Politica

Renzi, Macron, Trump, anzi Trumpon

Download PDF

Dialogo carpito al bar, tra due compiti signori, probabilmente disillusi elettori della disastrata sinistra italica:

A: Rallegriamoci per Macron. Un Renzi, con una sola grande differenza: viene dall’ENA invece che da Rignano.

B: Su Macron dovrei un po’ argomentare per mostrare che è il Trump di Francia. Le vere elezioni sono state quelle del primo turno, dove la sinistra ha avuto quasi il venti per cento. La nequizia non sta dunque in Marine Le Pen, ma in un sistema elettorale che la fa divenire un polo d’attrazione. Per questo spero che da noi prenda piede un saggio proporzionale.

A: Affermazione della sinistra in Francia. Sì, ma quale sinistra? 

B: Quale sinistra? Quella che se non c’è nessuno che se ne curi, vota Le Pen, e senza la quale, la sinistra non esiste, ma esistono solo i demagoghi di turno, che ne carpiscono il consenso e la asserviscono alla… “borghesia”. Absit iniura verbis.

A: Ma perché Macron sarebbe il Trump di Francia?

B: C’è un termine antiquato, che si usava negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, ma che può servire ancora oggi a descrivere la situazione: plutocrazia. E i vari Renzi, Macron, Trump sono i demagoghi di questa plutocrazia. Il loro modo d’agire è lo stesso. Come delle crisalidi, distruggono il vecchio involucro dei partiti cosiddetti “tradizionali”, e prendono il volo come “nuove” farfalle sgargianti. I loro dialetti sono differenti, globalisti gli uni, protezionisti gli altri, ma la lingua è la stessa. La lingua delle élites ricche, alle quali essi, con la loro sfrontata demagogia, portano in dono il consenso delle sterminate classi povere o che si vanno impoverendo. Trump si è rivolto alla decaduta classe operaia dell’acciaio e delle vecchi produzioni novecentesche, Renzi e Macron parlano all’impaurito ceto medio europeo che nell’euro aveva visto il suggello del proprio raggiunto “benessere”. In francese, trumper significa ingannare. Trump, Renzi, Macron, in una parola un gran trumpon.

Scroscio di tazzine ritirate dal bancone. Occhiataccia del barista. Un cliente offre il caffé a tutti per festeggiare una vincita di venti euro al gratta e vinci.

Trump e i problemi dell’egemonia

Download PDF

L‘ideologia nazionalista, neoisolazionista e primatista, cioè centrata sulla superiorità dell’etnia bianca, ha consentito a Trump di essere eletto con il voto decisivo dei proletari destrificati dall’ultima tornata di globalizzazione capitalistica. Ottenuto il potere, dopo alcune mosse puramente dimostrative, come il decreto sugli immigrati rigettato dai tribunali e l’attacco fallito alla riforma sanitaria di Obama, ha cominciato ad appoggiarsi a ex generali per la difesa e la sicurezza interna, e a governare insieme ad imprenditori e finanzieri come i ministri del Tesoro, degli Esteri e del Commercio, Mnuchin, Tillerson e Ross, e a banchieri ex Goldman Sachs, come Gary Cohn e Tina Powell, nominandoli consiglieri per l’economia e la politica estera. E tutto ciò, sicuro come sempre che, come lui stesso disse durante la campagna elettorale, «potrei sparare a qualcuno in mezzo alla Fifth Avenue e non perderei nemmeno un voto»1, ovvero sono il grande stregone di una politica ridotta a circo mediatico-pubblicitario, in cui mi si crede a prescindere. Trump, insomma, ha portato a termine con il suo brand la missione di perpetuare il periclitante dominio del complesso affaristico-militare2 che, in quella “grande disgregazione” etnica che è la società americana3, ha ancora il suo asse egemone nell’America wasp. Egli, adesso, può anche riposarsi, dedicandosi alle relazioni pubbliche, le sole in cui veramente eccelle, mentre i generali testano rabbiosamente i loro ordigni in territori che la ormai cronica mancanza di un governo centrale degrada a comodi poligoni di tiro, come in Afghanistan, in cui gli innocenti possono morire senza che nessun timorato di Dio debba temere di dover pagare i suoi crimini nel giorno del giudizio, anche perché è giusto ai fini di una sempre più faticosa pax mondiale a stelle e strisce andare a vedere il bluff atomico della Corea del Nord. C’è però chi pensa che i venti di guerra siano solo refoli delle grandi correnti commerciali. Tra questi, Romano Prodi, che vede in Trump il solito fasso tuto mi che la realtà si incarica di mettere a posto: «ma cosa vuoi fare e brigare con un paese come la Cina? Guardate come sta usando appunto la Corea del Nord: alla grande!». «Alla grande?», chiede il giornalista sbigottito. E Prodi, con l’allegria del commesso viaggiatore della grande globalizzazione: «La Corea del Nord vive perché la fa vivere la Cina. Materie prime, cibo. Gli americani lo sanno e vogliono che i cinesi si muovano. La verità è che per i cinesi la Corea del Nord vale un niente del commercio estero. E quindi possono anche chiudere il confine senza sacrifici: ma facendo così agli americani un favore enorme. E qui scatta il do ut des. Adesso, diranno, tocca a voi pagare: state buoni, per esempio, sulle restrizioni commerciali»4. E se la juche, questa ipertrofia dell’autonomia, fosse per la Corea del Nord non solo la garanzia della propria indipendenza, ma anche lo strumento della propria psicotica potenza? E se l’egemonismo cinico di Trump, costringendo la Cina ad un confronto con la Corea del Nord da cui uscirebbe perdente, la precipitasse in una nuova povertà, questa volta non più quella antica delle campagne, espressione di una arcaica stagnazione che aveva una sua sostenibilità sociale, ma quella di un urbanesimo industriale e terziario dai costi via via più grandi, e perciò tanto più degradata? Costringendola così a mettere in discussione il denghismo che l’ha retta sino ad oggi, e a riscoprire un maoismo ridotto ormai solo al collante nazionalistico? E il quadro diventa ancora più fosco se si considera la coda di paglia della Russia connection che il magnate americano assurto a uomo di Stato si porta dietro. Perché, nonostante la scaramuccia in Siria, è molto probabile che il suo egemonismo cinico faccia blocco, bon gré mal gré, con l’affarismo putiniano, cui è visibilmente subalterno. Ma che ne sarà di questo blocco quando entrerà in contraddizione con i “valori eurasiatici” – Dio, patria, famiglia tradizionale – tanto cari ad Aleksandr Dugin5, ascoltato consigliere di Putin? Saranno questi valori destinati alla stessa fine dei “valori cristiani”, di cui negli ultimi due secoli è stata custode nel blocco euroamericano la Chiesa di Roma, cioè a divenire foglie di fico di un mondo dominato solo dalla “non-etica degli affari”? Oppure, i dominati dell’Est e dell’Ovest, scoperto l’inganno degli infimi miglioramenti materiali derivanti dalla rivitalizzazione di produzioni “novecentesche” (auto, infrastrutture stradali, e tutto quanto legato a petrolio e cemento), si solleveranno selvaggiamente nella sovrastruttura, parlando il violento linguaggio degli antichi valori profanati6? Tutto ciò per dire che quando l’egemonia non è decentramento strategico ma cinismo elettorale, ovvero semplice forza corazzata di consenso, le cose non possono che prendere una brutta piega. E che contro questa reductio dell’egemonia alle arti magiche della persuasione, tipica dell’attuale dittatura del capitale, sbrigativamente denominata nelle sue multiformi manifestazioni come “populismo”, l’unica ricetta non può che essere il perseguimento della contro-dittatura. Lo dimostra il fatto che le deviazioni tattiche, da Tsipras a Sanders, non aprono vie per il futuro, ma demoralizzano e disperdono gli eserciti che dovrebbero condurre la battaglia contro-egemonica.

  1. M. Gaggi, “Sorprese e dietrofront: ma Trump non cambia la sua visione tribale della politica (e della vita)”, Corriere della sera, 15 aprile 2017, p. 2. []
  2. P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, (1966), Torino, Einaudi, 1968. []
  3. F. Aqueci, Il lupo per le orecchie. La questione meridionale al di qua e al di là dell’Atlantico, «Il Contributo», gennaio/dicembre 2014, pp. 29-61. []
  4. M. Aquaro, “La risposta di Pechino non ci sarà gli Usa cederanno sul commercio”, la Repubblica, 16 aprile 2017, p. 4. []
  5. F. Aqueci, Tra Dugin e Huntington. Epistemologia dello scontro di civiltà, «Politeia», n. 119, settembre 2015, pp. 10-23. []
  6. P. Cherchi, Il tramonto dell’onestade, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017. []

Il coro greco della tecnologia onnipotente

Download PDF

Davide Casaleggio ci informa che «la velocità con cui si sta evolvendo la tecnologia è impressionante: il problema per la società è proprio questo. Non abbiamo mai dovuto affrontare uno stravolgimento cosi repentino e massiccio. Lo shock più forte sarà nel mondo del lavoro. Avremo milioni di disoccupati in tutto il mondo perché ci saranno software e robot intelligenti molto più efficienti. Certo: ci saranno nuove esigenze, nuove competenze saranno richieste, ma un’intera generazione di lavoratori rischia di essere esclusa da un giorno all’altro perché non saranno più necessari e non potranno riadattarsi, nel giro di così poco tempo, per le nuove mansioni di cui ci sarà bisogno»1.

Purtroppo, questa visione della tecnica come potenza inarrestabile non è solo di questo imprenditore del consenso che, desideroso com’è di espugnare un Palazzo Chigi sempre peggio presidiato, non esita a promettere il miraggio del reddito di cittadinanza. Se si escludono i balbettii della destra, a sinistra si odono accenti simili, quando si constata che la nuova economia delle macchine intelligenti, se vive di poco lavoro, crea però una nuova classe di imprenditori e investitori super ricchi. E, allora, se «le nuove tecnologie portano con sé un aumento della disoccupazione e della disuguaglianza, e se la tendenza è che i giganti digitali decuplichino i profitti con un decimo dei dipendenti, solo la tassazione di questi profitti e la loro redistribuzione col reddito minimo può salvare il meccanismo produzione-consumo su cui si regge l’economia»2.

Come si vede, fine del lavoro, avanzata travolgente della tecnica, società robotizzata, disuguaglianze crescenti, reddito minimo o di cittadinanza, sono tutti temi che trapassano l’uno nell’altro e dissolvono confini politici e distinzioni culturali. Di più, la sinistra si fa forte di vedere nel M5S il sintomo del cambiamento epocale, ma finisce per parlare il linguaggio del sintomo.

In questa discussione su un futuro che la dura condizione presente rende ancora più nevrotica, prendono corpo allora vaticinii circa un mondo prossimo venturo in cui le decisioni verranno prese da intelligenze esterne alla specie umana, che non sarà più in grado di comprendere i motivi o le catene di ragionamenti che le hanno determinate3. Ma è davvero pensabile che il mondo decisionale diventerà per noi opaco, e che ci fideremo di quello che faranno le macchine per noi fino a che non avremo la più pallida idea di ciò che hanno in serbo per la specie umana? È realistica la prospettiva che il padrone, delegando sempre più lavoro al servo tecnologico, in realtà diventi sempre più dipendente da lui e incapace di svolgere il lavoro da sé, producendo così un ribaltamento del rapporto tale che il padrone si subordina e il vero padrone diventa il servo?

Già il fatto stesso che si evochi la dialettica hegeliana di servo e padrone, mostra che la questione non è la tecnica, ma la sfida politica posta da una società neo-signorile, in cui il lavoro morto delle macchine artificialmente intelligenti alimenta una rinata classe schiavistica che, per mantenere il proprio dominio, concede volentieri alla massa esclusa dalla produzione viva il panem del reddito di cittadinanza o minimo che dir si voglia, e i circenses di una società del consumo degradata però a merci vendute a un costo marginale spesso vicino a zero.

Il rimedio, allora, non può consistere nella spoliazione dei giganti digitali per ricavarne una illusoria redistribuzione di ricchezza, un po’ l’equivalente della parcellizzazione dei grandi feudi, per la quale si batté nella prima metà del secolo scorso l’agonizzante mondo contadino, ma nel lottare contro un dominio politico riformulato in chiave neo-schiavistica, da cui, se non contrastato, non potrà che derivare una nuova glaciazione sociale, analoga a quella che colpì il colosso imperiale romano.

E nella scelta di questa lotta politica, che rientra pienamente nell’ispirazione culturale della sinistra, cui il M5S è estraneo, prigioniero com’è di una corta cultura che si esprime in un infantile fantapolitichese, la tecnica non diventa affatto un nemico da cui guardarsi, ma un alleato di cui giovarsi. È un nemico se si parte dal presupposto che la battaglia contro la nuova società signorile alle viste è persa in partenza. Allora, avanzerà inarrestabile l’automazione, ovvero l’eliminazione della presenza umana dai processi produttivi, che confermerà la profezia dell’inevitabilità dell’avvento della nuova società signorile, cui non resterà che acconciarsi. Se, al contrario, si giudica che quella lotta è aperta, e ci si attrezza politicamente per combatterla, allora avanzerà non l’automazione, ma l’interazione tra gli uomini e le macchine4, al cui centro non starà il profitto, ma la soddisfazione di bisogni la cui quantità e qualità dipenderà dal processo interattivo stesso. E qui ci si potrà approssimare a quella onniproduttività che Marx ed Engels espressero con l’ideale dell’individuo che la mattina va a caccia, il pomeriggio pesca, la sera alleva il bestiame, e dopo pranzo critica, cosí come gli vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico5.

A Mark Zuckerberg, cui piace tanto atteggiarsi, perfino nella pettinatura, a novello Cesare Augusto, e che rivendica orgogliosamente il proprio status di capitalista, ivi compreso il diritto di eludere le tasse, bisogna dunque strappare non i profitti, ma il comando sociale impugnato, assieme ai Bezos, Page, Gates, Jobs, e tutto il corteggio di questi nuovi dei, reificando la tecnica, della cui oggettiva e inarrestabile potenza il coro greco di filosofi, sociologi e futurologi, vuole convincerci.

  1. D. Casaleggio, “Noi M5S come Netflix. Il candidato premier? In autunno il nome”, Corriere della sera, 3 aprile 2017, p. 6. []
  2. N. Rosa, “Il lavoro nell’era dei robot”, 3 aprile 2017, http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=28517 []
  3. A. Moroni, “Facebook, Intelligenza artificiale e punto di singolarità”, http://www.angelomoroni.com/2016/01/18/facebook-intelligenza-artificiale-vicina/ []
  4. J. Lojkine, J.-L. Maletras, “Faut-il avoir peur du numérique?”, l’Humanité, 17 maggio 2016, p. 12. []
  5. K. Marx, F. Engles, L’ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 24. []

La metafisica del capitalismo di Emanuele Severino

Download PDF

Ad Emanuele Severino, metafisico sommo, bisogna riconoscere il coraggio di essere uno dei pochi che, riferendosi all’odierna realtà del profitto privato, che con la sua dittatura soffoca la ricerca di ogni altra forma alternativa di produzione, non ricorre a perifrasi ed eufemismi, “economia di mercato” e quant’altro, ma usa il termine crudo e veritiero di “capitalismo”.

Nelle sue opere, Severino ha evidenziato quello che potremmo chiamare il paradosso del capitalismo1, e in un suo intervento giornalistico di qualche tempo fa lo ha collegato al fondamentalismo e al terrorismo islamico2.

Secondo Severino, dal punto di vista capitalistico, il fondamentalismo e il terrorismo islamico sono forme degenerate del passato. Il capitalismo, invece, è il tempo intermedio tra il passato e il futuro, in cui esso ristagna per ignoranza filosofica. Infatti, se il capitalismo, spinto dalla sua intrinseca natura utilitaristica, non rifiutasse l’“inutile” conoscenza filosofica, vedrebbe che l’agire non ha alcun limite intrinseco, come invece pretende la falsa conoscenza del passato. D’altra parte, se acquisisse tale nuova conoscenza filosofica, e trapassasse nella pura e incontrollata potenza dell’agire, esso cesserebbe di essere capitalismo e diverrebbe altro da sé, cioè uno strumento subordinato della tecnica.

Per Severino, il paradosso del capitalismo è lo stesso in cui è intrappolato l’Islam. L’Islam identifica il capitalismo con Satana, ma non vede che rispetto a sé, e alla stessa religione cristiana, il vero Satana è la voce filosofica, l’inutile “voce del sottosuolo”, come egli la chiama con una metafora dostoevskiana, la quale chiarisce la potenza della tecnica, mettendo così la tecnica nella posizione di poter abolire tutti i limiti posti dal passato, che la voce ha dimostrato inesistenti, e quindi anche i limiti che l’Islam pone alla tecnica in nome del passato.

L’Islam, però, sostiene Severino, avrebbe un vantaggio rispetto al capitalismo, quando usa terroristicamente la tecnica moderna contro gli infedeli. Tuttavia, esso non solo è in ritardo rispetto alla gestione capitalistica della tecnica, ma, come già detto, pone a sua volta limiti alla tecnica ancora più rigidi di quelli che il capitalismo le pone non ascoltando la voce del sottosuolo in nome dell’utile immediato. Come il capitalismo, dunque, e nel conflitto con il capitalismo, anche l’Islam si avvia all’estinzione.

Certo, conclude Severino, l’Occidente, che è il luogo in cui per prima la voce filosofica del sottosuolo ha fatto conoscere l’illimitatezza della tecnica, può giungere al massimo della sua potenza rispetto all’Islam. Ma quando questo accadesse, quando il capitalismo si imponesse su ogni avversario, sia esso il cristianesimo o l’Islam, in quel momento cesserebbe di esistere, perché a vincere non sarebbe il capitalismo, bensì la tecnica dalla potenza illimitata, liberata cioè anche dai limiti che il capitalismo, in quanto età di mezzo che ignora l’inutile voce filosofica del sottosuolo, ancora le pone.

Come si vede, tutto ruota attorno alla “voce del sottosuolo”. E che cos’è tale voce, se non una trasfigurazione della conoscenza delle leggi oggettive della struttura? Severino probabilmente si ritrarrebbe contrariato da un simile accostamento “storico-materialistico”, ma tutto il suo ragionamento vi converge. La sua concezione della tecnica, suo storico cavallo di battaglia che egli cavalca senza la perfida malafede del mago di Todtnauberg, ne è una prova evidente. Per Severino, infatti, la tecnica non è solo la cultura, il sistema politico e il modo di vita, ma anche il modo di produzione che succederà al capitalismo, mettendo così fine al processo storico, divenuto un eterno presente.

E quindi non appaia fuori luogo opporgli la giustezza dell’affermazione di Gramsci, circa l’egemonia di Lenin come «grande avvenimento metafisico»3, perché organizza la dispersa volontà umana per finalizzarla non allo sviluppo economicistico, cioè tecnico, delle forze produttive, bensì allo stabilirsi di rapporti sociali da cui possa derivare lo sviluppo integrale della cognizione umana. La tecnica è dunque il destino dell’uomo se l’uomo resta prigioniero delle entificazioni produttive generate da un ascolto sbagliato della “voce del sottosuolo”. Al contrario, la tecnica diviene solo uno strumento se l’agire è impostato in modo ontologicamente corretto, cioè non scisso dall’ascolto, ma incorporato nell’organizzazione egemonica. Bisogna quindi distinguere tra agire e organizzazione. L’agire è illimitato, e quindi soggetto alla corruzione della tecnica. L’organizzazione è una potenza percettivo-motoria subordinata agli scopi “inutili” della cognizione umana. L’agire si reifica e ingloba in sé asservendolo l’agente; l’organizzazione è il controllo continuo da parte dell’agente del divenire dell’azione. L’agire è l’essere che si pietrifica, l’organizzazione è il divenire che sfida il nulla in cui l’azione può precipitare se non è istante per istante diretta alla sua “inutile” finalità.

Ovviamente, questa conclusione leninian-gramsciana per Severino è uno scandalo, lui che da una vita nega il divenire. Ma l’essere per il quale egli da una vita si batte è illusorio, poiché, pur scorgendo con le sue lenti metafisiche le condizioni materiali della cognizione umana, Severino rifugge dall’organizzazione egemonica. Si dirà che tutto il corso storico degli ultimi decenni giustifica tale rifuggire. Non è forse fallita in tutti gli scacchieri l’organizzazione egemonica? Non sta addirittura fallendo sotto i nostri occhi, oggi, in quell’America Latina che sembrava avviata verso il socialismo del XXI secolo?

Così, Severino, in suo ulteriore, recentissimo intervento, ha buon gioco nell’affermare che «non funziona l’idea che ci possa essere una forma storica così persuasiva e forte da impedire la dissoluzione delle cose del mondo»4. Ad un certo punto, infatti, la “voce filosofica del sottosuolo”, ovvero i Leopardi, i Dostoevskij, i Nietzsche, intervengono a mostrare «l’impossibilità di ogni eterno, di ogni unità definitiva del mondo»5. Ma, viene qui da obiettare, Severino, come abbiamo già prima ricordato, non ha forse passato tutta la sua vita filosofica a mostrare che la follia dell’Occidente è stata di allontanarsi dall’essere di Parmenide? In questo suo ultimo intervento, Severino illustra la pretesa dell’uomo di divenire altro da ciò che è, con il mito di Adamo che mangia la mela di Eva per divenire, da uomo che è, il Dio che vuole essere6. Con questo mito profondamente radicato nella tradizione occidentale, l’uomo ha allora inscritto tutta la civiltà sotto il segno di una colossale alienazione. E qui si chiarisce, allora, che in realtà Severino vuole emendare questo errore, curare questa follia, non con l’essere, non con un ritorno all’essere, ma con una modulazione tutta sua della “voce del sottosuolo”, ossia con il nulla che altro non è, se non la morte. Con quella morte che, come egli stesso ammette, lo mette di buon umore, e di cui teme solo il dolore e l’agonia7.

Un macabro ghigno, dunque, che Severino ha buon gioco di rivolgere pure all’Europa. Infatti, se tutti i grandi eventi della storia sono un tentativo di superare l’angoscia della separazione delle cose, che il divenire causa rispetto all’unità originaria dell’essere, e se tutte le figure della storia europea sono un tentativo di unificazione per superare la separatezza degli elementi che caratterizzano la terra del tramonto, allora, così come l’Occidente, anche l’Europa è nata vecchia, cioè sotto il segno dell’errore, della follia di voler unificare la dissoluzione delle cose del mondo8.

La scommessa di Severino è dunque che l’alienazione originaria da cui proviene l’Europa, l’Occidente, e ormai la civiltà mondiale, sia reintegrabile non tramite l’infinita e positiva pluralità di una forma che si trae incessantemente dal nulla che vorrebbe inghiottirla, ma nella morte che il divenire apporta alle cose, poiché è tramite la morte che, negando la spinta dissolutrice originaria, si può tornare all’essere. È un viluppo logico che, ogni volta che si attenua la spinta costruttrice dell’organizzazione egemonica, sembra elevarsi a verità storica. Ma la scommessa storica, in cui a ben pensarci consiste la vita dell’uomo, sta proprio nello smentire istante per istante quel viluppo logico che, senza quello sforzo contrario, attirerebbe l’uomo nella spaventevole beatitudine della morte.

  1. Da ultimo, in E. Severino, Dike, Milano, Adelphi, 2015, pp. 189-190. []
  2. E. Severino, Sfida tra Islam e Occidente. Il vincitore è la tecnica, “Corriere della sera”, 10 aprile 2016, supplemento “La Lettura”, pp. 6-7. []
  3. Quaderni del carcere, ediz. cr. Gerratana, 7, § 35, p. 886. []
  4. A. Gnoli, Intervista a Emanuele Severino, “la Repubblica”, 19 marzo 2017, p. 70. []
  5. Ibidem. []
  6. Ibidem. []
  7. Ibidem. []
  8. Ibidem. []

Dopo il PD, c’è ancora vita!

Download PDF

C‘è un’aria di mestizia in giro, ma lo scioglimento del PD, anche se ancora in fieri, è un evento fausto. Finisce la lunga subordinazione politica e culturale della sinistra a un centro liberaloide, di cui è stata espressione per un buon trentennio “la Repubblica”, che ancora domenica, 19 febbraio 2017, in extremis, ha lanciato l’ultima offa, con una celebrazione andywarholiana di Gramsci. Ma non è più tempo, la realtà è ormai troppo reale per poter essere nascosta sotto la tonaca di qualche papa laico. Tutto sta a vedere ora cosa vuole fare questa sinistra della ritrovata autonomia. E qui bisogna essere molto esigenti su alcuni punti che non è difficile individuare.

Primo, la lotta di classe non è finita, l’ha solo vinta il capitale. Copyright, Luciano Gallino. E già Bobbio, benché in modo meno pugnace e più olimpico, aveva segnalato il problema, richiamando la sinistra all’eguaglianza. Ma, anche al giorno d’oggi, in cui produzione e riproduzione sfumano l’una nell’altra, non si può tutto racchiudere in una redistribuzione che getti qualche manciata di sabbia nell’accumulazione, magari via reddito di cittadinanza. Una simile misura non farebbe uscire dalla reificazione economica, ma creerebbe solo una platea di individui, la cui estraneazione avrebbe un prezzo che il capitale si può permettere per salvaguardare la sua ragion di vita, ovvero il comando sul lavoro, che a tal scopo, corazzato di tecnica, oggi frantuma, degrada e distrugge, ma la cui libera fruizione (quindi, lavoro di cittadinanza, no grazie!) proprio per questo deve restare l’obiettivo prioritario. Perciò, e siamo al punto secondo, bisogna liberarsi di tutte le incrostazioni democraticistiche di questi anni. È Altiero Spinelli a distinguersi dai “democratici” e a parlare di “dittatura del partito europeo” nel Manifesto di Ventotene, che va letto in tutte le sue parti. E il contenuto di questa “dittatura” è nettamente anticapitalistico: «la proprietà privata dev’essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso» (p. 30). E ancora: «non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività monopolistica, sfruttano la massa dei consumatori» (p. 31). Google, Facebook, Amazon, Apple, de vos fabula narratur. E quindi non basta più il virtuismo liberal-liberistico del professor Monti, che irrora multe milionarie dal suo scranno di Bruxelles. Ci vuole un’azione più continua, mirata e penetrante. Perciò, e siamo al punto terzo, l’obiettivo di una “dittatura” europea non più del capitale, ma del lavoro, non può che essere l’opera del “partito”. Qui bisogna dire chiaro le cose come stanno, e cioè che, su questo punto, Lenin e Althusser sono più attuali di (una certa lettura di) Gramsci. A lungo ci si è baloccati con l’egemonia, che era un modo per camuffare la propria impotenza. Ma non si può fare la “guerra di posizione” quando l’avversario pratica la “guerra di movimento”. Bisogna dunque strappare di mano all’avversario l’anello federalista europeo per tirare la catena in senso opposto, che è il suo senso naturale. Il federalismo non può essere la maschera a ossigeno che, com’è accaduto in questi sessant’anni, tiene in vita l’esausto spirito del capitalismo cristiano-germanico. Questo accanimento terapeutico sta portando l’Europa dritta in bocca al passato: nazionalismo, qualunquismo, razzismo, fascismo, nazismo.  

Tutto bene, anzi, tutto male, perché queste esigenze passano ancora per il collo di bottiglia elettorale della democrazia in atto. Bisogna perciò premere ed esigere da chi finalmente sta mollando gli ormeggi sbagliati degli anni scorsi che la prossima legge elettorale sia quanto più proporzionale è possibile. Senza questa libertà di scelta, il “partito”, ma in generale i partiti, nascono depotenziati, pure macchine per andare al governo (M5Stelle, da ultimo, docet). Bisogna esigere invece che i partiti tornino ad essere strumenti del conflitto. E non per una mistica del conflitto. Il conflitto deve avere una meta tangibile, che è l’Europa federale non capitalistica. Ma questo obiettivo si può ottenere se ora, subito, l’elettore per primo si libera della cattiva cultura politicistica della “governabilità”, che mani interessate hanno sparso in questi decenni. L’antrace della governabilità è l’introiezione da parte del governato della proibizione di ricercare la propria autonomia. L’elettore, il cittadino, non si deve invece preoccupare della governabilità, ma della sua corretta rappresentanza nel conflitto di classe. Sapere la sera delle elezioni chi governerà sin da domani, è un loisir che abili manipolatori concedono volentieri a masse addestrate allo spettacolo mediatico. Solo che, dopo, c’è il cetriolo. E, invece, Belgio e Spagna dimostrano che gli affari correnti del capitale, che comprende anche la vita economica quotidiana, possono essere egregiamente sbrigati per lunghi periodi dalle burocrazie ministeriali. La nuova sinistra che si sta tanto faticosamente liberando dall’abbraccio del pitone, va messa dunque alla prova su questo punto. E c’è solo da sperare che nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, il coraggio ritrovato non venga sopraffatto da qualche compromesso antistorico dell’ultim’ora.