Politica

I paradossi dell’UE e la nuova Bisanzio che verrà

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L‘Europa odierna è un cumulo di paradossi. Si prenda il suo deficit di consenso popolare e il suo contrastato rapporto con la Russia. Con la tremenda terminologia informazionale, si potrebbe dire che, dal punto di vista ideologico, l’UE è il risultato di una programmazione top-down, analoga alle “rivoluzioni passive” che portarono all’unificazione dell’Italia o della Germania nel secolo XIX, o alla risurrezione della Polonia dopo la prima guerra mondiale. Uno degli ultimi atti di questa programazione è stato il progetto Barroso del 2014 di una “nuova narrazione europea”. Sono stati mobilitati artisti, scrittori e scienziati, per creare con pubblicazioni, dibattiti, siti internet, un movimento nazionale popolare. Peccato però che questa narrazione non sia riuscita minimamente a diventare popolare. I dibattiti legati a quell’iniziativa sono rimasti pura chiacchiera di alto bordo, e il sito internet dedicato ai giovani, per farli interloquire con l’Europa, è ancora presente ma non sembra essere stato recentemente aggiornato. Dunque, per quanto ci si sforzi, l’Europa resta un’idea che piomba dall’alto su “mondi vitali” ai quali chiede di fare harakiri in nome di una isterica costellazione di valori, mercato, concorrenza, cosmopolitismo, sviluppo, razionalità, che finisce per esacerbare il problema che vuole risolvere, ovvero la contrapposizione tra città e campagna, tra urbanesimo e ruralismo, tra modernità e tradizione.

In tutto questo, con la sua ideologia eurasiatistica, la Russia ha buon gioco a proporsi come paladina della tradizione, della campagna, della ruralità. E se questa ideologia non passa in Polonia o in Ucraina, dove domina il secolare nazionalismo anti-russo, più facilmente passa in Ungheria o in Serbia, ma anche nell’Europa meridionale, dove diventa lo sfondo per un approccio simpatetico strumentalmente “commerciale”, esemplificato dal detto secondo il quale i russi sono i napoletani del nord. La minaccia russa è dunque creata dall’Europa stessa, che non solo si aliena da sé nel mercato e nella modernità, ma offre alla Russia il pretesto per permanere nella propria stasi, dove può prosperare la sfacciata oligarchia che, sorta con la dissoluzione dell’URSS, arriva al punto di assoldare per i propri affari un ex-cancelliere tedesco.

Su questo dettaglio si potrebbe ulteriormente ricamare, trattandosi di un ex-cancelliere socialdemocratico. Nel nome del petrolio, i nipotini di Lenin si sono dunque rappacificati con i nipotini del rinnegato Kautsky. Ma veniamo ad un altro paradosso europeo, che ci porta oltre la Manica e al di là dell’Atlantico. Per i conservatori britannici e americani, l’UE è un’istituzione di sinistra, mentre per tanta parte del pensiero progressista e di sinistra, nonostante le sue funzioni di redistribuzione (fondi europei) e il suo sostegno allo stato sociale (per altro sempre più blando), è parte del problema neoliberista, poiché con le sue normative uniformi e le leggi sulla concorrenza rende impossibile l’implementazione pratica delle idee di sinistra. Insomma, se ci fosse una leadership europea pro-lavoro, anziché una pro-finanzcapitalismo, un paese come la Gran Bretagna, dove Jeremy Corbin ha fatto il miracolo di riportare alla vittoria il Labour Party, potrebbe non avere più alcuna ragione di lasciare le istituzioni europee. E questo sta a dimostrare cosa potrebbe essere un’Europa non solo federale, con il suo bravo ministro del bilancio, richiesto con petulante insistenza dai finanzfederalcapitalisti, ma un’Europa anche socialista, con un suo forte e incisivo ministro del lavoro. A questo sarebbe dovuta servire la “dittatura federale” di cui scrivevano Rossi, Spinelli e Colorni nel loro Manifesto di Ventotene. Ma nell’odierna UE, dove si dovrebbe insediare questa dittatura? Esiste già la dittatura della Commissione, guardiana di una democrazia burocratica che ogni giorno che passa mostra sempre più il suo volto ipocondriaco di regime della ricchezza privata. Forse, allora, nel Parlamento europeo? Non certo così com’è. Alcuni, e Habermas fra questi, pensano che bisognerebbe varare delle liste transnazionali, in modo da favorire la formazione di un sistema di partiti europeo, in mancanza del quale il Parlamento di Strasburgo non diverrà mai il luogo degli interessi sociali. E per una tale fondamentale riforma, Habermas addita con debordante entusiasmo il genio politico di Emmanuel Macron1. Ma Macron non è colui che ha assorbito in sé destra e sinistra, proponendosi come l’ennesimo campione della programmazione top-down? Si può davvero pensare che dalla reiterazione di una tale rivoluzione dall’alto possa discendere uno spostamento dell’asse dell’UE dal capitale al lavoro? Ci sarebbe bisogno, dunque, della ripresa dal basso di un salutare conflitto di classe, di cui poi i partiti transnazionali sarebbero la naturale nomenclatura. Ma un tale conflitto è oggi impaniato in un altro dei paradossi europei, il paradosso del “panico demografico”.

Un argomento popolare vuole che un’Europa invecchiata abbia bisogno di immigrati, ma da un lato l’Europa invecchia perché il suo modello economico scoraggia i giovani europei dal produrre e riprodursi, e dall’altro l’accento sull’Europa che invecchia finisce per rafforzare un senso crescente di melanconia esistenziale. Una sinistra ideologicamente rigida fa finta di non vedere, ma ci sarà qualcuno che leggerà la poesia italiana, francese, tedesca o bulgara, fra cento anni? Gli immigrati finiscono dunque per apparire come i becchini dell’Europa, un’annuncio non di vita, ma di morte. E che dire del cosmopolitismo, di cui Schengen è l’emblema frontaliero? Gli urban men e le urban women si sentono a proprio agio nel viaggiare, vivere e lavorare in tutto il continente. Ma coloro che non possono o non vivono all’estero, hanno dei sospetti nei confronti di chi ha il cuore a Parigi o a Londra, il denaro a New York o a Cipro, e la fedeltà a Bruxelles.

Impigliata in queste contraddizioni, che ne sarà dell’Europa? Qualcuno che la sa lunga, paragona l’Europa e gli Stati Uniti con le metà occidentali e orientali dell’antico Impero Romano. L’Occidente implodeva, nel dramma, nella violenza, tra pazzi Cesari; l’Oriente bizantino rimase attivo, burocratico, stanco e prevedibile, per molti secoli. È questa nuova Bisanzio che l’Europa vuole diventare?

  1. J. Habermas, Si può ancora fare politica contro le false idee sull’Europa, “la Repubblica”, 28.10.2017, pp. 48-49 []

Il gattopardismo, ideologia universale del capitalismo

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Nella Sicilia che si avvia al voto, una frenesia immobile percorre i raggruppamenti politici. Tutti promettono il cambiamento, tutti coniugano il futuro, tutti si proiettano sul domani, ma le vecchie facce, i vecchi nomi, le vecchie cordate presidiano come sempre i loro territori, pronti a riciclarsi nell’ennesima rivoluzione passiva. Imputare questo costume ai soli siciliani, sarebbe però a dir poco ingeneroso. Ormai tutti, o con rassegnata disillusione o con malcelata rivendicazione, si confanno all’assioma secondo cui «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», e semmai ci si deve chiedere com’è potuto accadere che il gattopardismo sia divenuto una regola universale. Tomasi di Lampedusa era uno scrittore, ma nel suo romanzo ha descritto meglio che un teorico questa ideologia, facendola apparire nelle parole e nei comportamenti dei suoi personaggi, alti e bassi, dominanti e dominati, intellettuali e minuta gente del volgo. Il principe Fabrizio e il nipote Tancredi sono naturalmente quelli che la incarnano per eccellenza, il primo con disincanto il secondo con fervore, ma lo scopo è lo stesso, conservare il potere: «se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?». Ma su quale concezione poggia questa spregiudicata regola d’azione? Anzitutto, il naturalismo: ciò che conta non è il caotico mondo sociale, ma il regolare mondo fisico. Così, nelle ore in cui ferve lo sfrenato movimento politico che abbatte i Borbone e innalza i Savoia, «sostenuti, guidati, sembrava, dai numeri, invisibili ma presenti gli astri rigavano l’etere con le loro traiettorie esatte. Fedeli agli appuntamenti le comete si erano avvezze a presentarsi puntuali sino al minuto secondo dinanzi a chi le osservasse. Ed esse non erano messaggere di catastrofi: la loro apparizione prevista era anzi il trionfo della ragione umana che si proiettava e prendeva parte alla sublime normalità dei cieli». La ragione umana è tale, dunque, perché è in sintonia con la perfezione matematica della natura, dalla cui altezza può guardare con distacco agli appetiti e alle passioni del mondo storico-sociale: «Lasciamo che qui giù i Bendicò inseguano rustiche prede e che il coltellaccio del cuoco trituri la carne di innocenti bestiole. All’altezza di quest’osservatorio le fanfaronate di uno, la sanguinarietà dell’altro si fondono in una tranquilla armonia». Perché il gattopardo, se ha un problema, è «quello di poter continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più astratti, più simili alla morte». Questa astrattezza funerea, che fa del dominante più un meccanismo naturale che un prodotto sociale, non impedisce però al gattopardo di vivere nel mondo, anzi, egli sa benissimo che «viviamo in una realtà mobile» alla quale bisogna adattarsi «come le alghe si piegano sotto la spinta del mare». Ritorna il naturalismo, ma il Principe spiega a Padre Pirrone, l’arrovellato intellettuale organico di una istituzione cui il gattopardo riserva solo un formale ossequio, che se «alla Santa Chiesa è stata esplicitamente promessa l’immortalità; a noi, in quanto classe sociale, no». Per la classe dominante, «un palliativo che promette di durare cento anni equivale all’eternità». Un pragmatismo assoluto, dunque, che baratta volentieri la dimensione spirituale, per quanto immortale, con il potere materiale, per quanto caduco. In questo mondo di cieche forze fisiche, in cui per sopravvivere, cioè per comandare, non bisogna nutrire nessuna fede, l’unica regola che vale è il calcolo politico. Così, se Garibaldi, l’avventuriero mazziniano tutto capelli e barba, è venuto quaggiù, non bisogna poi preoccuparsi tanto; vuol dire che il Galantuomo, il re Savoia, un altro della razza che comanda, è sicuro di poterlo imbrigliare. E Tancredi non può che essere l’alfiere di un contrattacco che, sotto mutate fogge, il vecchio ordine può portare contro il nuovo. Certo, ha bisogno di soldi, «e per farsi avanti in politica, adesso che il nome avrebbe contato di meno, di soldi ne occorrevano tanti: soldi per comperare i voti, soldi per far favori agli elettori, soldi per un treno di casa che abbagliasse». Dunque, lo sposalizio con Angelica, l’angelo sorto dagli inferi del denaro, la terra divenuta liquida. E quando Tumeo l’organista, altro intellettuale organico, preposto al bello quanto Padre Pirrone lo è al bene, categorie di una scheletrica esistenza, protesta con il Principe per il suo tradimento di classe che lo getta nella costernazione, come può infatti un Tancredi Falconieri sposare una volgare Angelica Sedara?, il Principe, benché furente di collera, riconosce che «Tumeo aveva ragione, in lui parlava la tradizione schietta. Però era uno stupido: questo matrimonio non era la fine di niente ma il principio di tutto; era nell’ambito di secolari consuetudini». Ma in quest’arido mondo sociale, mero dettaglio delle sterminate regolarità naturali, anche il calcolo di potere, per quanto scevro di illusioni spirituali, ha bisogno di una qualche fronda ideologica. E il gattopardo, che è pur sempre un animale politico dotato di linguaggio con il quale calcola l’utile e il nocivo, il giusto e l’ingiusto, ha una sua corposa ideologia. Una ideologia che rientra sempre nel suo naturalismo di base, in cui il giusto e l’ingiusto coincidono con il suo utile o il suo disutile, ma pur sempre un’ideologia. Così, al piemontese Chevalley, onesto funzionario della rivoluzione passiva, che gli propone di divenire un esponente di punta del nuovo ordine, il Principe spiega che lo sfrenato movimento che tale ordine vuole imprimere al corso sociale, non potrà facilmente dispiegarsi, perché «il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di “fare”. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso». Che paradosso! Un dominante che si sente un estraniato subalterno! Come può essere? Può essere. «Ho detto i Siciliani – continua infatti Fabrizio rivolto allo stupìto Chevalley – ma avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali». Ecco che ritorna la natura. La natura è il fondamento oggettivo della regola che tutto cambi perché tutto permanga, ma è anche la giustificazione soggettiva del comportamento che fa sì che tutto cambi perché tutto permanga. La giustificazione è ben congegnata, perché non è arrogante, ma illuminata da una superiore intelligenza, che si compiace di mettere in evidenza il proprio irrazionale fondamento: «i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla». Così, al naturalismo, al calcolo di potere, si affianca un nichilismo senza scampo per l’uomo intrappolato in questo inferno paradisiaco e per i risultati del suo comportamento. Perché il potere è dappertutto, in alta Italia, in Francia, in Inghilterra, ma se qui dà così cattivi frutti, «la ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità». Su questa lucida disamina, benché tutta morale, si potrebbe costruire un programma attivamente rivoluzionario, ma il gattopardo dovrebbe rinnegare se stesso. Ecco perciò l’ultimo tocco del quadro, il paternalismo: «questi sono discorsi che non si possono fare ai siciliani». L’uomo di potere, infatti, sa quali sono le verità che i subalterni possono conoscere, e quelle che nuocerebbero alla loro infantile coscienza. Perciò tutto ritorna a piombo sul proprio potere, che è oggettivo come il moto di un astro. E che se mai un giorno dovesse tramontare, sarà per cedere il posto ad un potere altrettanto oggettivo ed assoluto. Questa è una verità che il gattopardo non enuncia in prima persona, poiché l’autore, equanime, la fa dire a Padre Pirrone mentre parla con un uomo del volgo, l’umile erbuario don Pietrine: «e vi dirò pure, se, come tante volte è avvenuto, questa classe dovesse scomparire, se ne costituirebbe subito un’altra equivalente, con gli stessi pregi e gli stessi difetti: non sarebbe più basata sul sangue forse, ma che so io… sull’anzianità di presenza in un luogo o su pretesa miglior conoscenza di qualche testo presunto sacro». Questo presunto testo sacro è la Bibbia o Il Capitale? Qui sembra trasparire il motivo di una certa polemica conservatrice à la Pareto. Ma se è così, di quel paradigma il romanziere mutua anche l’onesto realismo, e non esita perciò a riconoscere che, in quest’universo di sfere che girano su se stesse di un moto perfetto, don Pietrine è l’atomo che devia dalla traiettoria. Al lungo sproloquio che gli infligge Padre Pirrone, egli infatti replica chiedendogli come è stata sopportata dal principe di Salina la rivoluzione. E alla risposta del gesuita, in tutto e per tutto allineata con la concezione del padrone cui monda periodicamente la coscienza, «non c’è stata nessuna rivoluzione e tutto continuerà come prima», l’erbuario obietta fulminandolo: «evviva il fesso! E a te non pare una rivoluzione che il Sindaco mi vuol far pagare per le erbe create da Dio e che io stesso raccolgo? o ti sei guastato la testa anche tu?». Il che d’un colpo e con semplicità svela, da un lato, quanto spontaneamente perspicace sia la percezione dell’ingiustizia da parte dei subalterni, dall’altro quanto pesi su di essi l’ideologia del gattopardo, la concezione di una finta natura che serve a mettere sempre nuove tasse sulla vera natura che Dio ha creato per tutti. E questo, alla fine, potrebbe spiegare com’è potuto accadere che il gattopardismo, nato e cresciuto nell’arretrata Sicilia, sia divenuto una regola universale. Il gattopardismo è l’ideologia di un potere che riduce la società alla natura, dopo avere ovviamente privatizzato la natura, e averla ridotta alla misura del proprio sentire e della propria ragione. E siccome il mondo d’oggi è totalmente dominato da questo potere, un potere che è maleducato chiamare con il nome storico che gli si addice, il potere capitalistico, allora il gattopardismo è l’«inferno ideologico» non solo siciliano, come denunciò lo scrittore, ma universale. Si dirà, ma c’è qualcosa di stonato in questo discorso. Il gattopardo era nobilmente conservatore, le piccole volpi di oggi sono troppo ignoranti per pensare che valga la pena di conservare. Ma quando si dice che, nei “paesi avanzati”, destra e sinistra non hanno più senso, non si eleva forse a sistema il gattopardismo? Che poi i gattopardini odierni, da Macron a Di Maio, non abbiano la grandezza di Fabrizio e la stoffa di Tancredi, perché meravigliarsi? Tutto ciò che diventa seriale e di massa si svalorizza, il nichilismo perde la sua aura, la poesia diventa prosa. E invece ciò che resta immutato, ma anzi si indurisce, è proprio quel potere capitalistico che Fabrizio e Tancredi, caratteri di superfice di immobili trasformazioni strutturali, annunciano al suo sorgere, e contro cui ancora oggi, più di ieri, tutti i don Pietrine del mondo protestano e si infuriano, anche perché stufi dei grandi ragionamenti dei tanti Padre Pirrone che, famelici di cooptazione negli esclusivi apparati di consenso, diventano esperti di una presunta oggettiva scienza sociale che però celebra sempre il trionfo del padrone.

Corea, guerra o pace?

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Per capire la Corea bisogna guardare al Vietnam. Nel Vietnam, l’élite “ideologica”, insediata al Nord, lottò per l’indipendenza nazionale, riuscendo a sconfiggere l’aggressore esterno (prima i francesi, poi gli americani) e a sottomettere l’élite “speculativa”, insediata al Sud. Assicuratasi l’autonomia, essa concesse delle aperture all’elité “speculativa”, mantenendo il controllo politico. Nacque così, negli stessi anni in cui Deng in Cina varava le sue modernizzazioni, l’ircocervo di un socialismo nazionale capitalistico, che bisognerà vedere quanto potrà durare, tanto in Cina quanto in Vietnam.

In Corea, questa mistione non è riuscita, perché la classe dirigente di quel paese nel suo complesso si è divisa, senza che nessuna delle due frazioni riuscisse ad avere il sopravvento. Perché questa divisione sia avvenuta, bisognerebbe spiegarlo con la storia pregressa della penisola coreana. Divisioni di classe troppo profonde? Classi dominanti propense alla forza e incapaci di ottenere il consenso dei dominati? Resta il fatto che, in mancanza del fattore di base dell’autonomia nazionale, gli scambi tra le due élite non sono stati possibili, e quando, nel 1989, lo scontro di classe internazionale è stato vinto dal capitalismo occidentale capitanato dagli Stati Uniti, la Corea si è come ibernata: al Nord si continua a praticare l’ideologia, cioè la juche più il prozac dell’atomica, al Sud, gli interessi, cioè un sistema produttivo di stampo capitalistico occidentale ammantato di una democrazia elettorale largamente corrotta. In entrambi i casi, naturalmente, c’è la pretesa di essere i veri depositari dell’identità nazionale coreana, ma in realtà senza molte possibilità di definire in positivo tale identità, proprio per la mancanza del pilastro centrale su cui basarsi, cioè l’autonomia che mischia e fonde nella classe dirigente ideologia e interessi, struttura e sovrastruttura. Nord e Sud finiscono così per alienarsi nel confronto geopolitico di Cina e Stati Uniti, e agli occhi del mondo rischiano di trasformare la Corea nella Serbia del 1914, una piccola nazione la cui aspirazione irredentistica incendiò un mondo che non aspettava altro che di essere incendiato.

In questa situazione, che ha fatto riaffiorare dalla sicumera di un malfermo mondo unipolare la paura di uno scontro atomico, l’unico lampo di saggezza è venuto da Cavallo Pazzo Trump, quando ha riconosciuto che Kim Jong-Un non deve essere poi un imbelle pupazzo, se alla sua giovane età si è saputo imporre su dirigenti più anziani che volevano metterlo palesemente sotto tutela, e ha fatto intravedere l’intenzione di andargli a parlare. Ma, ammesso che la confusa lotta per il potere nell’establishment americano glielo consenta, cosa può dire Trump a Kim Jong-Un? E che cosa Kim Jong-Un è disposto a sentirsi dire? Quale può essere la formula che può porre fine, ad un tempo, alla guerra nazionalistica esterna e alla guerra di classe interna, preludendo all’unificazione della penisola? Una simile formula richiederebbe ovviamente che anche la Cina interloquisse, ma una Cina che peschi nel suo armamentario qualche elemento socialista. Il neo-maoismo di Xi Jingping si può spingere a tanto? E, inoltre, la fine della lotta di classe interna non metterebbe certo al sicuro la famiglia Kim, divenuta in tutto questo tempo un’escrescenza nepotistica che le forze subalterne del Sud, abituate alla dura lotta sindacale democratica, non hanno certo motivo di amare. La situazione è a dir poco ingarbugliata, e l’unica nota positiva è che la remota Corea, per le questioni oggettive che mette in gioco, sembra essere il punto in cui il ghiacciaio ideologico che ha avvolto il mondo dopo il 1989, può cominciare a sciogliersi, liberando l’umanità dalla regressione degli scontri religiosi.

Neoborbonismo, un altro errore di nanismo politico?

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Sta suscitando un vespaio la giornata della memoria delle vittime meridionali dell’unificazione italiana, decretata lo scorso luglio dal Consiglio regionale pugliese che, senza voler considerare i fermenti e le iniziative abortite degli anni scorsi, si pensi solo all’MPA di Raffaele Lombardo, in Sicilia, corona analoghi orientamenti variamente espressisi in altre regioni meridionali. Si contano già reazioni di organismi culturali, vedi le proteste della Società Italiana per lo Studio della Storia contemporanea, per l’esclusione di ogni istituzione formativa e di ricerca nel varo dell’iniziativa, e il comunicato della International Gramsci Society Italia, volto a rintuzzare gli usi strumentali delle critiche di Gramsci al processo risorgimentale, nonché gli articoli dei grandi giornali d’opinione, la Repubblica del 5 agosto 2017 con una grintosa presa di posizione storico-politica dello storico Guido Crainz, e il Corriere della sera del giorno successivo con l’opinione fieramente contraria dell’editore meridionale Alessandro Laterza. Che il neoborbonismo più o meno dichiarato da tempo montante sia equivoco e sinora non molto ricco ed elaborato culturalmente, è cosa certa, ma resta aperta la questione a chi appartengano quei combattenti che sino all’ultimo difesero la fortezza di Gaeta, e in generale tutti i caduti dell’altra parte: solo ai Borboni, che in tutto questo tempo non hanno fatto niente di significativo per rivendicarne la memoria, o anche a tutti gli italiani? Discuterne non sembra ozioso, perché in questo momento di forte crisi dell’unità nazionale, di cui il neoborbonismo è un sintomo, potrebbero venir fuori elementi di chiarificazione utili come popolo a conoscersi meglio. Ad esempio, si potrebbe evidenziare che il Risorgimento fu anche lo scontro tra due visioni differenti del capitalismo, se a questo termine si attribuisce il senso non solo di un modo di produzione, ma anche di un modo di vita, lo scontro cioè tra un “capitalismo industriale nazionale”, di cui si fecero interpreti i Savoia, e un “capitalismo paternalistico di Stato” di cui nel regno borbonico i poli siderurgici di Mongiana e Pietrarsa erano embrioni ben avviati, con i loro operai trattati come figli di un precoce Welfare, a fronte ovviamente dei carusi siciliani che nelle miniere dell’isola morivano senza nemmeno essere censiti. Che questo capitalismo fosse destinato a perdere, e con esso tutta la forma di vita “agraria” ad esso legata, caratterizzata da una dinamica evolutiva assai lenta, per altro congelata dal ben noto “patto” risorgimentale tra possidenti del Sud e industriali dal Nord, è un dato storico assodato, dal momento che tale capitalismo non era in linea con gli indirizzi nazionalistici europei, di cui invece Cavour comprese appieno la portata. Da questo punto di vista, ciò che gli odierni neoborbonici non comprendono è che lo Stato del Sud perse non certo perché i piemontesi erano dei nazisti ante litteram, ma perché, pur con tutti i suoi bilanci a posto e le finanze floride, era un nano politico. Ciò non toglie che fosse una realtà economica, sociale e culturale con una sua secolare peculiarità, il cui tono dominante certamente era divenuto via via la “miseria”, ciò che lo rendeva inviso anche a chi, ricco o povero che fosse, vi era immerso, si rilegga Il Gattopardo, e che spiega il facile “tradimento” di cui fu oggetto, ma la cui sommaria soppressione, ad opera anche di rapaci carpetbaggers, vedi sempre le emblematiche vicende di Mongiana e Pietrarsa, non giovò alla stessa costruzione unitaria nazionale, rendendola astratta e precaria non solo per le fratture verticali tra dirigenti e diretti, ma anche per le fratture orizzontali che, nell’interpretazione del capitale, il nuovo signore della vita moderna, come lo chiamava Sturzo, si manifestarono fra le differenti sezioni delle classi dominati delle varie realtà statuali coinvolte nel processo risorgimentale. Sotto l’egida dell’idea di nazione, il Risorgimento fu dunque uno scontro intercapitalistico, che prese la forma di un’invasione, una guerra civile, che vide meridionali combattere contro meridionali, e una lotta di classe, il cui episodio più noto furono i fatti di Bronte.

Oggi che il posto dell’idea di nazione è preso dall’idea di Europa, il neoborbonismo è l’ideologia reattiva delle borghesie meridionali arroccatesi nelle istituzioni regionali. E la giornata della memoria delle vittime dell’unificazione nazionale è la costruzione di una mitologia, la cui base fattuale, i morti dell’invasione e della guerra civile, va però ricondotta alla verità storica, la sola che può premunire da nuovi errori. In questo senso, piacerebbe che i Consigli di tali istituzioni si pronunciassero, e ciò vale in modo particolare per la Puglia, sul lavoro neoschiavile che alimenta il modesto ma non disprezzabile benessere dei loro territori. Potrebbe venirne fuori una presa di coscienza sulle dinamiche capitalistiche contemporanee, dall’immigrazione ai rapporti con la tecnofinanza di Francoforte e Bruxelles, che potrebbe fornire contenuti propri con cui riempire l’idea di Europa. Il silenzio dei Borboni sull’idea di nazione fu il peccato ideologico che minò il loro regno. Interloquire oggi sull’idea di Europa, magari facendo propria la prospettiva di Rossi, Spinelli e Colorni, che nel loro Manifesto delineavano una dittatura federale non capitalistica, potrebbe essere l’ultima occasione per recuperare quanto resta di vivo di quella forma di vita “tradizionale” di cui oggi si vogliono onorare i caduti.

Caracas e le avventure dell’egemonia (2)

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L’insediamento della Assemblea nazionale costituente, al di là delle contestazioni sulla regolarità della sue elezione, sinora rimaste affermazioni e voci non provate, formalizza l’esistenza in Venezuela di due centri di potere, quello della vecchia egemonia, raccoltasi attorno al Parlamento nazionale, e quello della contro-egemonia nata e sviluppatasi con Chavez, e che ora prosegue con Maduro, leader per nulla carismatico, che i media occidentali dipingono come un ignorante e un buffone, ma che si sta rivelando un osso duro per coloro che cercano di rovesciare il corso del socialismo bolivariano.

Il nuovo organismo costituzionale da lui fortemente voluto ha un valore simbolico, da un punto di vista storico, che va evidenziato. Anche nella Russia del 1917, con la Rivoluzione di febbraio si venne a formare un dualismo di potere, quello dei partiti anti-zaristi il cui programma non andava al di là di una rivoluzione democratico-borghese, e quello dei Soviet, che spingeva per completare la rivoluzione politica in rivoluzione economico-sociale. La chiusura di fatto dell’Assemblea costituente, nel gennaio 1918, sancì la soluzione di questo dualismo a favore del potere dei Soviet che, nella logica della rivoluzione, era un potere altrettanto legittimo di quello dei partiti democratico-borghesi anti-zaristi. L’Assemblea costituente fu dunque il polo attorno a cui si raccolsero le forze della controrivoluzione, e dovette essere chiusa per portare a termine la rivoluzione economico-sociale, da cui per altro tutto era iniziato (“pace, pane e terra” da tutti indistintamente promessi nel febbraio 1917).

Nel Venezuela del 2017, le cose stanno esattamente al contrario. L’Assemblea costituente è l’organismo, convocato in stretta osservanza della Costituzione vigente, che può permettere di portare avanti la rivoluzione economico-sociale iniziata con Chavez, alla quale si oppongono le forze controrivoluzionarie della vecchia egemonia che, raccoltesi attorno al Parlamento, tentano di bloccarla, combinando la violenza di piazza e paramilitare con gli istituti della democrazia rappresentativa. La rivoluzione economico-sociale non è però un violento contenuto senza forma, ma avanza essa stessa sotto l’egida di una norma, quella della convocazione costituzionale del potere costituente. È questo, se vogliamo, il di più egemonico che rende tanto caratteristica la situazione venezuelana e il suo tentativo di socialismo bolivariano. Socialismo però che vive una fase estremamente critica. Gli schieramenti in campo, che a quanto pare convivono nello stesso palazzo, divisi solo da un cortile, sono infatti tutt’altro che compatti.

La coalizione cosiddetta “democratica”, un coacervo di forze che si spinge sino all’estrema destra, e che, come già detto, pratica proteste di piazza e forme di lotta paramilitari che non sarebbero tollerate in nessuno dei paesi che si proclamano democratici, è divisa sulla partecipazione o meno alle prossime elezioni regionali e municipali del dicembre prossimo, che l’attuale governo sagacemente ha intenzione di far svolgere regolarmente. Né sembra che granché forza le abbia portato il frettoloso sostegno finale del Vaticano, apparso più una concessione alle alte gerarchie locali, che non una convinta presa di posizione anti-chavista. D’altronde, oggi il Vaticano ha spazi di manovra più limitati che in passato. L’accentuazione dei toni anticapitalistici con cui cerca di recuperare la missione evangelica, lo espone al ricatto sull’etica sessuale negli scorsi decenni abbondantemente violata. Non matura così una nuova dottrina sociale, né le radici della perversione sessuale vengono recise. Francesco si muove su questa impossibilità, che lo porta a ricevere Maduro, ma a non rompere con i cardinali del privilegio e del godimento cieco.

Venendo al fronte chavista, benché all’apparenza più compatto della Mud, la coalizione dei partiti della vecchia egemonia, presenta crepe che, senza un’azione decisa coronata nell’immediato da successo, potrebbero divenire voragini. Per ora, da esso si sono staccate singole personalità, come la procuratrice un tempo fedelissima di Chavez, e ora addirittura rimossa dal suo incarico, come primo atto della nuova Costituente. E poca cosa si è rivelata la presunta rivolta militare nella città di Valencia, in realtà, per bocca dei suoi stessi promotori, la sortita di militari già radiati dall’esercito in combutta con “civili”, probabilmente quei paramilitari cui l’opposizione democratica affida parte delle sue sorti. Ma la divisione principale, non manifesta ma sotterranea, del fronte contro-egemonico è tra coloro che vogliono limitarsi a gestire la situazione presente, con i suoi equilibri e i suoi privilegi, per quanto precari, e coloro invece che vogliono approfondire la natura socialista del chavismo, in modi e forme che debbono essere evidentemente escogitate man mano che il processo avanza. Il piano su cui questo confronto avverrà sarà naturalmente l’economia, dove non solo ci si dovrà sganciare dalla ormai insostenibile petroeconomia redistributiva, ma si dovranno inventare politiche che, senza pregiudicare le “missioni” degli scorsi anni, consentano una ripresa dell’iniziativa economica, se non individuale, certo dal basso. Per riprendere il parallelismo con la Russia del 1917, è l’antico dilemma che condusse Lenin al passo indietro della NEP. Non sappiamo cosa avrebbe escogitato la sua fervida fantasia per poi fare i due passi avanti. I costituenti bolivariani hanno pero cent’anni di storia alla loro spalle per non dover commettere gli stessi errori dei successori di Lenin. E il contesto internazionale potrebbe anche aiutarli. Nonostante faccia la faccia feroce, Trump infatti sembra interessato a tutt’altro che a mettere in riga il Venezuela, così come fece Kissinger con Allende. E anche se volesse farlo, non ha più il rutilante know-how del monetarismo della Scuola di Chicago da mettere a disposizione di un Pinochet venezuelano. L’egemonia si gioca anche, se non soprattutto, con le risorse intellettuali, e oggi il fronte capitalistico appare esausto da questo punto di vista, mentre il fronte contro-egemonico ha accumulato non solo una miriade di pratiche variamente “comunitarie”, il cui limite, comprensibile visti i rapporti di forza, è stato però il rifiuto del livello generale del potere, ma anche una grande massa di conoscenze ed analisi, in primo luogo quelle ecologiche. La partita è dunque aperta, e l’Assemblea nazionale costituente potrà dare il suo contributo, se solo la lotta per il potere, su cui continuamente l’attira il fronte rissoso della vecchia egemonia, non assorbirà tutte le sue energie.