Politica

Ragioni oggettive a favore dei fratelli no vax

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Premesso che chi scrive ha fatto il suo dovere vaccinale, è fuor di dubbio che chi non vuole vaccinarsi e si oppone al controllo del lasciapassare ha dalla sua parte delle ragioni oggettive fra le quali possono essere messe in evidenza le seguenti:

 

1) il consenso informato da firmare all’atto di vaccinarsi, in mancanza di una legge che fissi dettagliatamente gli obblighi dello Stato verso il vaccinando e i suoi congiunti in caso di eventi avversi prossimi o venturi, lascia il cittadino in balia di tali eventi e scarica di responsabilità lo Stato, il quale però, pur in una situazione di sperimentazione sanitaria di massa quale non si nega essere da parte di molti competenti in materia quella attualmente in corso, obbliga di fatto al vaccino con la misura amministrativa ex post del lasciapassare. Questo modo obliquo di procedere non può che generare sfiducia;

 

2) si afferma che il vaccino serve a evitare la malattia grave che richiede il ricovero in ospedale. Ciò significa che si dà per scontato che la malattia si diffonda e persista a bassa intensità nella maggioranza della popolazione, ma senza predisporre alcun significativo potenziamento dell’assistenza medica a casa che resta carente o inesistente. Lo Stato quindi fa il calcolo minimo di evitare l’allarme sociale e il costo economico del sovraccarico ospedaliero, lasciando che il cittadino se la sbrighi privatamente nel caso più che probabile, anche quando vaccinato, che la malattia lo colpisca sebbene in forma non grave o mortale. Anche qui, questo modo obliquo di procedere non può che generare sfiducia;

 

3) posto che la strada delle cure (monoclonali, immunosoppressori) è stata sostanzialmente scartata perché ritenuta troppo lenta rispetto all’obiettivo di rimettere in moto al più presto l’intero ingranaggio della vita sociale, e posto che lo stesso vaccino non sembra poi l’arma infallibile contro l’insidioso virus, non c’è stata e non c’è alcuna seria possibilità di scegliere fra i vari tipi di vaccino (mRNA, vettoriale, proteine) in sperimentazione non solo in paesi “reprobi” come Cuba, Russia e Cina, ma anche nel blocco dei “virtuosi” paesi occidentali. Si è alimentato invece un dibattito fittizio tra marchi (Astrazeneca vs. Pfizer), impedendo di fatto un’informazione obiettiva e completa su tutte le opzioni possibili, lasciando che tutto fosse regolato da dinamiche economiche riconducibili a pochi, salvifici monopoli farmaceutici. Tutto ciò ancora una volta non può che aver generato sospetto e sfiducia;

 

4) non è mancato e manca solo il dibattito scientifico su opzioni effettive e non fittizie, ma ancor più manca un dibattito serio su come uscire dalle “situazioni di guerra” causate dalle ormai ricorrenti pandemie. Al contrario, la fuga dalle responsabilità, i ragionamenti grettamente utilitaristici, la riproposizione di modelli organizzativi obsoleti, le contrapposizioni schematiche rispondenti più al marketing che al dibattito democratico, non fanno che ribadire la grande divisione tra uno Stato nella sua essenza autoritario e un cittadino relegato nella sua privatezza, la cui àncora di salvezza per entrambi è un’economia che si rimetta a regime quanto prima per poter continuare a stillare quelle ormai sempre più grame risorse necessarie a tenere in vita un’organizzazione sociale di cui da tempo si è più prigionieri che protagonisti.

 

Tutto ciò considerato, sembrano eccessive e spropositate le misure che vengono minacciate per coloro che non intendono vaccinarsi e sottostare al controllo del lasciapassare. Privare qualcuno del lavoro e dello stipendio è come spedirlo in prigione senza neanche volergli passare il vitto dell’amministrazione carceraria. Se si vogliono adottare misure così estreme, ci si assuma la responsabilità di leggi chiaramente discusse ed emanate, senza più far ricorso a decreti che producono solo rabbia e frustrazione. O è proprio la rabbia e la frustrazione che si vogliono alimentare, per poter ricorrere al pugno di ferro che ribadisca i presupposti indiscutibili dell’ordine vigente?

Ingiustizia uguale per tutti

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Nella spietata analisi di un aristocratico del V secolo, Atene appare dominata dalla “canaglia”, cioè dai poveri e in particolare da quei timonieri, capirematori, comandanti in seconda, manovratori, carpentieri, insomma da quel popolo lavoratore che molto più degli opliti, dei nobili, della gente per bene, faceva andare le navi e rendeva forte la città rispetto alle altre città greche di terra1. La contrapposizione tra potenze di mare e potenze di terra non ha nulla di mistico e nella sua analisi l’aristocratico del V secolo, molto più chiaramente di qualche tenebroso ideologo moderno, lo spiega bene. Il mare è il presupposto strategico di una superiore mobilità del capitale. Oggi tale contrapposizione, che nel frattempo si è arricchita della dimensione dei cieli e dello spazio extra-terrestre, vive un momento particolare, poiché l’atlantismo, che negli ultimi settant’anni ha riassunto l’egemonia della potenza di mare, è in declino e sorge la potenza di terra Russia-Cina con i suoi placidi oleodotti e le sue caracollanti Vie della Seta. L’Italia, che dal 1945 è inglobata nel blocco marittimo, registra un bradisismo che proprio in questi giorni si può cogliere nella sfera del diritto con la richiesta pressante da parte dell’UE di una “riforma della giustizia” che rimuova gli impedimenti allo scorrere di un capitale in ulteriore debito d’ossigeno, specie dopo la catastrofe della pandemia, nella realizzazione ormai storicamente sempre più difficoltosa del saggio di profitto. Non bisogna idealizzare il passato, ma per la sua intrinseca ambiguità nei decenni trascorsi il diritto ha reso possibile il riconoscimento di alcune istanze del lavoro, si pensi all’art.18, o di alcune esigenze ambientali, si pensi alle ordinanze e contro-ordinanze nella vicenda dell’ILVA. Ma, appunto, il diritto è ambiguo, e così bisogna registrare la dura repressione giudiziaria di un movimento anch’esso ambientalista come il No-Tav in Val di Susa condotta da magistrati pure distintisi nella “lotta alla mafia”, quella tendenza che combatte l’altra faccia del valore creato dai circuiti dei traffici di droga e della finanza nera. È non l’illusione ottica della “magistratura comunista” che così si rivela, ma l’ideale di un capitalismo legalitario che un corpo di funzionari dello Stato ha portato al massimo fulgore con il “manipulitismo”, cioè con la visione di un capitalismo mondato dalle pratiche monopolistiche promosse con concessioni e appalti dal potere discrezionale delle cerchie affaristiche cui si erano ridotti i partiti nel volgere degli anni Ottanta. Oggi, per il crescente affanno, accentuato dalla pandemia, delle politiche di austerità e dei bilanci in pareggio, leggi compressione dei salari e dittatura dei mercati finanziari con la cui accettazione a Maastricht si cercò di arrestare la rovina di quel mondo, c’è un vasto rimescolamento di carte in forza del quale non la politica genericamente intesa, non i partiti che aspirano confusamente a una rinascita, ma lo Stato nella sua ieratica figura rientra e viene invocato per riavviare un’accumulazione capitalistica inceppata dallo scontro mondiale tra mare e terra. Dunque, né la lotta alla mafia né Mani pulite hanno più ragion d’essere se non quale omaggio verbale all’“onestà” e ai suoi eroi del passato. Ma quel che più conta è che cada ogni residua ambiguità normativa e ogni attardata velleità di tutela giudiziaria delle ragioni del lavoro e della natura. Il nuovo capitalismo di Stato alle viste non ha più dunque il volto benevolo di un compromesso di classe, come fu nel trentennio 1945-1975, ma la voce stridula di un banchiere la cui missione è fermare il tramonto e rovesciare le sorti dello scontro, rimettendo le cose a posto in una delle provincie più riottose ma al tempo stesso più importanti del blocco marittimo. Infatti, come spiegano inequivocabilmente da Oltreoceano, «[i processi ai politici] sono troppo frequenti in Italia, dove l’ampio potere di magistrati spesso mossi dall’ideologia può essere usato per inseguire vendette politiche o dove le aziende possono rimanere intrappolate in procedimenti giudiziari ingombranti e scoraggianti che sono tra i più lenti d’Europa»2. Perciò, la riforma varata da Draghi, continua l’interessato osservatore di là dell’Atlantico, «non è altro che il tentativo di ristabilire la fiducia degli italiani nei loro leader politici e nelle istituzioni dopo decenni di vetriolo anti establishment, titoli arrabbiati e invettive sui social media»3. Il ritorno del capitalismo di Stato richiesto dall’incombere del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), un festival dirigista per rimettere in moto il mercato liberista, è dunque la base del nuovo patto politico che deve contrassegnare la fase storica prossima ventura. Quale sarà la sua ideologia lo si può intuire dalle parole di un suo menestrello: un capitalismo di Stato che atteggiandosi ad amministratore imparziale dà se la gente «soffre, rischia, prova, corre, se la gioca, e poi se fallisce gli diamo una mano»4. L’annuncio sbracato di questa lotteria sociale coglie, se non di sorpresa, certo in un momento di grande difficoltà una magistratura che negli anni ha coperto pratiche di potere sempre più diffuse, ispirate al modello delle lotte di partito, con una ideologia legalitaria nel suo complesso sempre più lontana da un paese attanagliato da una rabbia profonda per l’incapacità e l’impossibilità di realizzare le però sempre persistenti pulsioni all’arricchimento cui lo spinge la forma di vita capitalistica. Si spiega così il successo della raccolta di firme promossa da forze politiche vecchie e nuove per un referendum su questioni di amministrazione della giustizia che all’apparenza nulla hanno a che fare con la sfera economica, la separazione delle carriere, la responsabilità civile dei giudici, la custodia cautelare, il rapporto tra magistratura e politica, la gestione delle carriere. Il “vetriolo anti establishment” che nel recente passato un libello come La casta, a firma dei giornalisti Stella e Rizzo, indirizzò verso i “politici”, oggi da una analoga pubblicazione, Il sistema, a firma del giornalista Sallusti e dell’ex magistrato ora inquisito Palamara, viene riversato sui “giudici corrotti”. Esso potrà finalmente essere prosciugato, come richiede con impazienza l’alleato maggiore, se il grande ritorno del capitalismo di Stato, a dispetto della sprezzante ideologia con cui i sicofanti vogliono abbellirlo, saprà mantenere le promesse di compensi e redistribuzioni che tacitamente tutti si aspettano. In questo modo, il governo della “canaglia”, che nell’Atene del V secolo era ancora un felice paradosso storico, si riduce al suo significato letterale il cui riferimento è un mondo sottosopra sempre più angusto dove solo l’ingiustizia è uguale per tutti.

 

 

  1. Pseudo-Senofonte [Crizia], Athenaion Politeia [Dialogo sul sistema politico ateniese], trad. it. a cura di L. Canfora, La democrazia come violenza, Palermo, Sellerio, 1984, pp. 15-35. []
  2. J. Horowitz, Italy’s Mr. Fix-It Tries to Fix the Country’s Troubled Justice System — and Its Politics, Too The issue has become a test for whether Prime Minister Mario Draghi can really change Italy, «The New York Times», 29.7.2021, edizione online []
  3. Ibidem. []
  4. https://www.iltempo.it/politica/2021/07/31/news/matteo-renzi-la-gente-deve-soffrire-bufera-social-reddito-di-cittadinanza-commenti-hashtag-renzifaischifo-video-28170162/. []

La nuova Lourdes

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Qualche giorno fa, Macron è andato a Lourdes e una foto lo ritrae nella posa del chierichetto compunto, mani giunte e occhi levati al cielo. In un video si vede qualcuno della folla che viene portato via a forza mentre gli inveisce contro accusandolo di essere un ateo della più bell’acqua. Se i cattolici si sono sdegnati di tanta ipocrisia, i laici di ogni tendenza lo hanno accusato di avere attentato alla neutralità religiosa della République. Mai infatti nessun presidente si era recato in quel luogo di culto così platealmente cattolico. Non si sa se Micromega organizzerà un numero monografico per riaffermare i valori della laicità e dell’ateismo messi a repentaglio da Macron ma, come ha fatto rilevare la stampa ben informata, il presidente francese nella sua visita a Lourdes non si è occupato di questioni religiose, bensì ha voluto solo portare il suo sostegno alla seconda località di Francia (dopo Parigi) per numero di camere d’albergo, la cui economia è stata duramente colpita dalla pandemia1. Sempre la stampa ben informata riporta che Macron avrebbe promesso sostegno d’emergenza, aggiungendo però che «Lourdes non è certo la città che valorizza al meglio i suoi turisti. Ci vuole un’offerta molto più larga e varia rispetto a oggi, e gli investimenti avrebbero dovuto essere fatti molto tempo fa». Il presidente si sarebbe detto comunque convinto delle buone prospettive delle «sinergie tra culto, cultura e patrimonio», auspicando la preparazione di una «nuova Lourdes»2. Non si capisce quindi di che cosa si sdegnano i laici, e perché i credenti incolpano Macron di essere un ateo ipocrita. Egli è andato a Lourdes a risollevare le sorti della religione di cui è uno dei più fervidi officianti, ovvero la silente religione della merce che, cosa che non sembrano capire né i credenti né i laici né la stampa ben informata, è il trascendimento in un tutto nuovo della fede laica e di quella cattolica3. Dal 1789, giusto per fissare una data, il vecchio laicismo difendeva una laicità come negazione della fede cattolica, ma durante tutto questo tempo tanto i laici quanto i cattolici, mentre battagliavano la domenica tra di loro nella sovrastruttura, nella struttura tutti i giorni trafficavano sfrenatamente con la religione della merce. Quest’ultima per lungo tempo ha taciuto, ma il tempo della decenza borghese è finito, e adesso non accetta più di stare nell’ombra. Ecco dunque Macron che ha fatto la passeggiata a Lourdes con lei a braccetto, promettendole gioielli e pellicce come si fa con le amanti finalmente rivelate all’onor del mondo. Bisogna vedere come si acconcerà a questa “nuova Lourdes”, prorompente di sinergie tra culto, cultura e patrimonio, quel terzo incomodo assai virulento in Francia che è la religione musulmana, in cui non c’è un laicismo che la neghi e il traffico con la merce avviene secondo il detto “non lo faccio per amor mio, ma lo faccio pe amor di Dio”. Le religioni sono costruzioni bizzarre, ma la religione della merce è la più bizzarra di tutte. Ne vedremo delle belle.

 

  1. S. Montefiori, Francia, polemiche per la visita di Macron a Lourdes: «Laicità calpestata», «Corriere della sera», 17.7.2021, online. []
  2. Ibidem []
  3. F. Aqueci, Capitalismo e cognizione sociale, Roma, Tab Edizioni 2021, cap. V. []

Zan! Ed è subito gender

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Il punto cruciale del ddl Zan è l’identità di genere, tanto è vero che i machiavelli di Italia Viva per fare la “mediazione” stanno proponendo di tagliarla, dando anche il contentino alla Chiesa del rispetto dell’autonomia scolastica. Ma che cos’è l’identità di genere? Nella teoria di genere, elaborata in ambito accademico anglosassone a contatto con i gruppi LGBT e poi diffusasi un po’ ovunque nel mondo liberal e progressista occidentale, l’identità di genere si basa sulla tesi secondo la quale ogni individuo possiede un’identità di genere interna che in certi casi può non corrispondere al sesso biologico della persona. È decisiva dunque l’opposizione tra interno ed esterno, tra ciò che è percepibile e ciò che non è percepibile con i sensi. Basta aggiungere a questa tesi che ciò che è percepibile con i sensi è il finito e ciò che non è percepibile è l’infinito per riconoscere in essa l’impronta del vecchio Hegel, il quale appunto sosteneva che il finito non ha vera realtà poiché ha il suo fondamento nell’altro da sé, cioè l’infinito, l’immateriale, il pensiero, con la conseguenza che, se il finito ha per essenza l’altro da sé, per essere essenzialmente sé, esso non dovrà essere più sé, cioè il sé che è in apparenza, il suo essere finito, bensì l’altro, ovvero infinito. Il sesso biologico è dunque il finito da abolire per potere accedere all’autodeterminazione infinita dell’identità di genere. Da questa tesi ontologica che fa da assunto implicito al riconoscimento della condizione psicologica di dissociazione avvertita da alcuni individui tra il proprio sesso biologico (la propria finitudine sessuale) e la propria diversa identità di genere (la propria interna infinità di genere), derivano poi obblighi morali, come quello di proteggere chi si venga a trovare in simili situazioni, o obblighi giuridici, come quelli in discussione con il ddl Zan, come le giornate di sensibilizzazione scolastica (anche) sull’identità di genere o i condizionamenti cui andrebbero incontro coloro che volessero esprimere convinzioni alternative (anche) all’identità di genere. In tutto ciò non vi è nulla di scandalosamente “ideologico”, come gridano i contrari al “genderismo”, trattandosi di un normale dibattito democratico dove nessuno possiede la “verità”, ma è lecito chiedersi cosa significhi questa riproposizione della distruzione del finito (sesso biologico) ad opera dell’infinito (identità di genere) nel contesto delle trasformazioni attuali dell’etica sessuale. Vengono in mente qui le osservazioni di Pareto sui cicli virtuisti e i cicli libertini, e sul “residuo sessuale” come elemento irriducibile della mente sociale rispetto a tutte le altre sue componenti. La sua psicologia meccanicistica non va però al di là di questa pur importante constatazione. Bisogna invece rivolgersi alla profonda teorizzazione di Freud intorno all’antagonismo psichico tra l’Io, l’Es e il Super Io per scorgere che l’aspirazione all’indeterminatezza infinita insita nell’affermazione dell’identità di genere è una sorta di squadernamento in pubblico dell’indeterminatezza inconscia dell’Es, una “presa diretta” dunque della sfera libidica sulla realtà esterna che riduce al minimo l’Io e non trova più un limite in un Super Io gravato da una decrepita morale. È dall’epoca della Rivoluzione francese che De Sade incita i borghesi ad abolire la morale corrente e a emanare poche, miti leggi che si confacciano alle pulsioni fondamentali dell’essere umano. Ma non c’è classe più inconseguente di quella borghese. Essa infatti apre le porte dell’Inferno ma si arresta sulla soglia lasciando che chi vi si precipita dentro venga istantaneamente giudicato secondo i dettami della vecchia morale. Né è in grado di proporre una morale nuova che non sia il libertinismo di chi per censo o per status può sottrarsi a quella condanna. Ecco allora i cicli disforici di virtuismo e libertinismo di cui parla Pareto, il cui significato Gramsci intese così bene che individuò nel libertinismo la principale causa di corruzione delle classi lavoratrici. Ora, posto che tutto questo psichismo non vive in un mondo separato ma è in stretto rapporto con tutte le altre sfere sociali, è facile vedere una omologia non solo tra i “cicli” capitalistici e le disforie sociali sessuali, ma anche tra l’infinitezza pulsionale dell’Es sottesa alla rivendicazione dell’identità di genere e la fluidità infinita cui aspira il capitale in quest’epoca di comando assoluto sul lavoro. Così come, infatti, si aspira ad abolire la finitezza sessuale a favore dell’infinitezza dell’identità di genere, così pure si procede alla polverizzazione delle forme sensibili e finite della merce lavoro a favore di un flusso immateriale e infinito di forza lavoro, in entrambi i casi come un processo illimitatamente ricorsivo. Qui si aprono però dei paradossi. Il primo, piccolo piccolo ma a suo modo significativo, riguarda il PD che con il suo progressismo si trova in una posizione più filocapitalistica di quella di IV. Ma qui non sono certe le scariche libidiche a contare quanto, da un lato, il vecchio riflesso a vuoto presente nel PD di un femminismo protettivo nei confronti del mondo LGBT, da cui però tale mondo si è emancipato, specie nella sua componente gay, caratterizzata da un machismo tanto più forte quanto più alto-borghese; dall’altro, in IV un bigotto machiavellismo tutto interno alle lotte di potere di quel capitalismo, lustrini e copertine patinate, oltre il quale non si concepisce che possa esistere un mondo altro. Molto più grande e importante, invece, l’altro paradosso che riguarda un intero continente, ovvero la stretta alleanza che esiste in molti paesi sudamericani tra movimenti di lotta e organizzazioni LGBT, che sembra contraddire la consonanza tra l’infinitezza dell’identità di genere e il flusso infinito del capitale. Ma lì non solo vale ancora il principio strategico dell’alleanza tra tutte le minoranze oppresse, ma c’è anche, come nel socialismo chavista, un’applicazione creativa dell’egemonia, il cui sincretismo morale non è riconducibile né alla vecchia morale del Super Io borghese-occidentale né alla nuova non-morale dell’Es liberal-progressista tipica del crepuscolo del capitalismo.

Il disegno di Laffer e le baruffe chiozzotte degli economisti italiani

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Nel suo Progetto filosofico per la pace perpetua Kant prevede un articolo segreto che prescrive l’obbligo da parte degli Stati armati per la guerra di prendere in considerazione le massime dei filosofi circa le condizioni che rendono possibile la pace pubblica. Il principio non era diretto tanto verso i governanti quanto piuttosto verso i giuristi che Kant vedeva come degli insidiosi concorrenti nell’influenza che i filosofi potevano esercitare sullo Stato. Compito del giurista infatti era di applicare le leggi vigenti e non di ricercare il loro miglioramento. I suoi argomenti quindi erano giustificazioni della forza a differenza di quelli del filosofo che, indagando la natura della politica in se stessa, erano basati sul consenso. Egli così, constatava Kant sconsolatamente, si veniva a trovare su un gradino molto inferiore. D’altra parte, lo stesso Kant prevedeva che ad imporre la pace tramite un diritto cosmopolitico sarebbe stata la forza del denaro in quanto la più efficace tra tutte quelle in potere dello Stato. Essa infatti, aggiungeva Kant, ben si accorda allo spirito commerciale che prima o poi si impadronisce di ogni popolo. Con queste affermazioni Kant riconosceva implicitamente l’avvento del capitalismo che avrebbe avuto come conseguenza la nascita di una nuova classe di concorrenti dei filosofi, cioè gli economisti. Così come i giuristi, costoro sarebbero stati i guardiani di quello spirito commerciale le cui leggi sarebbero state stabilite dalla scienza borghese per eccellenza, ovvero l’economia politica divenuta poi scienza economica. E tali leggi dunque, al pari di quelle dei giuristi, sarebbero state giustificazioni della forza attraverso cui lo Stato garantiva il mantenimento della costituzione economica capitalistica cui era formalmente organico. Sembrano rimasticature, come direbbe qualche spiritello giocoso, ma in morte di Donald Rumsfeld, già segretario della difesa con Gerald Ford e con George W. Bush, è stato ricordato che un giorno del 1974 il suddetto Rumsfeld e Dick Cheney, suo mentore, poi vice-presidente degli Stati Uniti con lo stesso Bush Jr., si sedettero in un ristorante di Washington con l’economista Arthur Laffer il quale disegnò per loro su un tovagliolo la curva che porta ancora il suo nome. Era uno dei teoremi base dei liberisti: tagliare le tasse non significa perdere gettito fiscale. E da lì sarebbe partita la cavalcata che con il nome in codice di “neoliberismo” arriva sino ai nostri giorni. Si dirà, ma forse che nel 1945 a Bretton Woods Harry Dexter White e John Maynard Keynes non fecero a loro volta dei disegnini con i quali spiegarono ai governanti dell’epoca le politiche di spesa pubblica che sarebbero poi rimaste in voga nei trent’anni successivi? Appunto, a conferma che la scienza economica, fatti salvi i suoi interni contrasti di scuola, è la scienza capitalistica per eccellenza le cui leggi gli economisti applicano per il mantenimento generale della costituzione economica vigente. Si è visto mai infatti un economista presiedere una qualche sessione di lavoro della Banca Mondiale o del Fondo monetario internazionale leggendo il capitolo filosofico sul feticismo della merce del Capitale di Marx? Ciò non accadde nemmeno in Unione Sovietica e Stalin non lo pretese mai non perché fosse un malvagio dittatore che aveva in uggia i filosofi ma perché era ben consapevole del carattere ancora largamente mercantile del paese del socialismo, come dimostra la sua concezione del valore esposta nel 1952 nell’opera I problemi economici del socialismo in Unione Sovietica. Tutta questa è grande storia, ma c’è anche una piccola storia. Da qualche settimana fra gli economisti italiani infuria la bufera. Un gruppo di loro che si qualificano non liberisti ha firmato una lettera di protesta per la nomina da parte del governo Draghi di alcuni altri, caratterizzatisi invece come dei ferventi liberisti, nella commissione presso la Presidenza del Consiglio che dovrà sovrintendere all’attuazione del Pnrr, il piano di spesa dei fondi europei per la ripresa post-pandemica. Come si possono ritenere affidabili per un simile compito costoro che esaltano acriticamente il mercato e demonizzano aprioristicamente la spesa pubblica? La lettera è stata criticata dalla stampa di destra, prevalentemente liberistica, come una indebita censura e addirittura come una caccia alle streghe, addebiti sdegnosamente rigettati da sinistra dove da qualche anno ormai, dopo la crisi del 2007, il fronte keynesiano ha ripreso nuovo vigore. È seguita qualche azione riparatoria, con la nomina da parte di qualche ministero di qualcuno del fronte degli anti-liberisti. Non è forse il governo Draghi un governo di unità nazionale? E cosa c’è di più nazionale dell’attuale costituzione economica vigente il cui spirito commerciale è da rianimare – lo si dica senza alcun riferimento alla pandemia in corso – quanto più intensivamente possibile? Ne usufruirà la pace del popolo affinché divenga finalmente perpetua, e ne uscirà ristorata la forza del denaro così efficace, come aveva capito Kant, tra tutte quelle in potere dello Stato. Quanto all’articolo segreto che impone allo Stato di udire i filosofi, questi ultimi mostravano di avere una troppo alta idea di se stessi già con lo stesso Kant, il quale li dipingeva come una classe per sua natura immune da spirito fazioso e incapace di cospirare. Fu per tagliare corto con tutte queste ciance che Marx se ne uscì con la famosa tesi secondo la quale i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo mentre ora si tratta di trasformarlo. Ed egli si accinse all’opera con una critica dell’economia politica che impose ai filosofi di studiare la scienza economica e agli economisti di rifiutare qualsiasi nomina governativa.