Politica

Cose turche

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In un suo recente intervento su quanto sta emergendo dalle intercettazioni del cellulare del magistrato Palamara, Giuseppe Buttà, insigne storico americanista delle dottrine politiche, dopo avere evidenziato le ambiguità connesse alla carica di Presidente del Consiglio superiore della magistratura che la Costituzione assegna al Presidente della Repubblica, e dopo avere stigmatizzato sia le “timidezze” dell’attuale Presidente Mattarella nel farsi promotore di una riforma di tale organismo, sia la strumentalizzazione politica delle loro cariche da parte di alti magistrati, così conclude: «Siamo tutti montesquieuviani! Ma, di fronte alla torsione politica di una parte della magistratura, ci permettiamo di dubitare che soltanto lo stato assoluto o quello totalitario o, in Italia, soltanto il fascismo possano interferire con il potere giudiziario: anche nell’Italia repubblicana abbiamo visto dispiegarsi una strategia di occupazione della magistratura in atto almeno dai tempi del Togliatti guardasigilli». Ma proprio perché siamo tutti montesquieuviani si sarebbe potuto risalire molto più indietro, e riferirsi a quelle situazioni che lo stesso Montesquieu aveva già notato quando, dopo avere osservato che tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse i tre poteri di fare le leggi, di eseguire le risoluzioni pubbliche e di giudicare i delitti o le controversie tra i privati, così scriveva: «Nella maggior parte dei regni dell’Europa il governo è moderato, perché il principe, che detiene i due primi poteri, lascia ai suoi sudditi l’esercizio del terzo. Presso i Turchi, dove questi tre poteri sono riuniti nella persona del sultano, regna uno spaventoso dispotismo. Nelle repubbliche italiane, dove questi tre poteri sono riuniti, la libertà si trova in misura minore che nelle nostre monarchie. Così il governo ha bisogno, per mantenersi, di mezzi altrettanto violenti di quelli del governo dei Turchi: lo dimostrano gli inquisitori di Stato e la cassetta dove ogni delatore può, in qualsiasi momento, gettare con un biglietto la sua accusa» (Lo spirito delle leggi, Libro XI, Capitolo VI). Cose turche, dunque, in Italia non da ora accadono, solo forse alla cassetta del delatore si è sostituito il trojan del cellulare. Ma continuiamo a leggere Montesquieu, il quale non contento di avere così foscamente accostate le ridenti repubbliche d’Italia al cupo dispotismo ottomano, così conclude: «Considerate quale possa essere la situazione di un cittadino in queste repubbliche. Lo stesso corpo di magistratura detiene, come esecutore delle leggi, tutto il potere che si è conferito come legislatore. Può quindi devastare lo Stato con le sue volontà generali, e, siccome detiene anche il potere giudiziario, può distruggere qualunque cittadino con le sue volontà particolari. Tutto il potere vi è riunito; e, sebbene non vi sia alcuna pompa esteriore che riveli un principe dispotico, lo si avverte in ogni istante» (Ibidem). Oggi, anche grazie alla tanto contestata Repubblica retta dalla Costituzione del 1948, l’articolazione dei poteri è più rispondente al modello montesquieuviano, ma senza dubbio resta forte la possibilità di “devastare lo Stato” da parte non certo solo della magistratura in senso stretto, ma anche dell’élite in senso ampio di governo, che si riproduce immutata come coacervo di fazioni che piegano ai propri fini particolari i poteri formali, siano essi quelli del legislativo, dell’esecutivo o del giudiziario, per non parlare poi di quello mediatico nel frattempo intervenuto. Se si resta a Montesquieu, il perché questo accada rimarrebbe un enigma, da sciogliere magari con una malcerta teoria del clima. Ma, piaccia o no, il materialismo storico ci ha reso edotti del fatto che la mancata o insufficiente articolazione dei poteri è un effetto dell’asfittico sviluppo nella Penisola dell’organismo capitalistico-borghese rispetto alle altre contrade d’Europa, in cui da tempo per altro il virtuoso modello montesquieuviano è stato stravolto dalla teratologia cui è andato incontro nel suo lento ma inesorabile declino il suddetto organismo capitalistico-borghese, ormai divenuto una caotica macchina produttiva mondiale scossa da crisi che solo una pervicace raffigurazione apologetica può continuare a descrivere come “distruzioni creatrici”. E se si vuole un esempio di tale sconvolgimento dei poteri basta riferirsi a quanto accaduto in Germania con la sentenza di Karlsruhe, in cui il potere giudiziario, sebbene in un ambito di diritto pubblico quale il diritto costituzionale, per respingere l’intrusione di un potere giudiziario di pari rango ma esterno, ovvero la Corte di giustiza europea, intima al potere legislativo e a quello esecutivo interni di recedere da determinate scelte di politica economico-finanziaria – leggi: adesione, per altro interessata, al Quantitative easing della Banca centrale europea – perché non conformi alla Carta fondamentale della Repubblica (prevalenza del diritto interno) e perché in violazione del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (criterio di proporzionalità). Ecco dunque il potere giudiziario tedesco azzannare con quelle due “finzioni” quello europeo e il medesimo potere di fatto annullare la variabilità intrinseca della rappresentanza politica, subordinandola in eterno all’obiettivo del tasso dell’inflazione al due per cento fissato a sua volta dai trattati europei, e tutto ciò grazie ad una misteriosa sostanza giuridica depositatasi in tali trattati di cui i giudici, senza smentire il proprio ruolo, non possono che essere gli arcigni guardiani. E, se ci si riflette, questa sentenza è nella sua logica uguale alla modifica dell’articolo 81 della Costituzione italiana che, qualche anno fa, introdusse l’obbligo del pareggio di bilancio, ovvero una scelta di politica economica che viene consacrata a norma inviolabile – come se, negli anni della Destra storica, Quintino Sella avesse preteso di iscrivere la sua tassa sul macinato nello Statuto albertino. Solo che, mentre la riforma italiana introietta i dettami di Bruxelles, la sentenza tedesca proietta su Bruxelles i dettami di Berlino. Che dire, quella di oggi, non in Italia ma in Europa, non è forse la dittatura, non di Togliatti, bensì di una borghesia che, sotto le insegne della nazione germanica, chiama a raccolta tutte le sue frazioni sparse per il continente, e non ha timore di mostrarsi nella sua cruda materialità? Laddove l’unica emendazione da farsi è sulla parola “borghesia”, nel frattempo scomparsa come ceto a favore di un coacervo di fazioni, pantografato alla dimensione dei monopoli, oligopoli e cricche finanziarie dominanti, divenuto la caratteristica non più delle repubbliche d’Italia, ma dell’intero pianeta “globalizzato”.

Dialoghetto clandestino nell’epoca del coronavirus

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Due amici, usciti clandestinamente di casa, violando il blocco sanitario per il coronavirus, si incontrano all’angolo della strada, e mugolando qualche convenevole nella museruola della mascherina, restando sempre alla debita distanza di 1,82 cm, cominciano come ai bei tempi una discussione politica.

P. Non entro nel merito della questione MES, se sia utile o no, se sia pericoloso o no. Quello che mi pare grave è la confusione che nasce dalle dichiarazioni di Conte. O il ministro dell’economia ha fatto di testa sua e, allora, se la posizione del governo era diversa da quella del ministro, questi dovrebbe essere smentito e costretto a dimettersi. Oppure il governo era d’accordo con la linea del ministro e allora quelle roboanti dichiarazioni sono solo una foglia di fico dietro la quale si nasconde il raggiro dell’opinione pubblica e di una parte della stessa maggioranza di governo. Del resto, dalla discesa in campo di tutti i big pdini, anche di quelli fuori corso, arroccati in difesa del Mes per nascondere il colpo di mano del ministro dell’economia, appare ormai chiaro che nel governo non vi era accordo sulla posizione da prendere nell’Eurogruppo e che il pesante attacco portato da Conte contro Salvini e Meloni era un discorso fatto alla nuora perché la suocera intendesse…

F. …ho capito, ma scusa se mi permetto di interrompere il tuo editoriale, ma forse è il caso di discutere proprio ciò che lasci da parte, ovvero se il MES è utile o no, tanto, se ci fosse un altro governo al posto di questo in carica, la questione principale resterebbe sempre quella.

P. Non discuto il MES per due motivi, primo perché mi interessa soprattutto mettere in evidenza lo sbandamento della maggioranza. E secondo, forse non è il caso di prendere i soldi dal Mes, ma si deve pensare a un grande prestito nazionale, prima che seghino il ramo sul quale siamo seduti, cioè i nostri risparmi.

F. Ah, bene, l’idea del grande prestito nazionale è ottima. Però, bisogna contestualmente concordare una lunga moratoria su federalismo differenziato et similia, e finalizzare il prestito a sanità, istruzione e infrastrutture in tutto il paese.

P. Infrastrutture a partire dal Sud ma sull’autonomia “differenziata”, che non significa un tubo, non siamo d’accordo: bisogna dare a tutti l’autonomia e ridimensionare le competenze dello stato, anche attribuendogli una grande funzione di coordinamento e di mantenimento di standard nazionali. W l’autonomia.

F. Ecco, quando parli così diretto, mi piaci di più. Io avrei detto addirittura che autonomia “differenziata” non significa un cazzo. Ma lasciamo stare questi riferimenti anatomici. Piuttosto, se il prestito è nazionale, l’egemonia del Nord deve finire. Che poi questo si traduca in più autonomia o in più Stato, sono declinazioni istituzionali su cui si può discutere senza pregiudizi. L’importante è il dato politico.

P. Tutto il debito pubblico è nazionale, dello stato, l’egemonia si stabilisce in base ai rapporti di forza; in termini di autonomia, bisognerebbe attribuire alle regioni autonomia finanziaria e anche del debito regionale in funzione delle materie di competenza.

F. I rapporti di forza, certamente, ma l’egemonia si stabilisce anche in base alla legittimità storica, che il Nord, scusami tanto, ha perso trascinando il paese in questa catastrofe della pandemia. Quando dico “Nord” intendo un determinato modello di sviluppo che ha il suo radicamento storico e attuale nel Settentrione, e che in questi ultimi decenni ha assunto tratti molto costrittivi nei confronti del resto del paese, in particolare del Sud. Quindi, questo non è solo il momento delle politiche, ma è soprattutto il momento della politica, in cui tutto va ridiscusso, e in cui forze sinora emarginate che stanno sia al Nord che al Sud devono finalmente potersi esprimere. Il prestito nazionale non può perciò servire per riparare le falle di una nave che ha fatto naufragio, ma per costruire con criteri completamente nuovi un’altra imbarcazione, forse più piccola, forse meno comoda, ma più rispondente alla conformazione di tutto il paese. Altrimenti, si andrà verso il caos, da cui è molto probabile che nasca una nuova dittatura, come dopo la Grande Guerra.

P. Adesso, sei tu che stai facendo l’editoriale, e con l’editing pure, perché prima al posto di “conformazione” avevi detto “orografia culturale”…

A questo punto si avvicina un comune amico che dopo aver salutato gli altri due strusciando piede contro piede, ed essersi posizionato ad una distanza addirittura di 1,99 cm, annuncia con voce stentorea:

N. Zingaretti ha accusato Conte di “cadornismo”? Forse voleva dire qualche altra cosa?

F. Non so, non mi sembrano all’altezza di capire questi termini…

N. Forse non è così, se il “cadornismo” prevedeva la decimazione.

F. Ma qui, chi ha decimato chi?

N. Cadorna decimava l’esercito. Qui stanno decimando i vecchi. Il “chi” bisogna chiederlo a Zingaretti.

F. Qualche domandina la farei anche a Fontana…

N. …a Speranza, a De Micheli, a Lamorgese, all’Istituto Superiore della Sanità, ai Dirigenti delle Strutture Ospedaliere, ai Prefetti, ai Sindaci … continua tu …

Pausa. Lungo silenzio di tutti e tre. Dopo di che, l’ultimo arrivato riprende:

N. Pare che la provincia di Reggio Calabria sia la prima a raggiungere il traguardo di zero casi positivi al coronavirus.

Pausa. Nuovo, lungo silenzio di tutti e tre. Dopo di che, l’ultimo arrivato riprende ancora:

N. Gira un video di Contro Tv in cui si denuncia come con la scusa del virus ci imporranno di tutto, dai criteri per dire effettivamente cos’è una fake news, all’app per tracciare i nostri movimenti, ai vaccini di massa per ingrassare le grandi case farmaceutiche…

F. …va be’, i vaccini hanno salvato milioni di vite, se non si vuole che Big Pharma si ingrassi, basta farli produrre allo Stato. A parte questo, però, hai ragione, stiamo scivolando piano piano nel controllo totale, e sarà difficile tornare indietro. La notte è fonda, e l’alba non si intravede.

A questo punto, per fortuna, si avvicina una volante della polizia. Scende un poliziotto e fa notare che questo assembramento di tre persone, benché posizionate ad una certa distanza che comunque sarebbe tutta da misurare, non è consentito dalle ben note disposizioni sanitarie. Ed è qui che sopra l’assembramento si accende un invisibile fumetto, in cui un glorioso milite in fez e camicia nera intima al gruppetto di sciogliere immediatamente l’adunata sediziosa. Ma è solo un cattivo pensiero di qualcuno dei tre indisciplinati, che presto si dileguano verso le loro case.

Ordine del giorno

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Scienza incerta, politica litigiosa, intellettuali bizantini, gente comune insofferente e indisciplinata. Questo il cacoeidoscopio della catastrofe italiana, dove solo un caso miracoloso sembra impedire che la pandemia dilaghi in tutto il paese, anche se è difficile ripetere altrove gli errori sanitari in cui sono incorsi in certe valli lombarde. Molto si è detto e scritto sulla fallimentare sanità di quella regione, e non è il caso di insistervi di fronte alle migliaia di morti che lì si sono dovute registrare. Pietà per chi non c’è più e per chi piange i propri cari. Ma questo dolore che accomuna non può impedire una riflessione che riporti la tragedia in atto a ciò che l’ha preceduta, a ciò che sta cambiando, a ciò che accadrà. Vengono subito in mente i versi che evidentemente non trascorreranno mai, poiché il poeta dovette cogliervi l’essenza della nazione: Ahi, serva Italia, di dolore ostello. Il paese giace in terra tramortito, e su di esso svolazza ogni specie di rapaci. Nave sanza nocchiere in gran tempesta. Chi inopinatamente si trova alla sua guida, gonfia il petto e si erge in pose eroiche, ma subito ricade sotto il peso della sua debolezza, travolto dall’immane avversità. Non donna di provincie, ma bordello! Sbarcano contingenti militari, atterrano aiuti sanitari, vengono emessi decreti presidenziali: non vi abbandoneremo. Questa striscia di terra protesa su un mare dove si concentra la storia del mondo è ancora troppo preziosa perché qualcuno possa accettare di perderla, e qualcun altro non possa tentare di impadronirsene. Le profferte si susseguono, gli aiuti interessati, gli ammiccamenti, le lusinghe. È il gioco diplomatico? No, è il bordello! Come ci siamo potuti ridurre di nuovo al bordello? Diciamoci la verità, è da un secolo che non ne azzecchiamo una. La venuta all’onor del mondo moderno era stata un parto di astuzia, ma la nave era stata varata, e pur beccheggiando, solcava i mari. Era un piccolo capitalismo, tutto concentrato a settentrione, da cui però poteva venir fuori qualcosa di originale. E questo parve poter accadere subito dopo la Grande Guerra, quando le energie degli operai e dei contadini si riversarono nelle esangui istituzioni liberali. Quel piccolo capitalismo, la cui egemonia puntellava il dominio dell’arretratezza nella vasta campagna meridionale e non, si ritrasse torvo nella sua ridotta del Nord, dove incubò sotto la corazza autoritaria di un nazionalismo antisemita, la cui disfatta causò la perdita sostanziale della sovranità nazionale. La Resistenza, le lotte contadine degli anni Cinquanta, il ventennio felice dello sviluppo economico, le lotte operaie degli anni Settanta, erano ciò che restava di quelle energie represse, fiammate di un gran fuoco spento, che proprio per questo loro carattere residuo, non giunsero mai a sintesi. La nazione non rinacque, anzi, quelle energie, quelle ultime fiammate, furono irrorate del più efficace schiumogeno, i tremendi anni Ottanta del privatismo elevato a religione i cui riti si celebravano in televisione: cosce, culi e cazzate. Il paese era percorso da un vitalismo sfrenato, che si presentava sotto un duplice aspetto: anelava ad una norma sadica, Mani Pulite, e con il miraggio di un “nuovo miracolo italiano” rifuggiva da ogni possibile regola. In questo bipolarismo trascorsero vent’anni, durante i quali si spalancarono tutti i gironi dell’inferno, gremiti da individui che gracidavano insulti l’un contro l’altro. La corruzione colava a fiotti dall’alto, e risaliva dal basso portando in alto maschere sempre più grottesche. A un certo punto, suonò la campana della “crisi economica”, che in realtà era il rendiconto finale per un popolo che si era ridotto a essere un mero, senescente raggruppamento demografico. Il paese, a quel punto, sfatto di vizi, aveva bisogno di una badante, e si pagò anche quella, nelle vesti di un comico che rinverdiva la retorica hitleriana. Dove siamo ora, nella gran tempesta? Come chi arriva all’ultima tappa dell’azzardo, si tentano mille piroette, ma senza uno straccio di idea, che non sia l’Europa. Lì per gli uni si concentra la salvezza, lì per gli altri sta il servaggio prossimo venturo. Non c’è un tempo, né un luogo dove si possa e voglia ridiscutere il tutto. Eppure, i punti all’ordine del giorno non mancherebbero. Possono ancora gli “uomini del denaro” del Nord continuare a proporsi come l’avanguardia morale del paese? Può il “capitalismo esportatore” continuare a essere il destino di questo paese? Possono ancora i “moderati” di destra, di centro e di sinistra continuare a pretendere di poter dirigere questo paese? Può il Sud continuare a vivere come un corpo senz’anima? Può il paese continuare ad affidarsi a un sistema di alleanze internazionali che sopravvive a se stesso? Attaccati a un respiratore artificiale, è difficile ripensare tutto daccapo, ma se non ora, quando?

Capitalismcoronavirus

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Il coronavirus è una guerra biologica, scatenata non da un esercito straniero, ma dall’economia in atto che ne propizia l’incubazione e la diffusione. Nei primi venti anni di questo secolo è la quinta o sesta guerra che tale economia scatena contro il resto della società1. Si chiamano pandemie, come se all’improvviso la natura irrompesse incontrollata contro l’organismo sano della società, ma in realtà si tratta di una natura che quell’economia ha asservito, potenziandone i meccanismi pro domo sua. In una recente analisi che compara gli effetti economici dell’epidemia della spagnola del 1918-1920 con quelli già prevedibili dell’attuale epidemia di coronavirus, si legge quanto segue: «oggi l’economia globale ha poche prospettive e la sua produttività rallenta inesorabilmente. La crescita è supportata solo da bolle tecnologiche e finanziarie che diventano ogni giorno più fragili. Un solo granello di sabbia può far crollare questo castello di carte. La sola risposta delle autorità oggi è la stessa data per le crisi del 2008 e del 2012: ricorrere alla politica monetaria per evitare lo scoppio delle bolle. Misura diventata per lo più inefficace. È proprio questo il paradosso dell’epoca che viviamo: a differenza del 1918, oggi non c’è una situazione di caos economico generalizzato, ma di lenta ed inesorabile decelerazione. Ciò rende l’economia molto più sensibile agli attacchi esterni, come può esserlo una pandemia, e, tramite i mercati finanziari, ai timori che li accompagnano».2. Tre sono gli elementi interessanti di questa analisi: la messa in evidenza di una lenta e inesorabile decelerazione dell’economia globale; la presenza delle bolle speculative tecnologico-finanziarie; le pandemie. Vero è che le pandemie vengono ancora considerate erroneamente “attacchi esterni”, ma viene correttamente evidenziato il fatto che le bolle tecnologico-finanziarie servono a rivitalizzare un’economia in lenta ed inesorabile decelerazione. Tali bolle hanno bisogno del livello di integrazione globale, il quale però con i suoi vertiginosi scambi di merci e di individui al servizio delle merci induce le pandemie (un contagiato che impiega un giorno per passare da un punto all’altro del pianeta, è una bomba vivente). Ecco, dunque, perché le pandemie non sono la natura matrigna che si rivolta contro la società civilizzata, bensì l’effetto indiretto e inevitabile della natura che tale economia globale assoggetta sempre più per poter scongiurare il proprio declino. Questo ciclo di agonia che si alimenta di morte per poter allontanare il proprio decesso finale ha un nome ben preciso, e si chiama caduta tendenziale del saggio di profitto, insita in quel modo di produzione che ha anch’esso un nome altrettanto ben preciso, capitalismo3. Il coronavirus, all’apparenza malvagio quanto può esserlo un individuo bastardo, è in realtà un figlio legittimo del capitalismo, è un capitalismcoronavirus. Contrariamente a quanto auspicano molti moralisti, dal capitalismcoronavirus non scaturirà nessun avanzamento sociale, poiché esso, come tutti gli “attacchi esterni” di una natura asservita dal modo di produzione capitalistico, è forza bruta che ispira paura e terrore. Sentimenti quanto mai propizi per esercitare sul tutto sociale una maggiore e più efficace costrizione, funzionale al modo di produzione che causa gli “attacchi esterni”. La fuoriuscita dal capitalismcoronavirus non consisterà perciò in una riduzione delle diseguaglianze, in un ampliamento dell’area del consenso, in una maggiore estensione dei rapporti sociali non alienati. Al contrario, il capitalismcoronavirus accentuerà il feticismo di tali rapporti, e le contraddizioni che ne deriveranno saranno provvisoriamente governate con ulteriori bolle finanziarie e tecnologiche. Riguardo a queste ultime, ha già tratto rinnovato vigore la deriva informatica, con il cogente argomento della necessità igienico-sanitaria di sospendere il livello fisico dei rapporti sociali, come se la digitalizzazione di tali rapporti, dal lavoro all’insegnamento all’amministrazione statale, fosse uno strumento neutro, e non invece un potente fattore di accrescimento della “servitù volontaria” insita nell’egemonia del modo di produzione in atto. Il capitalismcoronavirus ripropone perciò alle forze contro-egemoniche, per quanto disperse e deboli oggi siano, il compito immane ma indifferibile di riportare i rapporti sociali ad un livello in cui il tutto sociale non assoggetti più la natura per scongiurare la propria morte, bensì ne liberi le energie per promuovere la reciproca coesistenza.

  1. Giuseppe Ippolito, Enrico Girardi, Cristiana Pulcinelli, Malattie infettive emergenti, http://www.treccani.it/enciclopedia/malattie-infettive-emergenti_%28XXI-Secolo%29/ []
  2. R. Godin, Strage del 1918: cosa ci insegna l’epidemia della spagnola, «Il Fatto Quotidiano», 9 marzo 20220, pp. 13-14 []
  3. https://www.duemilaventi.net/il-capitalismo-e-i-suoi-nemici/ []

Panta rei? Il divenire dopo le elezioni in Calabria e in Emilia

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Aggiornamenti filosofici, dopo le elezioni in Calabria e in Emilia:

1) si salva il blocco democratico-europeo, ovvero il vecchio interclassismo “produttivistico” aggiornato all’“austerità” dei tempi d’oggi, che mentre predica e invoca mitezza e non violenza non si fa scrupolo di lasciare migranti in mare in attesa che si chiudano le urne, imprigionare anziane professoresse militanti No-Tav, dotare la polizia di letali pistole elettriche;

2) fallisce la falsa alternativa nazional-nordista, ovvero il blocco corporativo dei “produttori” (piccole medie imprese del Nord, pensionati “produttivi”, ecc.);

3) al Sud si conferma il blocco affaristico-malavitoso subalterno all’egemonia “produttivistica”, in cui poi a livello nazionale funzionalmente convergono sia il blocco democratico-europeo che quello corporativo nazional-nordista dei “produttori”;

4) il blocco democratico-europeo si conferma reattivo perché raccoglie i frutti della sua lunga pedagogia sociale (ideale europeo predicato nelle scuole, programmi Comenius, Erasmus, ecc.) che ha formato una leva intermedia di quadri “spontanei”, ovvero le sardine;

5) una tale pedagogia è proprio ciò cha manca al formarsi di un partito di classe meridionalistico, anti-produttivistico e rivoluzionario-europeo;

6) resta in campo perciò solo la proposta del “campo largo” del PD, con i suoi cinque punti: rivoluzione verde, sburocratizzazione, Equity Act per parità salariale uomo-donna ed equilibrio nord-sud, aumento della spesa per l’educazione, piano per la salute1. Un modo per smussare le punte aguzze delle questioni, irretire le sardine di oggi e di domani, lasciare immutata la struttura di base che rende impossibile la realizzazione di quei cinque punti;

7) continua dunque il “galleggiamento”, ovvero la sfida tutta italiana all’impossibilità di bagnarsi più di una volta nello stesso fiume.

 

  1. W. Marra, I decreti sicurezza accendono il ritiro dem, «Il Fatto», 15.1.2020, p. 4. []