I più pensosi rilevano che una delle conseguenze della pandemia in corso è l’accentuarsi del conflitto tra Stato e regioni, e subito ti cominciano a parlare di quella calamità che è stata la riforma del titolo V della Costituzione. Ma c’è un significato di questo contrasto che non sia riconducibile a una dotta ma arida questione di diritto pubblico? Da dove sbuca fuori questo regionalismo che in pochi anni ha trasformato l’azzimata palandrana di Cavour in un chiassoso vestito di Arlecchino? Qui è bene ricordarsi della lezione del vecchio ma sempre attuale materialismo storico che insegna che sulla struttura economica si eleva la gigantesca sovrastruttura giuridica e politica ecc. ecc. E se la struttura italiana è sempre stata un organismo produttivo vivace, capace di produrre enormi ricchezze, non ha mai però saputo prolungarsi in una sovrastruttura che completasse e difendesse l’intera formazione nazionale. Alla metà del ‘500, in assenza di tale usbergo si ebbe la perdita del controllo dei propri interessi che diede il via libero definitivo al saccheggio da parte delle nuove potenze europee della ricchezza accumulata nei quattro secoli precedenti e causò la decadenza dei tre secoli successivi terminata solo con il Risorgimento. D’altra parte, il Risorgimento poté avviarsi grazie al portato giuridico e politico della Rivoluzione francese, sicché si può dire che se la borghesia comunale mancò di forza creativa perché non seppe annodare l’associazionismo cittadino in un saldo legame federale, quella risorgimentale creò il suo Stato per forza mimetica, senza un moto interiore quindi che fondesse in un tutto organico le singole parti che per secoli avevano languito le une separate dalle altre. Ciò nonostante, proprio perché caratteristica della struttura italiana è di essere quell’organismo capitalistico produttivamente vivace che si diceva, il nuovo Stato, benché spesso incespicando e addirittura a volte cadendo rovinosamente, assolse in parte quella funzione di corazza in grado di proteggere e promuovere la produzione di ricchezza nazionale, come si vide soprattutto nel trentennio 1945-1975, quando anche la vecchia divisione tra Nord e Sud, risalente al modo in cui l’Italia venne fuori dai secoli del disfacimento romano, fu in qualche misura intaccata. Si ebbe quindi in quest’epoca di relativa rinascenza un nuovo e imponente accumularsi di ricchezza che da qualche decennio è concupita dai concorrenti capitalismi ormai non più solo europei, parallelamente alla ricorrente incapacità di proteggerne il perimetro con una adeguata sovrastruttura. Il regionalismo, allora, portato avanti con argomenti pseudo-federalistici è l’alienazione in una politica avulsa dalle concrete sfaccettature della struttura produttiva italiana, che ha come protagonisti non più i casati nobiliari, i capitani di ventura o le meteore sorte dai ceti subordinati come nei secoli dei Comuni, ma le fazioni, i “leader” e le cuoche ambiziose di governare lo Stato che emergono dall’incessante processo elettorale, divenuto lo strumento per accaparrarsi briciole di ricchezza nazionale, nel mentre che gli altri capitalismi depredano le fortezze e casematte in cui nei decenni scorsi si è cristallizzato il vitalismo produttivo della struttura. È un altro ciclo borghese che si compie nel segno del fallimento, senza che dai subordinati, nel frattempo addirittura sdegnosi di sentirsi definire “subalterni”, venga un progetto nuovo che pure alla metà del secolo scorso per un momento sembrò prendere corpo. Tutta la nazione così ancora una volta si inebria del gioco machiavellico della politica mentre, e chissà per quanto tempo, perde di nuovo il controllo dei propri interessi.
Politica
Il bordello delle nazioni
In una nota sul Mezzogiorno qui pubblicata lo scorso 13 agosto 2020, si indicavano le tre condizioni materiali concretamente storiche per risolvere il conflitto tra forze produttive e modo di produzione capitalistico che grava sul Sud e sull’intera nazione, ovvero priorità alla domanda interna, governo del lavoro su tutta la produzione di interesse generale, edificazione di una nuova politica dell’interesse nazionale. La vicenda dei porti, di cui l’acquisto del porto di Trieste da parte della società tedesca che gestisce quello di Amburgo è solo il prologo, serve da verifica immediata di tale schema. Intanto, c’è un antefatto, il porto di Gioia Tauro. Anch’esso trent’anni fa fu acquistato dai tedeschi che, così controllandolo, eliminarono un concorrente per i loro porti del Nord. Non si fa peccato a pensare che l’acquisto neo-asburgico di quello di Trieste abbia lo stesso scopo. Ma adesso ci sono i cinesi che si interessano ai porti del Mediterraneo per lo sbocco a mare della loro Via della Seta. I cinesi hanno già il Pireo, e qui entra in ballo il Mezzogiorno con i suoi porti di Taranto, Palermo, Augusta e Napoli. Il vecchio mondo atlantico riuscirà a contenere la loro avanzata o, presto, di memorandum in memorandum, qualcuno di questi porti finirà nelle loro mani? Il fatto è che questo vecchio mondo, dagli americani ai tedeschi, non ha più nulla da offrire in termini di mero sviluppo economico, che non sia deflazione e qualche spicciolo che sgocciola da giochi geostrategici vetusti, per i quali anzi vengono richiesti maggiori contributi. I cinesi, invece, che hanno molti soldi e altrettante ambizioni mondiali sono pronti a costruire gratis infrastrutture, centri commerciali, grandi alberghi. Un bengodi per le forze interne emerse e sommerse che hanno visto sempre in questi termini lo sviluppo del Mezzogiorno. I cinesi, insomma, possono essere la mazzata finale per un Meridione la cui costa, affetta dal gigantismo economico, perderebbe ogni rapporto con l’interno, destinato ad un deperimento cronico. Una prova? Perché tanto accanimento contro l’esperimento di sviluppo non economicistico ma sociale di Riace? Solo per pregiudizio contro i “negri”? Ma via! Il pericolo che un tale sviluppo “povero” potesse diffondersi in altri centri era grandissimo, quindi bisognava stroncarlo sul nascere. Cosa fa Roma di fronte a queste contraddizioni? Lascia che lo spelacchiato lupo atlantico travestito da Asburgo si riprenda Trieste anche se Trieste non ne trarrà gran beneficio, e blandisce i cinesi contando sul fatto che la debolezza crescente del fronte occidentale possa portare ad un loro discreto ingresso nell’inceppata economia subalterna meridionale. Non è perseguimento dell’interesse nazionale ma semplice equilibrismo che intensifica i difetti dello storico dualismo, e tutto ciò perché, dovendo rimettere al centro il governo del lavoro, non si vuole mettere in discussione l’architrave esportadore di questo falso sviluppo che, coronavirus permettendo, viaggia all’1% annuo di “crescita”. Il risultato di tanta pervicacia è che l’Italia è ormai il “bordello” delle altre nazioni, ma chi la governa, dai volponi del PD ai volpacchiotti del M5S, pensa di essere tornato al centro del mondo solo perchè alzandosi dal letto del vecchio amante atlantico può infilarsi nella stanza attigua dove attende l’ospite cinese cui indirizzare allusivi fanaletti.
Sinistra testuale
Caro Pippo,
una cosa che non farò mai è di mettermi a difendere le opinioni e le proposte politiche di Goffredo Bettini, ma ho avuto un soprassalto quando ho letto nell’ultima uscita del tuo Diario politico1 che egli avrebbe affermato che il risparmio privato (corsivi tuoi) è una rendita inerme e improduttiva, una manomorta da volgere a impieghi produttivi. Riformisti, sì, ma non si può arrivare a tanta efferatezza. Così, sono andato a recuperare il testo dell’articolo in cui Bettini avrebbe fatto quell’affermazione, un articolo sul Foglio del 21 agosto scorso di cui, nella inazione estiva del vallone in cui a volte ti avventuri, attirato dai manicaretti della mia padrona di casa, e che io risalgo per la reciproca, mi erano arrivati solo dei refoli sciroccosi. Ed ecco dunque il passaggio intero da cui tu trai quelle spinose parole:
Giorgio Gori ha invocato, giustamente, un sostegno alle forze produttive. Ma detta così non spiega tutto. Questo obiettivo va tutt’uno con la lotta alla rendita, che è la vera metastasi che ha corroso e distorto l’Italia. Il capitalismo italiano è stato in gran parte assistito. Si è intrecciato con la speculazione finanziaria. Si è delocalizzato, internazionalizzato. E’ sfuggito dalle sue responsabilità nazionali. Ha investito poco sull’innovazione e la ricerca rispetto agli altri paesi europei. I suoi profitti li ha riparati all’estero. La rendita sono gli enormi patrimoni inermi e improduttivi. Il risparmio privato, impaurito e dunque non circolante. E per quanto riguarda il lavoro e il non lavoro, la rendita è un sostegno pubblico poco attivo, poco formativo, mal indirizzato; che alla fine genera zone di assistenza apatica2.
Ora, lasciando stare Giorgio Gori che, dopo quanto accaduto a Bergamo durante l’ondata di marzo della pandemia, in un paese normale si sarebbe dovuto ritirare da tempo dalla vita politica, quello che dice Bettini è davvero un po’ meno allarmante di quanto tu, nella sintesi fulminea che ti coglie quando ti imbatti in qualcosa o qualcuno che anche da lontano reca tracce anche false della fu falce-e-martello, gli attribuisci. Manifestamente, infatti, di costituire una rendita inerme e improduttiva sono accusati gli enormi patrimoni, mentre il risparmio privato, benché obliquamente accomunato alla rendita, viene solo rimproverato di essere impaurito e dunque non circolante. Intendiamoci, sono sempre valutazioni “riformistiche”, ma non efferate. Tutto bene, dunque? No, tutto male, perché il vero punto debole delle posizioni di Bettini e dell’ormai trentennale “riformismo” che egli, assieme a un pugno di politici e di consiglieri del Principe – una consigliera, Claudia Mancina, nell’articolo in questione Bettini addirittura la gratifica citandola per l’“acutezza” del suo “realismo”, non senza prima però avere manifestato tutto il suo disprezzo per il cacadubbismo dei filosofi, categoria dalla quale evidentemente la Mancina grazie al “riformismo” si sarebbe beata lei affrancata, dicevo, il vero punto debole di quell’ormai frusto riformismo è la tiritera sul capitalismo italiano che non innova, che si fa assistere, che non è abbastanza nazionale, insomma un capitalismo che non è carogna sino in fondo così come dovrebbe essere secondo la sua natura. Capitalismo invece che se fosse pienamente tale, alla sua testa naturalmente non ci dovrebbero stare i capitalisti, ma i riformisti, che finalmente potrebbero sgommare a duecento all’ora su un fiammante sviluppo delle forze produttive. Altrui. Infatti, l’unico concetto che è loro rimasto di un marxismo appena orecchiato è che l’egemonia equivale a gestire con i sandali ai piedi lo sterco altrui, ingentilendo il tutto con dei libretti di poesia e molto amore per il cinema, secondo gli insegnamenti di Pietro Ingrao. Ora, che con queste perfidie angeliche, con questo francescanesimo sghembo, con questo evangelismo di furbe colombe in un presunto mondo di serpenti, abbiano proprio stufato, Bettini & Co. non lo vogliono proprio capire, anzi, si ostinano a proporsi come l’unica sinistra possibile in un mondo cui, come acutamente ammonisce la sullodata Claudia Mancina, bisogna realisticamente adeguarsi. Ma qui, caro Pippo, ti vedo già sbadigliare, perché, lo so, poco ti importa in sé della sinistra, che però, ne converrai, va combattuta con esattezza testuale.
Un caro saluto,
Franco.
Sud, struttura e sovrastruttura
La letteratura sul Sud è un enorme cumulo di statistiche economiche, finanziarie, istituzionali, sanitarie, scolastiche e ambientali, in coda alle quali ricercatori di ogni orientamento appongono buoni propositi che grosso modo si possono raggruppare in due tipi, il Sud giardino turistico europeo e il Sud piattaforma logistica dell’Europa nel Mediterraneo. Naturalmente, perché almeno uno di questi scenari si avveri, i meridionali debbono finalmente acquisire il “capitale sociale” di cui continuano a difettare, qualità delle relazioni fra le persone, rispetto delle regole, senso della comunità e dell’interesse generale. Quando poi si vuole vivacizzare questo quadro quaresimale, ci si slancia sul collegamento tra Sicilia e terraferma, prospettando ponti o tunnel, a seconda la stagione e il colore, ormai peraltro indistinguibile, dei governi in carica. Qui non si vuole minimamente sminuire questo lavorio di conoscenze, riflessioni e proposte, che merita anzi il massimo rispetto. Si vuole semplicemente evidenziare un fatto che resta sempre alquanto in ombra in tutto questo ammasso di dati, ovvero che il Meridione non si riduce solo a dei rapporti di produzione, arretrati o meno che siano, ma vi è in esso, come in tutte le società, una dialettica di struttura e sovrastruttura che segna la sua storia e il suo presente. Anzi, segna il suo presente al punto che paradossalmente oggi si ha difficoltà a individuare e descrivere la sua sovrastruttura, a fronte di una struttura analizzata sempre più dettagliatamente con la precisione delle scienze statistiche. Per portare avanti questa breve e temeraria riflessione, non c’è modo migliore che rifarsi al testo fondativo in cui la società è descritta come una base economica su cui si eleva l’edificio ideologico, ovvero la Prefazione di Marx a Per la critica dell’economia politica (1859). I brani salienti di questo testo, interpretati liberamente, si alterneranno quindi con la ricapitolazione di momenti e passaggi storici e attuali del Mezzogiorno d’Italia.
Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali.
Nel Mezzogiorno, i rapporti di produzione, rimasti per lunghi secoli immobili, subirono una scossa con l’Unità d’Italia. Ne seguì uno sviluppo delle forze produttive che, se riguardato solo in termini di banche, fabbriche, macchinari, infrastrutture, fu nullo o minimo. Ma le forze produttive non si esauriscono in tali aspetti con cui il capitale impone il suo sviluppo determinato. Anche il lavoro è una forza produttiva, la cui materialità consiste nello sviluppo alternativo di una differente e più larga socialità rispetto al rapporto di dominio in essere. Da questo punto di vista, si può dire che la scossa dell’Unità d’Italia sviluppò nel Mezzogiorno il lavoro, come si evince non solo dalle tante rivolte duramente represse, ma soprattutto dalle più mature manifestazioni rivoluzionarie dei Fasci siciliani, con cui si arrivò ad imporre patti agrari che, qualora quella rivoluzione avesse vinto, avrebbero sviluppato, assieme alla socialità del lavoro, anche la produttività economica dei rapporti di produzione nelle campagne.
L’insieme di questi rapporti di produzione, che sono rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla volontà di chi in essi si trova preso, costituisce la struttura economica della società.
Certo, questo sviluppo del lavoro non riuscì ad abolire il vecchio dominio feudale, nel frattempo entrato a far parte del nuovo blocco nazionale tra rendita agraria e capitale del Nord. Anzi, tale blocco dominò nel Mezzogiorno sino al secondo dopoguerra. Per un concorso di cause esterne ed interne, riguardanti le premesse politiche dello sviluppo delle forze produttive (integrazione del mercato nazionale negli scambi esteri a seguito della sconfitta in guerra, presenza con forti ramificazioni interne di un “blocco” internazionale alternativo del lavoro), tale blocco solo all’inizio degli anni Cinquanta del XX secolo venne sostituito dall’intervento diretto dello Stato imprenditore. Perciò, mentre il lavoro con le occupazioni delle terre si batteva per lo sviluppo sociale alternativo, “altrove” in maniera necessaria e indipendente dalla sua volontà si decideva che il Sud si sarebbe dovuto sviluppare in modo capitalisticamente determinato, divenendo lo strumento per accrescere la quota di capitale variabile dell’intero processo produttivo nazionale.
L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.
Tramite questa maggiore estrazione nazionale di plusvalore, presentata come un generoso trasferimento di risorse, nel Sud finalmente venivano ad instaurarsi rapporti di produzione “moderni”, la “modernità” di un vasto deposito a cielo aperto di capitale fisso, fabbriche, macchinari, infrastrutture che, nei successivi vent’anni, avrebbe effettivamente fatto convergere gli indici di “sviluppo” tra Settentrione e Meridione, ma avrebbe espulso e annientato al Sud le forze sociali del lavoro. La sovrastruttura politica nazionale che si ergeva su questa base reale si riduceva ad un ambiguo gioco di cooptazioni nella gestione dello sviluppo determinato. La sovrastruttura politica internazionale inglobava invece la sovrastruttura giuridica formale e sostanziale generatasi nel corso del processo unitario risorgimentale, trasfigurandola e proiettandola in compiti nuovi. Il processo unitario risorgimentale aveva dato luogo ad una sorta di schisi sovrastrutturale, che aveva impedito la “chiusura” completa della corazza giuridica attorno alla figura monocratica dello Stato. Fallito il tentativo di portare a termine tale chiusura con la grossolana chirurgia fascista, tale assetto polistatuale venne integrato nello Stato profondo (deep State), assieme a nuovi segmenti occulti del tipo stay behind. Fu l’epoca del ruolo politico della mafia.
Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.
Con la mafia assisa al tavolo della sovrastruttura dello Stato, il Sud politicamente risplendeva. E intanto, mentre imputridivano i rapporti di forza internazionali, nella sua base materiale strumentalmente edificata dall’intervento dello Stato imprenditore si infiltrava un “capitalismo nero”, mix di giganteschi traffici di droga e di più domestiche aggiudicazioni di appalti, che preparava il domani. La forza produttiva materiale del capitale, infatti, stava per schiantare sul piano internazionale il campo alternativo della forza sociale del lavoro, e presto si sarebbe slanciata nell’unificazione mondiale della base produttiva già in incubazione da qualche decennio. E allora, com’è scritto, subentrò un’epoca di rivoluzione sociale. Una rivoluzione sociale guidata dal capitale.
Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione.
La conseguenza di tale rivoluzione fu per il Sud il crollo della gigantesca sovrastruttura in cui si trovava politicamente inserito nelle forme sopra accennate, e la sua mancata sostituzione con qualcos’altro. La base materiale sopravvisse grazie a flussi diretti con il Nord, alimentati sia da produzioni “in chiaro” di ristrette aree industriali, sia da servizi “in nero” offerti da spezzoni del vecchio assetto polistatuale. Per il resto, salvo un’agricoltura divisa tra nicchie ipermoderne e plaghe schiavistiche, tale base evaporò rapidamente negli invisibili circuiti finanziari della corruzione politica e del narco-traffico. Immensi capitali furono creati e gestiti da “uomini del sottosuolo”, il cui nichilismo non poteva esprimersi altrimenti, che nelle precedenti forme “popolari” di coscienza sociale. Il Sud, che come un sinistro rubino aveva brillato nella sovrastruttura politico-giuridica del mondo, di colpo ripiombò nel folklore delle forme artistiche, filosofiche e religiose di un popolo le cui nervature erano state spezzate dalla lotta del capitale contro il lavoro. Accanto ai “papelli”, richieste di salvaguardia da parte di chi riteneva di aver combattuto la “buona battaglia” e ora si vedeva dato in pasto agli apparati repressivi dello Stato, vennero i deliqui filosofici, le immaginette sacre, gli altarini dei grandi boss scaraventati nella discarica delle carceri. E la nuova base materiale degli “uomini del sottosuolo” si creò la sua sovrastruttura con il linguaggio più a portata di mano, quello che il popolo indistinto pratica spontaneamente da sempre, il linguaggio religioso. In questa forma di egemonia parassitaria (in altro contesto operata dall’Isis nei confronti della religione musulmana) si produssero così gli “inchini” dei santi alle dimore dei ricchi nullatenenti, l’estrema e più beffarda incarnazione del “proprietario assenteista” che per secoli aveva tiranneggiato il Sud.
Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.
Che cosa può proporsi il Sud se anziché verso nuovi e superiori rapporti di produzione ricade nelle sue condizioni materiali più arcaiche? È evidente che è proprio questa regressione che rende chimeriche le proposte di farne un giardino turistico o una piattaforma logistica. Né la soluzione può essere una rinnovata intensificazione dell’estrazione nazionale di plusvalore tramite un ulteriore accrescimento di capitale fisso, sub specie ponte o tunnel dello Stretto. Si è visto invece che va sciolto l’equivoco dello “sviluppo”, stabilendo in anticipo politicamente se si vuole proseguire nello sviluppo capitalisticamente determinato o in quello socialmente alternativo del lavoro. Basti solo pensare al caso dell’Ilva, dove la salvaguardia dei posti di lavoro, cioè la riproduzione del capitale, è in contraddizione con il risanamento di tutto un ambiente. Al Sud va dunque resa la sovrastruttura, come luogo della presa di coscienza delle condizioni materiali della propria esistenza, per enucleare le condizioni materiali che consentano l’introduzione di nuovi e superiori rapporti di produzione e quindi di coscienza sociale. Non dunque semplicemente un luogo di “dibattito pubblico”, ma una ricognizione pratica che trasformi già lo stato di cose presenti.
A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana.
La storia del Sud deve ancora iniziare. Sinora esso è stato strumento dello sviluppo altrui. Non sarà certo la mitologia del passato borbonico a permettergli di perseguire il suo proprio sviluppo autonomo. Ma quanto accaduto in questi decenni mostra che il suo destino non può nemmeno compiersi nello spazio di quest’Italia ostinatamente esportadora. Il titolo di una recente pubblicazione recita: Una questione nazionale. Il Mezzogiorno da «problema» a «opportunità»1. Ma il “problema” non è il Mezzogiorno, bensì i rapporti di produzione dell’intero paese. Tutto un mondo che sembrava inattaccabile sta crollando sotto i colpi di antagonismi sociali e naturali incomponibili. L’“opportunità” sta nel riconoscere che, in questo nuovo contesto, lo sviluppo determinato, che esige uno sviluppo strumentalmente economicistico del Sud, confligge con lo sviluppo sociale dell’intera nazione. C’è quindi un conflitto tra forze produttive e forma antagonistica del processo di produzione sociale. Esistono le condizioni materiali concretamente storiche per la soluzione di questo antagonismo? Se ne possono indicare almeno tre: 1) priorità alla domanda interna non come semplice cambio di politica economica rispetto alla esportadoridad dei decenni trascorsi, ma per conformare l’economia ai bisogni del lavoro liberato dalla schiavitù di dover vivere in funzione della riproduzione del capitale; 2) gestione da parte del lavoro, quali che siano le sue concrete figure sociali, lavoratori, utenti, cittadini, di tutte le imprese di interesse generale riguardanti servizi pubblici essenziali, fonti di energia, situazioni di monopolio; 3) rifiuto dei “vincoli esterni” ereditati da un passato in dissoluzione, con le conseguenti misure diplomatico-politico-finanziarie da tradurre in una realistica politica di interesse nazionale. Si tratta di potenzialità della crisi la cui attuazione richiede di uscire fuori dell’inerzia dei vecchi schemi e dall’immaturità delle nuove visioni. Se questa paralisi della sovrastruttura politica sarà superata, la preistoria del Sud finirà, e l’intera nazione potrà dare il suo contributo alla corrente principale della storia. Altrimenti…
- G. Coco, C. De Vincenti (a cura di), Una questione nazionale. Il Mezzogiorno da «problema» a «opportunità», Bologna, il Mulino, 2020. [↩]
L’Europa salvata dai non europei
I segnali di una contro-offensiva del Sud contro il Nord si moltiplicano, e ormai non siamo più agli istrionismi del deputato in Parlamento o del presidente di regione particolarmente versato nell’arte del cabaret. Importanti giornali della capitale schierano i loro editorialisti, con l’accusa al Lombardo-Veneto di egoismo territoriale per la ritardata chiusura in marzo che avrebbe addirittura attentato al PIL nazionale, e le Università meridionali stanziano fondi per contributi e tagli di tasse agli studenti che volessero rientrare e proseguire gli studi nelle loro terre di origine. Qualcosa è saltato, ma tutto accade in ordine sparso, senza un’organizzazione, un programma, un’ideologia. Il coronavirus ha preso alla sprovvista, e non basta certo il borbonismo per compensare un’assenza pluridecennale di elaborazione culturale intorno al Mezzogiorno e a un paese rifondato sul Mezzogiorno. Lo scontro perciò scade come al solito sull’onestà, il familismo e l’ostia sacra degli sghèi, scaramucce che consentono al “sistema Roma” di restare agganciato al “vincolo esterno” con il quale salva se stesso e un’idea di interesse nazionale che si concretizza nel restare abbarbicati al tavolo del grande gioco europeo pena la rovina. A questo cinico pessimismo si assoggettano ormai tutte le forze politiche che emergono dal magma sociale, e adesso è il turno dell’agglomerato PD-M5S con a capo l’avvocato Conte, un Kerensky con la fortuna di non avere un Lenin che gli morda le chiappe. La situazione è infatti rivoluzionaria ma come può esserlo nell’Europa del 2020, con la truppa sfatta dagli ozi di Capua e lo stato maggiore passato da tempo al nemico. Su tutto cola la vernice omogeneizzante dell’europeismo, quell’ideologia per dirla seriosamente in cui l’autocoscienza dell’individuo ha per propria forma e contenuto l’autocoscienza germanica. In ciò non vi è nulla di etnico, ma vi è implicata la sfera elevata della religione e dello spirito. In questa ideologia, infatti, il denaro non sta fuori dell’individuo, come nel cattolicesimo dove Dio è presentato nell’ostia come cosa esterna, ma è interno a lui, come nel protestantesimo in cui l’ostia è consacrata a Dio nella sua fruizione fondando così la certezza e libertà della fede. Come gli italiani, ancora oggi come abbiamo visto così devoti alla sacralità esteriore degli sghèi, si siano potuti acconciare a questa riforma teologica è cosa che la storiografia dovrà chiarire, più che nel capitolo della religione della merce in quell’altro che attiene al mantenimento del potere da parte della classe dominante costi quel che costi. Eppure l’Europa non è sempre stata questa chiesa gotica dove organi automatici barriscono note di bilancio nella notte del pareggio finanziario. Quando Lenin lanciò la NEP, ai contadini russi spiegò che non dovevano commerciare all’asiatica, ma all’europea, cioè come dei «mercanti colti», in possesso di un’istruzione elementare generale, in grado di comprendere i problemi, capaci di servirsi dei libri, e tutto ciò su una base materiale che facesse da garanzia per l’acquisizione e il mantenimento di una tale cultura. L’URSS è caduta, ma che è rimasto del modo europeo colto di commerciare? Tutti gli indici rilevati da osservatori obiettivi dicono che non solo esiste un diffuso analfabetismo funzionale, ma addirittura si sta tornando a un drammatico analfabetismo primario, senza contare l’arretramento nel grado sufficiente di comprensione dei problemi, per non parlare della incapacità di servirsi dei libri. Si sono sviluppate certo altre abilità, come la produzione di mini-testi richiesti dai social che tanto si prestano alla produzione compulsiva di opinioni, ovvero a quell’“odio” in rete che tanti moralisti deprecano, senza chiedersi quale sia la sua base materiale, ovvero quel modo di produzione mondiale dove non conta più l’aggettivo “europeo” ma solo il sostantivo “capitalismo”. Nel mentre dunque l’europeismo trionfa nel cielo della teologia economica, si completa la distruzione materiale del modo di commerciare all’europea. Un paradosso che forse solo i cubani o i venezuelani, contro cui i teologi asserragliati nel Parlamento di Strasburgo lanciano anatemi per sacrilegio contro la “democrazia”, o i neri e gli ispanici d’America, che altrettanto li inquietano quando li vedono in pose poco remissive armati di mitraglietta, potranno sciogliere se risulteranno vincitori nella loro lotta per quel modo di commerciare europeo, tanto ammirato da Lenin, che gli europei non hanno saputo preservare.