Cultura

L’ineludibile principio. Sul Gramsci di Angelo Rossi

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Habent sua fata libelli, e così il libro di Angelo Rossi su Gramsci1, tutto interno all’interpretazione gramsciana, di cui innova metodi e risultati2, per il momento in cui è uscito sembra divenuto la spiegazione filosofica dell’attualità politica italiana. Può sembrare un’esagerazione, ma all’indomani del 25 maggio, giorno della trionfale vittoria di Renzi alle Europee, Alfredo Reichlin, scrivendo su uno degli ultimi numeri de “l’Unità”, prima della sua chiusura, ha visto nel PD incarnarsi il “partito della nazione” che da tempo la sinistra aspettava3. E, più recentemente, Pierluigi Bersani, riprendendo il discorso, stimolato anche dalle lettere di Togliatti nel frattempo edite con un titolo che suggestivamente evoca, dal ’44 al ’64, l’esistenza di una “guerra di posizione in Italia”4, ha parlato di una sinistra italiana non esattamente sovrapponibile a quella delle socialdemocrazie europee, cui è rimasto in vena il concetto di responsabilità nazionale5. Dopo decenni di rivendicazione del “socialismo europeo”, fa un certo effetto sentir rimarcare il distacco dalle “socialdemocrazie europee”. Forse che non si faceva così nelle vecchie sezioni del PCI? Tanto più che il “partito della nazione”, per essere tale, deve smettere secondo Reichlin di massacrare i diritti dei lavoratori, e deve rompere con l’austerità spacciata per “riforme”. Basterebbe aggiungere che le “riforme”, per esser tali, debbono essere “riforme di struttura”, e Togliatti sarebbe di nuovo tra di noi. Insomma, sono tutte queste risonanze, che come dei motivetti ben conosciuti si fanno facilmente completare, che inducono a dire che il libro di Angelo Rossi sembra apparso apposta per fornire ad esse il loro naturale retroterra filosofico. Il Gramsci che esso ci consegna è, infatti, il Gramsci teorico del moderno, fautore della democrazia, politico riformatore, che ispira una tradizione politica, quella togliattiana, in cui il partito non può tradire la nazione, ma se ne fa carico, perché il progresso della “nazione” coincide con quello delle “classi lavoratrici”.

Apro qui una parentesi, circa la tesi di Rossi sul Gramsci “democratico”. Su questo punto, Rossi si spinge a sostenere che la democrazia di Gramsci non è solo democrazia sostanziale, ma anche rappresentativa. La tesi mi sembra artificiosa, tanto quanto quella di un Gramsci liberale, e sconta una debolezza teorica che storici della democrazia, che un tempo si sarebbero detti “borghesi”, come ad esempio John Dunn, non patiscono. Quest’ultimo infatti riconosce che con la democrazia rappresentativa «non si poteva garantire concretamente la perenne vittoria ai fautori dell’opulenza e della distinzione, ma si poteva stabilire, e in effetti lo si fece, un’arena in cui quella vittoria poteva essere ripetutamente ricercata e raggiunta attraverso i giudizi e le scelte dei cittadini»6. Ciò significa che il problema della democrazia dipende dal fine, che ci si propone o meno, di fuoriuscire dalla “arena dell’opulenza e della distinzione”, determinata da precostruiti culturali ad esse favorevoli, “naturalmente” maggioritari fra chi deve decidere. La democrazia, quindi, riposa su una ontologia sociale che limita a priori i contenuti che si possono “processare” nelle sue forme, e quando questa ontologia viene violata, non necessariamente con la forza, scatta la reazione, questa sì violenta, di coloro che hanno originariamente, in senso sia logico che storico, delimitato i confini dell’“arena” (vedi il caso storico paradigmatico del Cile di Allende, nel 1973). Ora, non c’è dubbio che Gramsci, nella misura in cui si propone di unificare “culturalmente” la società, si propone anche di fuoriuscire da tale arena, anche se, come accenneremo appresso, con lo strumento ambiguo della modernizzazione. Egli si trova, dunque, in un dilemma democratico, ma non si può dire certo che sia un fautore della democrazia rappresentativa. Sostenerlo, come fa Rossi, equivale a privarlo di una sua tipica tensione teorica.

Ma torniamo al filo del discorso. Dicevamo Gramsci teorico del moderno, fautore della democrazia, politico riformatore, che ispira la tradizione politica togliattiana, con il suo principio di responsabilità nazionale. La domanda, allora, è quanto dura una tradizione politica? Quando arriva il momento in cui si deve ammettere che si è esaurita? La guerra di posizione in Italia è finita o continua, come sostiene il senatore bersaniano Alfredo D’Attorre, anche lui richiamandosi al libro togliattiano prima citato7? Siamo ancora, non solo dentro, ma addirittura all’apice di quella tradizione politica, come pure le affermazioni di Reichlin, Bersani e D’Attorre farebbero pensare, oppure siamo non all’epilogo, ma addirittura ben al di là di esso? Molti anni fa, ormai una trentina, un filosofo conservatore cattolico, Augusto Del Noce, avanzò di Gramsci una interpretazione che è l’opposto complementare di quella odierna di Rossi8. Anche per Del Noce Gramsci era un teorico della modernità, il fautore di un “nuovo conformismo” dove gli interessi dei lavoratori coincidevano con quelli della nazione, un politico non dottrinario ma portatore di un robusto programma riformatore, di cui la scuola, esattamente come sostiene Rossi9, sebbene ex contraria parte, era il fulcro per costruire la nuova egemonia10. Ma se Rossi si limita solo a stigmatizzare velatamente chi non ha avuto cura e fede nel partito11, sospendendo ogni giudizio su una tradizione politica che pure gli fornisce non poche suggestioni per ricostruire quei Quaderni da cui fa discendere quella stessa tradizione12, la conclusione di Del Noce già trent’anni fa era invece infausta. Gramsci aveva vinto, ma fallendo, nel senso che aveva portato “la rivoluzone al suicidio”. Aveva torto o ragione Del Noce? Qui dobbiamo un attimo addentrarci dentro la sua tesi, prendendo in considerazione i due punti che mi sembrano essenziali, cioè l’ideologia antifascista e il passaggio completo dello “spirito borghese” allo stadio calcolistico-strumentale. Di che si tratta?

Secondo Del Noce, la funzione dell’ideologia antifascista è ben evidenziata da una critica dell’antico avversario di Gramsci, Amadeo Bordiga che, nella sua ultima intervista, ancora ribadiva che l’antifascismo aveva dato «vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati giù giù fino alle schiere ridicole dei mezziborghesi, intellettuali e laici»13. Quanto al pieno raggiungimento dello stadio calcolistico-strumentale dello “spirito borghese”, Del Noce riprende la tesi di Max Horkheimer circa l’esistenza di due stadi in tale processo, un primo stadio di compromesso, in cui valori non borghesi come onore, responsabilità e onestà vengono conservati e resi funzionali allo sviluppo capitalistico, consentendo ai centri della loro diffusione, come la famiglia cristianamente intesa, di continuare ad operare; un secondo stadio, infine, in cui tali valori entrano definitivamente in conflitto con lo sviluppo capitalistico. Si impone allora il loro superamento, che può venire spacciato come superamento del capitalismo stesso, mentre invece si tratta del suo pieno dispiegamento, fondato sull’abolizione del mistero e della qualità, e sulla loro sostituzione con dati misurabili e quantitativi. Ora, secondo Del Noce, all’affermazione di questo stadio finale del capitalismo, la strategia gramsciana della modernizzazione fornisce un involontario supporto per realizzarsi allo stato puro, venendo così a trovarsi completamente assorbita nella transizione che, dal capitalismo al socialismo quale doveva essere, è invece solo dalla vecchia alla nuova forma totalitaria del capitalismo, quella in cui non si censurano tanto le risposte con la forza, ma si rendono impossibili le domande per via pedagogica14.

Ora, può anche essere che la tesi di Del Noce sia solo un ammasso di sofismi, ma l’unico modo di saperlo è di uscire fuori dalle interpretazioni, e guardare ai fatti. Uno di questi attiene all’ideologia antifascista, e si è prodotto nella primavera del 2013, quando la banca d’affari Morgan Stanley ha messo in circolazione un documento in cui si affermava che le costituzioni antifasciste dei paesi mediterranei (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) costituiscono un serio ostacolo all’implementazione delle politiche di “libero mercato” già adottate nell’ultimo trentennio in altri paesi, e che sole potrebbero garantire il loro ritorno alla “crescita”15. A pensarci bene, questo documento si può considerare un omaggio postumo ad Amadeo Bordiga il quale, lungi dall’essere quel fossile rivoluzionario che passò per essere in vita, si rivela in realtà un osservatore dalla vista lunga. Infatti, Morgan Stanley è il più tipico esponente di quei “grandi plutocrati” che sotto l’egida dell’antifascismo hanno convissuto per decenni non solo con “mezziborghesi, intellettuali e laici”, ma anche con i movimenti dei lavoratori di ogni paese avanzato. Sicuramente adesso qualcuno salterà sù a dire che questo rigurgito di bordighismo è semplicemente ridicolo. Ma la domanda che dobbiamo porci non è se Bordiga aveva ragione e Gramsci e Togliatti torto, o viceversa, ma perché nella primavera del 2013, dopo trent’anni e passa di martellamento calcolistico-strumentale, e sei di “crisi economica” conclamata, una grande organizzazione “plutocratica” decide di ripudiare l’ideologia antifascista. Le risposte possono essere tante, ma quella che mi sembra non poco plausibile è che, nella sua irrefrenabile espansione totalitaria, il capitalismo assoluto non ha più nulla da guadagnare a tenere in piedi la veneranda coalizione antifascista, anzi, tenerla in vita rischia di attribuire ai residui “movimenti dei lavoratori”, ai “subalterni”, ai “proletari”, un potere di contrattazione non più rispondente al loro effettivo ruolo sociale e peso politico. In altri termini, l’ideologia antifascista è un ostacolo al raggiungimento di quello stadio totalitario della modernizzazione in cui non ci sono più domande da porre, non per forza di censura ma perchè, come il Dio del catechismo, non c’è altra realtà all’infuori di quella capitalistica. Questa “religione della merce”16 può sembrare un’astratta costruzione ideologica, ma anche qui, valgano i fatti. Ecco quanto Jean-Claude Trichet e Mario Draghi scrivevano al governo italiano, il 5 agosto del 2011:

«Nell’attuale situazione, riteniamo essenziali [che il governo italiano adotti ] le seguenti misure: […] È necessaria […] la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala. […] C’é anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione […] E’ possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi. […] Vista la gravità dell’attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate […] siano prese il prima possibile per decreto legge […] Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio […] Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per […] migliorare […] la capacità dell’amministrazione pubblica di assecondare le esigenze delle imprese. […] C’é l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)»17.

Documenti simili è possibile produrne per ogni altro paese che sia passato per le cure di organismi finanziari internazionali, come il FMI, o di organismi politici cosiddetti “tecnocratici”, come la Commisisone Europea. E fatti che attestino il predominio delle “esigenze specifiche delle aziende”, cioè del feticcio della merce, è possibile produrne per ogni ambito dell’odierna vita sociale. Dire perciò che il capitalismo assoluto, con il pretesto della “crisi economico-finanziaria”, è proteso gagliardamente verso il suo nirvana totalitario, è solo un’affermazione che rispecchia un fatto oggettivo. Allora, aveva ragione Del Noce a dire che Gramsci, con la sua strategia modernizzatrice, in cui gli interessi delle “classi lavoratrici” coincidono con quelli della “nazione”, aveva vinto fallendo, ovvero favorendo l’avvento dello stadio supremo del capitalismo assoluto? Una cosa che tanto Del Noce, quanto Rossi, non sottolineano abbastanza è che, quando Gramsci, sotto il tema dell’“americanismo”, parla di modernizzazione, insiste sempre sull’unificazione “culturale” della società. Ciò vuol dire che la modernizzazione, per Gramsci, è il salto in una nuova ontologia sociale, oltre l’arena dell’opulenza e della distinzione. Il rivoluzionamento della struttura non è perciò un fatto solamente “economico”. Del Noce offusca questo tema con i suoi fumi della desacralizzazione nichilistica cui Gramsci approderebbe con il suo immanentismo18. Qui non vale più la pena di seguirlo. Ma certo da Rossi, che ricostruisce politicamente la riflessione filosofica di Gramsci, ci si sarebbe aspettati una risposta su questo punto, che invece manca del tutto. Lo abbiamo già detto, Rossi si limita a stigmatizzare il fatto che non si sia avuto cura del partito, ma per il resto, non solo non dice nulla sulla politica politicienne di “responsabilità nazionale” che si è finita per trarre dall’impianto gramsciano, ma rimprovera anche assurdamente Togliatti di non avere mai avuto, a differenza di Gramsci, la “bussola” americanista19. Ma, in un certo senso, era proprio l’assenza di tale bussola che consentiva a Togliatti, tramite il “legame di ferro”, di salvaguardare il partito. E lo si è visto nel 1989 quant’era importante questo basamento. La verità è che Rossi si infila in questo ginepraio perchè nella tradizione gramscitogliattiana, all’interno della quale egli legittimamente iscrive la sua interpretazione di Gramsci, permane un elemento di opacità, quando non di rimozione, verso il tema fondamentale dell’alienazione, che è il cuore della “religione della merce”. Senza un’adeguata traduzione politica di questo tema, che bisogna riconoscere è cosa a dir poco ardua, la fondazione filosofica della trasformazione politica della realtà, che giustamente Rossi rintraccia nell’antidogmatica riflessione di Gramsci su Marx, resta esposta a quell’involontaria assimilazione alle operazioni proprie del capitalismo assoluto, rilevata a suo tempo da Del Noce. Allora, il comprensibile cruccio di non sedere a Palazzo Chigi, ma chissà, forse anche la soffocante pervasività di questa “religione della merce”, di cui però non si possiede la chiave, è ciò che, nell’articolo prima richiamato, fa dire all’onesto Bersani che quel concetto gramscitogliattiano di responsabilità nazionale, “ineludibile per un comunista italiano, ci ha fregati”20. In questa ammissione, dove addirittura ricompare il termine “comunista”, c’è come la residua luminescenza di un’ultima domanda che si può ancora porre, prima di ammainare la bandiera di una “guerra di posizione” che gli avversari hanno avuto l’abilità, a lungo sottovalutata, di trasformare, sul proprio stesso territorio, in una dilagante “guerra di movimento”. Non restano, allora, che questi preziosi concetti, che libri come quello di Angelo Rossi restaurano amorevolmente, ma che richiedono, per tornare ad essere strumenti politici attuali, una vita nuova la cui sorgente tutti ignoriamo.


 

  1. A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), Napoli, Guida, 2014. La nota che qui si pubblica su questo libro di Angelo Rossi è libera da copyright. Chi dovesse utilizzarla, è pregato di citarla secondo le normali pratiche bibliografiche: F. Aqueci, L’ineludibile principio. A proposito del Gramsci di Angelo Rossi, http://duemilaventi.net, 15 ottobre 2014. []
  2. Particolarmente rilevante è la tesi di Rossi sul linguaggio allusivo, nel fornire prove convincenti della sua esistenza, come ad esempio nel caso del dibattito su Croce tra Gramsci e Togliatti che, nel 1932, si svolge tramite il canale delle lettere a Tania e di questa a Sraffa (p. 283). La tesi di Rossi restituisce così alle teorizzazioni contenute nelle Lettere e nei Quaderni la loro autonomia, rispetto a tesi più meccaniche, quale quella dei linguaggi coperti e dei codici segreti, da cui Rossi apertamente dissente (p. 23), ed evita il rischio di ridurre quelle teorizzazioni a meri espedienti, ribadendo invece la loro natura di strumento di una politica, le cui condizioni di realizzazione richiedono una trasformazione filosofica della realtà, basata sul ripensamento non dogmatico di Marx. []
  3. A. Reichlin, Con Renzi ha vinto il partito della nazione, “l’Unità”, 29.9.2014. []
  4. P. Togliatti, La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944-1964, a cura di G. Fiocco e M. L. Righi, Torino, Einaudi, 2014. []
  5. P. Bersani, La nostra nuova vocazione nazionale, “Idee controluce”, 22.9.2014, articolo on line. []
  6. Il mito degli uguali. La lunga storia della democrazia, [2005], tr. it. Milano, Università Bocconi Editore, 2006, p. 138 []
  7. F. D’Esposito, Minoranza PD in fuga: “Facciamo la guerra, ma come Togliatti”, “Il Fatto Quotidiano”, 8.10.2014, p. 4. []
  8. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, [1978], Torino, Aragno, 2004, pp. 221 sgg. []
  9. A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), cit., pp. 157-8. []
  10. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, cit., pp. 279-80. []
  11. A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), cit., p. 348. []
  12. Il “partito nuovo”, il “policentrismo” del memoriale di Yalta, addirittura l’esaurimento della “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre (p. 216), sono tutti temi che Rossi retrodata in Gramsci, al punto che a volte, come nel caso della rivendicata “scelta democratica” (p. 320), la sua prosa sembra tratta da quei colti documenti politici che si producevano nel buon vecchio PCI. []
  13. A. Bordiga, Una intervista ad Amadeo Bordiga, “Storia conteporanea”, settembre 1975, p. 582, cit. in A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, cit., p. 283. L’intervista di Bordiga è reperibile on line. []
  14. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, cit., p. 279. []
  15. J. P. Morgan, The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio 2013, pdf reperibile on line. []
  16. Su questo tema, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, La religione della merce, “Critica marxista”, 3-4, maggio agosto 2014, pp. 83-92. []
  17. Il testo della lettera della BCE al Governo italiano, documento reperibile on line []
  18. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, cit., p. 290 []
  19. A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), cit., p. 256 []
  20. P. Bersani, La nostra nuova vocazione nazionale, cit. []

Il filosofo sballottato

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Parlando in occasione del 200° anniversario della ricostituzione della Compagnia di Gesù, Papa Bergoglio SJ ha affermato che «la nave della Compagnia di Gesù è stata sballottata dalle onde. Anche la barca di Pietro lo può essere oggi. La notte e il potere delle tenebre sono sempre vicini. Per cui remiamo a servizio della Chiesa. Tutti remiamo, anche il Papa rema nella barca di Pietro e dobbiamo pregare tanto il Signore di salvarci»1. “Straparlando” con Antonio Gnoli su “la Repubblica” di ieri, 28 settembre 2014, Mario Tronti, all’intervistatore che gli osservava come, negli anni, fosse passato dall’operaismo a Machiavelli e Hobbes e ora alla teologia politica, ai profeti, e addirittura a Paolo di Tarso, ha risposto: «Se me lo avessero pronosticato trent’anni fa non ci avrei creduto. Però, vede, Paolo è stato il grande politico del cristianesimo. Nelle sue Lettere c’è il Che fare? di Lenin. Guardo molto alla dimensione cattolica, al suo aspetto istituzionale. C’è forza e lunga durata»2. Nella stessa intervista, ma un po’ da sempre negli ultimi decenni, da quando cioè i suoi mitologici operai lo hanno deluso, Tronti fa professione di “realismo politico”, e dopo tanto studiare Machiavelli e Hobbes, ci si aspetterebbe, appunto, uno sguardo “realistico” anche sulla Chiesa cattolica, nella quale, come si è visto, vede invece «forza e lunga durata». Una visione che Papa Francesco, forse perchè alle pagine dei “realisti” ha preferito i film neorealisti, non sembra proprio condividere, se parla della Chiesa come di una “nave sballottata”. Solo che il Papa non è offuscato dal mal di mare, mentre Tronti, che si è seduto in fondo alla Chiesa, sbirciando la messa, sembra in preda ai sintomi di chi, sballottato dalle onde, scambia le proprie allucinazioni con la luce salvifica di un faro inesistente.

  1. “la Repubblica”, 28.9.2014, p. 18 []
  2. “la Repubblica”, 28.9.2014, p. 53 []

L’attrazione fatale

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«Dobbiamo pertanto valutare costi e tempi delle due possibili uscite dalla crsi: abbandonare l’euro preparandosi a fronteggiare il (possibile?) attacco speculativo, ma recuperando il controllo delle nostre sorti […], o pagare il costo delle due (impossibili?) riforme per restare in questa Europa, accettando il degrado coloniale del Paese. Purtroppo l’élite patisce una pericolosa e crescente attrazione verso la seconda soluzione». Chi lo scrive, Grillo? No, Paolo Savona, ex Banca d’Italia ed ex Confindustria, sul “Sole 24 Ore” di domenica 14 settembre, in un articolo richiamato bensì in prima pagina, ma cui la tremebonda redazione di quel giornale ha dato l’insignificante titolo L’edilizia resta il motore dell’economia italiana, quando invece si tratta di un vero e proprio j’accuse contro i governi degli ultimi vent’anni, in particolare contro l’ultimo, che reitera ciecamente le due riforme che in questi due decenni si sono rivelate «impossibili», lavoro e pubblica amministrazione. Non è che Savona all’improvviso si sia trasformato nel nuovo segretario della Cgil, visto che quella che c’è dorme saporitamente, o sia diventato il paladino dei “fannulloni” pubblici, sfaticati con lo stipendio bloccato a cinque anni fa, ma quel che qui ci interessa non è tanto come la pensa intorno a quei due punti, ma l’affermazione con cui chiude il suo articolo: «purtroppo l’élite patisce una pericolosa e crescente attrazione verso la seconda soluzione». Di che attrazione parla l’economista Savona? Questo cupio dissolvi è un fatto inedito nella storia d’Italia, oppure siamo di fronte ad una pulsione che ciclicamente ritorna? Per rispondere a queste domande bisogna partire da due presupposti. Il primo è che la filosofia non è quella chiacchiera senza la quale il mondo resta tale e quale, ma è l’espressione culturale dei processi politici. Il secondo è che la storia è fatta di costanti che, venendo a mancare certi vincoli, si ripresentano periodicamente sotto mutate spoglie. La premessa è vasta, ma si può arrivare alle conclusioni in poche mosse. C’è stato chi, sulla scorta della dialettica hegeliana del padrone e dello schiavo, ha sostenuto che il nazismo e il comunismo sono stati i due movimenti opposti in cui la filosofia classica tedesca doveva spezzarsi nel suo attingere la realtà. Il primo rappresentava la comprensione unilaterale della figura del padrone, il secondo la comprensione unilaterale della figura del servo1. A parte la schematicità della tesi, chi ha sostenuto ciò, non ha spiegato perché questi due poli della relazione dialettica siano andati incontro a questa separazione. Ma lo stesso Hegel in proposito è assai chiaro. Parlando dell’Europa, ma in realtà della Germania, vista come la vetta dello spirito europeo, egli sostiene che il modo in cui essa si afferma nel mondo è l’appropriazione dell’altro: «all’europeo interessa il mondo; egli vuole conoscerlo, vuole appropriarsi dell’altro, che gli sta di fronte, vuole porre in luce nella particolarità del mondo il genere, l’universale, il pensiero, l’intera universalità […] Lo spirito europeo contrappone il mondo a sé, si rende libero da esso, ma risolve di nuovo questa antitesi, riprende il suo altro, il molteplice, in sé, nella sua semplicità […] Come nel dominio teoretico, così anche in quello pratico lo spirito europeo aspira all’unità da produrre fra esso e il mondo esterno […] Esso sottopone il mondo esterno ai suoi scopi con un’energia che gli ha assicurato il dominio del mondo»2. Come si vede, per Hegel, l’altro, ovvero il non europeo, ovvero il non germanico, è il molteplice da ridurre all’unità semplice del proprio sé, è il negativo in cui iniettare l’energia esplosiva del proprio sé, riconducendolo così all’unità della sintesi dialettica. Nella vicenda della filosofia classica tedesca, allora, che è la vicenda dello spirito europeo, schiavo e padrone si spezzerebbero nelle due unilateralità del nazismo e del comunismo, perché entrambi sono irretiti dall’idea di potenza, intesa appunto come proiezione nell’altro del proprio sé esplosivo. Di qui, allora, non una sintesi dialettica, ma un “compromesso storico” in cui lo schiavo è accomunato in posizione subalterna al padrone, nell’impresa di dominare il mondo. In questo schema non c’è nulla di nuovo, anzi, esso si può ritrovare nella genesi di ogni “moderna nazione industriale”3. Ma qui ci interessa sottolineare che, rispetto a questa derivazione filosofica del nazismo, il fascismo è altra cosa. Come è stato messo in evidenza, esso è la confluenza dell’attivismo nel pensiero dell’attualismo gentiliano, estrema versione dottrinale delle marxiane glosse a Feuerbach, e dell’attivismo nell’azione di Mussolini, suprema incarnazione della tipica pulsione italiana all’eversione individualistica di ogni ordine costituito4. Perché, allora, nonostante la differente genesi, il fascismo subisce l’attrazione fatale del nazismo? Perché non si mette sotto le ali del neutral-pacifismo di Pacelli, e si butta invece in un’alleanza con Hitler, che è un vero e proprio soggiogamento? Perché la tendenza che vince è quella del solipsismo eversivo, al tempo stesso, fatto culturale espresso dalla filosofia gentiliana e fatto caratteriale di un individuo che fa coincidere la propria personalità con la storia5. Che cosa ci dice sull’oggi questo gioco di forze storiche? La fase cruciale è quella del disciplinamento del lavoro che, all’inizio degli anni 2000, scatta in Germania. Maastricht era stato firmato da una decina d’anni, ma era ancora un vulcano in sonno. Con i governi Schröder, la Germania decide di sfruttare ciò che con Maastricht aveva ottenuto, cioè non politica della “piena occupazione”, ma politica della “stabilità dei prezzi” come missione della BCE. È ciò che gli americani fecero alla Germania nel 19476, che diventa ora modello europeo, ma con un significato del tutto differente. Come settant’anni prima, infatti, schiavo e padrone addivengono ad un nuovo “compromesso storico” che, nell’incivilito contesto dell’Unione Europea, ridia alla Germania, non più la rinascita, ma la potenza. Il patto corporativo e “antidialettico” tra operai e capitalisti è il solito appello al subalterno a “farsi carico”. Ma, nelle parole del suo stesso ideatore, il dirigente della Volkswagen Peter Hartz, esso genera «un sistema attraverso il quale i disoccupati vengono disciplinati e puniti»7. È quel che serve, per lucrare il differenziale da buttare nel credito e nelle esportazioni, i cui prezzi però sono ora espressi nella “moneta dell’altro”, in cui dunque si può tornare ad iniettare l’energia esplosiva del proprio sé. Chiedere alla Grecia, per avere conferma di questo moderno totalitarismo, che non prevede più stivali luccicanti ma troike itineranti. E siamo alla «pericolosa e crescente attrazione» di cui parla Paolo Savona. Chi ha scelto Maastricht ha pensato che il “vincolo esterno” fosse l’unico mezzo per raddrizzare il “legno storto” italiano. Ma, com’è noto, la via dell’inferno è lastricata dalle buone intenzioni. Nella processione che si è raccolta dietro le insegne di questo virtuismo azionista, in realtà si sono adunati tutti gli eversori di questo paese. Savona giustamente parla di «élite». Non siamo più alla personalità che assorbe la storia, sino all’esito tragico di appenderla a testa in giù con il proprio corpo martoriato, ma ad oligarchie, a cerchie, a logge più o meno piduistiche che, nel vincolo esterno europeo, hanno trovato lo strumento per dare corso alla storica pulsione eversiva, in una sarabanda di “riforme”, anche solo annunciate, ma bastanti a gettare nel marasma l’ordine repubblicano, nato faticosamente e stentamente dalla Resistenza. Adesso scorgiamo la meta che, con le oneste parole di Paolo Savona, possiamo indicare come un destino di sottosviluppo e degrado coloniale. Il problema però non è solo italiano, ma europeo. Ancora una volta l’Europa si trova sotto il peso di un asse, che non è certo l’asse d’acciaio di sinistra memoria, ma è comunque l’asse della partita distruttiva della potenza, giocata sul terreno della moneta unica, in cui entrano, in posizione subalterna, anche i nuovi arrivati, dai polacchi ai baltici ai nordici dei perfetti welfare, ma minati da demoni neonazisti ricacciati a fatica nel sottosuolo di una rinsecchita ragione pubblica. Un’attrazione fatale che al momento non sembra trovare ostacoli, né nella Francia, debilitata dall’inanità dei suoi enarchi, né nell’Inghilterra, rosa dalla finanziarizzazione che disgusta i popoli del suo regno sempre meno unito. L’Europa è al buio, e nel suo cielo si muovono solo rade stelle giovani e inesperte che non fanno luce.

  1. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, (1978), Torino, Aragno, 2004, p. 196, nota 19, in cui si rifà a G. Fessard De l’actualité historique, Desclée, Paris, 1960, t. I, pp. 130 ss. []
  2. G. W. F. Hegel, Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften, a cura di H. Glockner, Stuttgart, Fromman, 1927-39, X, pp. 71-80, tr. it. in Pietro Rossi, Storia universale e geografia in Hegel, Firenze, Sansoni, 1975, pp. 102-103, cit. in B. De Giovanni, La filosofia e l’Europa moderna, Bologna, il Mulino, 2004, p. 230. []
  3. Se ne veda la descrizione per la moderna nazione industriale americana, in G. Luraghi, La guerra civile americana, Milano, Rizzoli, 2013 []
  4. A. Del Noce,, Il suicidio della rivoluzione, cit., pp. 299 ss. []
  5. A. Del Noce,, Il suicidio della rivoluzione, cit., p. 308. []
  6. M. Donato, Operazione bird dog, “Economia e politica”, rivista on line, 13 settembre 2014. []
  7. P. Hartz, Macht und Ohnmacht, Hamburg, Hoffmann und Campe, 2007, p. 224, cit. in Hartz-Konzept, voce di Wikipedia versione tedesca. []

Eurasismo: l’ostacolo ucraino

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  L’Ucraina è un grosso ostacolo al disegno eurasiatico di Putin, e in generale per l’ideologia eurasiatica. Da Trubetskoj a Dugin, l’eurasismo si è sempre presentato come un concetto reale, che ha il consenso spontaneo dei popoli, se non di tutti i popoli che vanno da Lisbona a Vladivostok, certamente dei popoli slavi1. Ma la ribellione ucraina, che ha scisso in due quel paese, mostra che l’eurasismo suscita contrasti, e questo lo indebolisce perché significa che la sua egemonia non è spontanea, come pure sosteneva. In parte, la questione si era posta nei Balcani, negli anni Novanta del secolo scorso, quando la Serbia era più propensa a guardare alla Russia, mentre croati e soprattutto sloveni si volsero subito verso l’ambìto marco tedesco. Ma a che cosa si oppone l’eurasismo? L’eurasismo si oppone all’americanismo. Tanto questo afferma i valori dell’individuo, della globalizzazione e dei diritti umani universali, tanto l’eurasismo afferma i valori della comunità, dei mondi a parte e del pluralismo antropologico2. È il valore comunitario che spiega la confluenza di estrema sinistra ed estrema destra nel sostegno ai filo-russi d’Ucraina. Solo che, almeno in una visione “ortodossa”, per l’estrema sinistra la comunità è una costruzione “razionale”, per l’estrema destra, invece, un prodotto della “tradizione”. Al momento, queste particolarità ideologiche sono sospese, e nessuno può dire se un domani riprenderanno il sopravvento, o avverrà una fusione permanente. Contro questa fusione, milita intanto l’estrema destra che sostiene, anche sul campo, i nazionalisti filo-occidentali di Kiev. Qui può la “razionalità” sedimentata dal ricordo storico dei nazisti che, alleati di Hitler, combatterono contro i “bolscevichi”, nella seconda guerra mondiale, cui fa da contrappeso l’accusa di Putin a quelli di Kiev di essere dei “nazisti”. Ma tornando al contrasto tra eurasismo ed americanismo, non sono solo i contenuti ideologici a differenziare i due movimenti. Essi si differenziano anche per il loro rapporto con l’egemonia. L’eurasismo, l’abbiamo detto, rivendica il consenso spontaneo dei popoli in cui risiede lo spirito eurasiatico, ma non pretende di essere il vertice dello sviluppo dello spirito umano. Al contrario, esso proclama la coesistenza tra le varie culture umane3, e questo la dice lunga su certa disinformazione nostrana, che vuole la Russia protesa a ricostruire l’impero zarista o sovietico, dimenticando che questi imperi non furono mai un sistema coloniale mondiale, come quello, ad esempio, britannico, ma una fortezza circoscritta ad un territorio contiguo, per quanto immenso fosse. L’eurasimo, insomma, si batte per il mantenimento di un “mondo a parte”, e in generale dei “mondi a parte”, ed ecco perché suscita simpatia in coloro che vedono la “globalizzazione” come un pericolo, laddove “globalizzazione” è sinonimo di americanismo. Come dicevamo, per l’eurasismo, l’Ucraina è una grossa difficoltà, in parte però ricompensata dalla spontanea adesione alla Russia, il centro eurasiatico slavo, della Crimea e delle regioni orientali della stessa Ucraina, e non è un falso dire “spontanea” perché è inverosimile che Putin, per quanto rotto ai “metodi” sovietici, abbia manipolato l’80% della popolazione di quei territori, al momento del referendum4. Gli eurasisti possono ben dire, perciò, che la ribellione di Kiev, avvenuta sovvertendo con manifestazioni di piazza un governo democraticamente eletto, come non si può non riconoscere, è dovuta alla sobillazione dell’americanismo e dei suoi organi politici e militari, la Nato in testa, ma anche l’Unione europea, percepita come un’appendice mercantilistica dell’americanismo. Qui si può notare l’altra differenza che dicevamo circa il rapporto con l’egemonia. L’americanismo, infatti, pretende di essere norma universale e si arma per imporla, sia metaforicamente, con la forza dell’economia e del consumo, sia militarmente, occupando e intervenendo in nome della guerra giusta, della difesa dei diritti umani, della lotta al terrorismo. È vero che in Ucraina non è ancora intervenuto militarmente, ma la minaccia di costruire basi Nato, per quanto su “pressante” richiesta di forze “interne”, è un drappo rosso agitato davanti agli occhi di Putin, un mezzo per costringerlo ad una logica da guerra fredda, e far scadere l’eurasismo ad orpello ideologico delle sue mire geopolitiche. Ma tornando alle differenze tra le due ideologie, possiamo riassumere dicendo che l’eurasismo si fonda sull’egemonia in atto, l’egemonia assicurata dai legami comunitari tradizionali. L’americanismo, invece, si fonda sulla nuova egemonia, sull’egemonia che deve essere costruita, e che impone ai popoli riforme e trasformazioni. Questo carattere tecnicamente “rivoluzionario” dell’americanismo fu visto da Gramsci, che lo giudicò come l’espressione più genuina della vita moderna, a differenza del bolscevismo staliniano che ai suoi occhi era rozzo e primitivo5. Certo, sorprende che egli non dedicò alcuna attenzione all’eurasismo. Difficile credere che si trattò solo di misconoscenza. Fra i suoi teorici c’era un linguista come Trubetskoj, anche se all’epoca non era così conosciuto come lo divenne dopo, e ciò avrebbe potuto attirare la sua attenzione, nei suoi contatti con la cultura russa (ma se è per questo, non pare che egli sia stato attratto dal formalismo russo). Forse c’è una ragione profonda, e cioè che l’americanismo con la sua apertura universale gli offriva un modello di ciò che egli pensava dovesse essere un movimento rivoluzionario in Occidente. Il proletariato doveva promuovere l’uomo nuovo, il Leonardo da Vinci di massa, e questo poteva accadere impadronendosi della grammatica dell’americanismo, con la sua attenzione per gli aspetti tecnici della produzione e per la standardizzazione del lavoro e della vita quotidiana. Questo forse fu anche un limite della riflessione di Gramsci, perché egli non vide che impadronirsi di tale grammatica, autoimporsi la sua norma nel “corpo”, non avrebbe liberato automaticamente il “cervello” dei subalterni, come egli si esprimeva6. In altre parole, non avrebbe loro assicurato automaticamente l’egemonia sulla società moderna, senza contemporaneamente affrontare il problema marxiano dell’alienazione. L’accento sul legame comunitario “tradizionale” proprio dell’eurasismo forse avrebbe potuto suggerirgli una sintesi, per cui la nuova egemonia non avrebbe dovuto essere solo l’impossessamento da parte dei subalterni della tecnica produttiva, economica linguistica o culturale che fosse, ma nel suo universalismo avrebbe dovuto rendere l’individuo a se stesso, disalienarlo, reintegrarlo nella comunità, che certamente non avrebbe più dovuto essere la comunità particolaristica delle singole tradizioni culturali, ma la comunità sorta dalla loro convergenza e fusione attorno al valore universale della relazione tra soggetto e oggetto, resa al suo libero movimento, quel movimento che, ancora da redattore dell’Ordine Nuovo, lo induceva a tradurre il panta rei eracliteo come “Tutto si muove!”7. E, forse, questa questione così apparentemente “metafisica”, è oggi la questione che nella polvere e nel sangue della guerra ucraina, dobbiamo ancora affrontare.

  1. N. Trubetskoj, Il nazionalismo paneurasiatico, «Eurasia», 1/2004, pp. 25-37; A. Dugin, L’idea eurasiatista, ivi, pp. 7-23; A. Dugin, La visione eurasiatistica, «Eurasia», 1/2005, pp. 7-24. []
  2. A. Dugin, L’idea eurasiatista, cit., e A. Dugin, La visione eurasiatistica, cit. []
  3. Cfr. sempre gli articoli di Dugin prima citati. []
  4. A posteriori, in un articolo gonfio di pregiudizi, si riconosce che «del resto, paradossalmente, Mosca avrebbe presumibilmente vinto un referendum crimeano affidato alle Nazioni Unite o all’Osce senza dover ricorrere a forze mascherate e incorrere nella generale riprovazione e nelle sanzioni economiche, tecnologiche e soprattutto finanziarie», laddove non si capisce dove stia il “paradosso”, se non nella preconcetta ostilità dell’articolista (F. Salleo, Lo strabismo di Putin, “la Repubblica”, 12.9.2014, p. 31). []
  5. Su questo punto, v. il recente libro di Angelo Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni, Napoli, Guida, 2014, che discuteremo prossimamente. []
  6. V. nell’edizione critica di V. Gerratana (Torino, Einaudi, 1975, voll. 4) il Q. 22, § 12, pp. 2170-2171. []
  7. A. Gramsci, Lettere 1908-1926, Torino, Einaudi, 1992, p. 90, lettera al militante socialista Leo Galeno del febbraio 1918. []

Non son solo canzonette

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 In un’intervista al Fatto Quotidiano1, l’editore Giuseppe Laterza rievoca i suoi studi giovanili di Economia e commercio, scelti perché da marxista figicciotto amendoliano quale era all’epoca, era convinto che bisognasse studiare la «struttura». Nel corso di questi studi, racconta Laterza, «facendo un esame scoprii che Piero Sraffa, economista grande amico di Gramsci, in un piccolo ma denso saggio, smontava il meccanismo della teoria classica della creazione del valore e contemporaneamente anche la teoria del plusvalore di Marx. Molto ingenuamente, in un attivo della Fgci, chiesi a Gerardo Chiaromonte come la mettevamo con la teoria di Sraffa. E lui mi liquidò così: “Ma cosa vuoi, son problemi filosofici…”. Per me era un problema decisivo, perché se non si riesce a dimostrare lo sfruttamento dei lavoratori crolla tutta la teoria di Marx. E rimane l’analisi laburista, cioè il conflitto per chi si prende la fetta grande dei guadagni. Ma non lo sfruttamento». Peccato che il pacioso Chiaromonte abbia liquidato così sommariamente il giovane Laterza, perché il punto da lui sollevato era tutt’altro che campato in aria. È vero che Sraffa ha fatto ciò che Laterza dice, ma questo non significa che egli abbia mostrato che il fatto sociale dello sfruttamento del lavoro non esiste. Sarebbe stato come voler nascondere il sole con il setaccio. Ciò che Sraffa ha mostrato è solamente che questo fatto sociale non è la causa economica del profitto. Per Sraffa, infatti, il sovrappiù è una proprietà tecnologica del sistema. Questo però significa che Sraffa fa dell’economia una scienza logicamente rigorosa, ma socialmente e storicamente muta. Che contrappasso, per lui che destabilizzò il logicismo di Wittgenstein, inducendolo alla “svolta linguistica”!2 Visto che l’economia assolve il capitalista, ci dobbiamo buttare allora tutti sul laburismo, come vorrebbe Laterza? Me se si riflette sui tanti autori così meritoriamente pubblicati e tradotti dalla sua casa editrice, dal vecchio Colletti all’inquieto Napoleoni, dall’olimpico Habermas al pugnace Sen, ma ahimé non il filosofico Lukács, si vede che nella realtà odierna, la merce non solo non è divenuta trasparente, mero rapporto tecnologico, come voleva Sraffa, ma si è fatta doppiamente opaca. Infatti, se da un lato lo sfruttamento sociale necessario a produrre il suo supporto oggettuale è stato occultato nel sottosuolo delle delocalizzazioni produttive, dall’altro, quello necessario a produrre il brand, vero fulcro del sistema, è stato nobilitato a prestigioso pseudo-artigianato autonomo. Il sistema, insomma, piuttosto che trasmutarsi in un meccanismo neutro e trasparente, così come voleva l’elegante soluzione di Sraffa, avvolge gli individui in un supplemento di alienazione, che addirittura, alla sua periferia, con il falso brand, si mescola inestricabilmente con il crimine, ovvero con un modo di produzione capitalistico non statuale. In tali condizioni, il dibattito pubblico, appare ben lontano dall’essere quell’arena laburistica accessibile a tutti, in cui si decide la spartizione della «fetta grande dei guadagni». Su di esso, infatti, non pesano solo restrizioni cognitive e pragmatiche, difficilmente sormontabili anche nell’ovattato modello di Habermas, ma ben più profondamente incidono le distorsioni che lo stesso modo di produzione opera, come avvertiva Lukács, sulla relazione tra soggetto e oggetto. Resta dunque il problema del superamento della fatticità reificata del sistema, cioè di quel rapporto puramente empirico e immediato con gli oggetti, funzionale ad un intervento su di essi di tipo calcolistico-strumentale. Una reificazione che, dopo tante illusioni, nutrite dallo stesso Lukács, almeno nella sua prima vita, possiamo dire che tocchi tanto il soggetto estraniato della “borghesia”, quanto il soggetto “proletario” della “presa di coscienza” disalienante. Questo è infatti il dato attuale che da Marcuse, autore quanto mai malcompreso, ai più onesti osservatori contemporanei, un nome per tutti, Luciano Gallino, non possono fare a meno di registrare, e cioè il fatto che la totalità capitalistica si è estesa, erodendo e annullando la posizione del soggetto alternativo, senza per questo irrigidirsi, anzi pervenendo ad una inarrestabile fluidificazione oggettuale. La “fatticità estraniata” si è rivelata quindi più forte della “presa di coscienza”. Questo però non ha pacificato l’essere sociale, né gli ha dato la chiave per l’equa distribuzione del sovrappiù, che invece è divenuta sempre più diseguale. Segno che la giustizia non è da porsi nel momento sovrastrutturale e distributivo del dibattito pubblico, ma in quello strutturale e produttivo del modo di produzione. E così siamo rimandati di nuovo al problema economico, che la soluzione di Sraffa evidentemente non ha affatto chiuso. Non bisogna perciò farla tanto facile, e prendersela, come fa Laterza, a conclusione del suo ragionamento, con il «retaggio marxista» che alimenta in Italia il «pregiudizio negativo nella sinistra contro gli imprenditori»3. Nessuno vuole ammazzare gli imprenditori, ma essi devono pur capire che non sono la soluzione, ma una parte del problema. Se l’economia di Sraffa li assolve, l’alienazione di Hegel, Marx e Lukács non li benedice. Oppure, vogliamo pensare come Gerardo Chiaromonte che, al fondo, sono solo canzonette filosofiche?

  1. Giuseppe Laterza, Croce, i libri e i ragazzi della Fgci. Il dovere di essere un editore, intervista di Silvia Truzzi, “Il Fatto Quotidiano”, 13.7.2014, p. 18. []
  2. Su questo punto, cfr. A. Sen, Sraffa, Wittgenstein, and Gramsci, “Journal of Economic Literature”, Vol. 41, No. 4 (Dec., 2003), pp. 1240-1255 []
  3. Giuseppe Laterza, Croce, i libri e i ragazzi della Fgci. Il dovere di essere un editore, cit. []