Cultura

Gramsci, un brutto scherzo

Download PDF

Tutto cominciò con una contraddizione rilevata in pubblico circa il rapporto tra Gramsci e Wittgentein1. Nel commento ad un testo che attaccava aspramente il suo ultimo libro, si dichiarava ultraconvinto  che  non  sia  possibile  riscontrare  una  influenza  di  Wittgenstein  su  Gramsci2, quando invece in un articolo di qualche anno prima era parso che affermasse proprio il contrario. In quell’articolo, infatti, sosteneva che l’argomento così specialistico del Quaderno 29, il concetto di grammatica, era da far risalire probabilmente allo stimolo dei resoconti che Sraffa fece a Gramsci degli intensi colloqui che aveva con Wittgenstein, impegnato nella “svolta linguistica”3. Da quell’intervento, trascorse qualche giorno di silenzio, che già faceva intuire una comprensibile irritazione, ma quando la reazione arrivò, si concretizzò, anziché in un intervento pubblico, solo in una mail privata4. In essa lamentava che la discussione pubblica era viziata da certi toni da talk show televisivi, ai quali gli rimproverava di essersi ultimamente adeguato, prendendo anche il vezzo, tutto ideologico ed ecclesiastico, di criticare qualcuno per ammiccamenti comprensibili solo ai chierici della setta. Quella risposta privata, dunque, era un’eccezione che faceva in nome delle comuni e antiche frequentazioni dei testi gramsciani. Fatta questa premessa, veniva al dunque:

 

E’ così difficile leggere un testo con serenità? Ma quando mai ho scritto che Gramsci nella sua elaborazione teorica è stato influenzato da Wittgenstein? Per farlo dovrei rinnegare Lingua intellettuali egemonia (passi per gli altri ma tu quel libro dovresti conoscerlo; vi sei anche ringraziato) e non ho nessuna intenzione di farlo. Ho scritto che verosimilmente la scrittura del  Q 29 fu “sollecitata (has been spurred) dai racconti sraffiani dei problemi di filosofia del linguaggio su cui lavorava Wittgenstein”. Ma per te “essere sollecitato da qualcuno a scrivere qualcosa” e “essere influenzato nel modo di pensare da qualcuno” sono la stessa cosa? Debbo spiegarti la differenza? Qualcuno ti racconta delle discussioni che si conducono, poniamo, in una prestigiosa università tedesca sul rapporto tra grammatica e potere. L’argomento ti interessa e ti fa ricordare cose a te familiari. Decidi di scrivere un appunto per mettere in chiaro il tuo punto di vista. E’ chiaro che lo fai col bagaglio delle tue conoscenze e non con quello dei tuoi colleghi tedeschi che magari non sai neanche chi sono. Sei stato sollecitato dai racconti del tuo amico a scrivere il tuo appunto e però il contenuto e i riferimenti culturali che usi provengono dalla tua storia personale e nulla hanno a che fare coi riferimenti culturali di chi si trova in Germania. Ma perché mi fai spiegare queste cose? Gli equivoci di cui parli credo proprio che stiano tutti nella tua testa.

 

In effetti, in quel suo intervento, equivoci egli ne aveva rilevati più di uno. Andando oltre il fatto filologico, aveva infatti definito un equivoco l’affinità del pensiero di Gramsci con quello di Wittgenstein:

 

Sostenere, infatti, come tu fai ancora oggi nel commento che hai postato, l’esistenza di una “corrispondenza, in sede di elaborazione teorica, tra l’ultimo Wittgenstein e i Quaderni” (note a Naldi e De Vivo, p. 10), è a mio modo di vedere un equivoco. Non essendo uno specialista, e per di più nememno autorevole, del pensiero di Wittgenstein, non so se posso permettermi di dire che Wittgenstein è un custode delle “forme di vita”, e nel suo pensiero non c’è nessuna indicazione su come passare da una “forma di vita” o “gioco linguistico” all’altro. Prova ne è che l’etica, e oso dire la politica, per lui sono fatti mistici. All’opposto, Gramsci è un eversore delle “forme di vita”, e l’etico-politico per lui è lo strumento con cui il soggetto interviene razionalmente nel corso storico, per sollecitare i passaggi genetici da una “forma di vita” all’altra.

 

E un altro equivoco che gli era parso di dover rilevare era quello del Gramsci “democratico”:

 

Qui si lega l’altro equivoco, quello della democrazia, dove ora anche Angelo Rossi, con altri argomenti e prospettive, si unisce a te nel sostenere il Gramsci liberal-democratico. Quello che mi pare di capire è che la democrazia per Gramsci, ovvero la democrazia capitalistico-borghese, è una “forma di vita” che va violata nei suoi presupposti culturali, che si ritrovano formalizzati negli ideologi di tale “forma di vita” (penso, ad esempio, ma è un’aggiunta mia, all’opulenza e alla distinzione fissati da un Mandeville). Senza una simile “scissione”, ma con il tuo amato Bachelard potremmo anche dire “rupture”, “rottura” di una “sostanza” sociale, le istituzioni liberal-democratiche, proprio perché sono forme che processano contenuti, non possono che riprodurre il dominio capitalistico-borghese che Gramsci invece vuole superare.

 

Su questi punti, ecco la sua replica:

 

Il “Gramsci eversore delle forme di vita” e che programma di superare la  “democrazia capitalistico-borghese” appartiene a un altro ordine di discorso. Faresti bene a sostanziare con citazioni dai Quaderni le tue asserzioni. Detto con questa genericità non so né seguirti né confutarti. A me sembra che tu, insieme a tanti altri, ti sei costruita una immagine di Gramsci che poco ha a che fare col Gramsci in carne e ossa che pensava e scriveva tra carcere e cliniche. Può darsi che hai ragione tu. Quando mi convincerai non mi farà problema il riconoscerlo. Al momento non sono nemmeno in grado di confutarti.

 

A questa mail, che si chiudeva ricordando l’antica amicizia, egli rispose con un tentativo, che sapeva sarebbe stato vano, di riportare la discussione là dove era nata:

 

Perché non continuare a discutere in pubblico? Al netto di una comprensibile irritazione, cosa c’è nei tuoi argomenti, e nei contro argomenti che io potrei avanzare, da non poter essere detto in pubblico? Noi stessi saremmo sicuramente più rigorosi e controllati nelle nostre argomentazioni. Così, cosa vuoi che ti risponda? Che a me il Gramsci für ewig del ’35, ormai tutto preso da problemi filosofico-linguistici, non mi convince, e mi convince di più un Gramsci sempre politico interessato ai movimenti dell’egemonia? Vuoi le citazioni testuali che sostanzino il Gramsci eversore delle forme di vita? Me se tu stesso ricordi nel tuo commento al testo postato (note a Naldi e De Vivo) che Gramsci criticò Sraffa nel ’24 sulle libertà borghesi? E che cosa mi dovrebbe indurre a ritenere che la sua successiva e finale proposta di Assemblea costituente costituirebbe un ripensamento di quella posizione anti-borghese? Forse gli argomenti di Angelo Rossi, che proietta piamente su Gramsci la “politica democratica” del quadro medio comunista degli anni Settanta? Riguardo alla mia immagine di Gramsci, i miei più recenti interventi gramsciani non hanno avuto confutazioni, anzi l’articolo sull’espressività è stato tradotto in una lingua esotica come il giapponese. Vuol dire che il mio Gramsci non è poi così campato in aria.5

 

La risposta non fu molto conciliante:

 

Mio caro, la chiacchiera ideologica non ha vincoli: può dire tutto e il contrario di tutto purché non si perda di vista l’obiettivo finale (non importa quale esso sia); non sbaglia mai (sbagliano sempre gli altri); la lettura attenta di quello che l’interlocutore dice o scrive è del tutto irrilevante. Il dibattito scientifico ubbidisce a rigidi canoni etici: anzitutto ci si sforza di capire ciò che si legge; non si bara sul significato delle parole; si riconoscono i propri errori. Questi standard tu in poche righe riesci a violarli almeno due volte.

(1) Hai spiegato con susseguosa sapienza da grande intellettuale gli equivoci in cui è incorso Lo Piparo. Lo Piparo prova a spiegarti che quegli equivoci esistono solo nella tua testa non sapendo o non volendo tu fare la distinzione (banale) tra “essere sollecitato da X” e “essere influenzato nel modo di pensare da X”. Tu che fai? Taci. Cambi discorso. L’etica scientifica ti dà due alternative: spieghi dove sta l’errore di Lo Piparo; riconosci l’errore e lo dichiari negli stessi luoghi in cui hai pontificato. La chiacchiera ideologica al contrario pratica il coraggio virile del silenzio.

(2) Lo Piparo ti chiede di “sostanziare con citazioni dai Quaderni le tue asserzioni” sulla soggettività che rompe. Tu che fai? Sostanzi le tue asserzioni citando L’Ordine Nuovo del 1924. Tipica prassi teologica e ideologica.

Vorresti discutere in pubblico in questo modo? Sarebbe una perdita di tempo. Mi dispiace costatare con quanta facilità hai dimenticato le tue letture di Pareto e Vailati. O forse sono stato io a non avere capito che non avevi capito.

Quando mi convincerai che sbaglio lo ammetterò. Nessun problema.6

 

L’accusa frontale di “ideologia”, un suo vecchio cavallo di battaglia, restringeva di molto la possibilità di discussione. Decise perciò di aggirarla:

 

Va bene, per amore della discussione mi adeguo al tuo stile argomentativo:

(1) se “essere sollecitato da X” è un frammento logico del mondo, credo che sia più probabile che sia saturato dall’argomento “Y ha scritto un Quaderno 29 sollecitato dai fatti grammaticali del suo ambiente italiano interpretabili nell’ambito di un suo indirizzo teorico di azione politica detta egemonia”, anziché dall’argomento “Y ha scritto un Quaderno 29 sui fatti grammaticali del suo ambiente italiano sollecitato dai racconti dell’amico Piero circa le riflessioni linguistiche del suo amico Ludwig”, e ciò per il fatto che il primo argomento ha lasciato una traccia testuale (Q. 29, § 3, p. 2346), mentre il secondo è oggetto solo di indizi e supposizioni. Vale dunque, almeno per me, la maggiore certezza logica;

(2) una polarità che percorre i Quaderni è quella tra concezione tolemaica e concezione copernicana. Il senso comune è tolemaico, le masse cattoliche sotto il controllo morale della Chiesa sono tolemaiche, le classi subalterne che condividono la fede nella concezione fatalistica della filosofia della praxis sono tolemaiche. Al contrario, il “buon senso” derivato dalla critica filosofica del senso comune è copernicano, il mondo moderno è copernicano, la nuova filosofia della praxis che Gramsci si propone di elaborare è copernicana. Le citazioni le puoi trovare facilmente tu. Per me,  si tratta dell’opposizione tra due “forme di vita”, una delle quali, quella tolemaica, per Gramsci va attivamente violata e trasformata senza residui nella nuova, quella copernicana. La finalità è la seguente: «Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale» (Q. 8, § 179, p. 1050). Ovvero un organismo sociale dove il soggetto egemonico si autodissolve nella reciprocità.7

 

La mail si concludeva, oltreché con un reiterato invito a tornare a discutere in pubblico, anche ribattendo velocemente all’accusa di “ideologia”:

 

Qui mi fermo, perché ulteriori implicazioni potrebbero risultare per te ideologiche. Non vedo perché queste cose non avremmo potuto dirle in pubblico. Ti mando con un po’ di scetticismo un lavoro gramsciano in corso di pubblicazione. Perché non c’è imputazione più teologica dell’imputazione di ideologia.8

 

La risposta arrivò l’indomani mattina inoltrata. Avrebbe voluto rispondere a caldo, gli scriveva, ma aver desistito era stato un bene, perché quello che, nella fretta, aveva in mente di dirgli lo avrebbe sicuramente deluso. In ogni caso, però, ribadiva che rileggendo a freddo le sue osservazioni non aveva cambiato idea:

 

L’argomento (1) non capisco veramente in che cosa mi confuti. Vi trovo una conferma dell’idea, anche gramsciana ma già aristotelica, che è impossibile confutare con argomenti razionali una forte passione. Ci si può solo affidare al tempo che prima o dopo rasserena anche le passioni più estreme.

L’argomento (2) è proprio di un adolescente che crede negli angeli e in Padre Pio, volevo dire nello Stato etico comunista ovvero nel paradisiaco regno della libertà.

Il passo che citi è datato 1931-32. I testi gramsciani vanno letti non trascurandone la data; mi permetto di rimandarti a pp. 101 sgg. di I due carceri.  Il passo citato è la conclusione, ambigua e gramscianamente non chiara, di una tipica argomentazione gramsciana riguardante i due momenti dell’egemonia e della dittatura. La conclusione si può effettivamente leggere nel senso che esiste un gruppo sociale che istaurerà lo Stato etico dove esisterà solo e soltanto consenso. Ossia versione di sinistra di Gentile e del fascismo. Altrove, ma per fortuna si tratta di casi rarissimi, questo Stato etico (e, nell’impianto teorico, fascista e/o stalinista) lo chiamerà «società regolata». La conclusione del ragionamento di pp. 1049-50, se interpretata (è possibile) in senso gentiliano, contraddice tutto il resto dei Quaderni (quelli più recenti, soprattutto ma non soltanto) dove i due momenti (consenso spontaneo e forza coercitiva) sono detti ineliminabili e il volerne abolire la distinzione si dice che sia il proposito di «strutture governative illiberali» (sto citando).

I Quaderni sono il diario intellettuale di un pensatore che fa i conti con la propria cultura e la propria formazione, non bisogna quindi leggerli come espressione sistematica e coerente di un pensiero.

La definizione di una forma di vita copernicana non la trovo nei Quaderni che posseggo. O si tratta di una riformulazione, in terminologia wittgensteiniana, del gentiliano e fascista Stato etico?9

 

In questa discussione dai passaggi corti, per la verità alquanto fallosa, il tocco successivo avrebbe dovuto essere ora quello di ricordargli che non erano in questione le sue attardate credenze adolescenziali, bensì le possibilmente oggettive teorie di Gramsci. E avrebbe dovuto essere anche quello di ricordargli che il passo di Q. 8, § 179, p. 1050, era sì del 1931-32, ma Gramsci successivamente non lo cancellò e riscrisse, a differenza di altri paragrafi dello stesso Quaderno, ritenendolo quindi definitivo nella primitiva stesura10. E avrebbe dovuto essere infine quello di ricordargli che “fare i conti con la propria cultura e formazione” è nozione impropria in Gramsci, poiché le riscritture di brani dei Quaderni ebbero la funzione di sistematizzare e generalizzare, non certo di revisionare o peggio abiurare. E in effetti egli aveva già digitato qualcosa in tal senso, e stava per inviarlo, ma all’ultimo momento, pur sapendo che sicuramente la discussione si sarebbe così interrotta, non seppe resistere alla tentazione di un tiro “ideologico” secco all’incrocio dei pali:

 

Mio caro, dai tempi del tuo Lingua intellettuali egemonia, i tuoi sforzi di mantenere Gramsci sul terreno liberale sono ammirevoli. Solo che, per sorreggere il tentativo, hai bisogno di tante ipotesi ad hoc. In quanto scrivi, ce ne sono alcune: “ipotesi ambigua e gramscianamente non chiara”, virate verso il fascismo e il gentilismo di sinistra per fortuna rarissime, contraddizione con tutto il resto dei Quaderni, necessità di una interpretazine diacronica degli stessi Quaderni. Capisco, ma devi fartene una ragione. Gramsci ai liberali crociani italiani ha giocato un brutto scherzo, zufolando nel flauto dolce della “egemonia” li ha portati su un terreno che non è più il loro, facendogli credere però che sono sempre a casa propria. Di qui un continuo spaesamento che si cerca di placare riportando all’antico ceppo il geniale figliol prodigo. Rassegnati. Gramsci è andato via di casa, e dalle sue contaminazioni è venuto fuori altro, che non è più nella disponibilità di chi al liberalesimo crociano si richiama.11

  1. F. Aqueci, Intervento nella mailing list della IGS Italia del 10 marzo 2015, h 18:20, sul testo di F. Lo Piparo, Note a De Vivo e Naldi, Gramsci, Wittgenstein, Sraffa e il prof. Lo Piparo. Fatti e fantasie, postato nella mailing list della IGS Italia, 10 marzo 2015, h 12:08. []
  2. F. Lo Piparo, Note a De Vivo e Naldi, cit., p. 10. []
  3. F. Lo Piparo, Gramsci and Wittgenstein: an intriguing connection, in A. Capone (a cura di), Perspectives on language use and pragmatics, München, Lincom Europa, p. 293. []
  4. F. Lo Piparo, 12 marzo 2015, h 11:41. []
  5. F. Aqueci, 12 marzo 2015, h 20.10. []
  6. F. Lo Piparo, 13 marzo 2015, h 09:55. []
  7. F. Aqueci, 13 marzo 2015, h 17:55. []
  8. Ibidem. []
  9. F. Lo Piparo, 14 marzo 2015, h 11:10. []
  10. L’Edizione critica del 1975 lo riporta infatti in corpo maggiore, a differenza dei testi riscritti, stampati in corpo minore, com’è specificato a pag. XXXVI dell’Avvertenza editoriale. []
  11. F. Aqueci, 14 marzo 2015, h 13:15. []

Reductio Gramsci

Download PDF

Radicamento nazionale contro l’internazionalismo mercatistico, socializzazione dei mezzi di produzione tramite la mediazione di una rinnovata potenza statale, previo abbandono della falsa opposizione tra destra e sinistra, antiquatamente basata su un antifascismo ridotto ormai ad alibi per sottrarsi all’impegno della lotta anticapitalistica, che invece deve essere alimentata da una rinascita dello spirito di scissione e deve avere come scopo l’ideale universalistico di un’umanità fine a se stessa. Questo il programma politico che Diego Fusaro tira dall’eredità di Gramsci, al cui pensiero dedica un suo recente libretto1. Ma qual è il Gramsci che serve per questo programma politico? Anzitutto, un Gramsci gentiliano. Grossi sbadigli per un tormentone che non finisce mai, quindi solo una breve messa a punto. Per Fusaro, i Quaderni, per quel loro sistematico dedurre l’essente dal porre soggettivo, rivelano un “gentilianesimo inconscio” che Gramsci tradirebbe con questa excusatio non petita: «Filosofia dell’atto (praxis), ma non dell’“atto puro”, ma proprio dell’“atto impuro”, cioè reale nel senso profano della parola»2. Ma dove starebbe l’excusatio? A quell’“impuro” Gramsci affida tutta la distanza che vuole mettere tra se stesso e il gentilianesimo, che al suo tempo si respirava come l’aria. E Gramsci dice pure in che consiste l’“impurità”, cioè nella “realtà nel senso profano della parola”, un realismo provocatoriamente ingenuo, che contraddice in toto il soggettivismo cui Fusaro vuole ridurre Gramsci. Nel Quaderno 29, quello sulla linguistica, Gramsci scrive che, circa l’apprendimento della lingua colta da parte della massa popolare, «nella posizione del Gentile c’è molta più politica di quanto si creda e molto reazionarismo inconscio, […] c’è tutto il reazionarismo della vecchia concezione liberale, c’è un “lasciar fare, lasciar passare” che non è giustificato, come era nel Rousseau […] dall’opposizione alla paralisi della scuola gesuitica, ma è diventato un’ideologia astratta, “astorica”»3. Come si vede, Gramsci, i suoi conti con Gentile, sia teorici che politici, li ha fatti, sostituendo una volta per tutte il vuoto divenire con la genesi storica, quale legalità del soggetto e dell’oggetto che, dopo Marx, solo un altro autore ha rivendicato con pari energia, cioè Lukács, un autore che Fusaro sicuramente conosce bene, ma di cui purtroppo – salvo un fugace cenno sull’alienazione, che avrebbe meritato ben altro approfondimento4 – non tiene conto, perché l’operazione ideologica che deve compiere, la fusione di destra e sinistra, gli sta più a cuore di una ricostruzione fedele del pensiero di Gramsci. E siamo all’altro Gramsci che serve per questa operazione ideologica, Gramsci ridotto ad elitista. Pareto sosteneva che la storia è un cimitero di élites, un rivolgimento ciclico che abbatte i vecchi governanti e innalza i nuovi5. Ed ecco come Fusaro caratterizza l’egemonia in Gramsci: «la crisi di un’egemonia si verifica allorché, pur mantenendo il proprio dominio, la classe politicamente dominante non riesce più a essere dirigente rispetto a tutte le altre classi e a imporre universalmente la propria visione del mondo. Accade, allora, che la classe dominata (a patto che non sia culturalmente subalterna), se riesce a indicare effettive soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare dirigente e, estendendo la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali, può porre in essere un nuovo “blocco sociale”, vale a dire una nuova alleanza di forze sociali. In questo modo, essa può diventare egemone, andando ad occupare il posto della vecchia classe dominante e non più egemonica»6. Al netto di un certo verbiage, è esattamente il movimento ciclico descritto da Pareto7. È vero che, come Fusaro si affretta subito a precisare, la nuova classe dominante deve essere il proletariato, in seguito ad una riforma intellettuale e morale. Il movimento ciclico dovrebbe dunque approdare al compimento dell’ideale universalistico di un’umanità fine a se stessa, al quale Fusaro tanto tiene. Ma ecco come lo stesso Fusaro definisce ancora l’egemonia: «l’egemonia rappresenta il dominio culturale di un gruppo (o di una classe) che sia in grado di imporre ad altri gruppi, tramite pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista, fino a giungere alla creazione di un articolato sistema di controllo organizzato»8. È tutto ingentilito dalla cultura, ma la sostanza resta il dominio e il controllo che, appunto, un’élite esercita al posto di un’altra. Fusaro qui non mostra la minima predisposizione a comprendere che la “nuova egemonia” in Gramsci comporta la messa in discussione della coazione a ripetere del dominio, quale socialità bloccata elevata a condizione naturale9, e il motivo risulta evidente se si tiene conto che uno dei punti del suo programma politico è una rinnovata potenza statale, al nobile scopo, beninteso, di procedere alla socializzazione dei mezzi di produzione. Così, il passo in cui Gramsci prospetta un organismo sociale in cui viene superata la divisione tra dominanti e dominati10, suggerisce a Fusaro l’idea di un cambiamento in cui «i comunisti, grazie alla cultura e al ruolo degli intellettuali, allarghino il più possibile il consenso, fino a farsi gradualmente stato»11. Prepariamoci, dunque, ad un comunismo culturale di stato, in cui recitando versetti della Divina commedia e salmodiando cantilene della civiltà dei sassi, si potrà procedere alla socializzazione dei rapporti di produzione. Perché è questo, alla fine, il Gramsci che serve, cioè il Gramsci al quale non si devono porre domande, ma da cui si possono trarre formule ragionevolmente, diremmo pure, culturalmente incendiarie. Va bene, la collana è quella che è, “Eredi”, dove non si capisce se in questione è l’eredità o l’erede che la intasca. Resta che il limite di questa presentazione di Gramsci è l’assenza di categorie teoriche con cui fare interagire nel presente il suo pensiero, che non siano le tradizionali categorie storiografiche (idealismo, materialismo, fatalismo, volontarismo, crocianesimo, gentilianesimo), che l’autore ravviva con la sua vis ideologica, forgiata anch’essa con materiali filosofici provenienti da una assimilazione in corsa del canone marxista. Un universo chiuso, in cui la filosofia è interpretata con la filosofia, meglio, con la storia della filosofia, ridotta ad una sceneggiatura di filosofici furori per attori più o meno bravi di qualche avventura politica di cui il genio italico è sempre prodigo.

  1. D. Fusaro, Antonio Gramsci, Milano, Feltrinelli, 2015. Il programma politico è enunciato nel capitolo conclusivo, p. 129 sgg []
  2. A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975 = Q, 4, § 37, p. 455, cit. in D. Fusaro, Antonio Gramsci, cit., p. 83. []
  3. Q. 29, § 6, pp. 2349-50. []
  4. D. Fusaro, Antonio Gramsci,, cit., p. 67. []
  5. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, edizione critica a cura di G. Busino, Torino, UTET, 1988, voll. 4, vol. III, § 2053. []
  6. D. Fusaro, Antonio Gramsci, cit., p. 104. []
  7. Una ricostruzione dell’argomento in F. Aqueci, Lo spettacolo della corruzione. Élites e partiti in Pareto, «Politeia», anno XXIX, n. 109, 2013, pp. 55-64. []
  8. D. Fusaro, Antonio Gramsci, cit., p. 102. []
  9. F. Aqueci, L’ironia della genesi. Modelli alternativi del conflitto comunicativo, “Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio”, vol. 6, n. 3, 2012, pp. 16-24. []
  10. «Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale» (Q. 8, § 179, p. 1050). []
  11. D. Fusaro, Antonio Gramsci,, cit., p. 126. []

Brutto carattere

Download PDF

Sabato 24 gennaio, al Cairo, nei pressi della fatidica piazza Tahrir, mentre sfilava un piccolo corteo del Partito dell’Alleanza popolare socialista egiziana, è stata uccisa dalla polizia l’«attivista», come viene asetticamente definita dai media, Shaimaa al-Sabbagh, 32 anni, che chiedeva «pane, libertà e giustizia sociale», e manifestava «contro i Fratelli e contro Sisi», l’attuale presidente ex-generale1. Un esile fiore tra zolle pietrose che cozzano ciecamente l’una contro l’altra, ma quanto basta per ricordarsi che le “primavere arabe” sono state anche una richiesta di quella “libertà” che tanto pesa ai tanti Houellebecq d’Occidente. Che cosa sarebbe accaduto in Italia se, nel 1948, i Fratelli musulmani dell’epoca, cioè la Democrazia cristiana, avessero fallito la prova di governo? Magari il generale Graziani sarebbe diventato presidente del consiglio, e Luigi Gedda sarebbe stato sbattuto in galera. Ma da lungo tempo la Chiesa era già un organismo politico, e così i cattolici, dopo la falsa partenza di Sturzo all’inizio degli anni Venti, poterono con De Gasperi adagiarsi nel loro comodo “cattolicesimo democratico”. È questo retroterra di religione “riformata” che, nel corso del 2011, è mancato alle forze politiche arabe di ispirazione musulmana, che si sono invece trovate ad opporre l’aspra morale del Corano ad una società dalla doppia coscienza, quella verbale del rispetto rituale dei dettami del Profeta, e quella pratica segnata da una sfrenata “ragione strumentale”, per di più ostacolata dai detriti della vecchia subordinazione coloniale, e quindi carica di risentimento nazionale. Ma la religione politicamente “riformata” non ha assicurato il Paradiso in terra agli italiani. Negli anni Cinquanta e Sessanta, sono stati a decine gli “attivisti” uccisi dalla polizia, o dalla mafia, mentre manifestavano chiedendo “pane, libertà e giustizia sociale”, alla ricerca di un sentiero di mezzo tra l’astuta, e nell’immediato salvifica, “ragione politica” democristiana, e le forze dello “sfrenato movimento” neocapitalistico che si espressero nel “boom economico”. L’Italia era nata con un brutto carattere. Sin dall’Italietta pre-fascista, infatti, gli italiani furono xenofobi quando non razzisti, maschilisti e quindi anche omofobi, portati alle rodomontate militaristiche, “liberali” ma di un liberalesimo che, in un attimo, ancor prima di poter chiarire con Gramsci, che il drappo rosso agitato dagli operai era quello della “reciprocità”, si tramutò in un anticomunismo che il fascismo eresse a regime, divenendo così l’“autobiografia della nazione”. Il fascismo, che si ergeva a riformatore del carattere nazionale, in realtà ne fu l’erede, esasperandone solo i tratti. Esso chiedeva agli italiani di credere, obbedire e combattere, di praticare il culto della guerra e della bella morte, di essere virili ginnasti, di “fare figli come conigli”, di immedesimarsi nella politica incarnata dal Duce, di considerare gli italiani il popolo eletto. Il neocapitalismo, invece, quando arrivò, chiese di comprare “beni di consumo”, macchine e televisori in primis, di divertirsi, di fregarsene della politica, di non fare figli per non dover dispensare consigli, insomma di godersela. La vera riforma del carattere nazionale l’ha operata perciò il neocapitalismo dei consumi, che già incubava con la Topolino, e che la pelosa generosità del piano Marshall dei “liberatori” d’Oltreatlantico fece esplodere. E tutto questo, da Pasolini in poi, è certamente vero. Ma quando si parla di carattere nazionale, se ne parla sempre sub specie aeternitatis. Intanto è curioso che, in questo carattere nazionale, il fanatismo della tradizione, l’esaltazione dell’eroe che si immola, la sottomissione della donna, il gusto della guerra permanente e l’ideale del Libro e del moschetto, sono il portato di un fondamentalismo non religioso, bensì laico, cioè l’angusto liberalesimo risorgimentale tralignato in fascismo. Ma il problema del carattere nazionale, se si vuole continuare a ragionare con questa categoria tanto suggestiva quanto indeterminata, è il suo futuro. Da quando Pasolini, con la metafora della “scomparsa delle lucciole”, denunciò la “mutazione antropologica” che aveva affetto gli italiani, non si è più fatto un passo avanti. Se si vuole uscire dalla lamentatio, bisogna guardare al terzo tempo, che viene dopo il fondamentalismo liberalfascista e l’anomia del capitalismo consumistico. Oggi, il capitalismo è assoluto, perché il consumo non procura più godimento, ma sofferenza. Con il suo “debito” da ripagare, gira a vuoto. È fallito, ma non si è ancora manifestato chi ne proclami il fallimento. La fase che vive il “carattere nazionale”, dunque, è l’interludio di una rabbiosa speranza, e l’esile fiore della giustizia che, nei pressi di piazza Tahrir, è travolto da forze ciclopiche che la storia non ha ancora digerito, è lo stesso che stenta a sbocciare nel suolo inquieto di un’Italia dal brutto carattere.

  1. http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_25/cairo-piazza-tahrir-attivista-uccisa-corteo-stata-polizia-governo-nega-e1faf80c-a46b-11e4-9025-a3f9ec48a2fa.shtml []

Moi, je ne suis pas Charlie! Et toi? (3)

Download PDF

Stupiscono certe affermazioni di persone che fanno mostra di un pensiero scafatissimo. Intervistato dal “Corriere della sera” sui fatti di Parigi, Michel Houellebecq afferma che una sua recente rilettura del Corano lo ha convinto che un lettore onesto di questo libro sacro «non ne può concludere affatto che bisogna andare ad ammazzare i bambini ebrei. Proprio per niente»1. Ma, anche senza aver passato i giorni a compulsare dotti trattati, dovrebbe essere ormai chiaro, per semplice fatto d’osservazione, che un testo religioso non è solo un “insieme di prescrizioni”, ma anche, e assai più spesso, un “insieme di giustificazioni”. Oggi ci sono individui che si dicono musulmani, che vogliono vendicarsi di offese subite, e fondare un loro impero universale. Questa non è fede, ma sete di rivalsa e volontà di potenza. Le motivazioni, rivestite di giustificazioni religiose, bisogna andarle a cercare non nel loro libro, ma, se non si vuole risalire al colonialismo, almeno in ciò che è successo in quest’ultimo inglorioso trentennio, nel corso del quale ciò che chiamiamo “Occidente” le ha sbagliate tutte, perdendo via via ogni ascendente sul mondo. Houellebecq, bontà sua, sostiene che «la violenza non è connaturata all’Islam», mentre il problema di questa sfortunata religione «è che non ha un capo come il Papa della Chiesa cattolica, che indicherebbe la retta via una volta per tutte». Se Houellebecq, anziché perdere tempo a leggere il Corano, osservasse ciò che sta accadendo nella Chiesa cattolica, si accorgerebbe che adesso ci sono due papi, uno emerito che ha rinunciato al soglio perché il mondo non lo stava a sentire, e uno in carica che si dichiara solo “vescovo di Roma”. Evidentemente, i papi devono servire a poco se i fedeli hanno altro per la testa. Per fortuna, che Houellebecq ad un certo punto si sveglia, e afferma che la sua lettura del Corano lo porta a supporre come possibile un’intesa dell’Islam con le altre religioni monoteiste. Anche qui, non c’era bisogno di rileggere il Corano, ma bastava osservare la realtà per scorgere in una simile intesa una possibile fuoriuscita dal caos, nei prossimi decenni2. Ma in cosa deve consistere questa intesa? Houellebecq, ricollegandosi a quanto espresso da Emanuel Carrère nel suo recente romamzo Il Regno, sostiene che «senza andare verso un progetto di fusione grandioso alla Carrère, diciamo che Cattolicesimo e Islam hanno dimostrato di poter coabitare. L’ibridazione è possibile con qualcosa che è davvero radicato in Occidente, il Cristianesimo». Fusione o ibridazione, quel che Carrère e Houellebecq dovrebbero sottolineare di più è che il Cristianesimo deve cambiare anch’esso, se vuole intendersi con l’Islam e l’ebraismo. Ecco perché invocare un papa per l’Islam è contraddittorio, quando proprio in ciò il Cristianesimo deve riformarsi. Come si dice in francese, on ne peut avoir le beurre, et l’argent du beurre. Ma il punto è proprio questo, che da vero incontentabile Houellebecq vuole il burro e i soldi che la mamma gli da dato per comprare il burro. Egli infatti sostiene che un’ibridazione dell’Islam con il “razionalismo illuminista” gli pare inverosimile. Per la verità, neanche il Cristianesimo si è ben ibridato con questo strano parto di ciò che chiamiamo “modernità”. Ma qui c’è tutta l’ambiguità del discorso di Houellebecq. «I miei valori non sono quelli dell’Illuminismo», egli afferma, scrollando sdegnosamente le spalle. Quello che all’apparenza sembra essere una via religiosa ad un nuovo umanesimo, si rivela così una regressione ad una religione comune, magari con tanto di papa, che ci liberi da quella libertà morale di cui, come afferma ancora Houellebecq, «l’uomo non ne può più». Ma siamo sicuri che i musulmani non stiano cercando a modo loro quella libertà di cui Houellebecq, e i suoi affaticati compagni, sono così stanchi? Siamo sicuri che non stiano cercando, per altro alquanto disturbati dalle nostre continue intromissioni, una versione più autentica di quella libertà che troppe omissioni, troppe rimozioni, troppe strumentalizzazioni hanno reso da noi un vuoto simulacro? Poco importano queste domande ancora troppo illuministiche, perché Houellebecq ha già deciso: «ecco perché parlo di sottomissione». E che cos’è la sottomissione? Qualche anticipazione giornalistica del suo nuovo romanzo che, non essendo lettori abituali di questo rispettabile scrittore, non si è letto in originale, lo chiarisce:

«“È la sottomissione” disse piano Rediger. “L’idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta. È un concetto che esiterei a esporre davanti ai miei correligionari, potrebbero giudicarlo blasfemo, ma per me c’è un rapporto tra la sottomissione della donna all’uomo come la descrive Histoire d’O e la sottomissione dell’uomo a Dio come la contempla l’islam. Vede”, proseguì, “l’islam accetta il mondo, e lo accetta nella sua integrità, accetta il mondo così com’è, per dirla con Nietzsche. Per il buddhismo il mondo è dukkha — inadeguatezza, sofferenza. Il cristianesimo stesso manifesta serie riserve — Satana non viene definito “principe di questo mondo”? Per l’islam, invece, la creazione divina è perfetta, è un capolavoro assoluto. Cos’è in fondo il Corano, se non un immenso poema mistico di lode? Di lode al Creatore e di sottomissione alle sue leggi»3.

Non si poteva parafrasare meglio il famoso “solo un dio ci può salvare” del filosofo della Foresta nera4, non si poteva esprimere meglio questa nuova “passione dell’obbedienza” da cui, però, i credenti stessi cercano di prendere le distanze (Bergoglio semplice “vescovo di Roma”!). Perché, alla fine, è questo il punto, si abbassano le insegne del “razionalismo illuministico”, si prendono le distanze dalla “modernità” e dall’“Occidente”, ma resta sempre quell’istanza, “noi”, che per quanto ormai vuota di fascino e contenuto, pretende di decidere come deve essere, questa volta non più la “ragione”, ma la nuova fede in cui islamici, cristiani ed ebrei dovrebbero ibridarsi. Una fede da schiavi felici. Il libertinismo è divertente, ma travestito coi paramenti teologici fa paura. Sottomissione? No, grazie, reciprocità!

  1. S. Montefiori, Michel Houellebecq: «Niente in Francia sarà più come prima. Sì, ho paura anch’io…», http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_14/michel-houellebecq-niente-francia-sara-piu-come-prima-si-ho-paura-anch-io-b2efe122-9bb4-11e4-96e6-24b467c58d7f.shtml. Salvo altra indicazione, le citazioni che seguono si riferiscono a questa intervista []
  2. F. Aqueci, Rompere lo specchio. Islam ed ebraismo al tornante della modernità, “Critica marxista”, n. 5, settembre-ottobre 2008, pp. 35-41, poi in Id., Ricerche semioetiche, Roma, Aracne. 2013, pp. 187-197 []
  3. M. Houellebecq, “Francia, il tuo destino è la sottomissione al potere dell’islam”, “la Repubblica”, 15.1.2015, pp. 22-23. []
  4. M. Heidegger, Nur noch sin Gott kann uns retten, “Der Spiegel”, XXX, n. 23 31 maggio 1978. Il colloquio con Rudolf Augstein e Georg Wolff ebbe luogo il 23 settembre 1966. []

Una sinistra di sinistra. A proposito dell’eurasiatismo di Aleksandr Dugin

Download PDF

Alla fine della Prima guerra mondiale, Gramsci denunciava l’«ideologia wilsonisma della Società delle Nazioni» come «l’ideologia propria del capitalismo moderno, che vuole liberare l’individuo da ogni ceppo autoritario collettivo dipendente da strutture economiche precapitalistiche, per instaurare la cosmopoli borghese in funzione di una più sfrenata gara all’arricchimento individuale»1. Oggi, Aleksandr Dugin, teorico dell’eurasismo, denuncia l’ideologia della “società aperta”, dei diritti dell’uomo, dell’economia di mercato e del sistema democratico liberale, come l’ideologia propria del cosmopolitismo occidentale, che con la globalizzazione gli Stati Uniti pretendono di imporre come una verità universale obbligatoria2. La differenza tra le due posizioni è che Gramsci si interessò dell’americanismo, per appropriarsi della sua “grammatica” modernizzatrice e rovesciarla di segno, mentre invece Dugin respinge l’americanismo e si volge senza indugio alla Tradizione, come egli la scrive con la t maiuscola. Dopo quarant’anni di compromesso keynesiano, trenta di reagan-thatcher-blairismo e sette di “crisi economica” conclamata, con le dovute cautele e gli opportuni distinguo si può anche convenire con Augusto Del Noce che il tentativo modernizzatore di Gramsci, portato avanti dai suoi eredi politici, in tutte le loro molteplici trasformazioni, è stato assorbito e neutralizzato dalle tendenze in atto del capitalismo assoluto3. Ma quale può essere l’esito del tradizionalismo di Dugin? Alla luce della crisi ucraina, nella quale la Russia ha alluso ad una logica “eurasista”, si può ben dire che esso è destinato ad un fallimento ancora più definitivo. Le sanzioni economiche e il crollo del prezzo del petrolio stanno mettendo in ginocchio la Russia, la quale ha così potuto toccare con mano la fragilità di ambizioni alimentate da un’ideologia “passionaria”, come il particolarismo universalistico di Dugin. Di passata, non si può non notare che la sovradeterminazione energetica degli scopi d’azione che, al seguito di Gumilev, Dugin chiama «passionarietà»4, nonché la nozione di «luogo-sviluppo», centrale nell’eurasismo, richiamano il «non logico» e la «persistenza degli aggregati» di Vilfredo Pareto5, il che giustifica la supposizione che l’eurasismo sia una forma di naturalismo mascherato che, nella versione “heideggeriana” di Dugin, con il suo appello ad un «capo» che si faccia interprete della «comunità di destino» che ogni «civiltà» rappresenta, diventa anche un programma politico-ideologico irrazionale apertamente rivendicato. Perciò, la sinistra di destra che Dugin predica, cioè una sinistra egualitaria che sposa valori di destra, quali il localismo, il comunitarismo e il tradizionalismo, è un pasticcio ideologico che alla prova della realtà non regge. Dugin dichiara di condividere con i comunisti «la critica della società borghese e il rifiuto del sistema capitalista liberale», ma precisa che gli sono «completamente estranei la dogmatica della classi, il progressismo, il materialismo storico e dialettico»6. Lasciando da parte i comunisti, una specie politica attualmente in letargo, si può però dire che il bricolage ideologico non porta da nessuna parte e causa solo confusione, quella stessa che tragicamente regna sul campo di battaglia ucraino. Criticare il sistema capitalistico e rifiutarsi di fare i conti con il materialismo storico è come pretendere di scalare una montagna con le scarpe da passeggio. Al primo lastrone di ghiaccio, si precipita in uno degli infiniti crepacci di cui è disseminata la notte dei tempi, e lì, come fa Dugin7, si resta a rimuginare tutte le storie dei patriarchi, mentre in cima il futuro balla la sua danza sfrenata.

 

  1. A. Gramsci, I cattolici italiani, “Avanti!” ed.piem., 22.12.1918, in A. Gramsci, Scritti Politici, a cura di Paolo Spriano, vol. 1, Editori Riuniti, Roma 1978 pp 224-228, http://www.nuovopci.it/classic/gramsci/catit.htm []
  2. A. De Benoist, A. Dugin, Eurasia. Valdimir Putin e la grande politica, Napoli, Controcorrente, 2014, p. 75; A. Dugin, Continente Russia, cit. in C. Mutti, Recensione a G. Zjuganov, Stato e potenza, http://www.claudiomutti.com/printable.php?id_news=84 []
  3. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, [1978], Torino, Aragno, 2004, pp. 221 sgg. []
  4. A. De Benoist, A. Dugin, Eurasia. Valdimir Putin e la grande politica, cit., p. 40 []
  5. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, (1916) Torino, Utet, 1988 []
  6. A. De Benoist, A. Dugin, Eurasia. Valdimir Putin e la grande politica, cit., p. 110. []
  7. A. De Benoist, A. Dugin, Eurasia. Valdimir Putin e la grande politica, cit., pp. 115-122. []