Scienza incerta, politica litigiosa, intellettuali bizantini, gente comune insofferente e indisciplinata. Questo il cacoeidoscopio della catastrofe italiana, dove solo un caso miracoloso sembra impedire che la pandemia dilaghi in tutto il paese, anche se è difficile ripetere altrove gli errori sanitari in cui sono incorsi in certe valli lombarde. Molto si è detto e scritto sulla fallimentare sanità di quella regione, e non è il caso di insistervi di fronte alle migliaia di morti che lì si sono dovute registrare. Pietà per chi non c’è più e per chi piange i propri cari. Ma questo dolore che accomuna non può impedire una riflessione che riporti la tragedia in atto a ciò che l’ha preceduta, a ciò che sta cambiando, a ciò che accadrà. Vengono subito in mente i versi che evidentemente non trascorreranno mai, poiché il poeta dovette cogliervi l’essenza della nazione: Ahi, serva Italia, di dolore ostello. Il paese giace in terra tramortito, e su di esso svolazza ogni specie di rapaci. Nave sanza nocchiere in gran tempesta. Chi inopinatamente si trova alla sua guida, gonfia il petto e si erge in pose eroiche, ma subito ricade sotto il peso della sua debolezza, travolto dall’immane avversità. Non donna di provincie, ma bordello! Sbarcano contingenti militari, atterrano aiuti sanitari, vengono emessi decreti presidenziali: non vi abbandoneremo. Questa striscia di terra protesa su un mare dove si concentra la storia del mondo è ancora troppo preziosa perché qualcuno possa accettare di perderla, e qualcun altro non possa tentare di impadronirsene. Le profferte si susseguono, gli aiuti interessati, gli ammiccamenti, le lusinghe. È il gioco diplomatico? No, è il bordello! Come ci siamo potuti ridurre di nuovo al bordello? Diciamoci la verità, è da un secolo che non ne azzecchiamo una. La venuta all’onor del mondo moderno era stata un parto di astuzia, ma la nave era stata varata, e pur beccheggiando, solcava i mari. Era un piccolo capitalismo, tutto concentrato a settentrione, da cui però poteva venir fuori qualcosa di originale. E questo parve poter accadere subito dopo la Grande Guerra, quando le energie degli operai e dei contadini si riversarono nelle esangui istituzioni liberali. Quel piccolo capitalismo, la cui egemonia puntellava il dominio dell’arretratezza nella vasta campagna meridionale e non, si ritrasse torvo nella sua ridotta del Nord, dove incubò sotto la corazza autoritaria di un nazionalismo antisemita, la cui disfatta causò la perdita sostanziale della sovranità nazionale. La Resistenza, le lotte contadine degli anni Cinquanta, il ventennio felice dello sviluppo economico, le lotte operaie degli anni Settanta, erano ciò che restava di quelle energie represse, fiammate di un gran fuoco spento, che proprio per questo loro carattere residuo, non giunsero mai a sintesi. La nazione non rinacque, anzi, quelle energie, quelle ultime fiammate, furono irrorate del più efficace schiumogeno, i tremendi anni Ottanta del privatismo elevato a religione i cui riti si celebravano in televisione: cosce, culi e cazzate. Il paese era percorso da un vitalismo sfrenato, che si presentava sotto un duplice aspetto: anelava ad una norma sadica, Mani Pulite, e con il miraggio di un “nuovo miracolo italiano” rifuggiva da ogni possibile regola. In questo bipolarismo trascorsero vent’anni, durante i quali si spalancarono tutti i gironi dell’inferno, gremiti da individui che gracidavano insulti l’un contro l’altro. La corruzione colava a fiotti dall’alto, e risaliva dal basso portando in alto maschere sempre più grottesche. A un certo punto, suonò la campana della “crisi economica”, che in realtà era il rendiconto finale per un popolo che si era ridotto a essere un mero, senescente raggruppamento demografico. Il paese, a quel punto, sfatto di vizi, aveva bisogno di una badante, e si pagò anche quella, nelle vesti di un comico che rinverdiva la retorica hitleriana. Dove siamo ora, nella gran tempesta? Come chi arriva all’ultima tappa dell’azzardo, si tentano mille piroette, ma senza uno straccio di idea, che non sia l’Europa. Lì per gli uni si concentra la salvezza, lì per gli altri sta il servaggio prossimo venturo. Non c’è un tempo, né un luogo dove si possa e voglia ridiscutere il tutto. Eppure, i punti all’ordine del giorno non mancherebbero. Possono ancora gli “uomini del denaro” del Nord continuare a proporsi come l’avanguardia morale del paese? Può il “capitalismo esportatore” continuare a essere il destino di questo paese? Possono ancora i “moderati” di destra, di centro e di sinistra continuare a pretendere di poter dirigere questo paese? Può il Sud continuare a vivere come un corpo senz’anima? Può il paese continuare ad affidarsi a un sistema di alleanze internazionali che sopravvive a se stesso? Attaccati a un respiratore artificiale, è difficile ripensare tutto daccapo, ma se non ora, quando?
Politica
Capitalismcoronavirus
Il coronavirus è una guerra biologica, scatenata non da un esercito straniero, ma dall’economia in atto che ne propizia l’incubazione e la diffusione. Nei primi venti anni di questo secolo è la quinta o sesta guerra che tale economia scatena contro il resto della società1. Si chiamano pandemie, come se all’improvviso la natura irrompesse incontrollata contro l’organismo sano della società, ma in realtà si tratta di una natura che quell’economia ha asservito, potenziandone i meccanismi pro domo sua. In una recente analisi che compara gli effetti economici dell’epidemia della spagnola del 1918-1920 con quelli già prevedibili dell’attuale epidemia di coronavirus, si legge quanto segue: «oggi l’economia globale ha poche prospettive e la sua produttività rallenta inesorabilmente. La crescita è supportata solo da bolle tecnologiche e finanziarie che diventano ogni giorno più fragili. Un solo granello di sabbia può far crollare questo castello di carte. La sola risposta delle autorità oggi è la stessa data per le crisi del 2008 e del 2012: ricorrere alla politica monetaria per evitare lo scoppio delle bolle. Misura diventata per lo più inefficace. È proprio questo il paradosso dell’epoca che viviamo: a differenza del 1918, oggi non c’è una situazione di caos economico generalizzato, ma di lenta ed inesorabile decelerazione. Ciò rende l’economia molto più sensibile agli attacchi esterni, come può esserlo una pandemia, e, tramite i mercati finanziari, ai timori che li accompagnano».2. Tre sono gli elementi interessanti di questa analisi: la messa in evidenza di una lenta e inesorabile decelerazione dell’economia globale; la presenza delle bolle speculative tecnologico-finanziarie; le pandemie. Vero è che le pandemie vengono ancora considerate erroneamente “attacchi esterni”, ma viene correttamente evidenziato il fatto che le bolle tecnologico-finanziarie servono a rivitalizzare un’economia in lenta ed inesorabile decelerazione. Tali bolle hanno bisogno del livello di integrazione globale, il quale però con i suoi vertiginosi scambi di merci e di individui al servizio delle merci induce le pandemie (un contagiato che impiega un giorno per passare da un punto all’altro del pianeta, è una bomba vivente). Ecco, dunque, perché le pandemie non sono la natura matrigna che si rivolta contro la società civilizzata, bensì l’effetto indiretto e inevitabile della natura che tale economia globale assoggetta sempre più per poter scongiurare il proprio declino. Questo ciclo di agonia che si alimenta di morte per poter allontanare il proprio decesso finale ha un nome ben preciso, e si chiama caduta tendenziale del saggio di profitto, insita in quel modo di produzione che ha anch’esso un nome altrettanto ben preciso, capitalismo3. Il coronavirus, all’apparenza malvagio quanto può esserlo un individuo bastardo, è in realtà un figlio legittimo del capitalismo, è un capitalismcoronavirus. Contrariamente a quanto auspicano molti moralisti, dal capitalismcoronavirus non scaturirà nessun avanzamento sociale, poiché esso, come tutti gli “attacchi esterni” di una natura asservita dal modo di produzione capitalistico, è forza bruta che ispira paura e terrore. Sentimenti quanto mai propizi per esercitare sul tutto sociale una maggiore e più efficace costrizione, funzionale al modo di produzione che causa gli “attacchi esterni”. La fuoriuscita dal capitalismcoronavirus non consisterà perciò in una riduzione delle diseguaglianze, in un ampliamento dell’area del consenso, in una maggiore estensione dei rapporti sociali non alienati. Al contrario, il capitalismcoronavirus accentuerà il feticismo di tali rapporti, e le contraddizioni che ne deriveranno saranno provvisoriamente governate con ulteriori bolle finanziarie e tecnologiche. Riguardo a queste ultime, ha già tratto rinnovato vigore la deriva informatica, con il cogente argomento della necessità igienico-sanitaria di sospendere il livello fisico dei rapporti sociali, come se la digitalizzazione di tali rapporti, dal lavoro all’insegnamento all’amministrazione statale, fosse uno strumento neutro, e non invece un potente fattore di accrescimento della “servitù volontaria” insita nell’egemonia del modo di produzione in atto. Il capitalismcoronavirus ripropone perciò alle forze contro-egemoniche, per quanto disperse e deboli oggi siano, il compito immane ma indifferibile di riportare i rapporti sociali ad un livello in cui il tutto sociale non assoggetti più la natura per scongiurare la propria morte, bensì ne liberi le energie per promuovere la reciproca coesistenza.
- Giuseppe Ippolito, Enrico Girardi, Cristiana Pulcinelli, Malattie infettive emergenti, http://www.treccani.it/enciclopedia/malattie-infettive-emergenti_%28XXI-Secolo%29/ [↩]
- R. Godin, Strage del 1918: cosa ci insegna l’epidemia della spagnola, «Il Fatto Quotidiano», 9 marzo 20220, pp. 13-14 [↩]
- https://www.duemilaventi.net/il-capitalismo-e-i-suoi-nemici/ [↩]
Panta rei? Il divenire dopo le elezioni in Calabria e in Emilia
Aggiornamenti filosofici, dopo le elezioni in Calabria e in Emilia:
1) si salva il blocco democratico-europeo, ovvero il vecchio interclassismo “produttivistico” aggiornato all’“austerità” dei tempi d’oggi, che mentre predica e invoca mitezza e non violenza non si fa scrupolo di lasciare migranti in mare in attesa che si chiudano le urne, imprigionare anziane professoresse militanti No-Tav, dotare la polizia di letali pistole elettriche;
2) fallisce la falsa alternativa nazional-nordista, ovvero il blocco corporativo dei “produttori” (piccole medie imprese del Nord, pensionati “produttivi”, ecc.);
3) al Sud si conferma il blocco affaristico-malavitoso subalterno all’egemonia “produttivistica”, in cui poi a livello nazionale funzionalmente convergono sia il blocco democratico-europeo che quello corporativo nazional-nordista dei “produttori”;
4) il blocco democratico-europeo si conferma reattivo perché raccoglie i frutti della sua lunga pedagogia sociale (ideale europeo predicato nelle scuole, programmi Comenius, Erasmus, ecc.) che ha formato una leva intermedia di quadri “spontanei”, ovvero le sardine;
5) una tale pedagogia è proprio ciò cha manca al formarsi di un partito di classe meridionalistico, anti-produttivistico e rivoluzionario-europeo;
6) resta in campo perciò solo la proposta del “campo largo” del PD, con i suoi cinque punti: rivoluzione verde, sburocratizzazione, Equity Act per parità salariale uomo-donna ed equilibrio nord-sud, aumento della spesa per l’educazione, piano per la salute1. Un modo per smussare le punte aguzze delle questioni, irretire le sardine di oggi e di domani, lasciare immutata la struttura di base che rende impossibile la realizzazione di quei cinque punti;
7) continua dunque il “galleggiamento”, ovvero la sfida tutta italiana all’impossibilità di bagnarsi più di una volta nello stesso fiume.
- W. Marra, I decreti sicurezza accendono il ritiro dem, «Il Fatto», 15.1.2020, p. 4. [↩]
Monti, l’ineffabile 2
Ogni giorno ha la sua perla. L’altro ieri Prodi ci spiegava che la Francia senza il maggioritario che ha, sarebbe in una situazione peggiore della nostra1. Oggi, Mario Monti, sempre sul Corriere, ci spiega invece che ce la passiamo meglio noi, perché con il nostro parlamentarismo abbiamo potuto votare la riforma delle pensioni del 2011 la quale, sostiene Monti, salvò l’Italia dal fallimento. Poco importa che trecentomila persone, bollate come “esodati”, furono buttate sul lastrico. Ma ecco il suo ragionamento: «La Francia è un sistema semi-presidenziale. Tra il presidente e la piazza, nella quale i francesi scendono volentieri dalla fine del XVIII secolo, non c’è intercapedine. In Italia abbiamo la fortuna di avere un capo dello Stato senza poteri esecutivi ma normalmente con ampia moral suasion. E il sistema parlamentare, che ha i suoi inconvenienti, può produrre riforme strutturali di largo consenso che in un sistema presidenziale o semipresidenziale, come negli Stati Uniti o in Francia, sono molto più difficili. E questo proprio perché rendono quasi impossibili le grandi coalizioni e quindi la distribuzione su varie spalle dei costi politici dell’impopolarità. Ricordiamocelo quando qualcuno invoca il presidenzialismo»2. Tanto è sintetico e scattante Prodi, tanto è lento e didascalico Monti, ma il risultato finale è il marasma. Per carità, ognuno la pensa come vuole, non esiste per definizione un’ortodossia liberale, ma non si era mai vista tanta dissonanza in un’area in cui abbondano i padri della patria, i riservisti della Repubblica, i salvatori di ultima istanza, insomma quelli che vengono chiamati nell’ora del pericolo, quando la maggioranza tiranneggiata si rivolta contro le sempre esose pretese di Monsieur le Capital.
Ma tornando a Monti, l’amore del parlamentarismo e la diffidenza per il presidenzialismo non gli impediscono di tessere le lodi di Macron. Sentiamolo: «Macron è il leader con le idee più avanzate sul come costruire una nuova Europa. La sua forza nello spingere su questo sentiero [riformista] gli altri Paesi europei, a partire dalla Germania, risulterebbe tanto più attenuata quanto meno riuscisse ad andare avanti sulle riforme strutturali a casa sua, che sono sempre il banco di prova di un governo»3. Che simpatico questo liberale con il bazooka! I francesi non vogliono la riforma delle pensioni, ma si devono sacrificare per dare l’esempio a tutta Europa di un Presidente con gli attributi. Ave, Monti, morituri te salutant.
P.S.
E se questo marasma fosse solo una sceneggiata di superficie e, maggioritario o proporzionale, parlamentarismo o presidenzialismo, fossero solo trucchi sovrastrutturali buoni a seconda delle circostanze per salvare la struttura portante dell’edificio? Ma no, noiosi misoneismi marxisti!
- M. Ascione, «Governo distratto dalle liti. Il Colle? Non mi interessa. E poi i 101 sono ancora lì», «Corriere della sera», 10 gennaio 2020, p. 13, su cui vedi il post precedente. [↩]
- L. Salvia, «Spero che Macron non ceda perché ha idee avanzate e l’Europa ha bisogno di lui», «Corriere della sera», 12 gennaio 2020, p. 15. [↩]
- Ibidem. [↩]
Prodi, l’ineffabile
In un’intervista al Corriere della sera di oggi, 10 gennaio 2020, Romano Prodi non manca l’occasione di regalarci due perle delle sue. Contro il venticello proporzionale che spira, egli riafferma il suo credo maggioritario, perché “la legge elettorale è fondamentale anche per poter decidere”. E, per rafforzare il concetto, aggiunge: “la Francia, senza la legge che ha, sarebbe in una situazione peggiore della nostra”. Infatti, ormai da mesi si susseguono i sabati dei gilet gialli, e da settimane impazzano gli scioperi contro la riforma delle pensioni. Ma che importanza ha? L’importante è che il governa decida. Se poi la società da quelle decisioni viene squassata, se i conflitti non trovano sbocco politico, se la gente pur lavorando di più si immiserisce senza rimedio, che importanza ha? Il governo è lì, attaccato alla sua maggioranza, scroccata con una legge elettorale che tramuta l’acqua in vino, e questo è tutto. Dite che le leggi elettorali sono trucchi per permettere ad una minoranza di interessi di imporre legalmente la propria dittatura ad una maggioranza il cui destino è di faticare per produrre ricchezza da buttare nelle fauci insaziabili della razionalità di mercato? Fiato sprecato per vecchi scolasticismi marxisti. E qui viene il bello. Per Prodi, l’economia è il vero campo da gioco. E questo l’avevamo capito, da sempre è l’unica cosa di cui parla. Un vero esperto, come dimostra quest’ultima uscita sul costo del lavoro italiano che consegna all’intervista in questione: “Prendiamo il costo del lavoro. Attualmente è grandemente inferiore rispetto a quello tedesco e francese. E possiamo dire che è meno lontano da quello cinese: un tempo il nostro era 40 volte il costo orario del lavoro di Pechino, ora 2,3 volte. Non siamo a costo pari, ma ci stiamo avvicinando e bisogna preparare il futuro”. Ecco, prepariamoci al futuro, quando i cinesi ci pagheranno qualche centesimo all’ora per qualche gigjob di quelli che fanno la contentezza di tanti ragazzi e meno ragazzi di oggi. È proprio ineffabile, Prodi. Piove, e lui fa il giro del mondo, si catapulta a Shanghai, tiene un intero corso in mandarino, riprende l’aereo, sulla tratta controlla le carte, i teoremi e gli assiomi della teoria e, arrivato all’aeroporto di Bologna, conferma: piove. Non si pretende la critica dell’economia politica, ma almeno un barlume di senso critico, macché, bisogna solo prepararsi al futuro, che è tutto scritto, e Prodi ce lo racconta con le slides che gli passa l’ufficio studi di Monsieur Le Capital.