Politica

Caracas e le avventure dell’egemonia

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Compito del dibattito democratico è far deragliare il discorso dal binario morto della chiacchiera. È quanto sta accadendo in Venezuela, purtroppo in forme caotiche e disordinate. La convocazione dell’Assemblea nazionale costituente, in base all’articolo 347 della Costituzione vigente, sarebbe dovuta avvenire molto prima che la situazione degenerasse in scontri di piazza e atti di forza, anche per non lasciare spazio ai “mediatori”, vere volpi nel pollaio, e soprattutto per non caratterizzre la convocazione come un espediente difensivo. Ma la frittata è ormai fatta, e si può solo trarre l’insegnamento che, quando si esita ad usare radicalmente i meccanismi democratici, si finisce sempre in un vicolo cieco. La caduta del prezzo del petrolio avrebbe dovuto essere un’opportunità. Era chiaro che la petroeconomia redistributiva non poteva più essere portata avanti. Se si volevano salvaguardare le misure controegemoniche intanto introdotte nel ventennio precedente, dal “potere popolare” agli “interventi sociali”, e fare piazza pulita delle distorsioni insite nella natura stessa della petroeconomia, dalla corruzione alla “boliborghesia”, bisognava allora procedere prontamente, proprio con un richiamo legittimamente costituzionale del potere costituente, ad una fase nuova, in cui l’economia veniva ulteriormente socializzata, ovvero diversificata, con misure controegemoniche più avanzate, da scrivere nella nuova Costituzione. C’era il rischio di perdere tutto, ma c’era la possibilità di fare un passo avanti. Adesso, il sospetto del dispotismo aleggia su tutta la vicenda, a conferma che la controegemonia è un treno velocissimo che va assecondato attimo per attimo, altrimenti scatta il rosso del giacobinismo. Si può solo sperare che l’inventiva di chi sta ancora azionando le leve, riesca a sincronizzare i movimenti. In questo senso, sarebbe cosa opportuna che, qualora la nuova Assemblea costituente si insediasse e riuscisse a portare avanti felicemente i suoi lavori, i nuovi costituenti non dimenticassero di formalizzare che il contenuto normativo dell’articolo 347 è inviolabile anche per la nuova Costituzione. Infatti, il successivo art. 349 statuisce che «Il Presidente della Repubblica non può opporsi alla nuova Costituzione». Se, perciò, nella Costituente si formasse una maggioranza per eliminare il potere costituente dalla nuova Costituzione, nessuno potrebbe più richiamarsi ad esso in seguito, e ci sarebbe una caduta all’indietro irreparabile, nel binario morto della vecchia chiacchiera egemonica. Altri contenuti, inoltre, non puramente procedurali, andrebbero anche dichiarati come irreversibili, ma questo dipende dai rapporti di forza. Tutto quanto accade a Caracas, comunque, è assai più avanzato di quanto si è visto in quest’ultimo decennio in America latina. Infatti, in Argentina, nonostante lo shock del 2001, e gli elementi di socialità controegemonica da esso sprigionati, non si riesce a venir fuori dal pendolo frustrante tra (residuo) peronismo e ritorni di “reazione borghese”. E, in Brasile, tutta la panoplia dei meccanismi legali dell’egemonia in atto sono serviti a far fuori la presidentessa eletta, con l’unica alternativa di scontri di piazza per fortuna non avveratisi. Il che significa che nel decennio di Lula non si è fatto alcun serio lavoro controegemonico, a cui appigliarsi nel momento della risacca dell’egemonia in atto. C’è la resistenza accanita di Cuba, che stava per cadere nella trappola tesagli da quella volpe di Obama1, e che paradossalmente può ritornare sui propri errori grazie alle nuove “chiusure” di Trump, un presidente “politico” che, non essendo più disposto a leccare il culo alla globalizzazione “a prescindere”, riporta in auge provvidenziali (per la controegemonia) stilemi ideologici del passato. L’egemonia, insomma, vive i suoi bei giorni nell’emisfero americano, mentre in Europa langue, tra la protervia dell’egemonia in atto – il cinismo “socialdemocratico” della Merkel, la decrepita arroganza della May, il neobonapartismo di Macron, il cesarismo plurale di Renzi-Grillo-Berlusconi; e l’impotenza della controegemonia – l’assalto fallito di Corbyn, l’agitarsi teatrale di Mélenchon, il miserevole riallineamento di Syriza, il caos spagnolo, l’inedia italiana.

  1. Federico Rampini, su “la Repubblica” del 16 giugno 2017, spiegava come meglio non si può il senso delle “aperture” obamiane: «oltre mezzo secolo di sanzioni e di embargo non hanno piegato il regime castrista, forse ci riuscirebbe invece la penetrazione del capitalismo, gli investimenti yankee, il business che porta benessere e aumenta i flussi di visitatori» []

Maggioritario o proporzionale: il linguaggio della verità

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Un auspicio ragionevole sembrava quello che la prossima legge elettorale fosse quanto più proporzionale è possibile, in modo da rimettere in sintonia sistema elettorale e rappresentanza di classe, unico modo per ridare vita ai partiti, rendendo facile all’elettore distinguere, nelle loro sfumature, tra partiti votati a gestire la macchina produttiva esistente, e partiti che si prefiggono di cambiarla. Ma mai essere ragionevoli, perché si corre il rischio di essere stupidi. La realtà infatti si è incaricata di mostrare che i più sfegatati adepti del proporzionale sono Renzi e Berlusconi, mentre la galassia della sinistra è insidiata dal richiamo delle sirene della “coalizione”. Che dire? La borghesia, anche quella italiana, così provinciale e affaristica, mostra di avere sempre i riflessi più pronti di un rintronato proletariato, imbevuto di falsi discorsi sulla sparizione della classe operaia, sulla morte del lavoro ad opera dell’automazione, sulla necessità del reddito di cittadinanza (leggi: sudditanza), e via degradando verso una totale mancanza di una chiara cultura di classe. È forse morto il plusvalore? Basterebbe rispondere a questa domanda, e tutto quel ciarpame sociologistico a cinque stelle svanirebbe di colpo. Ma l’argomento del giorno resta la legge elettorale, con cui chi tiene l’anello della catena saldamente nelle sue mani cerca di costruirsi un apparato legale per mettere fuori gioco in modo formalmente corretto ogni disegno di porre fine alla crisi economica ormai decennale, andando oltre il modo di produzione capitalistico. Questa è la posta in gioco. Nel ’23-’24, la stabilizzazione fu ottenuta con una legge maggioritaria, la legge Acerbo, supportata dal manganello. La società fu militarizzata, e tutto ciò si autoproclamò fascismo. Oggi la militarizzazione a bastonate non è possibile, ma esiste l’infinitamente più potente obbligo autoimposto del consumo, pur con i redditi che si sfarinano. E poi c’è il bastone del debito, da agitare quando si smantella il Welfare. È un ritorno accresciuto di fascismo che, lo si sarebbe ormai dovuto comprendere, è la tendenza che il capitalismo assume ogniqualvolta l’intensificazione dell’estrazione di plusvalore suscita crescenti resistenze oggettive e soggettive. Resta il fatto che, nel 1924, pur con il manganello Acerbo, i partiti di sinistra riuscirono a far eleggere una sessantina di deputati, diciannove per l’esattezza il solo Partito comunista di Gramsci e Bordiga. Questo per dire che è sciocco impiccarsi alle formule elettorali. L’identità, cioà la corretta declinazione di classe del partito, la si può coltivare sia con il proporzionale, che con il maggioritario. Bisogna solo scegliere il linguaggio della verità e della credibilità. Due virtù che, dai tempi di Gramsci e Bordiga, la sinistra ha smarrito da tempo nel calderone delle coalizioni, Prodi, e nello sfavillio delle chiacchiere televisive, Bertinotti, due emblemi della stessa miseria. Maggioritario o proporzionale, la sinistra invece dovrebbe solo proporsi accanitamente di ricostruire una “minoranza eletta”, capace di offrire l’esempio di una integrale politica di classe, il cui punto fondamentale di programma dovrebbe essere la fine della crisi. Se c’è qualcosa infatti oggi che angoscia uomini e donne è il protrarsi di questa agonia, che i vecchi stregoni del passato vorrebbero protrarre imbellettando la faccia cadaverica del moribondo con i colori di una ricchezza privata che non è più possibile perseguire senza mettere a rischio l’esistenza stessa della società, nel suo lato sociale e in quello naturale. In proposito, il caso Macron dovrebbe insegnare qualcosa: una vecchissima ricetta, il Bonaparte di turno che incita la brava nazione borghese ad arricchirsi, come se ancora le provincie francesi fossero piene di tanti Papà Goriot da mungere per scalare le posizioni sociali nel bel proscenio di Parigi. Di fronte a tanta menzogna, che si sostanzia solo di ulteriori giri di vite sulle condizioni del lavoro, la sinistra allora dovrebbe avere l’elementare ma titanico coraggio di parlare il linguaggio della verità, spiegando che, in Europa, ancora una volta punto di volta del mondo, la crisi finisce se cambia la classe economica che sta al potere. Naturalmente, questa spiegazione tutto dovrebbe essere che una lezione ex cathedra. Dovrebbe essere invece una spiegazione appassionata, capace di colpire la fantasia, e muovere all’azione uomini e donne disillusi, piegati dalla sorte avversa, o anche solo ignoranti. Perché se c’è qualcosa da riportare all’onor del mondo è la vergogna della propria ignoranza, ottenuta mostrando che solo la conoscenza vera, frutto di un costante dialogo tra chi la ricerca, può guidare i sentimenti verso gli scopi che la vita si pone per raggiungere il proprio sviluppo integrale.

Il dolce stil novo della finanza che ha ammazzato la Grecia

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Che giornata! Sul Corriere di oggi, sabato 17 giugno 2017, l’informazione sul massiccio sciopero dei trasporti di ieri, venerdì 16 giugno, si riduce alla semplice citazione, quasi en passant, della organizzazione sindacale che l’ha indetto: “la Confederazione unitaria di base (CUB) e sigle minori”. Per il resto, pur ammettendo che lo sciopero ha sconvolto l’Italia, ha cioè avuto una amplissima adesione da parte dei lavoratori, neanche una parola su cosa siano questa CUB e le altre “sigle minori”, e sul perché queste organizzazioni hanno indetto lo sciopero. Resoconto minuzioso, invece, dei gravi disagi patiti dai viaggiatori, intervista al docente di diritto del lavoro per approfondire i possibili, futuri provvedimenti da prendere contro scioperi del genere, e intervista finale alla segretaria generale della Cisl, che da tempo, tra un acquisto e l’altro di sedi faraoniche da parte della sua organizzazione, definisce “populismo sindacale” il sindacalismo cubista e siglo-minoritario. Il Corriere però si riscatta non nascondendo, in un riquadro in taglio basso, che il grande patriarca Helmuth Kohl, morto il giorno prima, aveva un lato oscuro, distribuiva mazzette per assicurarsi il controllo assoluto del suo partito, la CDU.

Lo stesso trattamento informativo, ehm, è riservato allo sciopero dei trasporti da Repubblica, che addirittura dà voce all’anatema del ministro contro le minoranze che prendono in ostaggio il paese, ma il giornale scalfariano si riscatta riportando, in un unico solo rigo su tre pagine di giornale, che “la vendita delle aziende di trasporto ai privati è una delle principali ragioni dello sciopero”. Se a qualcuno è rimasto in mente il debolissimo ricordo della famosa lettera del 2011, di Draghi e Trichet al governo italiano, da quel rigo solitario come il passero leopardiano potrà evincere che questi lavoratori cubistisiglominoritari stanno continuando a combattere l’austerità e le sue politiche, mentre tanti predicatori televisivi si sbracciano dagli schermi a spiegare che la crisi è finita.

Repubblica però ci dà una bella dritta su Kohl: “pensava come de Gaulle e Adenauer che l’economia è subordinata alla politica”, e forte di questa convinzione spinse per il varo dell’euro. Ecco, se non avesse scambiato la politica per la sistematica corruzione degli avversari, avrebbe compreso che l’economia stava entrando in una fase nuova, in cui per dominarla, ci sarebbe stato bisogno di una politica nuova, non mazzettara. Invece scambiò fischi per fiaschi, e mise il bazooka, cioè l’euro, nelle mani degli incendiari, cioè i nuovi samurai del finanzcapitalismo (copyright, Luciano Gallino). Ma qualche pagina avanti, a proposito del memorandum con cui, sempre ieri, venerdì 16 giungo 2017, Trump ha fatto piazza pulita del disgelo con Cuba avviato da Barack Obama, Federico Rampini ci spiega la logica stringente che ispirava tale politica: “oltre mezzo secolo di sanzioni e di embargo non hanno piegato il regime castrista, forse ci riuscirebbe invece la penetrazione del capitalismo, gli investimenti yankee, il business che porta benessere e aumenta i flussi di visitatori”. Ecco, leggendo queste righe dal sen sfuggite, si ha la prova ontologica dell’esistenza della dialettica. Grazie al dietrofront di Trump, infatti, Cuba è salva, anche contro i tentennanti e incauti suoi dirigenti, tentati di seguire le orme del grande pifferaio Deng Xiaoping, colui che ha portato la Cina in bocca al più spietato capitalismo. Ma perché Trump, il miliardario capitalista Trump, si fa strumento di questa felice piroetta dialettica? La sua svolta, ci dice Rampini, “è una conferma che per Trump la politica fa premio sull’economia”. Brutte notizie. Siamo tornati a de Gaulle e Adenauer. Ma Trump sarà di questa schiera o, come Kohl, confonderà fischi per fiaschi? Vedremo se l’establishment democratico-repubblicano, avvezzo a trent’anni di globalizzazione liberal-liberista, gli darà il tempo di manifestarsi in un senso o nell’altro, fremente com’è di sbalzarlo di sella con l’impeachment del fantomatico Russiagate.

La giornata non è finita. Sempre in Repubblica, nelle pagine della cultura, ehm, viene recensito un libro edito dalla Nave di Teseo, novella e birichina casa editrice di ambiziosi progetti, a firma di due buontemponi, l’ex industriale, romanziere da premio Strega, deputato montian-centrista Edoardo Nesi, e il finanziere, scrittore anzitempo di autobiografie, fondatore di boutique finanziarie dal rassicurante nome teologico, Kairos, ovvero il tempo designato nello scopo di Dio, il Dio mammona del qui e ora, Guido Maria Brera, i quali due esternano tutto il loro disagio sulla crisi in corso dal 2007. Ecco alcuni crucciati pensieri del teologo finanziere, riportati nella recensione: “non mi piaceva per nulla impoverire i greci. Lo facevo, certo. Perché dovevo. Lo dovevo ai miei clienti: al mandato fiduciario che mi avevano dato e che consisteva nel farli guadagnare. Se per qualche ragione avessi smesso di farlo, qualcuno avrebbe preso il mio posto”. Guido Maria Brera confessa che, a forza di queste speculazioni teologico-monetarie, “dormire diventò difficile, e raro“, e subito il romanziere discepolo del gran tecnico Mario Monti, premuroso rincalza: “che fine ha fatto la funzione principe della finanza di cui parlavi prima, Guido, la ragione profonda e irrinunciabile per cui era stata creata secoli e secoli fa, e cioè portare soldi a chi vuole investire nell’economia reale?”. Ecco cos’è il dolce stil novo finanziario: Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento / e messi in un vasel, ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio. È proprio un bello spettacolo, questo di Edoardo e Guido, che nel vasel di Teseo vanno incantati per lo liquido mare del denaro. E si stupiscono. Ma, sordi a tanta poesia, ci si chiede se mai sorgerà un’Alta Corte di giustizia che acquisisca come prove irrefutabili le sfrontate, ancorché dolenti, ammissioni circa il genocidio dell’economia greca, e proceda alle doverose condanne.

Cesarismo plurale, aggiornamenti.

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Nei manuali di scienza della politica si parla di cesarismo quando al vertice di un regime non c’è un gruppo più o meno ristretto che esercita il potere, ma un solo leader, i cui rapporti con i suoi seguaci sono di tipo plebiscitario. Il cesarismo, allora, viene definito come un regime politico di transizione, che sorge in risposta alla decadenza di istituzioni politiche preesistenti, ed è fondato su un rapporto emotivo fra leader e cittadini. In aggiunta a questa definzione di base, continuano i manuali di scienza politica, il cesarismo come bonapartismo introduce il conflitto di classe. Nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, infatti, Marx assume che il bonapartismo si afferma quando c’è uno stallo nel conflitto fra le due principali classi sociali, la borghesia e il proletariato. Poiché il terzo attore, i contadini, non riesce ad organizzarsi come soggetto collettivo, essendo disperso sul territorio e privo di legami organizzativi stabili, il leader che emerge sfrutta la forza degli apparati dello Stato (burocrazia, forze armate, corpi di polizia, ecc.), e riesce ad operare come forza autonoma. A questo quadro marxiano, dicono ancora i buoni manuali, Gramsci apporta la distinzione tra cesarismo “progressivo” e cesarismo “regressivo”. Il cesarismo, ovvero la soluzione “arbitrale” di un “equilibrio catastrofico” fra classi in lotta tra loro, è progressivo quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare, regressivo quando aiuta a trionfare la forza regressiva. Progresso e regresso restano evidentemente da definire, ma qui possiamo mettere da parte i manuali, e volgerci direttamente alla realtà politica, la quale, in questo momento, in Italia, ha caratteri così particolari, che i manualisti difficilmente riuscirebbero a farli entrare nelle loro categorie: 1) al vertice dell’organizzazione politica ci sono non uno, ma tre cesari, specialisti nel richiamo emotivo-plebiscitario, in competizione tra loro, ovvero Renzi, Berlusconi e Grillo. Salvini sgomita, ma non riesce ad assurgere al loro rango; 2) c’è un regime politico di transizione, il cui emblema è il maggioritario, variamente denominato in latino maccheronico, sorto in risposta alla decadenza di istituzioni politiche preesistenti, la cosiddetta Prima Repubblica; 3) ognuno di questi leader rappresenta un segmento degli interessi non di due classi contrapposte, ma di un’unica grande classe, divisa e frammentata al suo interno (grandi banche, finanza, grande industria privata e di Stato // vecchia e nuova industria “protetta”, alto parassitismo di Stato, economia illegale // piccola e media impresa, economia sommersa); 4) non c’è né progresso, né regresso, poichè, essendo state abolite le ideologie, sono rimasti solo i fatti bruti; 5) lo Stato va con il pilota automatico, mentre la democrazia è ridotta ad una “messa in scena” in cui i tre leader tentano e ritentano patti e contropatti, con l’intento di farsi fuori a vicenda. Come definire questa bizzarra composizione? Ai manualisti si potrebbe suggerire il termine di cesarismo plurale1, con ciò appunto indicando una situazione in cui il gioco politico, libratosi in cielo come un pallone sfuggito di mano, fluttua nell’aria senza più un riferimento alle cose reali. Ma perché, si potrebbe obiettare, parlare di cesarismo plurale, e non semplicemente di triumvirato? La storia, si pensi alla fine della repubblica romana, offre esempi illustri di terne di politici che si contendono le spoglie di istituzioni morenti. Ma il triumvirato prelude, se così si può dire, al cesarismo singolare. C’è la catastrofe di un equilibrio da cui si esce con una catarsi. Il nostro, invece, è un triumvirato bloccato, in cui l’intreccio non si scioglie mai. A tratti, Renzi e Berlusconi tentano una diarchia, prima con il “Nazareno”, ora facendo intravedere la “grande coalizione”, la quale però presuppone un PD divenuto definitivamente PdR, partito di Renzi. Ma la minoranza degli Orlando e degli Emiliano starà a guardare? E se Forza Italia si rivelasse un pilastro friabile? Grillo potrebbe incassare tutta la posta, ma quali sarebbero i sobollimenti di quell’unica grande classe che al momento ristagna come un grande blob? L’accordo sul proporzionale “tedesco” fotografa tutti questi calcoli e retropensieri, ognuno, ancora una volta, essendo convinto di poter fregare l’altro. Ma senza sciogliere i nodi politici, da tutti invece elusi, il risultato potrebbe essere solo un definitivo blocco del triumvirato, tre signorie in perpetua guerra tra loro, con un’Italia completamente assorbita in un’Europa sinonimo di Germania.

  1. Una precedente nota su questo argomento è stata pubblicata su questo sito il 12.9.2014 []

Trump e il Tao G7 dell’Europa che verrà

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Il G7 di Taormina, come quelli che lo hanno preceduto, e quelli che lo seguiranno, è stato la solita passerella delle case regnanti democratiche, supportate dagli odierni cicisbei, le aziende di moda che colgono l’occasione per celebrare il cattivo gusto di questa sfrontata società dei ricchi. Tuttavia, non è stato un vertice inutile, perché ha messo in evidenza, come mai in passato, le contraddizioni che attraversano il gruppo di testa del capitalismo mondiale, identificato per figura retorica come Occidente. Contraddizioni che, diciamolo subito, fanno ben sperare in un prossimo futuro. Chi maggiormente incarna queste contraddizioni è Donald Trump. Un presidente detestato da tutti i sinceri democratici, cioè da tutto l’establishment che, globalizzando e liberalizzando, ha condotto il mondo nell’attuale palude. Ma detestato anche da tutti i sinceri regimi autoritari, a cominciare dalla Cina, che vede come il fumo negli occhi ogni misura antiglobalizzatrice che possa mettere in pericolo i suoi floridi commerci. La politica di Trump, che con accuse traballanti i sinceri democratici americani vorrebbero far fuori quanto prima, nei suoi chiaroscuri si sta cominciando a delineare, e il G7 è stato un proscenio ideale per una sua prima rappresentazione.

Come ha mostrato a Taormina, con tutti i suoi atteggiamenti verbali e non verbali, Trump non è affatto contento del crescente peso economico della Germania che, squassando l’Europa, (scandalosamente, la Grecia continua a gemere), non solo mette in difficoltà il suo paese, ma getta la Russia nelle braccia della Cina. Quest’ultima è il secondo attore mondiale di cui Trump vuole contenere l’aggressività economica. La Germania ha avvertito immediatamente il pericolo, e infatti la Merkel, in chiusura del G7, ha già chiamato l’Europa a non fare più affidamento sull’America, e a prendere in mano il proprio destino. Che cosa ciò voglia dire non si sa bene. Sembra solo il monito rabbioso di chi non ha piani alternativi. È facile prevedere che per la Germania si stia avvicinando il tempo in cui dovrà uscire dalla sua comoda posizione di potenza egemone riluttante. Se vorrà essere tale, dovrà farlo a viso scoperto, e le risposte che riceverà non saranno tutte positive, innanzitutto al suo interno, dove la grande coalizione rischierà di trasformarsi in una tomba di ghiaccio, dalla quale i superstiti socialdemocratici alla fine dovranno scappare per non estinguersi del tutto.

Lo stesso si può dire della Cina, le cui merci, spesso dall’infimo valore d’uso, incorporano nel loro valore di scambio uno dei più alti tassi di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, da parte di una “classe proprietaria”, debitamente allargata, che identifica l’“armonia sociale” con l’eternizzazione del proprio potere assoluto. Se la politica di Trump servirà a scuotere lo Stato che, dopo avere imbalsamato Mao, imprigiona in una nuvola di divieti il “grande spazio” sino-asiatico, avviando uno storico decentramento dalle possibili forme federali, sarà tutto di guadagnato non solo per la libertà, ma anche per l’uguaglianza, che non sia un orpello per promuovere una classe media dai comportamenti (a proposito di ambiente) ancora più consumistici di quella dello storico capitalismo metropolitano.

Tutte queste cose ovviamente Trump non le porta in dono come Babbo Natale. Trump è il plutocrate demagogo che sappiamo, e il suo scopo è di riportare in auge il complesso militare-industriale, di cui in questo momento è il commesso viaggiatore. Un accordo con la Russia, che Trump in ogni modo cercherà di chiudere, verterebbe sicuramente anche su “condivisioni” militari, e altrettanto ai paesi del sud Europa verrebbe offerto su questo terreno una via d’uscita dall’asfissia austeritaria. Ciò ovviamente preoccupa, altrettanto quanto preoccupano gli inarrestabili trionfi in Borsa della Silicon Valley, i cui imprenditori della sovrastruttura hanno fittamente mercificato la vita quotidiana dell’intero pianeta. È innegabile però che il capovolgimento delle priorità globalizzatrici che Trump intende operare riapre, con i suoi “effetti indesiderati”, la partita per tutti gli attori in gioco, grandi e piccoli. Certe dinamiche sarà difficile poterle controllare, e se ne vede già l’esempio in Inghilterra, dove i postumi della Brexit stanno avviando la May, come dicono gli ultimi sondaggi, allo stesso destino di Cameron.

In tutto questo, quale dovrebbe essere il ruolo della nostra cara Italia? L’Italia, che a Taormina ha così diligentemente svolto il ruolo di padrona di casa, dovrebbe staccarsi dalla crescente integrazione economica (manifatture per l’esportazione) e ora anche politico-istituzionale (proporzionale “tedesco”) con la Germania, se avesse una classe governante che ha a cuore l’interesse nazionale. Ma dov’è la borghesia italiana? E mancando la borghesia, si capisce che manchi anche una sinistra degna del nome. Bisogna aspettare dunque che la spinta venga dall’esterno. Dalla Francia, dove Mélanchon ha raccolto una forza che può mettere in crisi il fragile equilibrio cristallizatosi attorno all’esile Macron, la cui unica carta, come si è visto a Taormina, è di baciare la pantofola a Frau Merkel. Dall’Inghilterra, dove la tracotanza dei conservatori può regalare a Corbyn la più onorevole e più salutare delle sconfitte. Dalla Spagna e dal sorprendente Portogallo. L’Europa, insomma, è in fermento, e che l’Occidente tramonti, francamente è affare di Oswald Spengler e dei suoi nipotini. In ogni caso, il domani non sembra risiedere nei paesi dalle colossali economie emergenti ma, senza perciò essere eurocentrici, in quell’Europa dei Gramsci e degli Spinelli, solo per nominarne alcuni, che appare come l’unico posto al mondo dove la ripresa della “guerra di movimento” non sarebbe il grand guignol di massacri e teste mozzate, ma un effettivo avanzamento di forme economiche sociali e politiche realmente nuove.