Sul Domenicale del Sole 24 Ore di ieri, 20 ottobre 2024, Claudio Giunta, docente di Letteratura italiana all’Università di Trento, recriminando il fatto che gli studenti dei suoi corsi non sanno fare l’analisi logico-grammaticale, prende a calci Tullio De Mauro, il movimento dell’educazione linguistica democratica degli anni Settanta e il buon senso storico. Secondo lui infatti la colpa di quella lacuna sarebbe da ascrivere all’attuale insegnamento della grammatica nei vari ordini di scuola che è rimasto com’era ai bei tempi. Ma Tullio De Mauro e il movimento dell’educazione linguistica democratica contestavano proprio quel tipo di insegnamento grammaticale e si battevano per l’acquisizione di una conoscenza grammaticale che derivasse non dall’apprendimento di categorie astratte ma dall’uso stesso della lingua. Giunta probabilmente ignora questo aspetto e comunque si contraddice quando rimprovera a De Mauro e all’educazione linguistica democratica di aver contestato l’insegnamento tradizionale della grammatica e poi fa risalire la responsabilità dell’attuale ignoranza grammaticale dei suoi studenti a qualcosa che anche lui contesta, ovvero l’insegnamento grammaticale tradizionale. Anziché emendare le sue contraddizioni, Giunta ha però deciso di consultare sul punto uno dei maggiori linguisti italiani, Mirko Tavoni, il quale gli ha spiegato che la causa del persistere della vecchia maniera di insegnare la grammatica è il rifiuto degli insegnati di aprirsi alle potenzialità didattiche della grammatica generativo-trasformazionale, nonostante esistano ormai da tempo trattazioni grammaticali di alto livello ispirate a questa impostazione, come la monumentale Grande Grammatica italiana di consultazione di Renzi-Salvi-Cardinaletti. La spiegazione di Tavoni a Giunta è avvenuta per telefono, e purtroppo Giunta ha deciso di trascriverla e di renderla pubblica. Prendersela con il presunto spirito conservatore degli insegnanti denota un elitarismo su cui i linguisti che hanno abbracciato il generativismo dovrebbero interrogarsi. Ma denota anche un inveterato imperialismo. Se si vuole rinnovare l’insegnamento grammaticale, non si vede perché si deve adottare il generativismo e non, invece, dico così, a caso, la grammatica operatoria di Antoine Culioli, e chissà quanti altri modelli grammaticali nel frattempo sono stati elaborati che avrebbero delle potenzialità didattiche. Se una cosa si può rimproverare a Tullio De Mauro è di non avere approfondito la sua ricerca di una categorizzazione grammaticale “non aristotelica”, come lui diceva, offrendo così il destro a Giunta, a Tavoni e a tutti i tradizionalisti della grammatica di presentarsi all’onor del mondo come i veri innovatori, sol perché hanno adottato la splendente livrea del generativismo. Che però, come dimostrano i fatti, non raccoglie il consenso dei parlanti, se fra questi ci mettiamo anche i maestri di scuola che parlano della lingua a coloro che la debbono parlare. E siccome nella lingua l’uso è tutto, gli imperialisti elitari se ne facciano una ragione e piuttosto ricerchino altre vie per arrivare a una razionalità linguistica in cui appunto l’uso, ovvero il consenso spontaneo e irriflesso, non sia tutto e il parlante sappia parlare della lingua che parla non necessariamente ripetendo a pappagallo la secolare formuletta di soggetto verbo e complemento comunque riverniciata.
Politica
Tesi sul materialismo storico XXI secolo
Dopo l’ubriacatura del punto di vista che è tutto, della decostruzione, della narrazione, dello sbriciolamento linguistico della realtà, il bisogno di realtà è enorme, ma si afferma tramite un’ontologia amorfa, ad opera di “intellettuali” che nei media e nelle case editrici riproducono il punto di vista “irreale” sulla realtà. C’è chi illuso cerca di “dialogare” con questi opportunisti chiedendo loro come mai dal novero delle ontologie escludono il marxismo, e naturalmente non ricevono nessuna risposta. Cosa dovrebbero rispondere? Che se si azzardassero a menzionare il materialismo storico, i loro lauti contratti verrebbero immediatamente rescissi e le televisioni non li inviterebbero più perché non risulterebbero più “interessanti”? C’è quindi poco da “dialogare” e molto da combattere per scalzarli dal terreno della realtà che occupano con i loro simulacri. Gli appunti che seguono, in forma di tesi da approfondire e rielaborare, hanno anche questo scopo.
1. La struttura è il rapporto storicamente determinato che l’attività umana sensibile realizza tra il soggetto e l’oggetto in rapporto con gli altri soggetti. Essa avanza per “epigenesi” i cui principi nell’ontogenesi sono riprodotti dalla psicogenesi e confermati dalla saldezza del senso comune. A questa circolarità sfugge la sociogenesi, la cui indeterminatezza logico-storica consente di porsi fini ulteriori rispetto alla socialità in essere. L’epigenesi che ha generato il capitalismo ha dato luogo a una socialità civile caratterizzata dalla scissione tra dato empirico dei sensi e scopi a priori della ragione. Il suo superamento è il contenuto dell’epigenesi avvenire in vista di una integrale umanità sociale.
2. Nella socialità delle specie non umane due sono gli elementi cruciali, ovvero la determinazione dei rapporti di potere, regolati all’interno dalla selezione individuale e all’esterno dalla selezione di gruppo, e la creazione di un sistema produttivo coincidente con le specificità anatomiche e comportamentali degli organismi. Il distacco del sistema produttivo da tali specificità, dopo che il lavoro è subentrato all’istinto grazie a un superiore modo di cooperazione, e la finalizzazione dei rapporti di potere all’appropriazione del plusvalore, in seguito alla socializzazione del sistema produttivo, danno luogo al divenire storico-genetico in cui la struttura si scinde estraniandosi nella sovrastruttura. All’inizio, la sovrastruttura sovra-determina la struttura, poiché la pratica è ancora dominata dall’appercezione immaginativo-senso-motoria (religioni naturali). Successivamente la struttura, intesa nel suo significato tipicamente strutturalistico di sistema di scambi di valori equivalenti di merci, determina progressivamente con la successione dei differenti modi di produzione le corrispondenti figure storiche della sovrastruttura (l’astrazione cristiana rispetto all’empirismo giudaico). Nello stadio storico del capitalismo tale determinazione è totale (religione “muta” della merce le cui divinità sono i “nomi” pubblicitari), ma la sovrastruttura non diviene un semplice riflesso poiché all’ombra del suo potere causale è possibile fissare i principi di una “epigenesi” controllata.
3. La realizzazione di tale socialità ulteriore richiede però la “presa di coscienza” dei procedimenti con cui opera l’attività umana sensibile. Verum est ipsum factum, ma non come ricostruzione conoscitiva di una mente isolata bensì come superamento “pratico-critico”, tramite un superiore modo di cooperazione, della “falsa coscienza” capitalistica che occulta la genesi e naturalizza la struttura. La riduzione della storia a tradizione derivante da tale falsa rappresentazione apre la strada all’irrazionalismo inteso come negazione dello sviluppo dialettico del pensiero. L’irrazionalismo da semplice tendenza filosofica diviene così ideologia di massa, che assume le forme storiche corrispondenti alle differenti civiltà.
4. Facendosi largo negli interstizi delle civiltà, la struttura si è sviluppata secondo due ordini, l’ordine diretto e l’ordine invertito dello sviluppo. L’ordine diretto si basa su una campagna industriosa che, alimentando una città amministrativa, sorregge il commercio all’interno di vasti e quieti “mondi a parte”. Il naturalismo anti-dialettico di tale ordine si manifesta nella glorificazione della tradizione (eurasismo, armonia confuciana) Diversamente, l’ordine invertito comporta una città mercato di scambi che sin da subito assoggetta la campagna (sussunzione formale) con uno “sfrenato movimento” i cui confini coincidono con il mondo intero (sussunzione reale). Nel naturalismo anti-dialettico di tale ordine la glorificazione della tradizione (irrazionalismo filosofico sino alle sue propaggini politiche del nazifascismo) si rovescia in un secondo tempo nella celebrazione di un falso divenire (americanismo). Nella sua espansione imperiale questo falso divenire travolge soggetti che vengono percepiti, per così dire, come semplici elementi del paesaggio i quali però, rianimati da tale intrusione, divengono ostili (moti di emancipazione dall’Occidente, migrazioni). Di conseguenza, mentre l’ordine invertito dello sviluppo inasprisce il proprio dominio indebolito dalle “oscure potenze” che ha evocato, l’ordine diretto si attiva per la conservazione dei “mondi a parte” promuovendo un policentrismo il cui assetto oligarchico si prospetta non meno caotico e conflittuale dell’unipolarismo in declino.
5. Intorno all’epigenesi avvenire volteggiano parole irridenti, disilluse, allucinate. Ontologie sociali? Teleologismi storici? Rileggetevi La scommessa di Prometeo, ghigna il nichilista incallito, poi fatevi una breve passeggiata a Nairobi o a Città del Messico e in ultimo provate a riscrivere L’ontologia dell’essere sociale. Sicuramente gran parte dell’umanità ne comprenderà il senso! E chi può credere che l’adolescente di oggi che la vita adulta immancabilmente corrompe possa essere l’uomo della futura umanità sociale? Stalin ha ucciso Rousseau, strilla lo scettico disilluso, e il telefonino ha ulteriormente abbassato il livello di corruzione dell’età ingenua. L’infanzia in realtà riproduce l’essere della servitù volontaria in cui si è arenata la dialettica di servo e padrone che il connubio tra filosofia, critica sociale e movimento operaio non è riuscita a trasformare in un trionfo della ragione. Vengano avanti, allora, gli esaltati banditori di nuovi programmi e più radicali. Se servi e padroni sono servi di una servitù totale, le soluzioni possibili non possono più essere cercate nell’intersezionalità dei diversi rapporti di potere e nelle contraddizioni tra diversi gruppi sociali, ma solo in ogni esistenza individuale: da “la politica in prima persona” del sofisticato ’68 all’“uno vale uno” del più ruspante populismo italico. Superando le vecchie divisioni tra natura e cultura, natura e tecnologia, natura e arte, ciascuno a suo modo nell’urbanesimo globale e nelle reti cibernetiche ingaggi una battaglia all’ultimo sangue per una rottura che – però — deve essere pensata e vissuta nell’esistenza comune. E allora, contro gli asceti politici, i militanti cupi, i terroristi della teoria, contro coloro che vorrebbero preservare l’ordine puro della politica e del discorso politico, si mettano in atto pratiche etiche affermative portate avanti da corpi, affetti, nomadismi sdegnosi di lotte dialettiche (le vecchie, patetiche lotte antiautoritarie!) e capaci invece, in quanto pratiche del sé, di aprire spazi di contro-soggettivazione. Mondi plurimi di infiniti pluralismi, in cui detronizzare il troppo astratto, il troppo poco carnale potenziale vitale ipoteticamente insito nel non-nato umano. Altro che infanzia! Bisogna invece immaginare altri mondi/modi riproduttivi/produttivi dove l’impiego delle nuove tecnologie, dalla fecondazione assistita all’ectogenesi, dall’ingegneria genetica all’informatica, possa aprire un futuro non eteronormato, antispecista e geocentrato, per sovvertire l’attuale ordine familista al fine di intessere parentele postumane, possibilità di vita comuni e mai più antroponormate, anche perché è un fatto che la specie sapiens, camaleontica com’è, non è a rischio di estinzione, perché «molto ampiamente distribuita, adattabile, in attuale aumento e non esistono rilevanti minacce che possano risultare in un declino della popolazione complessiva».
6. Dunque, la realtà è un’efflorescenza di negatività senza una logica soggiacente. E non c’è bisogno di intraprendere lunghi viaggi per rendersene conto, basta farsi un giro lì dove giacciono braccia amputate di corpi capitalisticamente eteronormati. La rivoluzione divora sé stessa, anche se sino a Stalin era viva e vegeta. Esistenza comune, certo, non bisogna farsi mancare niente, ma solo come aggregato di invalicabili contro-soggetti intuitivo-corporei. Conficcare nelle fauci della dialettica pratiche affermative, ancorché etiche, che scongiurino le sue sintesi aborrite e lascino sempre beante il desiderio. Potere alla tecnica che, come la specie, tutto può. E così dalle viscere mistiche della natura alla quale tutto è stato sacrificato rinasce il dio che ci può salvare invocato dal filosofo sciamano. Contro questa grancassa assordante, in cui una nuova specie di anarchismo si sposa con la più rutilante tecno-scienza, non basta ribadire che l’irrazionalismo è una forma di reazione allo sviluppo dialettico del pensiero ma bisogna proclamare alto e forte che l’irrazionalismo ha occupato e stravolto le storiche posizioni politiche del pensiero storico-dialettico e con i simulacri così fabbricati è divenuto “popolare”, rivendicando di volta in volta di essere né di destra né di sinistra o di sinistra dei diritti o di destra anti-establishment e altre possibili combinazioni tutte convergenti nell’attacco più o meno consapevole all’unica posizione che si propone realmente il superamento del regime capitalistico, cioè quella della sinistra ancorata alla teoria e alla pratica scientifica dello sviluppo storico. Senza ulteriori attendismi, la posta in gioco è di riprendersi le proprie posizioni per tornare a essere non demagogicamente ma egemonicamente popolari, con interrogativi che scaturiscono dalla realtà effettiva. Ad esempio, se il moto dalla “campagna” alla “città” porta con sé un continuo mutarsi della composizione sociale‑politica della “città”, cosa può succedere alla “città”, se cresce non per la sua stessa forza genetica, ma per immigrazione: «potrà compiere la sua funzione dirigente o non sarà sommersa, con tutte le sue esperienze accumulate, dalla conigliera [mondiale] contadina?» (Gramsci, Lettere dal carcere, ed. Caprioglio-Fubini 1965, p. 281). E, riguardo al genere, sino a che punto il “maschilismo” può essere paragonato a un dominio di classe? Esso ha più importanza per la storia politica e sociale o per la storia dei costumi? (Gramsci, Q. 25, § 4, p. 2286).
7. È inevitabile che una strategia tutta volta al dover essere dei diritti, ancorché subalterna allo sfrenato movimento economico, produca errori di tattica. Ad esempio, è evidente che l’egemonia dal basso, l’egemonia che vuole realmente scalzare l’egemonia secolare dei differenti ordini di sviluppo, non può tenere assieme il lavoro e l’impresa nell’illusoria prospettiva di una “società dei produttori” che releghi la parte sordida del capitalismo nella sentina della rendita. Questo virtuismo “ricardiano” non coglie il fatto che tanto il profitto quanto il salario vanno negati assieme se si vuole affermare l’essere della nuova umanità sociale. Questo contenuto dialettico, pratico-critico, rivoluzionario, dell’egemonia dal basso, che il riformismo in tutte le sue varianti elude con compiaciuto servilismo, insegna anche che va ormai respinto il ripetuto appello allo “schieramento antifascista”. Nel suo contenuto economico, il fascismo è il profitto senza la bombetta dalla City londinese, ma lo “schieramento antifascista” è la commedia dell’arte del capitalismo in cui al lavoro nella parte del servo sciocco viene concessa la battuta quando le fazioni borghesi lo chiamano a schierarsi da una parte o dall’altra nelle loro dispute di potere. È un errore fatale, commesso ancora solo ieri in Francia, dove pure per un’astuzia della storia il sistema elettorale se differentemente usato avrebbe consentito ben altri esiti, non dotarsi per tempo di un coeso organismo (tu chiamalo, se vuoi / partito) con cui affrontare in autonomia lo scontro diretto con il profitto, quale che sia la maschera che indossa.
8. L’egemonia dal basso è la nuova “epigenesi” volta al superamento del valore di scambio come “premessa tipica” della forma di vita capitalistica. Ciò che è non è il capitalismo ma il processo morfogenetico. Questo divenire razionale non fluisce errando nel mondo astratto del dover essere ma si attua nella “concretezza del suo tempo”. Tale concretezza è il lato esterno dell’agire egemonico dal basso, il cui lato interno non è indeterminato poiché volto alla finalità di una riforma strutturale che, nel suo sviluppo, «sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento [tale riforma] e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo» (Gramsci, Q. 13, § 1, p. 1561). Tale finalità, se perseguita senza tener conto della “concretezza del suo tempo”, diviene indeterminata. L’indeterminatezza del lato esterno è dunque la condizione della determinatezza del lato interno e dall’unità di questi opposti deriva la possibilità che l’agire egemonico dal basso raggiunga il suo scopo. Poiché il lato esterno è indeterminato, tale possibilità può anche non realizzarsi nell’immediata “concretezza del suo tempo”, ma ciò non pregiudica che possa realizzarsi nella concretezza di un tempo concreto successivo, a condizione che permanga un nesso soggettivo nella successione temporale oggettiva. A tal fine una funzione essenziale svolge la preservazione del patrimonio ideale e pratico purché non si riduca a coltivare o, peggio, a celebrare sentimenti nostalgici o malinconici su cui costruiscono le loro fortune piccole cerchie “monastiche” dedite ad accaniti studi ermeneutici o élite politiche il cui verbalismo “egemonico” nobilita il loro stato fossile o, peggio, maschera pratiche di potere anti-dialettiche.
9. I movimenti fascista e nazista della prima metà del XX secolo furono una reazione consapevole della classe dominate a ciò che temeva di più: la svolta del socialismo. Di cosa hanno paura oggi? Come mostrano gli scoppi improvvisi avvenuti di recente in Inghilterra, hanno paura dell’ira delle masse lavoratrici, che trovano sempre più difficile sopportare le regole crudeli che vengono loro imposte. Si parla sempre più frequentemente di “guerra civile” negli Stati Uniti, in Francia, nella stessa Inghilterra. Uno scenario del genere riguarda le masse lavoratrici, in particolare il suo nucleo di classe operaia, sviata dalle politiche di austerità verso un razzismo corporativo le cui rivolte spontanee giustificano poi la repressione per ristabilire l’“ordine democratico”. Qualsiasi, ulteriore gestione riformista di questo circolo vizioso non offre alcuna via d’uscita e favorisce solo l’equivoco rovinoso di un Occidente ridotto alla sola idea di potenza cui si aggrappano le sue vecchie classi dominanti in preda alla disperazione. La “guerra civile” che esse vogliono imporre a una classe operaia immiserita e criminalizzata per reprimerla e assoggettarla del tutto, diventi l’occasione per smascherare la falsa “politica democratica” con cui si persegue lo stesso fine che negli anni Trenta del secolo scorso si ottenne con i movimenti fascista e nazista. Non c’è più la prospettiva immediata della svolta del socialismo ma c’è più pesante che mai il fardello dello sfruttamento capitalistico. Il compito immediato dell’egemonia dal basso è il chiarimento di massa di questa realtà da troppo tempo oscurata. Ma non sarà certo la rilettura delle Riflessioni sulla violenza, riedite dai soliti confusionari, a chiarire le idee. Non è con i miti che si costruisce il nuovo mondo. In questo campo, il capitalismo si è mostrato molto più abile del socialismo.
10. Nel romanzo di fantascienza Stella rossa, Aleksandr Bogdanov descrive il socialismo come una civiltà superiore costruita su Marte che, messa in crisi dal suo stesso super regolato industrialismo, progetta di attaccare la civiltà più arretrata del pianeta Terra per sfruttarne le risorse. Ma oggi sono i super capitalisti come Musk a progettare su Marte una simile civiltà superiore. Non bisogna confondere il socialismo con certe sue deviazioni e prenderle a pretesto per abbandonare la teoria e liquidare l’organizzazione. Due sono state le strade intraprese per arrivare al socialismo, quella del lavoro culturale prima e quella del lavoro culturale dopo la conquista del potere politico. Il percorso “egemonico” non è mai pervenuto al socialismo, mentre il percorso della “dittatura del proletariato” non è riuscito a svellere il precedete sostrato culturale ed è stato perciò rovesciato. L’esperienza storica mostra che è fondamentale conquistare il potere politico, ma che la “dittatura del proletariato” deve acquistare un significato più ricco e articolato. Suo scopo principale deve essere il superamento dei nazionalismi. La nazione è la culla delle borghesie e il nazionalismo lo strumento per dividere le masse lavoratrici. Ma l’internazionalismo non può essere una fede astratta. Esso deve sorgere dalla convinzione che in determinati contesti è l’unica soluzione possibile dei conflitti. È evidente che la contrapposizione israelo-palestinese non può essere risolta su base nazionale ma solo su un criterio di classe. Ma come raccordare una classe operaia “privilegiata” con una “oppressa”? Questi sono i compiti che il socialismo finalmente deve essere in grado di porsi.
11. Il socialismo può risorgere se, confrontandosi con la realtà nuova insediatasi dopo il crollo del 1989, i nuovi cammini che dovrà percorrere nella teoria e nell’organizzazione saranno nel solco storico-materialistico, l’unico che, raccogliendo e potenziando l’eredità del pensiero dialettico, è sinora quello che nonostante tutto gli ha assicurato i maggiori successi. Qual è questa realtà nuova? Un mondo fluido su un’unica base d’acciaio. Un arcipelago di isole fisse nel tempo. Un simulacro di divenire che permea “armonicamente” il mondo di sé. Queste le tre potenze che dall’ultimo scorcio del XX secolo proiettano la loro ombra minacciosa sul XXI. Sono potenze negative nel senso che, confliggendo tra di loro, disarticolano la “globalizzazione” e, così facendo, negano la pretesa del capitale di unificare il mondo sotto il suo dominio. Ma non sono capaci di additare un avvenire, bensì rischiano di precipitare l’umanità nella catastrofe. Il socialismo può riproporsi come sintesi razionale della vita in progresso se del suo patrimonio ideale e pratico valorizzerà tutti quegli elementi che, negati od oscurati da errori e deviazioni, gli consentano di porre il suo umanesimo su una base nuova e più adatta al millennio che inizia. Se nel Novecento è stato un socialismo statalizzatore, nel Duemila dovrà essere un socialismo socializzatore; se si è affidato al complesso tecnico-scientifico e militare-industriale, ora dovrà sottomettere queste forze produttive ai bisogni locali di comunità che si autogestiscono; se ha governato amministrando, ora dovrà coordinare i diversi livelli di democrazia diretta; se ha predato la natura, ora dovrà adattarsi ai suoi ritmi riproduttivi. Le piaghe dell’urbanesimo desertificatore, dell’esplosione demografica, delle migrazioni bibliche potranno essere così lentamente riassorbite e potrà prepararsi il terreno per una civiltà terrestre che, proiettandosi nell’Universo, saprà intessere il dialogo con i nuovi mondi.
Rodi e la rosa, il salto e la danza / la croce è questa, salta danzando
L’austerità tra fascismo e neoliberismo. Su una recente ricostruzione storica
Il 23 aprile 2024 il Parlamento europeo ha approvato il nuovo Patto di stabilità, che fissa i nuovi meccanismi di riduzione del disavanzo e del debito degli Stati membri. I paesi con un debito superiore tra il 60% e il 90% del PIL dovranno ridurlo dello 0,5% annuo, quelli il cui debito è superiore al 90% saranno tenuti a ridurlo in media dell’1 % all’anno1. Al di là dei tecnicismi, ciò significa che le norme di bilancio dell’UE, sospese per far fronte alla pandemia di COVID-19, sono state riprese e rafforzate. Con il ritorno in scena del debito, però, si riconosce implicitamente che esso è una costruzione artificiale del tutto avulsa dal buon andamento economico. Un evento straordinario come la pandemia ha mostrato, infatti, che si possono violare i vincoli di bilancio senza per questo terremotare l’economia. L’ideologia del debito con i suoi tecnicismi ha un nome ben conosciuto, l’austerità, e i suoi propugnatori appena hanno potuto ne hanno subito rilanciato i dettami, invocando «sacrifici» al prezzo anche di «spargimenti di sangue»2. Questo aspetto sanguinario è un elemento nuovo su cui torneremo alla fine, ma ora dobbiamo chiederci perché questa ideologia, nonostante il suo evidente distacco dai bisogni concreti della vita quotidiana, persista così ostinatamente e a quali interessi risponde. Di aiuto in tal senso è la recente indagine di Clara Mattei sull’origine storica dell’austerità, che mostra l’intreccio di teoria economica, apparati governativi e politiche economiche che l’hanno forgiata3. Mattei ricostruisce in particolare due contesti, quello britannico e quello italiano, nel periodo immediatamente successivo alla fine della Grande Guerra, il biennio 1919-1920, quando sembrò che il sistema capitalistico dovesse crollare da un momento all’altro. L’austerità fu la risposta a questo pericolo mortale e ciò spiega la sua persistenza oltre quella contingenza, poiché l’assetto all’epoca escogitato è nei suoi tratti essenziali quello a cui il capitalismo è ricorso quando lo stesso pericolo si è ripresentato negli anni Settanta del secolo scorso. Dalla fine di quel decennio, l’austerità è tornata in auge e dura ancora oggi. È questo il nesso su cui soprattutto nelle conclusioni ci soffermeremo, scegliendo nell’ampia e articolata ricostruzione storica operata da Clara Mattei gli elementi utili a tal fine, anche per colmare qualche lacuna in essa presente.
L’austerità britannica
Alla fine della Grande Guerra il paesaggio economico era completamente mutato. Si era entrati in guerra convinti da sempre che economia fosse sinonimo di laissez-faire. Se ne usciva constatando che lo Stato era l’imprenditore universale che controllava fabbriche, miniere, terreni. Non solo. All’inizio della guerra si pensava che le leggi della domanda e dell’offerta avrebbero assicurato l’approvvigionamento di quanto era necessario per sostenere il conflitto, ma di fronte all’inefficienza dei privati si dovettero approntare misure che di fatto sospendevano tali leggi e sottoponevano la produzione di ogni genere di merci, compresa la merce lavoro, a un piano centralizzato controllato dallo Stato e dal suo apparato nel frattempo enormemente accresciutosi. Certo, ciò non avveniva per un’improvvisa vocazione dello Stato per il bene comune, ma attraverso patti sia con i capitalisti privati sia con i lavoratori in subbuglio, che assicuravano agli uni (grandi) profitti, agli altri (esigue) concessioni salariali. Nel complesso, però, l’economia non solo marciava, ma si sviluppava attirando risorse sin allora impensabili. Era insomma la dimostrazione lampante che il laissez-faire con i suoi dogmi della proprietà privata e dei rapporti salariali, in cui lo Stato aveva solamente il compito di garantire la convertibilità della moneta e il pareggio di bilancio, non era un dato di natura e che era possibile sostituirlo con un’economia di piano redditizia, finalizzata alla soddisfazione dei bisogni sociali collettivi. Il fatto è che queste convinzioni non erano solo dei lavoratori che, dopo lo sforzo bellico, scorgevano la meta di un maggior ruolo politico, ma si facevano strada anche nel pensiero economico e nelle alte sfere governative. Di fronte al pericolo che si imponesse una nefasta “economia collettivistica” in grado di scalzare le condizioni “normali” dell’accumulazione capitalistica, bisognava allora reagire in fretta e su più fronti, il fronte teorico, quello sociale, quello politico. Nel ristretto circolo governativo del Tesoro, dove confluivano asettici saperi accademici (Ralph G. Hawtrey) e competenze ministeriali sottratte al controllo politico (Basil Blackett, Otto Niemeyer), il punto di coagulo fu individuato nell’inflazione vista come minaccia mortale del sistema economico, che andava stabilizzato attraverso una costante gestione monetaria da parte di un’istituzione centrale, la Banca d’Inghilterra, che, come accadrà poi nell’attuale Unione Europea con la Banca Centrale, guardiana anch’essa dell’inflazione, doveva essere per suo statuto indipendente dal potere politico e finalizzata a disciplinare il consumatore. Ecco, dunque, che dalla considerazione di un’astratta struttura economica si perveniva a una concreta figura sociale e, come l’araba fenice, il laissez-faire risorgeva dalle sue ceneri basandosi su una concezione della società e della natura umana in cui non erano più contemplate le classi e i loro conflitti ma solo individui in sé conclusi che, in base alla loro costituzione morale, si aggregavano attorno ai ruoli economici del risparmiatore/investitore e del consumatore/lavoratore. Il primo con il suo sacrificio precostituiva le condizioni dell’investimento che dava vita al capitale, il secondo dilapidava le sue risorse nel consumo immediato. Per perseguire l’interesse nazionale, concetto in cui le contrapposizioni di classe scomparivano e veniva elevato a interesse di tutti quello particolare dell’accumulazione capitalistica, la teoria aveva allora due compiti, insegnare l’astinenza e imporla attraverso politiche costrittive. Il primo compito venne affidato alla pedagogia sociale del sacrificio, che con una serrata campagna propagandistica predicava di non sprecare nulla e di non dilapidare le risorse in consumi voluttuari. Per inciso, notiamo che l’austerità odierna con la “pedagogia” della pubblicità fomenta i consumi voluttuari, ma al contempo comprime i salari e precarizza gli impieghi. Il secondo compito della teoria prescriveva allo Stato di astenersi dal promuovere politiche di spesa per casa, scuola, sanità, ma gli richiedeva di usare i suoi poteri per tenere a bada i lavoratori (limitazione del diritto di sciopero, di organizzazione, ecc.), in modo che essi si trovassero a dipendere dalle leggi impersonali della domanda e dell’offerta, le uniche ritenute in grado di allocare razionalmente le risorse scarse di cui disponeva la società. Come si vede, la privatizzazione dell’economia fu lo strumento per ricreare la condizione “naturale” della lotta per la sopravvivenza in cui contano non i legami di classe ma la propria dotazione morale che porta, a seconda che si posseggano o meno determinate virtù, o al consumo improduttivo immediato o all’astinenza che preserva le basi della produzione. Sorgeva così la teoria, ancora oggi in auge, secondo la quale essere poveri è una colpa morale. E l’accumulazione capitalistica tornava a essere un fatto “oggettivo”.
L’austerità italiana
Nel suo primo discorso alla Camera, il 21 giungo 1921, Mussolini afferma che se si vuole salvare lo Stato allora «bisogna abolire lo Stato collettivista così come c’è stato trasmesso per necessità di cose dalla guerra e ritornare allo Stato manchesteriano»4. L’austerità italiana è dunque un’austerità fascista sia nel programma che nei ben noti metodi di quel regime, giudicato dagli ambienti economico-finanziari britannici solo come un’«architettura romana barocca», inammissibile in un normale paese «democratico» ma adatta all’Italia e al popolo italiano5. Fra le molte specificità indotte da quest’indole particolare, la più importante consistette in un differente rapporto tra la teoria economica e la sua gestione politica, che fu assicurata non da esperti della burocrazia ministeriale contigui al sapere universitario d’élite, ma direttamente da teorici di un particolare indirizzo della teoria economica, l’economia pura, che con alcuni loro esponenti assursero a ruoli di governo. L’economia pura, che è il contributo italiano al marginalismo, sorse nel ventennio precedente la Grande Guerra attaccando l’economia politica del valore-lavoro, senza trovare una particolare resistenza né nel pensiero liberale, il che non meraviglia, né in quello socialista. Basterà ricordare qui che Benedetto Croce assegnava giustamente al valore-lavoro di Marx una valenza “altra” rispetto al fatto economico, che però dai primi studi marxisti alle opere storiche della maturità si andrà sempre più precisando solo come una valenza “ideologica”, mentre un esponente del pensiero socialista come Antonio Graziadei, per fare opera di scienza a suo dire impedita dallo scontro ideologico tra marxismo e marginalismo, spostava lo sfruttamento del lavoro e il conseguente sorgere del valore dalla sfera della produzione a quella della circolazione. Quest’ultima interpretazione, però, che assolutizzava il mercato, equivaleva ad aprire le porte al nemico, poiché svaniva del tutto quella valenza “altra” che Croce, preso dai ragionamenti formalistici che tanto Antonio Labriola gli rimproverava, aveva però solo formulato in termini di “paragone ellittico”, mancando così anch’egli quel livello storico-genetico del sistema di merci contro cui invece si indirizzava, ben celato nel tecnicismo della dottrina, l’attacco dell’economia pura6. In realtà, il cambiamento di paradigma interno alla scienza economica era il sintomo di una complessiva reazione sociale, politica e culturale che nella guerra e nella successiva edificazione del regime fascista trovò il suo compimento. Non meraviglia perciò che, nell’austerità italiana imposta dal fascismo, la politica economica, come dicevamo, venisse gestita direttamente da suoi esponenti. Infatti, Alberto De’ Stefani, da iscritto al partito fascista, guida il ministero del Tesoro negli anni cruciali dal 1922 al 1925; Maffeo Pantaleoni, suo antico mentore, collabora strettamente con lui, oltre a essere fra i pochi “eletti” che nelle decisive Conferenze di Bruxelles (1920) e di Genova (1922), alle quali Clara Mattei dedica una nuova e attenta considerazione, elaborano l’austerità sul piano internazionale7; Umberto Ricci sino a tutto il 1925 collabora intensamente all’implementazione legislativa dell’austerità; Luigi Einaudi, infine, che pure si pone nella posizione “olimpica” del liberale d’opposizione, dalle colonne del “Corriere della sera” plaude ai provvedimenti che man mano i suoi sodali teorici producono sul terreno politico. L’unico defilato, anche perché vive in Svizzera ed è già anziano e malato, è l’«eclettico» Vilfredo Pareto, come lo appella Mattei8, la quale però nella sua ricostruzione lo lascia sostanzialmente in ombra, attribuendogli solo una generica influenza ideologica e teoretica sugli economisti sopra nominati9. A colmare questa lacuna della sua trattazione, si può dire qui che, certamente, quando il fascismo va al potere, Pareto è già da tempo passato alla “sociologia scientifica”, che però non è da intendersi come un abbandono dell’economia pura, bensì come la sua contestualizzazione in una più ampia considerazione dei moventi dell’azione sociale in cui risalti, rispetto ad altre figure sociali protese verso fini falsi o irreali, la razionalità dell’homo oeconomicus nella sua duplice veste di risparmiatore e di imprenditore, il primo che si astiene dal consumo per trarre vantaggio nel prestare il proprio risparmio10, il secondo che prende in prestito il risparmio per conseguire lo scopo per il quale opera, ovvero ottenere il più grande guadagno possibile di «numerario»11, termine pudico con cui l’economia pura denomina il profitto. Ora, se, come nota Clara Mattei, De’ Stefani e Ricci, restando sul terreno puramente economico, tendono ad assimilare il risparmiatore e l’imprenditore12, Pareto al contrario, spostandosi sul terreno sociologico, li contrappone trasfigurandoli in “speculatori” e “redditieri” che, alternandosi al comando dell’aggregato sociale, danno il tono a intere epoche storiche13. Non è dunque il conflitto tra capitale e lavoro il motore della società, bensì quello interno all’homo oeconomicus che da un lato accumula, dall’altro viene spogliato dei beni accumulati. Non, dunque, la proprietà è un furto, ma è il furto della proprietà che per via di spoliazione genera un nuovo ciclo di accumulazione. In questa proiezione economica dell’homo homini lupus, paradossale è il posto riservato al lavoro. Avendo la «differenziazione economica», idest la divisione sociale del lavoro, separato l’operaio dall’imprenditore14, la razionalità “tecnica” dell’operaio rispetto alla coordinazione del lavoro assicurata dall’imprenditore è “non logica”, cioè priva di consapevolezza del fine dell’azione (il piano produttivo) che diverrebbe “logica” qualora l’operaio la acquisisse15. Non a caso Maffeo Pantaleoni, maestro e sodale di Pareto, sottolinea che «l’imprenditore non dice all’operaio di lavorare, ma di lavorare in un certo modo: vi sapete organizzare senza di lui? Fate pure»16. Compare qui provocatoriamente l’idea, declinata poi “scientificamente” da Pareto, dell’“istinto delle combinazioni” che solo l’imprenditore possiederebbe in sommo grado17. La richiesta del “controllo” del processo di produzione con cui l’operaio raccoglie la sfida di trasformare in “azione logica” il suo agire “non logico”, avanzata in alternativa all’austerità fascista dal movimento torinese dell’Ordine Nuovo con a capo Gramsci, cui Clara Mattei nella sua ricostruzione dedica opportunamente ampio spazio18, resta così solo una figura virtuale dello schema dell’azione sociale, resa impraticabile anche da una parallela critica “scientifica” delle “illusioni” politiche, cui provvede la complementare teoria delle “derivazioni”19. Nella sua rarefatta astrattezza, la riformulazione sociologica operata da Pareto della già astratta economia pura, che tanto affascinava Umberto Ricci20, si caratterizza allora – potremmo dire, rifacendoci al Lukács di Storia e coscienza di classe – come la neutralizzazione di quel conato di “azione logica” che è la “presa di coscienza” dell’intero capitalistico da parte della classe operaia, protesa dialetticamente verso una forma superiore di organizzazione sociale21. Infatti, occultato il rapporto di sfruttamento e di subordinazione dell’operaio al capitalista, Pareto può trasfigurare quest’ultimo nella neutra funzione sociale dell’imprenditore, di cui pure in limine evidenzia lo sfrenato opportunismo sociale22, e può fare assurgere a capitalista proprio l’operaio, in quanto possessore del capitale personale costituito dalle sue capacità umane di cui vende i servizi23. Se nell’economia politica classica il salario si confrontava da potenza a potenza con il profitto e la rendita, nell’economia pura il lavoratore diviene un rex iudaeorum al quale quasi per scherno si riconosce una parvenza di essenza umana.
L’austerità odierna tra implicazioni teoriche e conseguenze politiche
Le discussioni sul significato dei termini che Pareto dissemina nei suoi scritti, adottando dotti neologismi e faticose notazioni, hanno indotto a vedere in lui un precursore del neopositivismo logico24, e la vasta schiera dei suoi apologeti ha ricompreso questa sua inclinazione nella rubrica del “metodo”. Ma in questo “metodo” vi è poco di metodo, poiché Pareto se ne serve per sfuggire “scientificamente” a difficoltà della dottrina. È questo il caso della celebre “ofelimità”, neologismo con cui Pareto statuisce di indicare la soddisfazione soggettiva che, indipendentemente da criteri morali, l’homo oeconomicus, spinto dal bisogno o dal desiderio, trae dal consumo di una qualsiasi cosa25, salvo poi introdurre ex abrupto non meglio specificati «sentimenti altruistici» quando il suddetto homo oeconomicus, riscoprendo la sua socialità, vuole trasferire, ad esempio, con una disposizione testamentaria, questa soddisfazione soggettiva ad altri26. Ma pur ponendosi sul terreno della socialità, forse che questo individuo egoistico non compie ancora una volta un’operazione economica? E dunque, a parte l’incongruità morale di questo entrare e uscire dall’egoismo a piacimento, perché mai si deve concepire l’economia come la soddisfazione soggettiva dell’individuo isolatamente preso e non sin dall’inizio come la coordinazione collettiva di individui volti a conseguire un vantaggio comune? Pareto teoricamente ammette la possibilità di più regimi economici, ma specifica che nella realtà solo la libera concorrenza costringe gli imprenditori ad assolvere alla loro funzione sociale27. Detto altrimenti, solo la “selezione naturale” economica consente all’istinto innato delle combinazioni di manifestarsi in sommo grado nella figura dell’imprenditore. Ed ecco che un processo storico-sociale viene ridotto a un fatto di adattamento naturale. Le conseguenze sull’ontologia sociale sono distruttive, come abbiamo visto sopra circa la beffarda trasformazione dell’operaio in capitalista. Lo stesso dicasi per l’azione sociale. Il fine dell’imprenditore è quello ofelimo dell’accrescimento del proprio «numerario» ma, al tempo stesso, Pantaleoni docet, è quello cognitivo dell’organizzazione del processo produttivo. Ammassando l’uno e l’altro nell’azione logica, il fine cognitivo incapsula occultandolo quello ofelimo, e poiché la capacità organizzativa dell’operaio è per definizione solamente virtuale, il capitalismo sparisce e al posto delle sue classi subentrano delle caste invalicabili. All’evidenza, allora, le analisi linguistiche, più che a precisare i termini, servono a Pareto per sbriciolare la realtà e sostituirla con una costruzione arbitraria che la scienza sociale matematizzata, che egli invoca a ogni svolta dei suoi paragrafi, dovrebbe un giorno formalizzare28.
E allora, per tornare alla contiguità dell’economia pura con l’austerità fascista, nelle teorizzazioni di Pareto non v’è niente di specificamente fascista, ma c’è tutto quanto serve ad alimentare il sincretismo ideologico con cui il fascismo restaurò le condizioni necessarie all’accumulazione capitalistica. Quale miglior regalo, infatti, di una “sociologia scientifica” che consente di sostenere che l’operaio, addirittura al livello basico della cognizione sociale, deve stare al suo posto e togliersi dalla testa le ubbie del controllo della produzione? Ma nelle teorizzazioni di Pareto non v’è ugualmente nulla di specificamente neoliberista, ma c’è tutto quanto serve ad alimentare la carica ideologica con cui il neoliberismo si è imposto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Infatti, dissolti i rapporti di produzione capitalistici, la società è descritta da Pareto come un aggregato di individui in competizione tra loro. Non la società, bensì l’individuo è dunque l’unica realtà empiricamente tangibile29. Molti decenni dopo, nelle parole di Margareth Thatcher, iniziatrice con Ronald Reagan, del nuovo ciclo di austerità che perdura ancora ai nostri giorni, questo principio “scientifico” diventerà un esplicito manifesto politico. Risalire alla matrice ideologica fissata un secolo fa dall’economia pura, di cui Pareto, come si è visto, è il pensatore più organico, non è dunque una mera operazione filologica, ma serve a mostrare che con la ricetta dell’austerità fascismo e neoliberismo rispondono allo stesso problema, rinsaldare quando sono messe in discussione le condizioni dell’accumulazione capitalistica. Il fatto poi che ci arrivino con mezzi differenti, non vuol dire che il neoliberismo sia più “pacifico” del fascismo. Come abbiamo visto in apertura, infatti, l’austerità odierna non reclama più solamente “sacrifici” economici ma anche “spargimenti di sangue”, come si vede dalle guerre per procura che il blocco euro-atlantico conduce contro il mondo musulmano e quello ortodosso per tenerli economicamente e culturalmente in soggezione. Dalla scorza levigata della “globalizzazione” riemerge così la natura imperialistica del capitalismo – monopoli, Stati più potenti che fagocitano Stati meno potenti, tendenza al dominio anziché alla libertà30, che nel complesso della civiltà assume però un significato diverso e più sinistro. Se negli anni Venti e ancora negli anni Settanta del secolo scorso l’austerità doveva respingere la “pretesa” del controllo operaio della produzione, oggi appare come lo strumento con cui affermare la visione di uno sviluppo dell’homo oeconomicus così aderente alla natura umana da poterne manipolare gli intimi meccanismi, al fine di generare una nuova specie alla quale la “tecnica”, regno assoluto del rapporto mezzi-fine, conferirà poteri sconfinati. Se il futuro sarà altro da ciò che questi bagliori apocalittici fanno intravvedere, dipende anche da quanto tempo ancora il conflitto di classe resterà soffocato dalla selva oscura di “derivazioni” che stravolgono il discorso un tempo di sinistra, lasciandolo “senza parole”31. Il lavoro di Clara Mattei che qui abbiamo presentato e in qualche punto integrato è fra quei contributi che offrono conoscenze adatte per tornare ad avere voce in capitolo e si può solo sperare che ne seguano numerosi altri di pari livello.
- Patto di stabilità: i deputati approvano le nuove regole di bilancio, Attualità Parlamento Europeo, Comunicati stampa, 23 aprile 2024, https://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20240419IPR20583/patto-di-stabilita-i-deputati-approvano-le-nuove-regole-di-bilancio. [↩]
- «Berlusconi mi offrì la guida del centrodestra. Purtroppo, ora l’Italia è di nuovo a rischio», intervista di A. Cazzullo all’economista ed ex Presidente del Consiglio Mario Monti, «Corriere della sera», 4 maggio 2024, p. 19. Molto esigente è anche lo storico Andrea Graziosi, ex presidente dell’Anvur, l’ente ministeriale di controllo dell’attività universitaria, secondo il quale l’Europa ha bisogno di un’industria militare e di una deterrenza nucleare (W. Marra, Il convegno dei falchi dem, «Il Fatto Quotidiano», 12 maggio 2024, p. 9). [↩]
- C. E. Mattei, Operazione austerità, Torino, Einaudi 2022. [↩]
- B. Mussolini, Primo discorso alla Camera, 21 giugno 1921, p. 15, https://fondazionefeltrinelli.it/app/uploads/2021/04/Mussolini.pdf [↩]
- Achievements of fascismo, «The Times», 31 ottobre 1923, p. 13, cit. in C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 260. [↩]
- Secondo Croce, il “paragone ellittico” consisteva nel fatto che Marx, per sostenere la tesi del sopravalore (plusvalore) di cui si appropriano i capitalisti, comparava normativamente la produzione in una società capitalistica classista (B) con quella propria di una società egualitaria senza classi (A). A parere di Croce, era chiaro che solo in (B) si poteva parlare di sopravalore, ma non come appropriazione bensì come reciproca convenienza di un diverso grado di utilità tra capitalisti e proletari (B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica (1900), Bari, Laterza 1978, pp. 125-126). Al che Labriola obiettava che al Croce sfuggiva, a causa della sua concezione formalistica del rapporto tra causalità e teleologia, il processo “epigenetico” reale sfociato nel modo di produzione capitalistico, di cui il valore era la “premessa tipica” che rendeva possibile l’insieme dei fatti economici a esso inerenti (A. Labriola, Saggi sul materialismo storico, Roma, Editori Riuniti 19682, p. 184 e p. 289). [↩]
- C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 135 sgg. [↩]
- C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 206. [↩]
- C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 344, nota 11. [↩]
- V. Pareto, Corso di economia politica (1897), Torino, UTET 1971, § 106. [↩]
- V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 151. [↩]
- C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 214. [↩]
- V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), Torino, UTET 1988, § 2233 sgg. [↩]
- V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 830. [↩]
- V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), cit., § 151. L’opposizione di “azione logica” e “azione non logica”, basata sulla consapevolezza del fine da parte dell’individuo agente, mira a fissare delle classi di azione che solo apparentemente sono strumenti neutri d’analisi scientifica. In realtà, come vedremo nel seguito, esse acquistano un carattere reale che si presta a giustificare una certa irreggimentazione dei comportamenti sociali. [↩]
- M. Pantaleoni, Corso di economia politica: Lezioni dell’anno 1909-1910 redatte dal Dott. Carlo Manes, Roma, Associazione Universitaria Romana 1910, p. 230, cit. in C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 229. [↩]
- V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), cit., § 2235. L’“istinto delle combinazioni”, assieme alla “persistenza degli aggregati”, di cui sarebbero portatori i “redditieri”, fa parte delle sei classi di “residui”, ovvero dei principi d’azione innati che determinerebbero il comportamento sociale degli individui. In particolare, l’istinto delle combinazioni comprende qualità che oggi una vasta area di studi cognitivi indica come curiosità, innovazione, resilienza, attribuendole alla “mente imprenditoriale” additata come il tipo sociale “vincente”. A dimostrazione di come queste contrapposizioni schematiche servono più a scopi ideologici che scientifici. [↩]
- C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 101 sgg. Sul parallelismo e lo scambio di esperienze tra i comitati di fabbrica britannici (Workers’ committees) e i consigli di fabbrica torinesi, la ricostruzione di Clara Mattei si può leggere assieme a quella di Guido Liguori, Nuovi sentieri gramsciani, Roma, Bordeaux 2024, pp. 105-107. [↩]
- V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), cit., § 1397 sgg. Le “derivazioni” sono costituite da quattro classi di argomenti discorsivi, dai più semplici ai più complessi, che comprendono le giustificazioni arbitrare, rispetto alle motivazioni reali, con cui gli individui rendono conto del loro comportamento sociale. Trattandosi di una “distorsione” cognitiva concepita in modo astorico, tale teoria ambisce a essere una critica “scientifica” del discorso politico, ma si presta anche a essere utilizzata come un manuale di manipolazione ideologica. [↩]
- C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 212. [↩]
- G. Lukács, Storia e coscienza di classe (1923), trad. it. Milano, Sugar Editore 1967, p. 214 sgg. In quest’opera, come del resto nei Quaderni del carcere di Gramsci, è possibile individuare teorizzazioni intorno all’azione che si sottraggono alla presa neutralizzante delle grandi sociologie “borghesi” sorte all’inizio del Novecento. In particolare, Lukács si contrappone a Weber, Gramsci a Pareto. [↩]
- V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., Riassunto generale, p. 1095. [↩]
- V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 91. [↩]
- N. Bobbio, Pareto e il diritto naturale (1975), in Id., Saggi sulla scienza politica in Italia, Roma-Bari, Laterza 19962, p. 139. Come notò Lukács nella sua postuma Ontologia, il neopositivismo, in forza del suo metodo logico-linguistico, si pone in continuità con l’esigenza della più completa manipolabilità della realtà sociale, funzionale al dominio ideologico capitalistico (G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Roma, Editori Riuniti 1976-1981, 3 voll., vol. I, p. 25 e sgg.). Se si tiene conto di quanto diremo appresso nel testo, l’osservazione di Bobbio, sebbene avanzata con altri intenti, è dunque fondata. [↩]
- V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 5. [↩]
- V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 418. [↩]
- Corso di economia politica (1897), cit., Riassunto generale, p. 1088 e p. 1095 [↩]
- Come abbiamo visto prima (cfr. nota 6), anche Croce, sebbene in altro modo, perviene a dissolvere la realtà, quando sostiene che l’appropriazione del sopravalore da parte dei capitalisti in una data società classista è solo la reciproca convenienza tra capitalisti e proletari di un diverso grado di utilità. Ma si può sfuggire a questa nullificazione comparando la funzione del valore nel sistema di merci, così come descritto da Marx, con quella svolta nel sistema dei segni, così come descritto da Peirce e Saussure (è quanto ho cercato di fare in F. Aqueci, Capitalismo e cognizione sociale, Roma, Tab Edizioni 2021). Fatta salva la differenza funzionale fra i due sistemi, il valore torna a essere così la “premessa tipica” di cui parlava Labriola, con cui si chiarisce ad un tempo l’arcano della merce, oggetto sensibile carico di realtà sovrasensibile (K. Marx, Il Capitale [I: 1867], Torino, UTET 1974, p.148), e il rapporto di forza insito nella pretesa “reciproca convenienza” dell’utilità economica pura, che permarrà sino a quando una nuova “epigenesi” non si concretizzerà, con la saldezza del senso comune, in un diverso tipo di società (ivi, p. 136). [↩]
- V. Pareto, L’individuale e il sociale (1905), in Id., Scritti sociologici, Torino, UTET 1966, p. 326. [↩]
- V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916), in Id., Opere complete, Roma, Editori Riuniti 1966, vol. XXII, p. 299. [↩]
- N. Klein, Doppio. Il mio viaggio nel Mondo Specchio, Milano, La Nave di Teseo 2023, p. 198. [↩]
Il miraggio dell’identità
Le recenti chiusure di scuole in occasione di festività religiose non cattoliche, decise autonomamente da presidi che così colmano annosi vuoti normativi di fronte a realtà sempre più dirompenti, hanno offerto agli attuali vertici ministeriali dell’istruzione e del merito il destro per ribadire che la nuova scuola si basi sull’apprendimento di nuovi saperi nel quadro però di un’affermazione prioritaria dei valori della lingua e della cultura italiana. Le classi siano perciò a maggioranza bianche e italiche. A questo arrocco identitario, si è opposto invece che la nuova scuola deve essere principalmente capace di rendere liberi dall’ignoranza. Ben detto, ma bisogna vedere se questa richiesta, avanzata da coloro che si propongono come i più “illuminati” fra i nativi e gli immigrati, può effettivamente diventare il fondamento di un nuovo “umanesimo” che travalichi le identità e le gerarchie di partenza, senza scadere in un sincretismo mal distinguibile o comunque incapace di opporsi al cosmopolitismo della pedagogia produttivistica in auge, di cui gli identitari, proprio con il merito, lautamente si pascono. Insomma, si tratta di capire che cosa si intende per ignoranza, perché se il suo superamento è solo il rifiuto delle ingiustizie che impediscono la propria affermazione personale, che ostacolano il proprio “piano di vita”, che spengono i propri “sogni”, allora per una via differente si perviene allo stesso individualismo della gran massa dei nativi, siano essi collocati in alto o in basso nelle gerarche sociali esistenti.
Intanto, a proposito di merito e di pedagogia del fare ben dissimulata da appassionati proclami identitari, nel corso degli anni, anche con il fattivo operato rivendicato dall’attuale responsabile del dicastero dell’Istruzione, si è trasformata l’Università da istituzione dello Stato in cui, almeno idealmente, menti autonome elaboravano al più alto grado il sapere universale e la cultura nazionale, a congregazione in cui, giurando sui protocolli della “qualità” elaborati da centri anonimi e sovrastatuali di cui ministeri, atenei e dipartimenti sono solo organi ricettivi, ci si impegna a partecipare a riunioni, compilare moduli e rispettare scadenze, tutti riti burocratici che definiscono le “missioni” di codesta congregazione, il cui adempimento assicura gli “accreditamenti” con i quali la “comunità” accademica concorre virtuosamente agli “sbocchi occupazionali”. In questa mondana “chiesa del profitto”, il cosiddetto “baronaggio”, le cui trame di potere non sempre ma spesso prima si accompagnavano al prestigio culturale, non è scomparso ma si è solo inabissato, dedicandosi a intercettare i finanziamenti e a occupare più o meno familisticamente i posti attraverso cui riprodursi, lasciando che in superfice si affollino intorno a una miriade di cariche individui divisi tra l’aspirazione a un’autentica auto-determinazione e l’assuefazione alle sempre più assillanti incombenze burocratiche che li rendono docili alla “religione” produttivistica, anche in quei contesti in cui la “produzione” è solo un miraggio e l’alta cultura dovrebbe servire proprio a comprendere criticamente il persistere di tale miraggio. Se c’è un luogo, insomma, dove si può constatare nella maniera più lampante il vuoto declamatorio dell’identitarismo asservito al produttivismo, di cui membri eminenti dell’attuale governo sono chiassosi esponenti, questo è l’Università.
Il Bypass sullo Stretto
Il Ponte sullo Stretto di Messina è il bypass che i dottor Stranamore del capitalismo italiano, nelle vesti dei rustici leghisti saliti a Roma dalla Val Brembana, stanno applicando al suo vecchio cuore ansimante. Esso vuole essere una potente immissione di capitale fisso che, rimettendo in moto il volano del capitale variabile, rianimi l’estrazione nazionale di plusvalore. Che razza di linguaggio è? Semplice. Dagli anni Cinquanta in poi, il vecchio blocco tra rendita agraria del Sud e capitale industriale del Nord, sul cui patto leonino, siglato a detrimento delle popolazioni meridionali, si reggeva l’Unità d’Italia, venne sostituito dall’intervento diretto dello Stato imprenditore. Così, mentre il lavoro con le occupazioni delle terre si batteva per uno sviluppo sociale alternativo, “altrove” in maniera necessaria e indipendente dalla sua volontà si decideva che il Sud si sarebbe dovuto sviluppare divenendo lo strumento per accrescere la quota di capitale variabile dell’intero processo produttivo nazionale. Tramite questa maggiore estrazione nazionale di plusvalore, presentata come un generoso trasferimento di risorse, il Sud veniva destinato a divenire un vasto deposito a cielo aperto di fabbriche, macchinari, infrastrutture, appunto, di capitale fisso la cui realizzazione, nei successivi decenni, avrebbe effettivamente fatto convergere gli indici di “sviluppo” tra Settentrione e Meridione, ma avrebbe annientato le forze del lavoro, le sole in grado di promuovere uno sviluppo autoctono meno effimero di quanto poi si sarebbe rivelata quella contingente convergenza. In parole povere, il Sud in questo modo diveniva un’area destinata a essere nazionalmente produttiva grazie alla sua locale improduttività. Per il pensiero economico dominante queste sono assurde farneticazioni, ma servirsi del pensiero economico dominante per analizzare la questione meridionale negli ultimi cinquant’anni è come farsi luce in una notte buia con una torcia scarica. Basti dire che tale pensiero, per bocca tanto dei teorici quanto dei “pratici”, siano essi sindaci, presidenti di Regione, capitani d’industria ma anche senso comune dominante, continua a esaltare la creazione di capitale fisso con la giustificazione che solo da esso potrà venire lo sviluppo del Mezzogiorno, sviluppo che, come Godot, si aspetta invano da un secolo o quasi. Infatti, le cose non sono cambiate nemmeno quando, dopo la cesura delle privatizzazioni, all’inizio degli anni Novanta, lo Stato ha smesso il suo ruolo di imprenditore diretto. È stato allora che il Sud è entrato in una sorta di coma cui è corrisposta nazionalmente la stagnazione mascherata dall’austerità con cui ci si è comprato il diritto di partecipare all’avventura dell’euro. E qui torniamo all’oggi in cui il vecchio cuore del capitalismo italiano regge a malapena il peso di un’economia esportatrice i cui margini di profitto sono vieppiù erosi da un mercato mondiale in profonda trasformazione e ha quindi il disperato bisogno di rimettere in moto quel volano interno fatto di grandi opere il cui valore d’uso è nullo poiché conta solo la sua capacità di produrre valore di sistema. Il Ponte sullo Stretto bisogna paragonarlo a una piramide. Non serve a niente ma fa girare il capitale. Certo, se fosse portato a termine avrebbe un valore simbolico altissimo e l’Italia morente del XXI secolo potrebbe vantarlo come l’ultimo guizzo “rinascimentale” prima del suo tramonto. Ma nella terra che in ogni epoca concorse con pensieri e opere alla fioritura della civiltà occidentale non ci sarebbe più spazio per una sua specifica filosofia “meridionale” che molti ancora si ostinano a ricercare per salvaguardare e sviluppare tale vocazione civilizzatrice, poiché le sarebbe riservata la stessa fine dell’Egitto, una delle tante stazioni del rigoglioso turismo mondiale governata da qualche capoccia che deve solo far quadrare i conti.