allorché, pur mantenendo il proprio dominio, la classe politicamente dominante non riesce più a essere dirigente rispetto a tutte le altre classi e a imporre universalmente la propria visione del mondo. Accade, allora, che la classe dominata (a patto che non sia culturalmente subalterna), se riesce a indicare effettive soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare dirigente e, estendendo la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali, può porre in essere un nuovo “blocco sociale”, vale a dire una nuova alleanza di forze sociali. In questo modo, essa può diventare egemone, andando ad occupare il posto della vecchia classe dominante e non più egemonica»6. Al netto di un certo verbiage, è esattamente il movimento ciclico descritto da Pareto7. È vero che, come Fusaro si affretta subito a precisare, la nuova classe dominante deve essere il proletariato, in seguito ad una riforma intellettuale e morale. Il movimento ciclico dovrebbe dunque approdare al compimento dell’ideale universalistico di un’umanità fine a se stessa, al quale Fusaro tanto tiene. Ma ecco come lo stesso Fusaro definisce ancora l’egemonia: «l’egemonia rappresenta il dominio culturale di un gruppo (o di una classe) che sia in grado di imporre ad altri gruppi, tramite pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista, fino a giungere alla creazione di un articolato sistema di controllo organizzato»8. È tutto ingentilito dalla cultura, ma la sostanza resta il dominio e il controllo che, appunto, un’élite esercita al posto di un’altra. Fusaro qui non mostra la minima predisposizione a comprendere che la “nuova egemonia” in Gramsci comporta la messa in discussione della coazione a ripetere del dominio, quale socialità bloccata elevata a condizione naturale9, e il motivo risulta evidente se si tiene conto che uno dei punti del suo programma politico è una rinnovata potenza statale, al nobile scopo, beninteso, di procedere alla socializzazione dei mezzi di produzione. Così, il passo in cui Gramsci prospetta un organismo sociale in cui viene superata la divisione tra dominanti e dominati10, suggerisce a Fusaro l’idea di un cambiamento in cui «i comunisti, grazie alla cultura e al ruolo degli intellettuali, allarghino il più possibile il consenso, fino a farsi gradualmente stato»11. Prepariamoci, dunque, ad un comunismo culturale di stato, in cui recitando versetti della Divina commedia e salmodiando cantilene della civiltà dei sassi, si potrà procedere alla socializzazione dei rapporti di produzione. Perché è questo, alla fine, il Gramsci che serve, cioè il Gramsci al quale non si devono porre domande, ma da cui si possono trarre formule ragionevolmente, diremmo pure, culturalmente incendiarie. Va bene, la collana è quella che è, “Eredi”, dove non si capisce se in questione è l’eredità o l’erede che la intasca. Resta che il limite di questa presentazione di Gramsci è l’assenza di categorie teoriche con cui fare interagire nel presente il suo pensiero, che non siano le tradizionali categorie storiografiche (idealismo, materialismo, fatalismo, volontarismo, crocianesimo, gentilianesimo), che l’autore ravviva con la sua vis ideologica, forgiata anch’essa con materiali filosofici provenienti da una assimilazione in corsa del canone marxista. Un universo chiuso, in cui la filosofia è interpretata con la filosofia, meglio, con la storia della filosofia, ridotta ad una sceneggiatura di filosofici furori per attori più o meno bravi di qualche avventura politica di cui il genio italico è sempre prodigo.

  1. D. Fusaro, Antonio Gramsci, Milano, Feltrinelli, 2015. Il programma politico è enunciato nel capitolo conclusivo, p. 129 sgg []
  2. A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975 = Q, 4, § 37, p. 455, cit. in D. Fusaro, Antonio Gramsci, cit., p. 83. []
  3. Q. 29, § 6, pp. 2349-50. []
  4. D. Fusaro, Antonio Gramsci,, cit., p. 67. []
  5. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, edizione critica a cura di G. Busino, Torino, UTET, 1988, voll. 4, vol. III, § 2053. []
  6. D. Fusaro, Antonio Gramsci, cit., p. 104. []
  7. Una ricostruzione dell’argomento in F. Aqueci, Lo spettacolo della corruzione. Élites e partiti in Pareto, «Politeia», anno XXIX, n. 109, 2013, pp. 55-64. []
  8. D. Fusaro, Antonio Gramsci, cit., p. 102. []
  9. F. Aqueci, L’ironia della genesi. Modelli alternativi del conflitto comunicativo, “Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio”, vol. 6, n. 3, 2012, pp. 16-24. []
  10. «Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale» (Q. 8, § 179, p. 1050). []
  11. D. Fusaro, Antonio Gramsci,, cit., p. 126. []

Brutto carattere

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Sabato 24 gennaio, al Cairo, nei pressi della fatidica piazza Tahrir, mentre sfilava un piccolo corteo del Partito dell’Alleanza popolare socialista egiziana, è stata uccisa dalla polizia l’«attivista», come viene asetticamente definita dai media, Shaimaa al-Sabbagh, 32 anni, che chiedeva «pane, libertà e giustizia sociale», e manifestava «contro i Fratelli e contro Sisi», l’attuale presidente ex-generale1. Un esile fiore tra zolle pietrose che cozzano ciecamente l’una contro l’altra, ma quanto basta per ricordarsi che le “primavere arabe” sono state anche una richiesta di quella “libertà” che tanto pesa ai tanti Houellebecq d’Occidente. Che cosa sarebbe accaduto in Italia se, nel 1948, i Fratelli musulmani dell’epoca, cioè la Democrazia cristiana, avessero fallito la prova di governo? Magari il generale Graziani sarebbe diventato presidente del consiglio, e Luigi Gedda sarebbe stato sbattuto in galera. Ma da lungo tempo la Chiesa era già un organismo politico, e così i cattolici, dopo la falsa partenza di Sturzo all’inizio degli anni Venti, poterono con De Gasperi adagiarsi nel loro comodo “cattolicesimo democratico”. È questo retroterra di religione “riformata” che, nel corso del 2011, è mancato alle forze politiche arabe di ispirazione musulmana, che si sono invece trovate ad opporre l’aspra morale del Corano ad una società dalla doppia coscienza, quella verbale del rispetto rituale dei dettami del Profeta, e quella pratica segnata da una sfrenata “ragione strumentale”, per di più ostacolata dai detriti della vecchia subordinazione coloniale, e quindi carica di risentimento nazionale. Ma la religione politicamente “riformata” non ha assicurato il Paradiso in terra agli italiani. Negli anni Cinquanta e Sessanta, sono stati a decine gli “attivisti” uccisi dalla polizia, o dalla mafia, mentre manifestavano chiedendo “pane, libertà e giustizia sociale”, alla ricerca di un sentiero di mezzo tra l’astuta, e nell’immediato salvifica, “ragione politica” democristiana, e le forze dello “sfrenato movimento” neocapitalistico che si espressero nel “boom economico”. L’Italia era nata con un brutto carattere. Sin dall’Italietta pre-fascista, infatti, gli italiani furono xenofobi quando non razzisti, maschilisti e quindi anche omofobi, portati alle rodomontate militaristiche, “liberali” ma di un liberalesimo che, in un attimo, ancor prima di poter chiarire con Gramsci, che il drappo rosso agitato dagli operai era quello della “reciprocità”, si tramutò in un anticomunismo che il fascismo eresse a regime, divenendo così l’“autobiografia della nazione”. Il fascismo, che si ergeva a riformatore del carattere nazionale, in realtà ne fu l’erede, esasperandone solo i tratti. Esso chiedeva agli italiani di credere, obbedire e combattere, di praticare il culto della guerra e della bella morte, di essere virili ginnasti, di “fare figli come conigli”, di immedesimarsi nella politica incarnata dal Duce, di considerare gli italiani il popolo eletto. Il neocapitalismo, invece, quando arrivò, chiese di comprare “beni di consumo”, macchine e televisori in primis, di divertirsi, di fregarsene della politica, di non fare figli per non dover dispensare consigli, insomma di godersela. La vera riforma del carattere nazionale l’ha operata perciò il neocapitalismo dei consumi, che già incubava con la Topolino, e che la pelosa generosità del piano Marshall dei “liberatori” d’Oltreatlantico fece esplodere. E tutto questo, da Pasolini in poi, è certamente vero. Ma quando si parla di carattere nazionale, se ne parla sempre sub specie aeternitatis. Intanto è curioso che, in questo carattere nazionale, il fanatismo della tradizione, l’esaltazione dell’eroe che si immola, la sottomissione della donna, il gusto della guerra permanente e l’ideale del Libro e del moschetto, sono il portato di un fondamentalismo non religioso, bensì laico, cioè l’angusto liberalesimo risorgimentale tralignato in fascismo. Ma il problema del carattere nazionale, se si vuole continuare a ragionare con questa categoria tanto suggestiva quanto indeterminata, è il suo futuro. Da quando Pasolini, con la metafora della “scomparsa delle lucciole”, denunciò la “mutazione antropologica” che aveva affetto gli italiani, non si è più fatto un passo avanti. Se si vuole uscire dalla lamentatio, bisogna guardare al terzo tempo, che viene dopo il fondamentalismo liberalfascista e l’anomia del capitalismo consumistico. Oggi, il capitalismo è assoluto, perché il consumo non procura più godimento, ma sofferenza. Con il suo “debito” da ripagare, gira a vuoto. È fallito, ma non si è ancora manifestato chi ne proclami il fallimento. La fase che vive il “carattere nazionale”, dunque, è l’interludio di una rabbiosa speranza, e l’esile fiore della giustizia che, nei pressi di piazza Tahrir, è travolto da forze ciclopiche che la storia non ha ancora digerito, è lo stesso che stenta a sbocciare nel suolo inquieto di un’Italia dal brutto carattere.

  1. http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_25/cairo-piazza-tahrir-attivista-uccisa-corteo-stata-polizia-governo-nega-e1faf80c-a46b-11e4-9025-a3f9ec48a2fa.shtml []