Politica

Il miraggio dell’identità

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Le recenti chiusure di scuole in occasione di festività religiose non cattoliche, decise autonomamente da presidi che così colmano annosi vuoti normativi di fronte a realtà sempre più dirompenti, hanno offerto agli attuali vertici ministeriali dell’istruzione e del merito il destro per ribadire che la nuova scuola si basi sull’apprendimento di nuovi saperi nel quadro però di un’affermazione prioritaria dei valori della lingua e della cultura italiana. Le classi siano perciò a maggioranza bianche e italiche. A questo arrocco identitario, si è opposto invece che la nuova scuola deve essere principalmente capace di rendere liberi dall’ignoranza. Ben detto, ma bisogna vedere se questa richiesta, avanzata da coloro che si propongono come i più “illuminati” fra i nativi e gli immigrati, può effettivamente diventare il fondamento di un nuovo “umanesimo” che travalichi le identità e le gerarchie di partenza, senza scadere in un sincretismo mal distinguibile o comunque incapace di opporsi al cosmopolitismo della pedagogia produttivistica in auge, di cui gli identitari, proprio con il merito, lautamente si pascono. Insomma, si tratta di capire che cosa si intende per ignoranza, perché se il suo superamento è solo il rifiuto delle ingiustizie che impediscono la propria affermazione personale, che ostacolano il proprio “piano di vita”, che spengono i propri “sogni”, allora per una via differente si perviene allo stesso individualismo della gran massa dei nativi, siano essi collocati in alto o in basso nelle gerarche sociali esistenti.

Intanto, a proposito di merito e di pedagogia del fare ben dissimulata da appassionati proclami identitari, nel corso degli anni, anche con il fattivo operato rivendicato dall’attuale responsabile del dicastero dell’Istruzione,  si è trasformata l’Università da istituzione dello Stato in cui, almeno idealmente, menti autonome elaboravano al più alto grado il sapere universale e la cultura nazionale, a congregazione in cui, giurando sui protocolli della “qualità” elaborati da centri anonimi e sovrastatuali di cui ministeri, atenei e dipartimenti sono solo organi ricettivi, ci si impegna a partecipare a riunioni, compilare moduli e rispettare scadenze, tutti riti burocratici che definiscono le “missioni” di codesta congregazione, il cui adempimento assicura gli “accreditamenti” con i quali la “comunità” accademica concorre virtuosamente agli “sbocchi occupazionali”. In questa mondana “chiesa del profitto”, il cosiddetto “baronaggio”, le cui trame di potere non sempre ma spesso prima si accompagnavano al prestigio culturale, non è scomparso ma si è solo inabissato, dedicandosi a intercettare i finanziamenti e a occupare più o meno familisticamente i posti attraverso cui riprodursi, lasciando che in superfice si affollino intorno a una miriade di cariche individui divisi tra l’aspirazione a un’autentica auto-determinazione e l’assuefazione  alle sempre più assillanti incombenze burocratiche che li rendono docili alla “religione” produttivistica, anche in quei contesti in cui la “produzione” è solo un miraggio e l’alta cultura dovrebbe servire proprio a comprendere criticamente il persistere di tale miraggio. Se c’è un luogo, insomma, dove si può constatare nella maniera più lampante il vuoto declamatorio dell’identitarismo asservito al produttivismo, di cui membri eminenti dell’attuale governo sono chiassosi esponenti, questo è l’Università.

Il Bypass sullo Stretto

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Il Ponte sullo Stretto di Messina è il bypass che i dottor Stranamore del capitalismo italiano, nelle vesti dei rustici leghisti saliti a Roma dalla Val Brembana, stanno applicando al suo vecchio cuore ansimante. Esso vuole essere una potente immissione di capitale fisso che, rimettendo in moto il volano del capitale variabile, rianimi l’estrazione nazionale di plusvalore. Che razza di linguaggio è? Semplice. Dagli anni Cinquanta in poi, il vecchio blocco tra rendita agraria del Sud e capitale industriale del Nord, sul cui patto leonino, siglato a detrimento delle popolazioni meridionali, si reggeva l’Unità d’Italia, venne sostituito dall’intervento diretto dello Stato imprenditore. Così, mentre il lavoro con le occupazioni delle terre si batteva per uno sviluppo sociale alternativo, “altrove” in maniera necessaria e indipendente dalla sua volontà si decideva che il Sud si sarebbe dovuto sviluppare divenendo lo strumento per accrescere la quota di capitale variabile dell’intero processo produttivo nazionale. Tramite questa maggiore estrazione nazionale di plusvalore, presentata come un generoso trasferimento di risorse, il Sud veniva destinato a divenire un vasto deposito a cielo aperto di fabbriche, macchinari, infrastrutture, appunto, di capitale fisso la cui realizzazione, nei successivi decenni, avrebbe effettivamente fatto convergere gli indici di “sviluppo” tra Settentrione e Meridione, ma avrebbe annientato le forze del lavoro, le sole in grado di promuovere uno sviluppo autoctono meno effimero di quanto poi si sarebbe rivelata quella contingente convergenza. In parole povere, il Sud in questo modo diveniva un’area destinata a essere nazionalmente produttiva grazie alla sua locale improduttività. Per il pensiero economico dominante queste sono assurde farneticazioni, ma servirsi del pensiero economico dominante per analizzare la questione meridionale negli ultimi cinquant’anni è come farsi luce in una notte buia con una torcia scarica. Basti dire che tale pensiero, per bocca tanto dei teorici quanto dei “pratici”, siano essi sindaci, presidenti di Regione, capitani d’industria ma anche senso comune dominante, continua a esaltare la creazione di capitale fisso con la giustificazione che solo da esso potrà venire lo sviluppo del Mezzogiorno, sviluppo che, come Godot, si aspetta invano da un secolo o quasi. Infatti, le cose non sono cambiate nemmeno quando, dopo la cesura delle privatizzazioni, all’inizio degli anni Novanta, lo Stato ha smesso il suo ruolo di imprenditore diretto. È stato allora che il Sud è entrato in una sorta di coma cui è corrisposta nazionalmente la stagnazione mascherata dall’austerità con cui ci si è comprato il diritto di partecipare all’avventura dell’euro. E qui torniamo all’oggi in cui il vecchio cuore del capitalismo italiano regge a malapena il peso di un’economia esportatrice i cui margini di profitto sono vieppiù erosi da un mercato mondiale in profonda trasformazione e ha quindi il disperato bisogno di rimettere in moto quel volano interno fatto di grandi opere il cui valore d’uso è nullo poiché conta solo la sua capacità di produrre valore di sistema. Il Ponte sullo Stretto bisogna paragonarlo a una piramide. Non serve a niente ma fa girare il capitale. Certo, se fosse portato a termine avrebbe un valore simbolico altissimo e l’Italia morente del XXI secolo potrebbe vantarlo come l’ultimo guizzo “rinascimentale” prima del suo tramonto. Ma nella terra che in ogni epoca concorse con pensieri e opere alla fioritura della civiltà occidentale non ci sarebbe più spazio per una sua specifica filosofia “meridionale” che molti ancora si ostinano a ricercare per salvaguardare e sviluppare tale vocazione civilizzatrice, poiché le sarebbe riservata la stessa fine dell’Egitto, una delle tante stazioni del rigoglioso turismo mondiale governata da qualche capoccia che deve solo far quadrare i conti.

Una gravosa eredità

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Nel 1874, Friedrich Engels, scrivendo a un suo corrispondente, prendeva atto che l’Internazionale, l’organizzazione proletaria in cui aveva prevalso il socialismo “scientifico” ispirato da lui e Marx, nella sua vecchia forma aveva fatto il suo tempo e così preconizzava il futuro: «per poter creare una nuova Internazionale nel modo in cui si è creata la vecchia, un’alleanza di tutti i partiti proletari di tutti i paesi, sarebbe necessaria una generale sconfitta del movimento operaio, come ha predominato dal 1849 al 1864. Ma il movimento proletario è diventato troppo grande, troppo ampio perché ciò possa avvenire. Ritengo che la prossima Internazionale sarà – dopo che gli scritti di Marx avranno agito per alcuni anni – direttamente comunista e che inalbererà apertamente i nostri principi». Sebbene dilazionata dall’interregno della Seconda Internazionale, la previsione di Engels si rivelò azzeccata, poiché la Terza Internazionale sorse su basi interamente comuniste ispirandosi alle teorie sue e di Marx. Ma non è per questo che suscita ancora interesse la sua previsione, quanto per la condizione che egli pone per la rinascita di una nuova Internazionale simile alla Prima, ovvero una ulteriore «generale sconfitta del movimento operaio» che egli però riteneva impossibile perché il movimento proletario era diventato «troppo grande, troppo ampio» perché ciò potesse avvenire. A smentita di tale premessa, il tempo presente è quello di un movimento operaio che, divenuto grande e ampio al punto da dar luogo a una Internazionale interamente comunista, è stato poi sconfitto e rinchiuso in una prigione a cielo aperto dove, da decenni ormai, la “coesione sociale”’ è l’ordine esistente, le “tensioni sociali” danno luogo non a lotte di classe ma a “delicate vertenze occupazionali” e, infine, le “specifiche rivendicazioni dei lavoratori” non devono mai tralignare nella “militanza politico-ideologica”. I più tosti si scagliano contro queste sbarre linguistiche, per la verità, senza molto costrutto, gli altri si abbandonano alla malinconia, un sentimento più reattivo della nostalgia ma che risponde più al narcisismo del proprio io ferito che non a una effettiva volontà d’azione. Si aprono così le porte delle celle a regime speciale, avvengono le bastonature “occasionali” da parte di forze dell’ordine “democratiche”, si moltiplicano le identificazioni delle questure, si alza la canea vociante contro prese di posizione “rivoluzionarie” che però si rivelano incaute anche per chi anela al martirio verbale. Eppure, ci fu un tempo in cui c’era chi, come Norberto Bobbio, poneva l’esigenza di elaborare una teoria volta a chiarire le modalità di inserimento dell’esperienza comunista nello sviluppo della civiltà liberale di cui, egli precisava, «il comunismo è certamente figlio, se pur non ancora a pieno diritto l’erede» (Bobbio, Politica e cultura, p. 131). Il non riconoscimento di tale diritto e addirittura la cacciata di casa del legittimo erede ha finito per compromettere la stabilità dell’intero edificio della civiltà liberale, governato ormai da vecchi dormienti e pazzi esagitati. Ma per restare a quel dovere degli “uomini di cultura” cui lo stesso Bobbio richiamava coloro che hanno a cuore le sorti della ragione, strano parto dell’umana cognizione che ne illumina il cammino al prezzo di qualche tragico errore, la discussione non può che ripartire da quegli snodi la cui mancata o insufficiente elaborazione ha provocato quella fatale rottura i cui deleteri effetti oggi constatiamo. Riflettendo sul rapporto Krusciov, Bobbio considerava la mancata previsione della tirannia di Stalin nel periodo di transizione della dittatura del proletariato come l’indizio di una deficienza della dottrina marxista (Bobbio, Politica e cultura, p. 248). Infatti, posto che si consideri la dittatura personale come il regime che esprime le difficoltà in cui si viene a trovare una classe dirigente in declino, la denuncia del regime di Stalin come una dittatura personale significava ammettere le difficoltà della trasformazione economica nel passaggio dal regime della proprietà privata a quello collettivistico (Bobbio, Politica e cultura, p. 259). Due punti non tornano in questo ragionamento. Anzitutto, le difficoltà non equivalgono al declino. Come si evince dagli indici di sviluppo economico, sociale e demografico, sotto Stalin la società sovietica pur tra grandi difficoltà non declinò, bensì avanzò. Fu piuttosto il rapporto Krusciov a segnalare l’inizio del declino che, dopo la stagnazione brezneviana, culminò nella mortale stagione della perestrojka. In secondo luogo, se la dittatura personale esprime il declino di una classe dirigente, che dire della dottrina liberale che non previde il sorgere della dittatura mussoliniana? Se il buco teorico c’è, ciò vale per la dottrina marxista come per quella liberale. Evidentemente, è la nozione di dittatura di classe che va qui chiarita. Essa non concerne la sfera politica bensì l’ontologia economica. La dittatura di una classe nella struttura può ben convivere nella sfera politica con una democrazia, diretta o parlamentare che sia, oppure con una dittatura personale. Ciò non vuol dire che non vi sia un rapporto tra i due livelli, ma il fatto che vi è una distinzione, storicamente attestata dall’oscillazione tra democrazia e dittatura politica nel regime di dittatura capitalistica nella struttura, significa che la dittatura del proletariato nella struttura, qualora la contingenza storica lo consenta, non necessariamente deve comportare la dittatura personale o comunque politica nella sfera politica. Quindi, benché ai puristi possa dispiacere, un comunismo democratico è possibile (il Venezuela attuale con il suo “costituzionalismo egemonico” è qualcosa che si approssima a questo modello). Il problema è nel trapasso dall’una all’altra ontologia economica. È evidente che il passaggio è violento, ma è stata violenta l’instaurazione dell’ontologia economica capitalistica ed è violenta la sua difesa, affidata com’è alla forza “legale” e al suo simulacro, il consenso. Imputare la violenza solo al progetto “rivoluzionario” di mutare il fondamento dell’ontologia in essere equivale ad affermare che l’unico ordine possibile è quello esistente. Il che è già un atto intellettualmente violento. Il cozzo delle ontologie si può evitare accordandosi a monte circa la legittimità della loro pluralità, almeno per un lungo periodo di transizione. Il liberalismo, dunque, se vuole risorgere staccandosi dall’abbraccio mortale con il liberismo cui ha incautamente affidato le proprie sorti, deve richiamare presso di sé il comunismo e chiedergli di farsi carico della sua gravosa eredità. Su questo sfondo di pluralismo ontologico, la formula della dittatura del proletariato può essere allora ripresa come architrave di una nuova alleanza internazionale che si proponga di riportare all’antico splendore l’edificio non tanto della civiltà liberale, ma della ragione, di cui la civiltà liberale è stato solo il primo, imperfettissimo passo. I detriti della storia non possono più essere un alibi per procrastinare questo accordo. Ogni giorno che passa, i nemici della ragione acquistano terreno, religioni vecchie e nuove, irrazionalismi del passato e del presente rialzano la testa e si propongono come il solo rifugio dell’uomo angosciato, la politica diventa puro confronto di potere e nella struttura ristagna il tanfo di un’antropologia sempre più corrotta. Per l’Occidente, è l’ultima chiamata.

Una nuova stagione della ragione democratica

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Non è senza significato il fatto, per così dire, frivolo dei fischi a Geolier per la sua vittoria nella serata delle cover a Sanremo. Parte del pubblico dell’Ariston è sfollato e sui social ci si è scatenati contro il napoletano che, supportato dai camorristi e dai morti di fame del reddito di cittadinanza, non canta nemmeno in italiano. Già, l’italiano. E la nazione italiana. Secondo un certo pensiero che qui adottiamo per amor di tesi, per fare una nazione ci vuole il sangue, la lingua e un territorio. Il territorio non è mai mancato, tanto che l’Italia a lungo è stata solo un’espressione geografica. Tralasciamo gli sgangherati tentativi leghisti di riportarla a tale stato con l’“autonomia differenziata”, ma il sangue e la lingua dove sono? Dai Sicani a oggi, la Sicilia ha avuto una dozzina di “invasioni”. Questo per quanto riguarda gli uomini liberi, perché in epoca romana gli schiavi provenienti da mezzo mondo allora conosciuto erano milioni e mischiarono il loro sangue con quello dei padroni. Dov’è il sangue “italiano” in Sicilia? La domanda si può porre per ogni altra regione della penisola, e se in Sicilia ci si dorme sopra, in Veneto issano lo stendardo del Leone di San Marco. Ma veniamo alla lingua. L’italiano ha impiegato così tanto a divenire lingua nazionale che nel 1948, quando la patria rinacque, i padri costituenti, che pure lo padroneggiavano alla grande, neppure lo menzionarono in Costituzione. E ciascuno di noi, ancora dopo decenni di martellamento televisivo nell’italiano espressivo della pubblicità, dello spettacolo e dell’intrattenimento politico, cresce e parla nei rigogliosi “dialetti”. Questo per dire che se si vuole proprio parlare di nazione, allora bisogna parlare della nazione veneta, della nazione sarda, della nazione siciliana, della nazione napoletana e via dicendo. E questo, al netto di tifo organizzato e altre diavolerie dell’epoca social, spiega perché Geolier vince al televoto. Perché fra tutte le nazioni della cacofonia italiana quella napoletana è, in special modo nella musica, la più “universale”, ovvero la più capace di elaborare la propria “particolarità” in un linguaggio che si impone anche a chi napoletano non è. Ma allora che cos’è l’Italia? È un territorio le cui molte nazioni che lo popolano hanno trovato la forza alla metà del XIX secolo di stipulare fra di loro un patto politico. Non è stato un idillio. Era un patto leonino fra nord e sud, fra città e campagna, fra classi alte e classi basse, ma comunque era un patto politico che ha avuto bisogno di aggiustamenti e rifondazioni, prima fra tutte la Costituzione del ’48, e avrà sempre bisogno di modifiche e revisioni. Se si deve proprio parlare di nazione italiana, il suo fondamento è politico e l’attentato più grande a tale fondamento è stato il fascismo. Il fascismo storico e il neofascismo che nei primi decenni della Repubblica è stato tra le forze che hanno attaccato la democrazia intesa come sbocco storico del patto risorgimentale rinnovato dalla Resistenza. Questo attacco non è mai finito. Oggi si ripresenta nelle vesti di un conservatorismo raccogliticcio che si fa forte di ciò che è ancora indicibile circa i tanti crimini di quei decenni e cerca una legittimazione in un’Europa debole e smarrita. Tanti errori e divisioni del passato possono essere superati in questa nuova stagione in cui l’antifascismo assume il significato dell’apertura di una nuova fase democratica che sviluppi ulteriormente le potenzialità del patto politico originario. L’europeismo oggi non può che essere antifascista. Ma il fascismo non va contrastato solo nell’Europa delle adunate tenebrose, delle memorie funeree, delle giornate dell’onore. Lo sterminio a Gaza è condotto da uno Stato occupato da una cricca fascista. Putin è un fascista e tutto il mondo russo, quindi compresa l’Ucraina che simula la democrazia, è percorso da un vento fascista. Trump è un fascista come può esserlo un plutocrate americano. Marcare la discriminante antifascista può chiarire ovunque la posizione scomoda, difficile ma necessaria delle nuove forze democratiche. Non siamo più nel 2011 quando la JP Morgan denunciò le costituzioni antifasciste di Spagna Italia e Grecia come ostacoli alla crescita economica. Le politiche di austerità continuano, certo, ma sono movimenti meccanici di un corpo in decomposizione. Siamo in una fase nuova in cui le contraddizioni capitalistiche possono essere superate in un’intensificazione democratica dove liberalismo, socialismo, comunismo, anarchismo, tornano liberamente a competere per riaprire il cammino di quella ragione universale che all’esordio della modernità generosamente li mise al mondo. Ma per cogliere queste opportunità deve essere chiaro che i fascisti devono sloggiare dai palazzi di governo che la democrazia regala loro quando si riduce ad arido formalismo elettorale. Deve essere chiaro che agli antifascisti non si mettono ceppi e manette: c’è la legge per giudicarli di eventuali reati. Deve essere chiaro che la democrazia non si soffoca con l’idolatria del capo. Deve essere chiaro che se il fascismo si nutre di radici, la democrazia svetta continuamente in fronde nuove.

Bensoussan le spara grosse

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Nel giorno della morte di Henry Kissinger, costruttore di un mondo di pace attraverso guerre, intrighi e assassini infiniti (pace alla grande anima di Salvador Allende), è giusto prendere in considerazione le dichiarazioni che lo storico franco-marocchino di origine ebrea Georges Bensoussan ha rilasciato il 28 novembre scorso a Giulio Meotti, giornalista presso una delle più petulanti gazzette del coro mediatico filo-israeliano, ovvero “Il Foglio” fondato da Giuliano Ferrara, la spia che venne da Washington. Dopo un inizio in cui viene servito un frullato di grandguignol e di chiagni e fotti, Bensoussan arriva al dunque e rivela quanto segue:

“Gli ebrei sono accusati di essere intrusi, ‘colonialisti’. La realtà storica dice il contrario: assistiamo, nel XIX secolo, all’interno della minoranza ebraica continuamente presente su questa terra, a un movimento di rinascita nazionale ebraica. Un movimento che intende emanciparsi dal diritto ottomano (lo fece nel 1918) e soprattutto dalla dhimma, abolita per legge nel 1856, ma che di fatto persiste nelle mentalità. Liberarsi di questa secolare oppressione che rende gli ebrei (e i cristiani) cittadini di seconda classe è ciò che rende il sionismo, fin dalle sue origini, un movimento di emancipazione e una lotta anticolonialista contro una condizione dominata dall’islam. È questa lotta che, nata dall’interno della Palestina e alla quale si unisce il movimento sionista dall’esterno, intende rifondare uno stato-nazione nella terra dei nostri antenati”

Ora, nell’Impero ottomano la dhimma, che comportava una subordinazione al potere musulmano ma assicurava anche dei diritti, era una condizione giuridica che riguardava non solo gli ebrei ma molte altre minoranze etniche e religiose tra cui, appunto, i cristiani. Di qui l’ammiccamento di Bensoussan. Non risulta comunque che nessuna di tali minoranze abbia avviato un movimento teso a fondare uno stato-nazione nel territorio in cui vivevano da (presunti) oppressi. Non risulta nemmeno che sia mai esistito un movimento di emancipazione della minoranza ebraica autoctona in Palestina che abbia poi chiamato in soccorso, per così dire, il movimento sionista europeo, il cui fulcro era costituito da ebrei ashkenaziti, a differenza di quelli che vivevano in Palestina, che erano sefarditi ottomani e arabi ebrei. Nella multietnica e plurireligiosa realtà palestinese dell’epoca, gli ebrei ashkenaziti europei che cominciarono ad affluire alla fine del XIX secolo furono ben accetti, anzi furono ammirati per la tenacia e i progressi da loro prontamente conseguiti. La tensione invece si innescò quando cominciò a manifestarsi il progetto sionista di cui gli ebrei ashkenaziti erano portatori, ovvero la trasformazione della Palestina nella sede di uno Stato che potesse accogliere la rinata nazione ebraica. Insomma, il sionismo non portò alcun aiuto agli ebrei autoctoni ma, per la sua carica aggressiva, probabilmente peggiorò la loro condizione come quella, d’altronde, di tutte le altre minoranze, nonché della maggioranza araba musulmana ridotta allo stato di intrusa a casa propria. È veramente penoso che sull’onda di contingenti contrapposizioni politiche uno storico come Bensoussan si debba ridurre a sparare balle come un Marco Travaglio qualsiasi passato dai mattinali di procura alla storia del conflitto arabo-israeliano.

Purtroppo, nell’intervista in questione le balle sparate sono state numerose. Dopo avere invocato un’analisi culturale, antropologica e psicanalitica per venire a capo dell’intricata questione israelo-palestinese, e dopo avere reso omaggio alla modernità e all’Illuminismo, Bensoussan afferma:

“Sappiamo che il legame speciale degli ebrei con Gerusalemme è oggi contestato. Ma allo stesso modo in cui possiamo, con la stessa sicurezza, assicurare che la terra è piatta e che il sole gira attorno al nostro pianeta. Queste sciocchezze ideologiche non impediscono che Gerusalemme venga nominata più di 600 volte nella Bibbia”.

Dunque, il legame speciale degli ebrei con Gerusalemme, cioè il preteso diritto di Israele di farne la propria capitale, è una verità scientifica al pari del giramento della terra attorno al sole. Per la verità, qui girano altre cose poiché è veramente contro ogni spirito della modernità, pur reiteratamente invocato, pretendere di fondare sulla Bibbia un diritto politico contemporaneo. Con quale faccia poi si può rimproverare ai musulmani di porre la sharia a base della loro attuale condotta morale e giuridica? Ma Bensoussan continua:

“Il principio della sovranità ebraica e quello della liberazione da uno status discriminatorio sembrano difficilmente accettabili in un mondo arabo-musulmano che, nonostante alcuni tentativi hanno mancato il movimento illuminista occidentale”.

Si pregano l’esimio Bensoussan e i gazzettieri del Foglio che gli reggono il moccolo di non immischiare il movimento illuminista occidentale con i deliri di potenza dello Stato israeliano nato da un’ideologia nazionalista come il sionismo, mortifero come tutte le ideologie nazionaliste. Il giornalista Meotti però non è ancora soddisfatto e rilancia: l’attacco del 7 ottobre è stato costellato da atti di barbarie. Bensoussan non aspetta altro:

“L’efferatezza di cui parli non è un’operazione militare, è una ‘caccia agli ebrei’ in una violenza che è implicitamente la risposta alla rivolta degli ebrei dominati contro la sua condizione di dhimmi, la risposta all’‘arroganza’ dal sottomesso di ieri che pretende di fondare uno stato-nazione in Palestina. È la sua ribellione che intendiamo far pagare all’ebreo con questo sfogo di crudeltà. Tuttavia, gli occidentali oggi sono incapaci di comprendere questa economia dell’odio, sognano da woke una società pacifica ed edonistica, dimenticando che la forza principale dei popoli, come diceva Raymond Aron, non risiede tanto nella ricerca dei propri interessi razionali quanto piuttosto nella ricerca del trionfo delle loro passioni arcaiche”.

Naturalmente, il memorabile detto di Raymond Aron è diretto contro gli arabi lanciati alla folle ricerca del trionfo delle loro arcaiche passioni. Quelle israeliane invece sono così moderne e illuminate che, come abbiamo visto, per dimostrare il diritto di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele ci si rifà a un recentissimo instant book qual è la Bibbia. Ma godiamoci le conclusioni di Bensoussan che il Meotti riporta compuntamente in ginocchio e con le mani giunte:

“Il nazionalismo è capace di negoziare con la realtà anche a costo di maledirla perché è consapevole dei suoi limiti. Per esso la politica è un mezzo. Questa concezione si ispira alla modernità dell’Illuminismo e più precisamente allo choc intellettuale e politico delle guerre di religione in Europa nei secoli XVI e XVII, che portarono per la Francia all’Editto di Nantes e per l’Europa ai trattati di Vestfalia (1648). Il mondo arabo-musulmano ha conosciuto diversi tentativi di modernità. Ma questo promettente vento di liberalismo, dal Cairo a Baghdad, si esaurì negli anni Trenta sotto il peso delle ideologie totalitarie provenienti dall’Europa, e si perse definitivamente con la sconfitta araba del 1967 che, di conseguenza, conferì all’islam un peso maggiore nel 1979 con la vittoria degli islamisti sciiti a Teheran. Tuttavia, l’orizzonte islamico cui Hamas partecipa è il jihad che separa il mondo tra la terra dell’Islam e la terra della guerra (Dar el Harb) combattuta per la conquista. Una concezione del mondo evidentemente in contrasto con lo spirito dell’Illuminismo e che rende impossibile qualsiasi soluzione politica”.

Al netto dell’erudizione, della supponenza e della disonestà con cui ci si assolve delle proprie colpe (impagabile quanto si afferma a proposito del nazionalismo!), colpisce il richiamo alle ideologie totalitarie provenienti dall’Europa che avrebbero stroncato il profumato vento di liberalismo che spirava prima degli anni Trenta dal Cairo a Baghdad. Egregio Bensoussan, il sionismo socialista, benché minoritario, vogliamo classificarlo anch’esso tra le ideologie totalitarie?

Quel che viene fuori da una simile intervista è un Medio Oriente come discarica dell’Europa in cui i nativi sono delle statuine come i pastorelli del presepe e tutto lo sdegno che si ostenta non sembra diretto contro i crimini commessi il 7 ottobre da Hamas, dagli jihadisti o da gruppi sparsi di banditi, ma contro la pretesa dei pastorelli di poter dire la loro su come il presepe del Medio Oriente deve essere costruito. Ma sì, in fondo, tutta la colpa è dei Romani…