Nel suo Progetto filosofico per la pace perpetua Kant prevede un articolo segreto che prescrive l’obbligo da parte degli Stati armati per la guerra di prendere in considerazione le massime dei filosofi circa le condizioni che rendono possibile la pace pubblica. Il principio non era diretto tanto verso i governanti quanto piuttosto verso i giuristi che Kant vedeva come degli insidiosi concorrenti nell’influenza che i filosofi potevano esercitare sullo Stato. Compito del giurista infatti era di applicare le leggi vigenti e non di ricercare il loro miglioramento. I suoi argomenti quindi erano giustificazioni della forza a differenza di quelli del filosofo che, indagando la natura della politica in se stessa, erano basati sul consenso. Egli così, constatava Kant sconsolatamente, si veniva a trovare su un gradino molto inferiore. D’altra parte, lo stesso Kant prevedeva che ad imporre la pace tramite un diritto cosmopolitico sarebbe stata la forza del denaro in quanto la più efficace tra tutte quelle in potere dello Stato. Essa infatti, aggiungeva Kant, ben si accorda allo spirito commerciale che prima o poi si impadronisce di ogni popolo. Con queste affermazioni Kant riconosceva implicitamente l’avvento del capitalismo che avrebbe avuto come conseguenza la nascita di una nuova classe di concorrenti dei filosofi, cioè gli economisti. Così come i giuristi, costoro sarebbero stati i guardiani di quello spirito commerciale le cui leggi sarebbero state stabilite dalla scienza borghese per eccellenza, ovvero l’economia politica divenuta poi scienza economica. E tali leggi dunque, al pari di quelle dei giuristi, sarebbero state giustificazioni della forza attraverso cui lo Stato garantiva il mantenimento della costituzione economica capitalistica cui era formalmente organico. Sembrano rimasticature, come direbbe qualche spiritello giocoso, ma in morte di Donald Rumsfeld, già segretario della difesa con Gerald Ford e con George W. Bush, è stato ricordato che un giorno del 1974 il suddetto Rumsfeld e Dick Cheney, suo mentore, poi vice-presidente degli Stati Uniti con lo stesso Bush Jr., si sedettero in un ristorante di Washington con l’economista Arthur Laffer il quale disegnò per loro su un tovagliolo la curva che porta ancora il suo nome. Era uno dei teoremi base dei liberisti: tagliare le tasse non significa perdere gettito fiscale. E da lì sarebbe partita la cavalcata che con il nome in codice di “neoliberismo” arriva sino ai nostri giorni. Si dirà, ma forse che nel 1945 a Bretton Woods Harry Dexter White e John Maynard Keynes non fecero a loro volta dei disegnini con i quali spiegarono ai governanti dell’epoca le politiche di spesa pubblica che sarebbero poi rimaste in voga nei trent’anni successivi? Appunto, a conferma che la scienza economica, fatti salvi i suoi interni contrasti di scuola, è la scienza capitalistica per eccellenza le cui leggi gli economisti applicano per il mantenimento generale della costituzione economica vigente. Si è visto mai infatti un economista presiedere una qualche sessione di lavoro della Banca Mondiale o del Fondo monetario internazionale leggendo il capitolo filosofico sul feticismo della merce del Capitale di Marx? Ciò non accadde nemmeno in Unione Sovietica e Stalin non lo pretese mai non perché fosse un malvagio dittatore che aveva in uggia i filosofi ma perché era ben consapevole del carattere ancora largamente mercantile del paese del socialismo, come dimostra la sua concezione del valore esposta nel 1952 nell’opera I problemi economici del socialismo in Unione Sovietica. Tutta questa è grande storia, ma c’è anche una piccola storia. Da qualche settimana fra gli economisti italiani infuria la bufera. Un gruppo di loro che si qualificano non liberisti ha firmato una lettera di protesta per la nomina da parte del governo Draghi di alcuni altri, caratterizzatisi invece come dei ferventi liberisti, nella commissione presso la Presidenza del Consiglio che dovrà sovrintendere all’attuazione del Pnrr, il piano di spesa dei fondi europei per la ripresa post-pandemica. Come si possono ritenere affidabili per un simile compito costoro che esaltano acriticamente il mercato e demonizzano aprioristicamente la spesa pubblica? La lettera è stata criticata dalla stampa di destra, prevalentemente liberistica, come una indebita censura e addirittura come una caccia alle streghe, addebiti sdegnosamente rigettati da sinistra dove da qualche anno ormai, dopo la crisi del 2007, il fronte keynesiano ha ripreso nuovo vigore. È seguita qualche azione riparatoria, con la nomina da parte di qualche ministero di qualcuno del fronte degli anti-liberisti. Non è forse il governo Draghi un governo di unità nazionale? E cosa c’è di più nazionale dell’attuale costituzione economica vigente il cui spirito commerciale è da rianimare – lo si dica senza alcun riferimento alla pandemia in corso – quanto più intensivamente possibile? Ne usufruirà la pace del popolo affinché divenga finalmente perpetua, e ne uscirà ristorata la forza del denaro così efficace, come aveva capito Kant, tra tutte quelle in potere dello Stato. Quanto all’articolo segreto che impone allo Stato di udire i filosofi, questi ultimi mostravano di avere una troppo alta idea di se stessi già con lo stesso Kant, il quale li dipingeva come una classe per sua natura immune da spirito fazioso e incapace di cospirare. Fu per tagliare corto con tutte queste ciance che Marx se ne uscì con la famosa tesi secondo la quale i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo mentre ora si tratta di trasformarlo. Ed egli si accinse all’opera con una critica dell’economia politica che impose ai filosofi di studiare la scienza economica e agli economisti di rifiutare qualsiasi nomina governativa.
Politica
Un congresso mondiale delle culture
Ecco alcune notizie da un mondo alla rovescia. All’inizio di giugno di quest’anno di grazia 2021 Paxton Smith, una studentessa della Lake Highlands High School in Texas, parlando alla festa di diploma ha criticato le nuove restrizioni all’aborto varate nello Stato: «ho paura che i contraccettivi possano fallire, sono terrorizzata dal fatto che se vengo stuprata le mie speranze, aspirazioni, sogni e sforzi per il mio futuro non avranno più importanza. Voi non capite quanto sia disumano vedersi togliere l’autonomia sul proprio corpo»1. Dunque, la giovane Paxton non è terrorizzata perché può essere stuprata, bensì teme che i contraccettivi falliscano e che non possa poi abortire. Dà per scontato che sia una preda sessuale e ricerca i mezzi più efficaci, tra cui l’aborto, per evitare una gravidanza indesiderata che, togliendole il controllo del suo corpo, possa spezzare le sue speranze, aspirazioni, sogni e sforzi per il suo futuro. Importa poco poi che tutte queste belle cose debbano realizzarsi in un mondo dove essere stuprate è all’ordine del giorno. Le reificazioni che punteggiano questa concezione dei rapporti sessuali, i contraccettivi, lo stupro, l’aborto, il corpo, il futuro, rendono alieno l’appello finale a una umanizzazione che si vorrebbe conseguire con il segmento più debole di questa complessiva disumanità. Nel caso che segue l’alienazione è più classica e meno vertiginosa ma non meno impressionante. Un articolo a firma di Ludovica Bulian, a pagina 4 del «Giornale» del 27.6.2021, reca il seguente titolo: La minaccia dei sindacati: stop licenziamenti per quattro mesi. I sindacati cui si fa riferimento non sono gli incendiari sindacati di base, bensì i miti sindacati confederali CGIL, CISL e UIL. Eppure, per Monsieur le Capital anche la loro pacifica, beneducata richiesta di procrastinare i licenziamenti di ancora qualche mese è una intollerabile minaccia. Esopo e Fedro si danno ancora la mano e dalle origini della civiltà dello scambio la favola del lupo e dell’agnello si invera ancora una volta nei moderni rapporti di produzione di cui mitologicamente prefigurava l’avvento. In questo mondo alla rovescia non può mancare l’alienazione del coronavirus che si manifesta con una insensibilità alla contraddizione niente affatto dialettica. Nella mente collettiva infatti con appositi comandi ed esortazioni vengono eretti dei muri che separano il venir meno delle precauzioni di questi mesi dalla percezione del pericolo delle “varianti”. Il blocco della sintesi di questi due estremi darà luogo a contagi a basso regime, poche ospedalizzazioni, poche terapie intensive e molti infetti mal curati a penare nelle proprie abitazioni. Tutto questo affinché l’economia riparta. Ma che cosa accadrà se questa scissione si rivelerà un accomodamento illusorio? Che cosa accadrà se la pandemia riprende con forza? Le persone non sono preparate, hanno sospeso le loro abitudini pensando di potervi tornare a breve, nessuno ha loro spiegato che il cambiamento può essere permanente e nessuno ha detto loro cosa mettere al posto delle vecchie abitudini. Si parla loro ambiguamente di “rinascita” e “ricostruzione” evocando il dopoguerra e così finisce che non credono più neanche nella più modesta “ripresa”. I grandi che governano con la “comunicazione” non si rendono conto che da queste mezze bugie e mezze verità può solo derivare il caos, lo scontro, il disastro. L’ultimo rapporto sulle tendenze future stilato dal National Intelligence Council, sottorganismo della CIA, ha delineato gli scenari possibili per i prossimi vent’anni: il ritorno trionfale delle “democrazie”, un mondo senza guida, la coesistenza competitiva delle “democrazie” con la Cina, un mondo di contenitori separati l’uno dall’altro, la catastrofe2. Ma qui lo scenario della catastrofe rischia di avverarsi già l’anno prossimo. È interessante però come in questo documento la catastrofe viene caratterizzata. Anzitutto, la catastrofe è l’unico scenario in cui è prevista la mobilitazione delle persone. In tutti gli altri scenari gli individui sono sudditi del mercato, vittime del caos, intrappolati nei mondi a parte, ma comunque sempre individui passivi. A mobilitarli è dunque solo l’istinto di sopravvivenza. A questo siamo, la disumanizzazione prodotta da decenni di trionfi capitalistici avrebbe privato la società di ogni progetto per l’avvenire e l’avrebbe ridotta all’istinto primordiale della sopravvivenza. Non si sa come, però, ma il rimbalzo da questa regressione dovrebbe dar luogo ad uno Human Security Council composto da Stati ma anche da attori non governativi. Non più dunque le nazioni come riferimento bensì l’umanità. È sempre così, quando il capitalismo raschia il barile salta fuori l’umanitarismo. C’è chi però si porta avanti, come l’Unione Europea che ha appena insediato la Conferenza per il Futuro dell’Europa, 450 membri circa tra esponenti dei parlamenti nazionali, membri del Parlamento europeo, componenti della Commissione e del Consiglio d’Europa e infine rappresentanti dei cittadini degli Stati membri3. Come siano stati designati questi rappresentanti non è chiaro, essi comunque testimonierebbero dell’apertura all’immancabile “società civile”4, l’esercito politico di riserva che in democrazia calmiera le ambizioni troppo grandi di chi a turno governa. Immancabile anche la piattaforma digitale attraverso cui ogni cittadino nella propria lingua potrà interloquire sui temi della Conferenza, clima, donne, salute, valori, unione sociale, dialogo, cambiamenti, giustizia, trasparenza, nuovi trattati, meno sovranità, processi “bottom-up”5. È attesa una nuova Pentecoste che raccordi lingue e menti. Mentre USA e UE con i loro lunghi cannocchiali cercano di penetrare le brume del futuro, l’economia che governa il mondo si riunisce periodicamente nei suoi G7. È difficile dire cosa sia il G7 dal momento che non ha nessuna base giuridica o istituzionale. Nel recente vertice di Cornovaglia sono stati formulati i migliori propositi, equo commercio, un sistema commerciale riformato, una economia globale, un sistema fiscale globale, una rivoluzione verde, un nuovo progetto per l’Africa, una maggiore generosità del Fondo monetario internazionale per i Paesi bisognosi fino a 100 miliardi di dollari, tutto ciò in nome dei “valori” della democrazia in lotta contro le autocrazie degli Erdogan, dei Putin e soprattutto dei Xi Jinping. Questo manicheismo che si presenta inghirlandato dalle migliori intenzioni già solo teoricamente è alquanto malfondato. La democrazia infatti non è in nulla migliore dell’autocrazia perché, come osservava Kant, essa si fonda su un potere esecutivo in cui tutti deliberano su uno e nel caso anche contro uno (che dunque non dà il suo consenso), quindi tutti che però non sono tutti, ciò che costituisce una contraddizione della volontà generale con se stessa e con la libertà. La democrazia insomma come la più perfetta forma di dispotismo, quest’ultimo inteso come forma di governo in cui la volontà pubblica viene adoperata dal governante come sua volontà privata6. E siccome qui il governante è il popolo, qual è questa volontà privata popolare? Kant, che pudicamente chiamava gli incipienti stati capitalistici del suo tempo “stati commerciali”, non lo dice ma nel prosieguo della storia si è capito che quella volontà privata non era la volontà generale del popolo sovrano bensì quella particolare della classe capitalistica7. Per un lungo periodo tale classe si è fregiata del titolo altisonante di società cristiano-borghese8. Ma quando in essa è cresciuta come un corpo estraneo la società di massa che ha sradicato e spersonalizzato l’individuo, le incandescenti forze produttive si sono riversate nel nuovo involucro della società capitalistica globale. Molti interpretarono tale accomodamento come un progresso dell’umanità. Ma a ben pensarci la società capitalistica globale non ha costituito un avanzamento né nel regime politico (autocrazia, aristocrazia, democrazia) né nella forma di governo (dispotica o repubblicana), poiché si è venuta caratterizzando come una società tribale planetaria che ha il suo totem nella tecnologia e la cui lingua, cultura, religione e senso di identità ruotano attorno alla silente ma onninvasiva divinità della merce9. Di fronte a tale regresso, né il G7 ma neppure un Consiglio di sicurezza umana sembrano adeguati al compito di trarre fuori l’umanità dal vicolo cieco in cui si è cacciata. La prima cosa da fare sarebbe di mettere l’economia tra parentesi e, senza aspettare la catastrofe, immaginare un mondo che non dipende più dai suoi dettami. Questo potrebbe farlo un consesso mondiale in cui finalmente potrebbero prendere la parola tutti coloro che, condividendo tale presupposto, non sono più disposti a scambiare il principio di realtà con la dittatura di chi spaccia per realtà la propria volontà di dominio. Nella storia ci sono almeno due importanti esempi di tali consessi. Uno è costituito dai Concili che nei primi secoli del Cristianesimo modellarono la dottrina cristiana, l’altro dai Congressi dei partiti che tra Otto e Novecento forgiarono le ideologie moderne. Un Congresso mondiale delle culture dovrebbe decidere se il principio formativo deve essere esclusivamente quello del mettere in comune o quello dell’appropriazione privata e dovrebbe tendere non all’omogeneizzazione, come accade nel dispotismo dell’economia che indebolisce tutte le culture, ma all’unificazione come equilibrio risultante dal loro sviluppo generato dalla più viva emulazione.
- Monica Ricci Sargentini, Discorso sulla libertà sessuale. E il preside stacca il microfono, «Corriere della sera», 27.6.2021, p. 23. [↩]
- National Intelligence Council, Global Trends 2040, Marzo 2021, reperibile online. [↩]
- Conferenza sul futuro dell’Europa: Strasburgo, oggi la prima assemblea plenaria. Negli interventi, riferimenti a clima, donne, salute, valori, dialogo, giustizia, 19 giugno 2021, https://www.agensir.it/quotidiano/2021/6/19/conferenza-sul-futuro-delleuropa-strasburgo-oggi-la-prima-assemblea-plenaria-negli-interventi-riferimenti-a-clima-donne-salute-valori-dialogo-giustizia/. [↩]
- Paola Severino, Se l’UE si apre alla società civile, «la Repubblica», 28.6.2021, p. 23. [↩]
- Conferenza sul futuro dell’Europa: Strasburgo, oggi la prima assemblea plenaria. Negli interventi, riferimenti a clima, donne, salute, valori, dialogo, giustizia, cit. [↩]
- I. Kant, Per la pace perpetua. Progetto filosofico, in Id., Lo stato di diritto, a cura di N. Merker, Roma, Editori Riuniti 1973. Benché i testi raccolti in questa silloge siano parziali, la traduzione fattane da Nicolao Merker rimane insuperata rispetto a raccolte posteriori più complete. [↩]
- L. Colletti, Lezioni di filosofia politica (1957), Soveria Mannelli, Rubettino 2017. [↩]
- L. Colletti, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza 19734. [↩]
- F. Aqueci, Capitalismo e cognizione sociale, Roma, Tab Edizioni 2021. [↩]
Marxismo e transizione
Nel suo opuscolo L’uomo e la democrazia1, pregevole come tutti i suoi scritti, Lukács, nella foga di mostrare come Stalin non solo manipolasse il marxismo allo scopo di giustificare i suoi metodi di governo ma anche tacitasse il dibattito con le sue minacce poliziesche, si lancia in una critica della concezione della legge del valore, avanzata da Stalin nella sua opera della vecchiaia I problemi economici del socialismo nell’Unione sovietica (1952), che sbocca alla fine in un curioso ribaltamento di posizioni. Nel suo scritto, Stalin, quali che fossero le sue finalità politiche che qui non discuteremo, sostiene l’idea che la legge del valore, ovvero il tempo di lavoro che i fattori produttivi variano incessantemente così determinando il valore di scambio dei prodotti del lavoro, è legata all’esistenza della produzione mercantile, scomparsa la quale, spariranno sia il valore con le sue forme, che la legge del valore. È una veduta che forse in maniera troppo rozza e tranchant traduce il modo più indiretto e sfumato con cui Marx sostiene la stessa idea nel Capitale. Lukács invece sostiene che Stalin incorra qui in una “papera”2 e spiega per più pagine, riferendosi ad un brano finale del primo capitolo del Capitale dedicato al feticismo della merce, che in realtà secondo Marx la legge del valore rimane valida anche nel socialismo, mentre invece Marx in quel brano semplicemente suppone di far funzionare il socialismo come un modo di produzione retto ancora dal tempo di lavoro, allo scopo di spiegare a chi è mentalmente prigioniero delle categorie dell’economia politica borghese come in realtà funzionano produzione e distribuzione in un modo di produzione retto non più dalla spontaneità del mercato ma da un piano sociale fissato consapevolmente dai produttori3. La supposizione non è di poco conto. Se la legge del valore continuasse a essere in vigore anche nel socialismo e ancor più nel comunismo, non si avrebbe quella trasparenza dei rapporti tra gli uomini, tanto nella produzione quanto nella distribuzione, che invece manca nel capitalismo, dove invece la merce è quel feticcio misterioso che Marx descrive lungo tutto il capitolo in questione. È davvero sorprendente che proprio Lukács, che del feticismo e dell’alienazione di merce fu nel 1923 il riscopritore con la sua opera Storia e coscienza di classe, oscuri questo punto sostenendo che nel socialismo e nel comunismo la legge del valore, o tempo di lavoro, si estende e approfondisce perché in tali nuovi assetti sociali sempre più il lavoro diventa il primo bisogno della vita. È evidente infatti che qui vengono fusi due significati distinti di lavoro, ovvero lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana e lavoro come quantità sociale astratta, il primo significato attinente al comunismo, il secondo al capitalismo. Se si ripristina questa distinzione, si vede che la posizione di Stalin, benché meno sofisticata teoricamente, è paradossalmente più libertaria di quella di Lukács, poiché non pretende che una costrizione, la costrizione collettiva ancora vigente nel socialismo in costruzione a contribuire al lavoro come quantità sociale astratta, diventi un’auto-costrizione liberante, per giunta nemmeno operata autonomamente dall’individuo, ma effetto dello sviluppo delle forze produttive. Lukács, invece, con un kantismo implicito, il cui fulcro non è più la persona ma la specie che nei suoi avanzamenti produttivi impone alla persona una paradossale “libera necessità”, arriva a sostenere di fatto una tesi finalistica iperbolica poiché, opponendo la costante diminuzione tendenziale del lavoro socialmente necessario per la riproduzione della vita alla crescita tendenzialmente altrettanto costante del pluslavoro, e rinviando a un nebuloso domani in cui tale pluslavoro «può anche servire allo scopo sociale generale dello sviluppo della personalità»4, finisce per eternizzare uno sviluppo delle forze produttive determinato dalla reificazione di merce qualunque sia il regime di proprietà dei mezzi di produzione. Ora, Lukács è pensatore troppo sagace per essere sospettato di essere incorso lui in una “papera”. È probabile invece che nel momento in cui con il suo opuscolo apriva al ruolo dell’opinione pubblica e del dibattito nel processo di democratizzazione delle allora società socialiste sovietiche, egli volesse consolidare la base economica entro cui tale processo doveva svolgersi, il cui finalismo dal lavoro come quantità sociale astratta al lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana doveva essere stimolato da un rinnovato ruolo guida del partito e dello Stato. Se si pone mente a tutto ciò, si vede che la confutazione all’incontrario di Stalin da parte di Lukács non è affatto un curioso capitolo dell’esegesi marxista di un’epoca ormai tramontata ma riverbera ancora oggi, illuminandolo, sullo stato di cose presenti. Non è forse questo infatti il dilemma della Cina odierna, dove la crescita impetuosa delle forze produttive determina un socialismo dove il pluslavoro è più quantità sociale astratta che strumento di sviluppo onnilaterale dell’essenza umana? E non è un problema della Cina odierna quello di un partito-Stato che si legittima perseguendo la crescita costante del pluslavoro, rinviando però sempre a un indeterminato domani il giorno in cui tale pluslavoro potrà servire allo scopo sociale generale dello sviluppo della personalità?
Nel suo opuscolo, e qui veniamo ai dolori dell’Occidente, Lukács più volte richiamandosi a Lenin fa riferimento all’abitudine quale categoria sociologica generale. Lenin concepiva il comunismo come lo stato di cose morali in cui la morale predicata da millenni viene finalmente a poco a poco per abitudine praticata da tutti. Lukács accetta questa concezione ma al tempo stesso, con il suo tipico modo esegetico di argomentare, sottolinea come Lenin avesse in mente qualcosa di più di una semplice generalità sociologica astratta e pensasse invece a una dialettica dell’abitudine per la quale le istituzioni dello Stato mirassero ad abituare gli uomini a quei comportamenti spontanei ma per tanto tempo rimasti solo puramente verbali. Ora, si chiede Lukács, qual è nella società capitalistica la dialettica dell’abitudine? La dialettica dell’abitudine è quella di consolidare, attraverso istituzioni quali ad esempio il diritto, l’egoismo dell’uomo quotidiano, abituandolo a considerare il prossimo solo come limite dell’esistenza e della prassi proprie. Perché tale egoismo economico venga superato c’è bisogno allora di qualcosa che nella realtà sociale non sorge spontaneamente ma derivi da un rivoluzionamento non solo dell’ideologia ma anche dell’essere e dell’operare materiale della vita quotidiana5. Lungo tutto il suo scritto, Lukács individua due forze capaci di operare una tale trasformazione. La prima l’abbiamo già vista ed è l’azione sistematica dello Stato e di tutte le sue istituzioni per formare negli uomini delle nuove abitudini morali. Ciò vale però nei periodi storici di “pausa”. Ci sono invece periodi di movimento in cui tale forza è costituita dall’entusiasmo rivoluzionario delle masse che fa sì che le questioni della vita quotidiana si colleghino organicamente con le grandi prospettive politiche. Già quando Lukács abbozzava questa dialettica dell’abitudine egli stesso però denunciava l’apatia e l’indifferenza delle masse rispetto alla fase rivoluzionaria del primo ventennio del secolo XX e con uno sforzo volontaristico egli allora tornava ad affidarsi al ruolo dello Stato. Nel tempo intercorso dal suo scritto a oggi, non solo tale indifferenza, all’Est come all’Ovest, si è approfondita ma lo Stato, quello borghese rimasto in piedi, è fortemente deperito e le abitudini sono dettate sempre più dai condizionamenti del mercato. Ma è inutile prodursi in geremiadi contro tale stato di cose. Piuttosto va osservato come una forza che non è lo Stato né l’afflato rivoluzionario, ovvero il coronavirus, abbia prodotto un cambiamento di abitudini che nessuno prima poteva mai immaginare. Prima della pandemia era considerato naturale fare lunghi viaggi in auto o con i mezzi pubblici per raggiungere ogni giorno il proprio posto di lavoro. Oggi si registrano forti resistenze a tornare a quelle abitudini di cui si è potuto constatare repentinamente l’alienante artificiosità. E così si potrebbe continuare con esempi simili restando sempre nella cornice quotidiana dell’uomo economicamente egoistico. Ma in generale il coronavirus ha realizzato bruscamente quella “decrescita” materiale e quella “transizione” ideologica che tanti si industriavano a realizzare con dibattiti e provvedimenti normativi. Cosa sono infatti quelle cifre che segnalano l’arretramento catastrofico del Prodotto interno lordo rispetto all’ultimo anno prima della pandemia? È vero, la pubblicità come un disco rotto ha continuato a girare, ma interi settori produttivi si sono contratti per milioni di ore di lavoro la cui inutilità è apparsa all’improvviso lampante. Purtroppo il coronavirus, sia nato a Fort Detrick o a Wuhan, è solo negazione che in questo anno abbondante di pandemia nessuno si è curato di riempire con un piano di vita alternativo. Quando si prospetta una qualche coordinazione, l’uomo egoistico leva subito le sue proteste contro la “pedagogia sociale”, così le vecchie abitudini riconquistano facilmente il terreno perduto, e resta solo la lezione che per indurre i cambiamenti di cui si avverte sempre più l’esigenza c’è bisogno di un potere la cui assolutezza sia pari alla gravità dei problemi da risolvere.
- G. Lukács, L’uomo e la democrazia (1968), trad. it. Roma, Lucarini 1987 [↩]
- G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 92 [↩]
- K. Marx, Il Capitale (1867), trad. it. a cura di A. Macchioro e B. Maffi, Torino, UTET 1974, libro I, sezione I, cap. I, p. 157 [↩]
- G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 93 [↩]
- G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 68 [↩]
Su due recenti ricette per l’avvenire
Due recenti libri di critica filosofica dalle evidenti ambizioni politiche discutono di come rilanciare il fronte alternativo del lavoro nella lotta di classe attualmente in pugno al capitale.
Il primo1, da una vasta esegesi del pensiero di Gramsci, già oggetto di un precedente lavoro2, fa discendere il compito di tutelare l’interesse dei dominati da uno Stato visto come fortilizio resistenziale contro la competitività sconfinata e come ultimo baluardo del primato della potenza politica sull’economia. A tal fine, lo Stato dovrà nazionalizzare i principali mezzi della produzione, assicurare salari dignitosi e rivitalizzare i sindacati. Tutto ciò sulla base di una teorizzazione rivoluzionaria capace di tradursi gramscianamente in “senso comune”, ovvero in egemonia culturale e politica risultante da una riforma intellettuale e morale delle masse nazionali-popolari. Questa lotta dovrà basarsi sull’accettazione da parte di tali masse delle regole della democrazia parlamentare in connessione sentimentale con un nuovo gruppo intellettuale in grado di far brillare una progettualità centrata sulla deglobalizzazione dell’immaginario, la rieticizzazione della società, la risovranizzazione del mercato planetario, il riorientamento politico non atlantista, la lotta per l’emancipazione degli sfruttati per una società democratica e non classista di individui liberi.
Il secondo libro3, volto a demistificare con categorie filosofiche di matrice hegeliana teorie e pratiche sedicenti democratiche dietro cui si celerebbero le pretese imperialistiche di un Occidente dominato dalla potenza americana, all’opposto del particolarismo statuale propugnato dal libro precedente propone nelle sue conclusioni una piattaforma ideologica che, ispirata a teorici quali Gramsci e Lukács, Said e Fanon, Togliatti e Mao, possa costituire la base di una rinnovata forza interessata a promuovere un universale politicamente concreto alternativo al falso universalismo della globalizzazione. A tal fine, riprendendo distinzioni avanzate a più riprese dal pensiero rivoluzionario cinese tra un Primo, un Secondo e un Terzo mondo, si sottolineano le differenze esistenti tra gli Stati Uniti, superstiti del Primo mondo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e l’Unione Europea esponente di un Secondo mondo oscillante tra le pretese egemoniche del Primo mondo e le politiche di accordo e di cooperazione portate avanti dal Terzo mondo. La rinnovata forza promotrice dell’universale politicamente concreto dovrebbe, allora, nel campo ben circoscritto della questione europea, mettere in atto tre procedure politiche, ovvero la lotta contro l’ideologia “eccezionalistica” del “secolo americano” per isolare l’asse USA-Israele e assegnare maggiore autonomia all’UE anche con uno sganciamento dalla NATO e dalle politiche imperialistiche americane; la lotta per un’estensione dei confini dell’UE dall’Atlantico agli Urali, sulla base di un policentrismo già di marca togliattiana in grado di integrare economie emergenti quali la Russia e la Cina per configurare un’arena internazionale multipolare e maggiormente democratica; una maggiore coordinazione infine tra le forze democratiche e anticapitaliste europee, per una lotta di classe all’interno dell’UE finalizzata a maggiori diritti sociali, dignità del lavoro, pianificazione economica volta allo sviluppo delle forze produttive del continente.
Come si vede, i due programmi, più semplice il primo, più articolato il secondo, accomunati dal rifiuto dell’egemonismo americano e dalla scelta anticapitalistica si dividono, però, circa il raggio d’azione e gli strumenti con cui porre in essere queste opzioni. Nel primo programma, le poderose operazioni di rovesciamento dei rapporti tra capitale e lavoro, dalle nazionalizzazioni alla redistribuzione della ricchezza dal profitto al salario, vengono messe a carico di uno Stato teso a restaurare la sovranità nazionale nel segno dei dominati. La domanda perciò è da dove esso trarrà questa rinnovata potenza leviatanica e con quali strumenti i ceti subalterni dovranno appropriarsi dei suoi apparati di forza e di consenso. L’unica indicazione in tal senso è che essi dovranno muoversi dentro il recinto della rappresentanza parlamentare, sullo sfondo di una riforma intellettuale e morale in grado di assicurare l’egemonia culturale con la quale operare altrettante poderose operazioni sovrastrutturali quali la deglobalizzazione dell’immaginario e la rieticizzazione della società. Ma cosa intendere per “cultura”? Sono le idee già costituite che un ceto intellettuale rivoluzionario infonde nella massa nazionale-popolare per trarla dall’oscurità in cui giace, oppure si tratta di individuare un nuovo principio educativo e le relative istituzioni che lo inverino? Nell’uno come nell’altro caso le questioni che si pongono sono assai complesse. Perché sia tale, una cultura come contenuti storicamente stabiliti impone delle scelte che la stabilizzino rispetto alle infiltrazioni migratorie e al deperimento demografico, altrettanto quanto la cultura come principio educativo la quale, inoltre, rimette in gioco i rapporti con le istituzioni educative esistenti, dalla Chiesa cattolica alla scuola ai vecchi e nuovi media, e richiede una valutazione critica dell’operato delle antiche formazioni politiche dei subalterni per non doverne ripetere gli stessi errori. Purtroppo l’autore che, come già detto, è al suo secondo libro sull’argomento, continua a non dire nulla su tali questioni, sicché il suo programma sembra risolversi in un fraseggiare che dovrebbe imporsi per la forza intrinseca delle sue formule.
Venendo al secondo programma, si individua in esso un economicismo che, ben dissimulato dal ricorso alle categorie dialettiche hegeliane, emerge chiaramente quando, trattando dei rapporti da instaurare con Russia e Cina, si privilegia il loro carattere di “economie emergenti”, come se in questi paesi non esistesse una fioritura sovrastrutturale storicamente determinata che essi stessi rivendicano. Basti pensare all’eurasiatismo che, costituendo un ingrediente ideologico essenziale benché strumentale nella complessiva visione politica di Putin, rimette in gioco il rapporto con la tradizione ortodossa grande-russa quale matrice degli autentici valori cristiani. Altrettanto si può dire del multipolarismo di cui si fa banditrice la Cina contemporanea, la cui base non è certo l’internazionalismo proletario della Cina degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, bensì un’introiezione dello spazio mondiale nell’ideologia interna dell’armonia confuciana quale condizione per prolungare all’esterno lo sviluppo nazionale delle forze produttive. Pensare che tutto ciò possa passare in secondo piano rispetto ad accordi di cooperazione economica e finanziaria significa nutrire la stessa fiducia nell’azione omogeneizzatrice dell’economia degli adepti della globalizzazione che si vuole combattere. C’è poi in questo programma una sorprendente sottovalutazione del capitale finanziario, sicché i contrasti intercapitalistici vengono calcolati in termini di basi militari disseminate in giro per il mondo, guerre intraprese attivamente, conflitti cui ci si accoda. Uno schema che serve ad attenuare le responsabilità dell’UE, raffigurandola come un’entità che nelle sue obbligate oscillazioni tra Primo e Terzo mondo può essere utile per minare l’egemonismo americano. Ma sminuire il fatto pur noto che il capitalismo da tempo sublima nei flussi finanziari il “distruttivismo” della guerra e il “produttivismo” dell’industria, impedisce di evidenziare i divergenti interessi finanziari non solo tra USA e UE ma all’interno della stessa UE, all’origine delle politiche austeritarie che deprimono il salario e perpetuano i dualismi economici. In una tale gabbia, dunque, è impensabile per un paese come l’Italia poter affrontare il divario tra Nord e Sud, questione su cui in questo programma si sorvola del tutto, e in generale l’intento di perseguire in essa tutti quegli avanzamenti del lavoro fissati nel programma appare un miraggio di cui Lenin, che nella bibliografia del libro è citato da tutte le possibili edizioni in italiano, sorriderebbe, lui che già nel 1916, per nulla in soggezione per il fatto che tra i fautori dell’idea di un’Europa unita ci fosse addirittura l’illustre Napoleone, aveva mostrato che in regime capitalistico gli Stati Uniti d’Europa sono impossibili o reazionari. In questo programma, infine, rispetto a quello precedentemente discusso, c’è una particolare insistenza sullo sviluppo delle forze produttive del continente, sorta di adesione alla stessa lettura “sviluppistica” del marxismo adottata in Cina negli ultimi trent’anni. Ma questa lettura, oltre a risultare più arretrata non solo dei fautori della decrescita ma di certe contestazioni riformistiche della dittatura del Prodotto interno lordo, comporta l’assoluta mancanza di attenzione per l’alienazione del lavoro e in generale per i fenomeni dell’alienazione sociale, la vera pietra di inciampo per il marxismo orientale che, se si esclude il caotico tentativo maoista della Rivoluzione culturale, non a caso considerata dalla dirigenza cinese da Deng Xiaoping in poi come la parte erronea dell’eredità di Mao, ha sempre eluso la dimensione ontologico-sociale dell’edificazione socialista invocando un movimento dialettico le cui scansioni però sono determinate da una dirigenza che si legittima spingendo continuamente in avanti lo sviluppo delle forze produttive. Di fronte a questa cattiva circolarità, sarebbe un ben grave arretramento per il già malconcio marxismo occidentale recedere dalle acquisizioni che, dal Marx dei Manoscritti economico-filosofici al Lukács di Storia e coscienza di classe4, lo hanno visto all’avanguardia in questo campo, e soprattutto sarebbe un drammatico offuscamento dell’unica prospettiva che può rilanciare il socialismo in Occidente e quindi nel mondo, ovvero il porre al centro del programma di una rinnovata forza politica anticapitalistica i problemi dell’ontologia sociale critica.
- D. Fusaro, Bentornato Gramsci, Milano, La Nave di Teseo 2021. [↩]
- D. Fusaro, Antonio Gramsci. La passione di essere nel mondo, Milano, Feltrinelli 2015. [↩]
- E. Alessandroni, Dittature democratiche e democrazie dittatoriali. Problemi storici e filosofici, Roma, Carocci 2021. [↩]
- Di Lukács in questi ultimi anni non sono mancate traduzioni e curatele di nuovi testi, ma in modi tali che Solmi, Codino, Cases e tutti gli altri che nel secolo scorso si occuparono di lui onorevolmente si stanno ancora rivoltando furiosamente, vivi o morti che siano. Non resta che sperare in meglio per il futuro. [↩]
Europa: Napoleone o Lenin?
Napoleone era un europeista. Il duecentesimo della morte ha offerto l’occasione di riesumare dal Memoriale di Sant’Elena le sue affermazioni con cui inscrive le sue gesta nel progetto di creare la nazione europea1. In Europa, egli calcolava, «si contano più di 30 milioni di Francesi, 15 di Spagnoli, 15 di Italiani, 30 di tedeschi… Di ciascuno di questi popoli io avrei voluto fare un unico grande corpo nazionale. Quali prospettive di forza, di grandezza e di prosperità ne sarebbe derivata!». Per la Francia, continuava Napoleone alternando il presente al passato, il rimpianto al progetto come solo sanno fare i Cesari cui, una volta atterrati, è concesso ancora uno scampolo di vita, «la cosa è fatta, in Spagna non è possibile, per istituire la nazione italiana io ho impiegato vent’anni, quella dei Tedeschi esige ancor più pazienza, io ho potuto soltanto semplificare la loro mostruosa complicazione». Quale lo scopo di tanto affaticarsi? Così come aveva uniti i partiti in Francia, così pure aveva preparato «la fusione dei grandi interessi dell’Europa» senza stare a preoccuparsi del malcontento delle popolazioni perché «il risultato le avrebbe di nuovo ricondotte a me». “Me”, come fu chiaro a Hegel vedendolo passare a cavallo per le vie di Jena, si riferisce a Napoleone, allo spirito del mondo e, possiamo aggiungere prosaicamente, al dante causa di entrambi, quel capitale che reclama la sua dittatura ma assicura il risultato. Infatti, se quel “Me” lo avessero lasciato fare, già a quel tempo «l’Europa sarebbe diventata di fatto un popolo solo; viaggiando ognuno si sarebbe sentito nella patria comune». È stato solo un ritardo. Sono passate alcune generazioni, francesi, spagnoli, italiani, tedeschi, ognuno si è attardato nella propria complicazione più o meno mostruosa, ma alla fine i giovani, cui Napoleone affidava il compito di vendicare l’oltraggio dell’esilio a Sant’Elena, hanno capito e Schengen è venuta: «tale unione dovrà venire un giorno o l’altro per forza di eventi. Il primo impulso è stato dato, e dopo il crollo e dopo la sparizione del mio sistema io credo che non sarà più possibile altro equilibrio in Europa se non la lega dei popoli». Di questo equilibrio che porta l’impronta del Me a cavallo, di questa Unione Europea che garantisce il risultato, non tutto però è ancora perfetto. A distanza di duecento anni Napoleone insiste: «abbiamo bisogno di una legge europea, di una Corte di Cassazione Europea, di un sistema monetario unico, di pesi e di misure uguali, abbiamo bisogno delle stesse leggi per tutta Europa. Voglio fare di tutti i popoli europei un unico popolo… Ecco l’unica soluzione che mi piace». Pesi, misure, sistema monetario unico, ci si è portati avanti, per il resto si sta provvedendo seguendo la regola empirica che il Còrso così enunciava: «quando si acquista pratica degli affari, si dispregiano le teorie e ci si vale di esse come i geometri, non per procedere in avanti per linea retta, bensì soltanto per mantenere la propria direzione».
Di questa Europa di geometri ambiziosi di marchiare la propria direzione nella carne del mondo, cento anni dopo Lenin decifrò la vera natura senza lasciarsi incantare dalla sirena della patria comune, evidenziando che «gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari»2. Impossibili perché l’accordo risultante dalla napoleonica lega dei popoli non poteva essere altro che una spartizione, e in regime capitalistico non è possibile altro principio di spartizione che la forza. Reazionari perché il loro scopo sarebbe stato all’interno di schiacciare il socialismo, all’esterno di frenare lo sviluppo più rapido degli Stati allora emergenti, l’America e il Giappone. L’impossibilità degli Stati Uniti d’Europa è stata provata dalle terribili prove di forza delle due guerre mondiali. Il loro carattere reazionario si è rivelato senza neanche bisogno di unirsi formalmente, mandando avanti come mazzieri fascismo e nazismo per sterminare il socialismo e opporsi alle nuove e più dinamiche realtà capitalistiche emergenti. Eppure, si dirà, dopo quei cataclismi attorno all’euro una certa unione è nata – anche se c’è stato l’abbandono degli inglesi che, come si sarà notato, Napoleone neanche considera fra i popoli europei da riformare – e con tale forma di unione sembrano cessate tanto le guerre quanto le dittature e l’Europa non sembra più una minaccia per il maggior dinamismo dei nuovi mondi capitalistici. Aveva dunque ragione Napoleone e torto Lenin? Gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sono non solo possibili ma anche democratici e pacifisti? Se si allarga la visuale dei due punti di vista, si vede che le questioni in gioco sono più complicate di queste domande. Al tempo di Napoleone l’Europa era il mondo e gli Stati Uniti d’America si scorgevano appena all’orizzonte, ma già Napoleone invocava «l’applicazione del Congresso Americano per la grande famiglia europea». Per Lenin, invece, l’orizzonte sono gli Stati Uniti del mondo come forma statale ultima e provvisoria che la completa vittoria del comunismo avrebbe fatto sparire. Due sogni planetari simili ma opposti, l’aspirazione visionaria ad un’unificazione capitalistica mondiale che comincia a prendere coscienza di se stessa e la lotta per un’unione di libere nazioni senza Stato che si divincola dalle legalità dello sviluppo economico. In entrambi, l’Europa è il punto su cui fare leva che però sparirà nel risultato finale. L’unificazione capitalistica mondiale è andata molto avanti e con la globalizzazione sembra oggi trionfare anche se qui e là si aprono le crepe sovraniste che sembrano preludere a una ricaduta all’indietro. L’unione di libere nazioni senza più il carico dello Stato sembra invece tramontata con la fine del cosiddetto socialismo reale. Lenin, però, come del resto Napoleone, non si abbandonava alla realtà onirica ma i sogni erano visioni modellate sui dati empirici. E rispetto a Napoleone egli aveva il vantaggio di poter osservare un organismo economico che riteneva di poter forzare proprio perché più sviluppato e, grazie anche alle lotte operaie, meglio conosciuto teoricamente nei suoi punti di forza e debolezza. Così, partendo dal principio che l’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo, prevedeva che è possibile il trionfo del socialismo all’inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico preso separatamente, ma nel quadro generale di una rivoluzione socialista considerata non come un atto singolo, bensì come un lungo periodo di tempestose scosse politiche ed economiche, della più acuta lotta di classe, di guerra civile, di rivoluzioni e di controrivoluzioni. Se Lenin fosse vivo, dunque, giudicherebbe che la partita è aperta e predisporrebbe al meglio le forze per tornare a battere il suo Napoleone, il quale da geometra provetto starebbe ben attento a mantenere la propria direzione senza farsi intrappolare da false teorie che assicurano la più schiacciante vittoria nella lotta di classe. Gli austeritari e i flexicuristi che governano ormai non più solo l’Europa ma l’intero mondo capitalistico e, dall’altra sponda, coloro che dubitano della rivoluzione e gettano nel fango le sue insegne, farebbero bene ognuno per proprio conto a ripassarsi queste lezioni per riportare lo scontro a livello della storia che non gestisce ma crea la vita dell’essere sociale.