Politica

La nuova Lourdes

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Qualche giorno fa, Macron è andato a Lourdes e una foto lo ritrae nella posa del chierichetto compunto, mani giunte e occhi levati al cielo. In un video si vede qualcuno della folla che viene portato via a forza mentre gli inveisce contro accusandolo di essere un ateo della più bell’acqua. Se i cattolici si sono sdegnati di tanta ipocrisia, i laici di ogni tendenza lo hanno accusato di avere attentato alla neutralità religiosa della République. Mai infatti nessun presidente si era recato in quel luogo di culto così platealmente cattolico. Non si sa se Micromega organizzerà un numero monografico per riaffermare i valori della laicità e dell’ateismo messi a repentaglio da Macron ma, come ha fatto rilevare la stampa ben informata, il presidente francese nella sua visita a Lourdes non si è occupato di questioni religiose, bensì ha voluto solo portare il suo sostegno alla seconda località di Francia (dopo Parigi) per numero di camere d’albergo, la cui economia è stata duramente colpita dalla pandemia1. Sempre la stampa ben informata riporta che Macron avrebbe promesso sostegno d’emergenza, aggiungendo però che «Lourdes non è certo la città che valorizza al meglio i suoi turisti. Ci vuole un’offerta molto più larga e varia rispetto a oggi, e gli investimenti avrebbero dovuto essere fatti molto tempo fa». Il presidente si sarebbe detto comunque convinto delle buone prospettive delle «sinergie tra culto, cultura e patrimonio», auspicando la preparazione di una «nuova Lourdes»2. Non si capisce quindi di che cosa si sdegnano i laici, e perché i credenti incolpano Macron di essere un ateo ipocrita. Egli è andato a Lourdes a risollevare le sorti della religione di cui è uno dei più fervidi officianti, ovvero la silente religione della merce che, cosa che non sembrano capire né i credenti né i laici né la stampa ben informata, è il trascendimento in un tutto nuovo della fede laica e di quella cattolica3. Dal 1789, giusto per fissare una data, il vecchio laicismo difendeva una laicità come negazione della fede cattolica, ma durante tutto questo tempo tanto i laici quanto i cattolici, mentre battagliavano la domenica tra di loro nella sovrastruttura, nella struttura tutti i giorni trafficavano sfrenatamente con la religione della merce. Quest’ultima per lungo tempo ha taciuto, ma il tempo della decenza borghese è finito, e adesso non accetta più di stare nell’ombra. Ecco dunque Macron che ha fatto la passeggiata a Lourdes con lei a braccetto, promettendole gioielli e pellicce come si fa con le amanti finalmente rivelate all’onor del mondo. Bisogna vedere come si acconcerà a questa “nuova Lourdes”, prorompente di sinergie tra culto, cultura e patrimonio, quel terzo incomodo assai virulento in Francia che è la religione musulmana, in cui non c’è un laicismo che la neghi e il traffico con la merce avviene secondo il detto “non lo faccio per amor mio, ma lo faccio pe amor di Dio”. Le religioni sono costruzioni bizzarre, ma la religione della merce è la più bizzarra di tutte. Ne vedremo delle belle.

 

  1. S. Montefiori, Francia, polemiche per la visita di Macron a Lourdes: «Laicità calpestata», «Corriere della sera», 17.7.2021, online. []
  2. Ibidem []
  3. F. Aqueci, Capitalismo e cognizione sociale, Roma, Tab Edizioni 2021, cap. V. []

Zan! Ed è subito gender

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Il punto cruciale del ddl Zan è l’identità di genere, tanto è vero che i machiavelli di Italia Viva per fare la “mediazione” stanno proponendo di tagliarla, dando anche il contentino alla Chiesa del rispetto dell’autonomia scolastica. Ma che cos’è l’identità di genere? Nella teoria di genere, elaborata in ambito accademico anglosassone a contatto con i gruppi LGBT e poi diffusasi un po’ ovunque nel mondo liberal e progressista occidentale, l’identità di genere si basa sulla tesi secondo la quale ogni individuo possiede un’identità di genere interna che in certi casi può non corrispondere al sesso biologico della persona. È decisiva dunque l’opposizione tra interno ed esterno, tra ciò che è percepibile e ciò che non è percepibile con i sensi. Basta aggiungere a questa tesi che ciò che è percepibile con i sensi è il finito e ciò che non è percepibile è l’infinito per riconoscere in essa l’impronta del vecchio Hegel, il quale appunto sosteneva che il finito non ha vera realtà poiché ha il suo fondamento nell’altro da sé, cioè l’infinito, l’immateriale, il pensiero, con la conseguenza che, se il finito ha per essenza l’altro da sé, per essere essenzialmente sé, esso non dovrà essere più sé, cioè il sé che è in apparenza, il suo essere finito, bensì l’altro, ovvero infinito. Il sesso biologico è dunque il finito da abolire per potere accedere all’autodeterminazione infinita dell’identità di genere. Da questa tesi ontologica che fa da assunto implicito al riconoscimento della condizione psicologica di dissociazione avvertita da alcuni individui tra il proprio sesso biologico (la propria finitudine sessuale) e la propria diversa identità di genere (la propria interna infinità di genere), derivano poi obblighi morali, come quello di proteggere chi si venga a trovare in simili situazioni, o obblighi giuridici, come quelli in discussione con il ddl Zan, come le giornate di sensibilizzazione scolastica (anche) sull’identità di genere o i condizionamenti cui andrebbero incontro coloro che volessero esprimere convinzioni alternative (anche) all’identità di genere. In tutto ciò non vi è nulla di scandalosamente “ideologico”, come gridano i contrari al “genderismo”, trattandosi di un normale dibattito democratico dove nessuno possiede la “verità”, ma è lecito chiedersi cosa significhi questa riproposizione della distruzione del finito (sesso biologico) ad opera dell’infinito (identità di genere) nel contesto delle trasformazioni attuali dell’etica sessuale. Vengono in mente qui le osservazioni di Pareto sui cicli virtuisti e i cicli libertini, e sul “residuo sessuale” come elemento irriducibile della mente sociale rispetto a tutte le altre sue componenti. La sua psicologia meccanicistica non va però al di là di questa pur importante constatazione. Bisogna invece rivolgersi alla profonda teorizzazione di Freud intorno all’antagonismo psichico tra l’Io, l’Es e il Super Io per scorgere che l’aspirazione all’indeterminatezza infinita insita nell’affermazione dell’identità di genere è una sorta di squadernamento in pubblico dell’indeterminatezza inconscia dell’Es, una “presa diretta” dunque della sfera libidica sulla realtà esterna che riduce al minimo l’Io e non trova più un limite in un Super Io gravato da una decrepita morale. È dall’epoca della Rivoluzione francese che De Sade incita i borghesi ad abolire la morale corrente e a emanare poche, miti leggi che si confacciano alle pulsioni fondamentali dell’essere umano. Ma non c’è classe più inconseguente di quella borghese. Essa infatti apre le porte dell’Inferno ma si arresta sulla soglia lasciando che chi vi si precipita dentro venga istantaneamente giudicato secondo i dettami della vecchia morale. Né è in grado di proporre una morale nuova che non sia il libertinismo di chi per censo o per status può sottrarsi a quella condanna. Ecco allora i cicli disforici di virtuismo e libertinismo di cui parla Pareto, il cui significato Gramsci intese così bene che individuò nel libertinismo la principale causa di corruzione delle classi lavoratrici. Ora, posto che tutto questo psichismo non vive in un mondo separato ma è in stretto rapporto con tutte le altre sfere sociali, è facile vedere una omologia non solo tra i “cicli” capitalistici e le disforie sociali sessuali, ma anche tra l’infinitezza pulsionale dell’Es sottesa alla rivendicazione dell’identità di genere e la fluidità infinita cui aspira il capitale in quest’epoca di comando assoluto sul lavoro. Così come, infatti, si aspira ad abolire la finitezza sessuale a favore dell’infinitezza dell’identità di genere, così pure si procede alla polverizzazione delle forme sensibili e finite della merce lavoro a favore di un flusso immateriale e infinito di forza lavoro, in entrambi i casi come un processo illimitatamente ricorsivo. Qui si aprono però dei paradossi. Il primo, piccolo piccolo ma a suo modo significativo, riguarda il PD che con il suo progressismo si trova in una posizione più filocapitalistica di quella di IV. Ma qui non sono certe le scariche libidiche a contare quanto, da un lato, il vecchio riflesso a vuoto presente nel PD di un femminismo protettivo nei confronti del mondo LGBT, da cui però tale mondo si è emancipato, specie nella sua componente gay, caratterizzata da un machismo tanto più forte quanto più alto-borghese; dall’altro, in IV un bigotto machiavellismo tutto interno alle lotte di potere di quel capitalismo, lustrini e copertine patinate, oltre il quale non si concepisce che possa esistere un mondo altro. Molto più grande e importante, invece, l’altro paradosso che riguarda un intero continente, ovvero la stretta alleanza che esiste in molti paesi sudamericani tra movimenti di lotta e organizzazioni LGBT, che sembra contraddire la consonanza tra l’infinitezza dell’identità di genere e il flusso infinito del capitale. Ma lì non solo vale ancora il principio strategico dell’alleanza tra tutte le minoranze oppresse, ma c’è anche, come nel socialismo chavista, un’applicazione creativa dell’egemonia, il cui sincretismo morale non è riconducibile né alla vecchia morale del Super Io borghese-occidentale né alla nuova non-morale dell’Es liberal-progressista tipica del crepuscolo del capitalismo.

Il disegno di Laffer e le baruffe chiozzotte degli economisti italiani

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Nel suo Progetto filosofico per la pace perpetua Kant prevede un articolo segreto che prescrive l’obbligo da parte degli Stati armati per la guerra di prendere in considerazione le massime dei filosofi circa le condizioni che rendono possibile la pace pubblica. Il principio non era diretto tanto verso i governanti quanto piuttosto verso i giuristi che Kant vedeva come degli insidiosi concorrenti nell’influenza che i filosofi potevano esercitare sullo Stato. Compito del giurista infatti era di applicare le leggi vigenti e non di ricercare il loro miglioramento. I suoi argomenti quindi erano giustificazioni della forza a differenza di quelli del filosofo che, indagando la natura della politica in se stessa, erano basati sul consenso. Egli così, constatava Kant sconsolatamente, si veniva a trovare su un gradino molto inferiore. D’altra parte, lo stesso Kant prevedeva che ad imporre la pace tramite un diritto cosmopolitico sarebbe stata la forza del denaro in quanto la più efficace tra tutte quelle in potere dello Stato. Essa infatti, aggiungeva Kant, ben si accorda allo spirito commerciale che prima o poi si impadronisce di ogni popolo. Con queste affermazioni Kant riconosceva implicitamente l’avvento del capitalismo che avrebbe avuto come conseguenza la nascita di una nuova classe di concorrenti dei filosofi, cioè gli economisti. Così come i giuristi, costoro sarebbero stati i guardiani di quello spirito commerciale le cui leggi sarebbero state stabilite dalla scienza borghese per eccellenza, ovvero l’economia politica divenuta poi scienza economica. E tali leggi dunque, al pari di quelle dei giuristi, sarebbero state giustificazioni della forza attraverso cui lo Stato garantiva il mantenimento della costituzione economica capitalistica cui era formalmente organico. Sembrano rimasticature, come direbbe qualche spiritello giocoso, ma in morte di Donald Rumsfeld, già segretario della difesa con Gerald Ford e con George W. Bush, è stato ricordato che un giorno del 1974 il suddetto Rumsfeld e Dick Cheney, suo mentore, poi vice-presidente degli Stati Uniti con lo stesso Bush Jr., si sedettero in un ristorante di Washington con l’economista Arthur Laffer il quale disegnò per loro su un tovagliolo la curva che porta ancora il suo nome. Era uno dei teoremi base dei liberisti: tagliare le tasse non significa perdere gettito fiscale. E da lì sarebbe partita la cavalcata che con il nome in codice di “neoliberismo” arriva sino ai nostri giorni. Si dirà, ma forse che nel 1945 a Bretton Woods Harry Dexter White e John Maynard Keynes non fecero a loro volta dei disegnini con i quali spiegarono ai governanti dell’epoca le politiche di spesa pubblica che sarebbero poi rimaste in voga nei trent’anni successivi? Appunto, a conferma che la scienza economica, fatti salvi i suoi interni contrasti di scuola, è la scienza capitalistica per eccellenza le cui leggi gli economisti applicano per il mantenimento generale della costituzione economica vigente. Si è visto mai infatti un economista presiedere una qualche sessione di lavoro della Banca Mondiale o del Fondo monetario internazionale leggendo il capitolo filosofico sul feticismo della merce del Capitale di Marx? Ciò non accadde nemmeno in Unione Sovietica e Stalin non lo pretese mai non perché fosse un malvagio dittatore che aveva in uggia i filosofi ma perché era ben consapevole del carattere ancora largamente mercantile del paese del socialismo, come dimostra la sua concezione del valore esposta nel 1952 nell’opera I problemi economici del socialismo in Unione Sovietica. Tutta questa è grande storia, ma c’è anche una piccola storia. Da qualche settimana fra gli economisti italiani infuria la bufera. Un gruppo di loro che si qualificano non liberisti ha firmato una lettera di protesta per la nomina da parte del governo Draghi di alcuni altri, caratterizzatisi invece come dei ferventi liberisti, nella commissione presso la Presidenza del Consiglio che dovrà sovrintendere all’attuazione del Pnrr, il piano di spesa dei fondi europei per la ripresa post-pandemica. Come si possono ritenere affidabili per un simile compito costoro che esaltano acriticamente il mercato e demonizzano aprioristicamente la spesa pubblica? La lettera è stata criticata dalla stampa di destra, prevalentemente liberistica, come una indebita censura e addirittura come una caccia alle streghe, addebiti sdegnosamente rigettati da sinistra dove da qualche anno ormai, dopo la crisi del 2007, il fronte keynesiano ha ripreso nuovo vigore. È seguita qualche azione riparatoria, con la nomina da parte di qualche ministero di qualcuno del fronte degli anti-liberisti. Non è forse il governo Draghi un governo di unità nazionale? E cosa c’è di più nazionale dell’attuale costituzione economica vigente il cui spirito commerciale è da rianimare – lo si dica senza alcun riferimento alla pandemia in corso – quanto più intensivamente possibile? Ne usufruirà la pace del popolo affinché divenga finalmente perpetua, e ne uscirà ristorata la forza del denaro così efficace, come aveva capito Kant, tra tutte quelle in potere dello Stato. Quanto all’articolo segreto che impone allo Stato di udire i filosofi, questi ultimi mostravano di avere una troppo alta idea di se stessi già con lo stesso Kant, il quale li dipingeva come una classe per sua natura immune da spirito fazioso e incapace di cospirare. Fu per tagliare corto con tutte queste ciance che Marx se ne uscì con la famosa tesi secondo la quale i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo mentre ora si tratta di trasformarlo. Ed egli si accinse all’opera con una critica dell’economia politica che impose ai filosofi di studiare la scienza economica e agli economisti di rifiutare qualsiasi nomina governativa.

Un congresso mondiale delle culture

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Ecco alcune notizie da un mondo alla rovescia. All’inizio di giugno di quest’anno di grazia 2021 Paxton Smith, una studentessa della Lake Highlands High School in Texas, parlando alla festa di diploma ha criticato le nuove restrizioni all’aborto varate nello Stato: «ho paura che i contraccettivi possano fallire, sono terrorizzata dal fatto che se vengo stuprata le mie speranze, aspirazioni, sogni e sforzi per il mio futuro non avranno più importanza. Voi non capite quanto sia disumano vedersi togliere l’autonomia sul proprio corpo»1. Dunque, la giovane Paxton non è terrorizzata perché può essere stuprata, bensì teme che i contraccettivi falliscano e che non possa poi abortire. Dà per scontato che sia una preda sessuale e ricerca i mezzi più efficaci, tra cui l’aborto, per evitare una gravidanza indesiderata che, togliendole il controllo del suo corpo, possa spezzare le sue speranze, aspirazioni, sogni e sforzi per il suo futuro. Importa poco poi che tutte queste belle cose debbano realizzarsi in un mondo dove essere stuprate è all’ordine del giorno. Le reificazioni che punteggiano questa concezione dei rapporti sessuali, i contraccettivi, lo stupro, l’aborto, il corpo, il futuro, rendono alieno l’appello finale a una umanizzazione che si vorrebbe conseguire con il segmento più debole di questa complessiva disumanità. Nel caso che segue l’alienazione è più classica e meno vertiginosa ma non meno impressionante. Un articolo a firma di Ludovica Bulian, a pagina 4 del «Giornale» del 27.6.2021, reca il seguente titolo: La minaccia dei sindacati: stop licenziamenti per quattro mesi. I sindacati cui si fa riferimento non sono gli incendiari sindacati di base, bensì i miti sindacati confederali CGIL, CISL e UIL. Eppure, per Monsieur le Capital anche la loro pacifica, beneducata richiesta di procrastinare i licenziamenti di ancora qualche mese è una intollerabile minaccia. Esopo e Fedro si danno ancora la mano e dalle origini della civiltà dello scambio la favola del lupo e dell’agnello si invera ancora una volta nei moderni rapporti di produzione di cui mitologicamente prefigurava l’avvento. In questo mondo alla rovescia non può mancare l’alienazione del coronavirus che si manifesta con una insensibilità alla contraddizione niente affatto dialettica. Nella mente collettiva infatti con appositi comandi ed esortazioni vengono eretti dei muri che separano il venir meno delle precauzioni di questi mesi dalla percezione del pericolo delle “varianti”. Il blocco della sintesi di questi due estremi darà luogo a contagi a basso regime, poche ospedalizzazioni, poche terapie intensive e molti infetti mal curati a penare nelle proprie abitazioni. Tutto questo affinché l’economia riparta. Ma che cosa accadrà se questa scissione si rivelerà un accomodamento illusorio? Che cosa accadrà se la pandemia riprende con forza? Le persone non sono preparate, hanno sospeso le loro abitudini pensando di potervi tornare a breve, nessuno ha loro spiegato che il cambiamento può essere permanente e nessuno ha detto loro cosa mettere al posto delle vecchie abitudini. Si parla loro ambiguamente di “rinascita” e “ricostruzione” evocando il dopoguerra e così finisce che non credono più neanche nella più modesta “ripresa”. I grandi che governano con la “comunicazione” non si rendono conto che da queste mezze bugie e mezze verità può solo derivare il caos, lo scontro, il disastro. L’ultimo rapporto sulle tendenze future stilato dal National Intelligence Council, sottorganismo della CIA, ha delineato gli scenari possibili per i prossimi vent’anni: il ritorno trionfale delle “democrazie”, un mondo senza guida, la coesistenza competitiva delle “democrazie” con la Cina, un mondo di contenitori separati l’uno dall’altro, la catastrofe2. Ma qui lo scenario della catastrofe rischia di avverarsi già l’anno prossimo. È interessante però come in questo documento la catastrofe viene caratterizzata. Anzitutto, la catastrofe è l’unico scenario in cui è prevista la mobilitazione delle persone. In tutti gli altri scenari gli individui sono sudditi del mercato, vittime del caos, intrappolati nei mondi a parte, ma comunque sempre individui passivi. A mobilitarli è dunque solo l’istinto di sopravvivenza. A questo siamo, la disumanizzazione prodotta da decenni di trionfi capitalistici avrebbe privato la società di ogni progetto per l’avvenire e l’avrebbe ridotta all’istinto primordiale della sopravvivenza. Non si sa come, però, ma il rimbalzo da questa regressione dovrebbe dar luogo ad uno Human Security Council composto da Stati ma anche da attori non governativi. Non più dunque le nazioni come riferimento bensì l’umanità. È sempre così, quando il capitalismo raschia il barile salta fuori l’umanitarismo. C’è chi però si porta avanti, come l’Unione Europea che ha appena insediato la Conferenza per il Futuro dell’Europa, 450 membri circa tra esponenti dei parlamenti nazionali, membri del Parlamento europeo, componenti della Commissione e del Consiglio d’Europa e infine rappresentanti dei cittadini degli Stati membri3. Come siano stati designati questi rappresentanti non è chiaro, essi comunque testimonierebbero dell’apertura all’immancabile “società civile”4, l’esercito politico di riserva che in democrazia calmiera le ambizioni troppo grandi di chi a turno governa. Immancabile anche la piattaforma digitale attraverso cui ogni cittadino nella propria lingua potrà interloquire sui temi della Conferenza, clima, donne, salute, valori, unione sociale, dialogo, cambiamenti, giustizia, trasparenza, nuovi trattati, meno sovranità, processi “bottom-up”5. È attesa una nuova Pentecoste che raccordi lingue e menti. Mentre USA e UE con i loro lunghi cannocchiali cercano di penetrare le brume del futuro, l’economia che governa il mondo si riunisce periodicamente nei suoi G7. È difficile dire cosa sia il G7 dal momento che non ha nessuna base giuridica o istituzionale. Nel recente vertice di Cornovaglia sono stati formulati i migliori propositi, equo commercio, un sistema commerciale riformato, una economia globale, un sistema fiscale globale, una rivoluzione verde, un nuovo progetto per l’Africa, una maggiore generosità del Fondo monetario internazionale per i Paesi bisognosi fino a 100 miliardi di dollari, tutto ciò in nome dei “valori” della democrazia in lotta contro le autocrazie degli Erdogan, dei Putin e soprattutto dei Xi Jinping. Questo manicheismo che si presenta inghirlandato dalle migliori intenzioni già solo teoricamente è alquanto malfondato. La democrazia infatti non è in nulla migliore dell’autocrazia perché, come osservava Kant, essa si fonda su un potere esecutivo in cui tutti deliberano su uno e nel caso anche contro uno (che dunque non dà il suo consenso), quindi tutti che però non sono tutti, ciò che costituisce una contraddizione della volontà generale con se stessa e con la libertà. La democrazia insomma come la più perfetta forma di dispotismo, quest’ultimo inteso come forma di governo in cui la volontà pubblica viene adoperata dal governante come sua volontà privata6. E siccome qui il governante è il popolo, qual è questa volontà privata popolare? Kant, che pudicamente chiamava gli incipienti stati capitalistici del suo tempo “stati commerciali”, non lo dice ma nel prosieguo della storia si è capito che quella volontà privata non era la volontà generale del popolo sovrano bensì quella particolare della classe capitalistica7. Per un lungo periodo tale classe si è fregiata del titolo altisonante di società cristiano-borghese8. Ma quando in essa è cresciuta come un corpo estraneo la società di massa che ha sradicato e spersonalizzato l’individuo, le incandescenti forze produttive si sono riversate nel nuovo involucro della società capitalistica globale. Molti interpretarono tale accomodamento come un progresso dell’umanità. Ma a ben pensarci la società capitalistica globale non ha costituito un avanzamento né nel regime politico (autocrazia, aristocrazia, democrazia) né nella forma di governo (dispotica o repubblicana), poiché si è venuta caratterizzando come una società tribale planetaria che ha il suo totem nella tecnologia e la cui lingua, cultura, religione e senso di identità ruotano attorno alla silente ma onninvasiva divinità della merce9. Di fronte a tale regresso, né il G7 ma neppure un Consiglio di sicurezza umana sembrano adeguati al compito di trarre fuori l’umanità dal vicolo cieco in cui si è cacciata. La prima cosa da fare sarebbe di mettere l’economia tra parentesi e, senza aspettare la catastrofe, immaginare un mondo che non dipende più dai suoi dettami. Questo potrebbe farlo un consesso mondiale in cui finalmente potrebbero prendere la parola tutti coloro che, condividendo tale presupposto, non sono più disposti a scambiare il principio di realtà con la dittatura di chi spaccia per realtà la propria volontà di dominio. Nella storia ci sono almeno due importanti esempi di tali consessi. Uno è costituito dai Concili che nei primi secoli del Cristianesimo modellarono la dottrina cristiana, l’altro dai Congressi dei partiti che tra Otto e Novecento forgiarono le ideologie moderne. Un Congresso mondiale delle culture dovrebbe decidere se il principio formativo deve essere esclusivamente quello del mettere in comune o quello dell’appropriazione privata e dovrebbe tendere non all’omogeneizzazione, come accade nel dispotismo dell’economia che indebolisce tutte le culture, ma all’unificazione come equilibrio risultante dal loro sviluppo generato dalla più viva emulazione.

 

  1. Monica Ricci Sargentini, Discorso sulla libertà sessuale. E il preside stacca il microfono, «Corriere della sera», 27.6.2021, p. 23. []
  2. National Intelligence Council, Global Trends 2040, Marzo 2021, reperibile online. []
  3. Conferenza sul futuro dell’Europa: Strasburgo, oggi la prima assemblea plenaria. Negli interventi, riferimenti a clima, donne, salute, valori, dialogo, giustizia, 19 giugno 2021, https://www.agensir.it/quotidiano/2021/6/19/conferenza-sul-futuro-delleuropa-strasburgo-oggi-la-prima-assemblea-plenaria-negli-interventi-riferimenti-a-clima-donne-salute-valori-dialogo-giustizia/. []
  4. Paola Severino, Se l’UE si apre alla società civile, «la Repubblica», 28.6.2021, p. 23. []
  5. Conferenza sul futuro dell’Europa: Strasburgo, oggi la prima assemblea plenaria. Negli interventi, riferimenti a clima, donne, salute, valori, dialogo, giustizia, cit. []
  6. I. Kant, Per la pace perpetua. Progetto filosofico, in Id., Lo stato di diritto, a cura di N. Merker, Roma, Editori Riuniti 1973. Benché i testi raccolti in questa silloge siano parziali, la traduzione fattane da Nicolao Merker rimane insuperata rispetto a raccolte posteriori più complete. []
  7. L. Colletti, Lezioni di filosofia politica (1957), Soveria Mannelli, Rubettino 2017. []
  8. L. Colletti, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza 19734. []
  9. F. Aqueci, Capitalismo e cognizione sociale, Roma, Tab Edizioni 2021. []

Marxismo e transizione

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Nel suo opuscolo L’uomo e la democrazia1, pregevole come tutti i suoi scritti, Lukács, nella foga di mostrare come Stalin non solo manipolasse il marxismo allo scopo di giustificare i suoi metodi di governo ma anche tacitasse il dibattito con le sue minacce poliziesche, si lancia in una critica della concezione della legge del valore, avanzata da Stalin nella sua opera della vecchiaia I problemi economici del socialismo nell’Unione sovietica (1952), che sbocca alla fine in un curioso ribaltamento di posizioni. Nel suo scritto, Stalin, quali che fossero le sue finalità politiche che qui non discuteremo, sostiene l’idea che la legge del valore, ovvero il tempo di lavoro che i fattori produttivi variano incessantemente così determinando il valore di scambio dei prodotti del lavoro, è legata all’esistenza della produzione mercantile, scomparsa la quale, spariranno sia il valore con le sue forme, che la legge del valore. È una veduta che forse in maniera troppo rozza e tranchant traduce il modo più indiretto e sfumato con cui Marx sostiene la stessa idea nel Capitale. Lukács invece sostiene che Stalin incorra qui in una “papera”2 e spiega per più pagine, riferendosi ad un brano finale del primo capitolo del Capitale dedicato al feticismo della merce, che in realtà secondo Marx la legge del valore rimane valida anche nel socialismo, mentre invece Marx in quel brano semplicemente suppone di far funzionare il socialismo come un modo di produzione retto ancora dal tempo di lavoro, allo scopo di spiegare a chi è mentalmente prigioniero delle categorie dell’economia politica borghese come in realtà funzionano produzione e distribuzione in un modo di produzione retto non più dalla spontaneità del mercato ma da un piano sociale fissato consapevolmente dai produttori3. La supposizione non è di poco conto. Se la legge del valore continuasse a essere in vigore anche nel socialismo e ancor più nel comunismo, non si avrebbe quella trasparenza dei rapporti tra gli uomini, tanto nella produzione quanto nella distribuzione, che invece manca nel capitalismo, dove invece la merce è quel feticcio misterioso che Marx descrive lungo tutto il capitolo in questione. È davvero sorprendente che proprio Lukács, che del feticismo e dell’alienazione di merce fu nel 1923 il riscopritore con la sua opera Storia e coscienza di classe, oscuri questo punto sostenendo che nel socialismo e nel comunismo la legge del valore, o tempo di lavoro, si estende e approfondisce perché in tali nuovi assetti sociali sempre più il lavoro diventa il primo bisogno della vita. È evidente infatti che qui vengono fusi due significati distinti di lavoro, ovvero lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana e lavoro come quantità sociale astratta, il primo significato attinente al comunismo, il secondo al capitalismo. Se si ripristina questa distinzione, si vede che la posizione di Stalin, benché meno sofisticata teoricamente, è paradossalmente più libertaria di quella di Lukács, poiché non pretende che una costrizione, la costrizione collettiva ancora vigente nel socialismo in costruzione a contribuire al lavoro come quantità sociale astratta, diventi un’auto-costrizione liberante, per giunta nemmeno operata autonomamente dall’individuo, ma effetto dello sviluppo delle forze produttive. Lukács, invece, con un kantismo implicito, il cui fulcro non è più la persona ma la specie che nei suoi avanzamenti produttivi impone alla persona una paradossale “libera necessità”, arriva a sostenere di fatto una tesi finalistica iperbolica poiché, opponendo la costante diminuzione tendenziale del lavoro socialmente necessario per la riproduzione della vita alla crescita tendenzialmente altrettanto costante del pluslavoro, e rinviando a un nebuloso domani in cui tale pluslavoro «può anche servire allo scopo sociale generale dello sviluppo della personalità»4, finisce per eternizzare uno sviluppo delle forze produttive determinato dalla reificazione di merce qualunque sia il regime di proprietà dei mezzi di produzione. Ora, Lukács è pensatore troppo sagace per essere sospettato di essere incorso lui in una “papera”. È probabile invece che nel momento in cui con il suo opuscolo apriva al ruolo dell’opinione pubblica e del dibattito nel processo di democratizzazione delle allora società socialiste sovietiche, egli volesse consolidare la base economica entro cui tale processo doveva svolgersi, il cui finalismo dal lavoro come quantità sociale astratta al lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana doveva essere stimolato da un rinnovato ruolo guida del partito e dello Stato. Se si pone mente a tutto ciò, si vede che la confutazione all’incontrario di Stalin da parte di Lukács non è affatto un curioso capitolo dell’esegesi marxista di un’epoca ormai tramontata ma riverbera ancora oggi, illuminandolo, sullo stato di cose presenti. Non è forse questo infatti il dilemma della Cina odierna, dove la crescita impetuosa delle forze produttive determina un socialismo dove il pluslavoro è più quantità sociale astratta che strumento di sviluppo onnilaterale dell’essenza umana? E non è un problema della Cina odierna quello di un partito-Stato che si legittima perseguendo la crescita costante del pluslavoro, rinviando però sempre a un indeterminato domani il giorno in cui tale pluslavoro potrà servire allo scopo sociale generale dello sviluppo della personalità?

Nel suo opuscolo, e qui veniamo ai dolori dell’Occidente, Lukács più volte richiamandosi a Lenin fa riferimento all’abitudine quale categoria sociologica generale. Lenin concepiva il comunismo come lo stato di cose morali in cui la morale predicata da millenni viene finalmente a poco a poco per abitudine praticata da tutti. Lukács accetta questa concezione ma al tempo stesso, con il suo tipico modo esegetico di argomentare, sottolinea come Lenin avesse in mente qualcosa di più di una semplice generalità sociologica astratta e pensasse invece a una dialettica dell’abitudine per la quale le istituzioni dello Stato mirassero ad abituare gli uomini a quei comportamenti spontanei ma per tanto tempo rimasti solo puramente verbali. Ora, si chiede Lukács, qual è nella società capitalistica la dialettica dell’abitudine? La dialettica dell’abitudine è quella di consolidare, attraverso istituzioni quali ad esempio il diritto, l’egoismo dell’uomo quotidiano, abituandolo a considerare il prossimo solo come limite dell’esistenza e della prassi proprie. Perché tale egoismo economico venga superato c’è bisogno allora di qualcosa che nella realtà sociale non sorge spontaneamente ma derivi da un rivoluzionamento non solo dell’ideologia ma anche dell’essere e dell’operare materiale della vita quotidiana5. Lungo tutto il suo scritto, Lukács individua due forze capaci di operare una tale trasformazione. La prima l’abbiamo già vista ed è l’azione sistematica dello Stato e di tutte le sue istituzioni per formare negli uomini delle nuove abitudini morali. Ciò vale però nei periodi storici di “pausa”. Ci sono invece periodi di movimento in cui tale forza è costituita dall’entusiasmo rivoluzionario delle masse che fa sì che le questioni della vita quotidiana si colleghino organicamente con le grandi prospettive politiche. Già quando Lukács abbozzava questa dialettica dell’abitudine egli stesso però denunciava l’apatia e l’indifferenza delle masse rispetto alla fase rivoluzionaria del primo ventennio del secolo XX e con uno sforzo volontaristico egli allora tornava ad affidarsi al ruolo dello Stato. Nel tempo intercorso dal suo scritto a oggi, non solo tale indifferenza, all’Est come all’Ovest, si è approfondita ma lo Stato, quello borghese rimasto in piedi, è fortemente deperito e le abitudini sono dettate sempre più dai condizionamenti del mercato. Ma è inutile prodursi in geremiadi contro tale stato di cose. Piuttosto va osservato come una forza che non è lo Stato né l’afflato rivoluzionario, ovvero il coronavirus, abbia prodotto un cambiamento di abitudini che nessuno prima poteva mai immaginare. Prima della pandemia era considerato naturale fare lunghi viaggi in auto o con i mezzi pubblici per raggiungere ogni giorno il proprio posto di lavoro. Oggi si registrano forti resistenze a tornare a quelle abitudini di cui si è potuto constatare repentinamente l’alienante artificiosità. E così si potrebbe continuare con esempi simili restando sempre nella cornice quotidiana dell’uomo economicamente egoistico. Ma in generale il coronavirus ha realizzato bruscamente quella “decrescita” materiale e quella “transizione” ideologica che tanti si industriavano a realizzare con dibattiti e provvedimenti normativi. Cosa sono infatti quelle cifre che segnalano l’arretramento catastrofico del Prodotto interno lordo rispetto all’ultimo anno prima della pandemia? È vero, la pubblicità come un disco rotto ha continuato a girare, ma interi settori produttivi si sono contratti per milioni di ore di lavoro la cui inutilità è apparsa all’improvviso lampante. Purtroppo il coronavirus, sia nato a Fort Detrick o a Wuhan, è solo negazione che in questo anno abbondante di pandemia nessuno si è curato di riempire con un piano di vita alternativo. Quando si prospetta una qualche coordinazione, l’uomo egoistico leva subito le sue proteste contro la “pedagogia sociale”, così le vecchie abitudini riconquistano facilmente il terreno perduto, e resta solo la lezione che per indurre i cambiamenti di cui si avverte sempre più l’esigenza c’è bisogno di un potere la cui assolutezza sia pari alla gravità dei problemi da risolvere.

 

  1. G. Lukács, L’uomo e la democrazia (1968), trad. it. Roma, Lucarini 1987 []
  2. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 92 []
  3. K. Marx, Il Capitale (1867), trad. it. a cura di A. Macchioro e B. Maffi, Torino, UTET 1974, libro I, sezione I, cap. I, p. 157 []
  4. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 93 []
  5. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 68 []