Politica

Dopo la crisi

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Non che la crisi sia passata, anzi, in alcune zone, per alcuni ceti, in base a qualche indicatore, sembra se non aggravarsi, comunque stagnare e cronicizzarsi. Ma si cominciano ad intravvedere i contorni del nuovo mondo che essa, per il suo stesso accadere e perdurare, sta creando sotto i nostri occhi. Trump annuncia dazi e confini, mette in mora la Nato, apre a Putin. Basterebbe già questo per dire che siamo in una nuova era. Ma il neo-presidente americano, che a volte è così truce da sembrare uno zuzzerellone in vena di scherzi, va ancora messo alla prova, e bisognerà vedere quanto di ciò che annuncia riuscirà a tradurre in pratica. E, poi, tutte le sue mosse conducono al confronto con la Cina, che era già una priorità di Bush jr., appena insediatosi, convertito però dall’11 settembre al democracy building che ha distrutto l’Iraq e destabilizzato tutto il Medio Oriente. No, non bisogna cercare a questi livelli i segni di ciò che la crisi sta cambiando, almeno in Europa, almeno in Italia. C’è invece da chiedersi se le privazioni e i sacrifici imposti dalla crisi economica e dall’austerità non stiano producendo dei cambiamenti dagli effetti imprevedibili in quelle che una volta si chiamavano le “grandi masse”, e se tali masse, in un futuro più o meno prossimo, non vorranno essere in qualche modo artefici del loro destino. È questo il significato, uno dei significati, della rabbia popolare che le élite arroganti stigmatizzano come “populista”? Quali mutamenti nella cognizione di queste masse stanno intervenendo dopo le sofferenze e i rischi condivisi in questi lunghi anni, nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, soprattutto nei luoghi di quel lavoro che non c’è più? Ognuno si sta rinchiudendo sempre più in se stesso, come ci raccontano i centri studi che scandagliano l’opinione comune, oppure si stanno sviluppando sottotraccia degli insospettati sentimenti solidaristici, che potranno emergere quando la crisi lascerà davvero senza più alternative? Una cosa è certa, le rivoluzioni non possono scaturire dalla crisi economica, perché le masse proletarie, sentendosi estranee al complesso cultural-liberista che le disprezza, si volgono elettoralmente verso la più verace reazione capitalistico-borghese. Ed è subito Trump. E un’altra cosa è certa, e cioè che, con la crisi, il capitalismo è ancor più di prima un processo senza soggetto, nel senso che i soggetti che lo gestiscono, banche manager monopoli, non hanno più alcun legame storico-affettivo con la produzione. Se con Gianni Agnelli il profitto era ancora relativamente arbitrario, con i suoi discendenti è salito al livello dell’arbitrarietà assoluta. D’accordo, esistono ora (sono esistiti) i Jobs, i Page, i Zuckerberg, i Bezos e i Bill Gates, così come è esistito Berlusconi, figura di mezzo tra la produzione di cose e la produzione dei sentimenti, ma essi producono la vita stessa affettiva delle masse. Si tratta perciò di una produzione in cui nessuno è soggetto, non le masse estraniate dalla doppia vita di illusori loisirs che quei capitani d’industria loro vendono, né quei capitani d’industria che si devono annullare in quella illusoria soggettività delle masse, se vogliono far andare avanti il loro traffico affettivo. Un tempo ci si sarebbe chiesti in quale luogo potrebbe avvenire l’espropriazione di tale processo senza soggetto. Nei luoghi di lavoro? Di lavoro ce n’è sempre meno, e dove si lavora l’aria è da caserma. In organismi politici creati a tal fine ex novo? Insomma, dopo la crisi, oltre il partito, oltre il sindacato, oltre le istituzioni rappresentative, cosa c’è, l’autogoverno? Se l’uomo solo al comando fallisce, che cosa vuol dire autogoverno? Il Movimento 5 Stelle, che si fa un grande sforzo a prendere sul serio, ha messo in rete il sistema operativo Rousseau. Ma Rousseau è forse auto-governo? Al massimo, è  un legislativo “diretto”, un’implementazione tecnologica dell’ideologia della legge. Il problema che i grillorum nemmeno sfiorano è l’esecutivo, che loro continuano a vedere come presa di Palazzo Chigi. Perché invece i pentastelluti non ci dicono come dovrebbe essere un esecutivo autogovernante? Come dovrebbe essere organizzato? A livello di produzione (fabbriche, unità agricole, uffici, servizi)? A livello territoriale? A livello della mitica rete? A che livello, insomma? Con chi dovrebbe interloquire il giovane Di Maio, dalla batteria di telefoni di Piazza Colonna? Il domani è fosco, non c’è che dire, ed abbondano i venditori di monete false. Ci sarebbe bisogno di un intenso momento di auto-riconoscimento popolare, in cui ciascun individuo, ciascun ceto, ciascuna classe, sfarinate pur come sono, potesse esprimere se stessa. Dopo la crisi, così come dopo la guerra, la Costituente. Ma anche questa soluzione, la si è così tante volte evocata politicisticamente, e da personaggi così politicisticamente squalificati, che ha perso mordente e solennità. Ci si arriverà per vie traverse, con il proporzionale? Sarà l’interesse di bottega del vecchio Berlusconi, l’astuzia della ragione che regalerà agli italiani un momento autentico di riconoscimento politico? O vincerà il tatticismo dei 5S, pronti a saltare su ciò che resta del maggioritario, per annunciare dalla finestra di qualche abbaino di Palazzo Chigi che la “volontà collettiva” si è insediata e, Italiani!, adesso gingillatevi con il sistema operativo Rousseau?

Lukács o Grillo? Insegnamenti del caso Raggi

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La domanda scabrosa è: dietro l’arresto di Raffaele Marra ci sono i poteri affaristici che si vendicano del no dei cinquestelle alle Olimpiadi a Roma nel 2024? Il sospetto viene apprendendo che la prova della corruzione di Marra è saltata fuori da una intensificazione delle indagini giudiziarie su di lui negli ultimi sei mesi, insomma, come a voler frugare in ogni dove per trovare qualcosa di utile con cui ricattare ed eventualmente punire. Ma qui sorge l’altra domanda, altrettanto se non più scabrosa: Virginia Raggi è il terminale di un gruppo di potere che sta usando i cinquestelle, dal canto loro ben contenti di farsi usare? Il sospetto viene osservando non solo la pervicacia con cui la Raggi ha imposto e difeso un personaggio così vulnerabile come il Marra, ma anche l’arrendevolezza con cui Grillo e Casaleggio jr. hanno consentito che ciò accadesse. È verosimile ipotizzare che, al di là dei risibili impegni notarili e relative multe, fumo negli occhi per gli elettori, sin da prima delle elezioni tra la Raggi e il suo mondo di riferimento e i vertici cinquestellati sia intercorso un patto più o meno esplicito in cui i consensi veicolati dalla Raggi venivano scambiati con il via libera al riciclo di pezzi dei poteri affaristici romani, con il retropensiero reciproco che gli uni avrebbero avuto la forza di neutralizzare gli altri, in modo da evitare sputtanamenti elettorali, da un lato, e perdite di potere affaristico, dall’altro. Lo sguardo indecifrabile della Raggi di cui parlano i giornali, forse sta tutto qui, in questo gioco delle parti in cui essa stessa gioca a sua volta una partita in proprio, poiché se riesce al tempo stesso ad essere garante del suo mondo di riferimento e a mantenere l’appoggio interessato dei cinquestelle, cresce la sua statura non tanto di sindaca, ma di capa: altro che figurina inadeguata, ma nemmeno la solita gatta morta, quanto piuttosto una ambiziosa Brunilde. L’avviso di garanzia che ha azzoppato Giuseppe Sala è invece più classico e meno “provinciale”, poiché è l’esito del lungo scontro che ha accompagnato l’Expo, ovvero la “grande opera”, della cui realizzazione egli era il plenipotenziario, che consente alla nazione di partecipare al “consumo vistoso” degli Stati. Le forzature ed irregolarità, che hanno finito per favorire quell’impresa anziché quell’altra, derivavano dalla necessità di portare a termine quella “missione” nazionale, a difesa della quale, come si apprende dalle oneste cronache, si formò un blocco tra vertici dello Stato e frazioni della magistratura che, adesso, anche sull’onda della catastrofe referendaria, subisce il contrattacco di chi all’epoca fu sconfitto ed emarginato. L’impasse in cui sono finite la capitale politica e la capitale morale d’Italia, e sull’aggettivo morale ciascuno la pensi come crede, dimostra sperimentalmente ciò che i libri dicono su che cosa sono i partiti nella società degli interessi economici, anche quando si fregiano della pudibonda etichetta di movimenti: macchine per andare al governo che, alternandosi nel ruolo di chi arraffa e di chi invoca nelle piazze l’onestà, recitano ciò che Vilfredo Pareto, già all’inizio degli anni Venti del secolo scorso, chiamava lo “spettacolo della corruzione”1. Pareto individuò tre “maschere” di politici che recitavano in tale commedia, ovvero gli idealisti, gli uomini di potere e gli affaristi. Il partito in cui predominano gli idealisti non va mai al governo, a differenza dei partiti misti, che costano più o meno alla collettività a seconda che in essi prevalgano gli uomini di potere o gli affaristi. Eh, sì, perché sono gli uomini di potere quelli che costano di più, poiché rendono possibile «ogni sorta di operazioni dirette a togliere altrui i beni, per farne godere le clientele politiche»2. Non dobbiamo qui seguire sino in fondo le classificazioni di Pareto, per le quali egli aveva un debole. Più interessante invece sottolineare che, nello stesso torno di tempo in cui Pareto studiava la morfologia politica della società degli interessi economici, György Lukács, dall’estremo opposto dello spettro ideologico, vedeva nei partiti che vanno al governo l’espressione della “corruzione borghese”, ed esaltava il “partito proletario”, la cui missione ideale non era di sostituirsi ai partiti borghesi nel governo della società data, ma di affrancare l’intera società dall’alienazione economica. Un obiettivo non propriamente a portata di mano, come lo stesso Lukács poté constatare nel corso della sua lunga vita. Ma il suo schema, che sino all’ultimo non si stancò di rendere duttile e flessibile, aveva il merito di trasformare un dato di fatto in una finalità etico-politica: il partito idealista non è che non va al governo, perché il canovaccio di Pareto prevede la maschera dello sfigato, ma sceglie programmaticamente di non andare al governo, perché la sua missione è altra che assicurare alle valchirie di turno delle splendide carriere di potere. Bisogna constatare che, dopo cent’anni, siamo ancora lì: come far sì che il partito idealista raccolga, accumuli, immagazzini forze per costruire un blocco sociale alternativo all’occlusione economica. È un problema filosofico e politico3, ma anche, scartata la rivoluzione come strumento per raggiungere quel fine, di tecnica elettorale. Lo si è visto in questi vent’anni di maggioritario in Italia, dove la vita del partito idealista che non va al governo è divenuta via via sempre più misera e grama. Oggi siamo a un tornante, perché si torna a riproporre il proporzionale, dove non si è costretti a scegliere immediatamente se andare o meno al governo, ma si pensa prima a costruire la propria forza4. Naturalmente, c’è da chiedersi come mai i partiti che vanno al governo, all’improvviso, riscoprono la bontà del proporzionale, che pure non li favorisce. Evidentemente, la politica, e la tecnica elettorale, Mattarellum Porcellum Italicum e via degradando, non sono tutto e non tutto possono contro la società che rifiuta di essere ridotta all’unica dimensione dell’economico. I referendum del 2011, il referendum del 4 dicembre, la nouvelle vague proporzionale, sono allora segnali di una primavera che chi è interessato al partito idealista che accumula forze per un cambio di ontologia sociale, nel senso non comico-grillesco ma filosofico-lukacsiano del termine, dovrebbe saper cogliere. Anche per non sprecare malamente l’occasione storica. In questo senso, si prenda Syriza, in Grecia. Non solo è andata al governo, e passi, perché poteva rivelarsi una feconda contraddizione reale, non solo non ha saputo capitalizzare il referendum del giugno 2015, ma si vanta pure di non avere mai avuto un “piano B”, alternativo alla trattativa con i poteri europei egemonizzati dalla Germania. E la giustificazione è che non si poteva gettare il paese nel caos, capitali in fuga, file ai bancomat, stipendi non pagati e altre calamità. Ma si consideri quel che, l’8 novembre 2016, ha fatto Modi in India, dove nottetempo, sono state dichiarate fuori corso le banconote da 500 e 1000 rupie. L’intera produzione agricola, che si esprimeva in tali banconote, è andata in tilt, e file chilometriche si sono formate ai bancomat. Certo, il provvedimento del governo indiano, con la scusa virtuista della lotta alla contraffazione monetaria, mirava ad intensificare l’estrazione “fiscale” di plusvalore, un caso paretianamente esemplare di “spoliazione”5, ma questo dimostra che la dittatura del capitale è implacabile quando deve far scendere dal cielo in terra la sua morale. Syriza, quindi, avrebbe fatto bene ad avere il piano B, che non sarebbe certo dovuto consistere nell’opporre brutalità a brutalità, ma nel mettere a frutto con mosse strategicamente accorte l’egemonia guadagnata precedentemente nella società. Perché in ciò consiste l’accumulazione di forze per un’alternativa ontologica, nel mostrare che la propria dittatura non è arbitraria o parziale, come quella della finanza, delle banche, dell’impresa, di esercito, chiesa, o Stato come “comitato d’affari”, ma è la dittatura che porta allo sviluppo onnilaterale della ricchezza sociale. E che cos’è la ricchezza, se non «l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive ecc. degli individui, generata nello scambio universale»6?

 

  1. Su questo punto, rinvio a F. Aqueci, Lo spettacolo della corruzione. Élites e partiti in Pareto, in “Politeia”, anno XXIX, n. 109, 2013, pp. 55-64. []
  2. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, (1916), Torino, Utet, 1988, 4 voll, vol. IV, § 2268. []
  3. Per riflessioni più estese su questo punto, cfr. F. Aqueci, Semioetica. Lingua, istituzioni, libertà, Roma, Carocci, 2016, pp. 96 sgg. []
  4. Su questo tema, osservazioni sorprendentemente interessanti, per essere espresse da un politico, genìa oggi dedita a tutt’altre pratiche, in P. Ferrrero, Introduzione a P. Favilli, In direzione ostinata e contraria. Per una storia di Rifondazione comunista, Roma, DeriveApprodi, 2011, fruibile qui on line. []
  5. Su questo punto in Pareto, rinvio ancora a F. Aqueci, Semioetica, cit., pp. 92 sgg. []
  6. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), (1857-1859), trad. it. di G. Backhaus, Torino, Einaudi, 1976, 2 voll., vol. I, p. 466. []

Renzi, il piccolo “a”

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«Non credevo che potessero odiarmi così tanto». Questa frase, ormai celebre, con cui Renzi ha accolto la disfatta referendaria, pare che fosse rivolta alla minoranza del partito, pronta a fare fronte comune con gli avversari cinquestelle e forzisti, pur di vederlo nella polvere1. Ma Massimo Recalcati, fresco ideologo leopoldino, ne ha dato l’interpretazione autentica, allargando l’obiettivo a tutto il paese: «Quello che mi ha colpito è la natura autodistruttiva di questo odio. Il suo rifiuto di ogni canalizzazione simbolica»2. Ma in quale canale simbolico si sarebbe dovuto riversare questo presunto odio autodistruttivo? Recalcati richiama lo schema simbolico dell’Edipo, il figlio che uccide il padre. Ma lo interpreta come il padre che accetta di farsi uccidere dal figlio. La mancata simbolizzazione che lamenta, è in questo rifiuto del padre di farsi uccidere da Renzi. È strano, Recalcati appena può, lamenta l’evaporazione del padre come uno dei mali della nostra epoca. Poi, però, tesse le lodi di un parricida mancato come Renzi. C’è qualcosa che non quadra. Davvero Renzi era questo eroe edipico adamantino? Eugenio Scalfari e Giorgio Napolitano non sono davvero due giovanotti, eppure Renzi li ha eletti a suoi mentori, il primo nell’ultima fase della sua avventura referendaria, il secondo sin dal suo esordio di governo. Più che un figlio che vuole uccidere il padre, Renzi sembra un ragazzo viziato che apprende da vecchi zii l’arte degli intrighi. C’è poco di edipico nell’avventura di Renzi, e molto di matriarcato. Il figlio belloccio, esuberante e scapestrato al quale non la madre, ma la mamma permette tutto, perché quello che fa torna utile a tutti: nessun padre, tutti figli, tutti a farsi gli affari propri, in un’orgia di potere. Nei mille giorni di governo, ecco infatti cosa Renzi pensava di aver fatto: «riportare l’Italia al vertice dello scenario europeo e mondiale, al suo posto»3. Nella matrice dei quattro discorsi di Lacan, che Recalcati dovrebbe conoscere bene, Renzi allora non è riuscito ad occupare il posto del padre-padrone perché egli in realtà è l’oggetto piccolo “a”, cioè il posto della produzione, del godimento che rimane al di fuori di ogni significazione possibile. Lacan chiama questo posto il buco inaggirabile, una zona oscura attorno alla quale il soggetto fa il giro senza mai poterla dire, significare4. Ecco, l’azione di governo di Renzi, più che un parricidio mancato, è stata questo girare attorno al buco, senza riuscire a significarlo. Più che penetrare il godimento, Renzi è stato penetrato dal godimento. Il suo iperattivismo era in realtà una furiosa passività. Ma qual è la ragione di questo rovesciamento della matrice discorsiva? Qui la clinica politica va integrata con il discorso dell’egemonia. Nella divisione mondiale della produzione o godimento, l’egemonia appartiene al blocco capitalistico americano e ai suoi vassalli, fra cui spicca l’Unione europea. L’Italia che torna al vertice dello scenario europeo e mondiale significa l’Italia che torna ad essere vassallo produttivamente efficiente, e a ciò dovevano servire le “riforme” del lavoro, della scuola, dell’amministrazione e, suggello finale, della Costituzione. Queste riforme, dunque, non dovevano uccidere il padre, ma elevare l’oggetto “a” del godimento a simulacro del discorso del padre, cioè ad instaurare il regime usurpatore del discorso del capitalista che, per Lacan, come Recalcati dovrebbe ben sapere, è il discorso fondamentale della società contemporanea, dove il consumo degli oggetti è visto come il modo di narcotizzare il soggetto nella ripetizione di un godimento fasullo, che porta l’illusione di un falso riempimento, di un falso soggetto completo5. Il fallimento di Renzi, allora, non è nell’aver mancato di uccidere il padre, che il discorso del capitalista ha già svuotato in partenza, ma nell’aver mancato la missione per la quale era stato ingaggiato, stabilizzare in un’area cruciale del blocco produttivo mondiale l’egemonia del simulacro del discorso del padre, ovvero l’egemonia del godimento infinito, nichilistico, che sbocca nella pulsione di morte. Quello che Renzi e la sua corte, ivi compresi gli ideologi, denunciano allora come odio, odio immane, odio non simbolizzato, è in realtà il rifiuto di una impostura, che è percepito come odio perché il mondo porta la colpa di resistere al proprio delirio mortifero. Si obietterà: ma allora il 60% di No è tutto da ascrivere al rifiuto del discorso del capitalista? Qui non bisogna cadere nella trappola dell’“accozzaglia”. La contro-egemonia ha i suoi spontanei strumenti di consenso, i suoi propri canali di simbolizzazione. Ed è un fatto che tanto nei referendum del 2011, quanto nel referendum del 4 dicembre, l’egemonia produttivistica del godimento cieco è stata battuta dalla contro-egemonia di un discorso del padre autentico, se con ciò si intende la resistenza per aprire ad un ordine nuovo proiettato verso la vita che desidera, un discorso del padre dunque che si fa madre. L’egemonia, spiegava Gramsci, è la capacità di saper attrarre nel proprio campo frazioni del campo avverso, facendo patti nella loro lingua6. Non sembri troppo ottimistico riconoscere che nel 2011 e il 4 dicembre ci sia stata questa capacità diffusa e spontanea di comitati, associazioni e sindacati più o meno di base, di attrarre strategicamente frazioni del campo avverso attorno a contenuti riconosciuti o compresi magari solo in parte, ma che soddisfacevano interessi e bisogni trasversali. E, in proposito, sarebbe interessante un’indagine socio-semantica sulla diffusione di un’espressione ormai quasi usurata come “bene comune”, se è vero, come è capitato di ascoltare a chi scrive, che anche un amministratore di condominio, impegnato nella titanica impresa della sostituzione di un’antenna televisiva centralizzata, per convincere i riottosi condomini, si sia espresso dicendo che “ormai, la televisione è un bene comune”. Non sarà certo questa innocente perorazione a strappare dalle mani della Rai e di Mediaset l’anello decisivo della comunicazione mediatica, ma la sinistra che ricerca il suo basamento egemonico, piuttosto che perdersi nell’infinita ricombinazione dei gruppi dirigenti selezionati dal crisma elettorale, dovrebbe guardare con più attenzione alle spinte contro-egemoniche spontanee che nei due tornanti decisivi sopra richiamati si sono così energicamente espresse.

  1. M. T. Meli, L’amarezza del giorno più lungo: “Non credevo che mi odiassero così”, “Corriere della sera”, 5.12.2016, p. 6. []
  2. D. Cianci, Intervista a Massimo Recalcati: “Un paese vittima dell’odio, che gode nella distruzione”, “l’Unità”, 7.12.2016, p. 4. []
  3. G. De Marchis, La solitudine del premier. “Sotto assedio io non ci sto”. Ma c’è l’opzione rilancio, “la Repubblica”, 5.12.2016, p. 3. []
  4. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicanalisi, Torino, Einaudi, 2001. []
  5. J. Lacan, Du discours psychanalytique, in G. B. Contri (a cura di), Lacan in Italia 1953- 78, La Salamandra, Milano 1978, pp. 32-55 (trad. it. pp. 187-201). []
  6. A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, 4 voll., vol. I, p. 646, (Q. 5). []

I cannoni di Scalfari e la morale di Napolitano

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Vada come vada, questo referendum ha già avuto il risultato di far cadere un po’ di veli. Si prenda Eugenio Scalfari. Il 3 ottobre scorso, avendo letto e meditato sulle visioni politiche dei grandi classici, se ne uscì con un editoriale che inneggiava all’oligarchia in quanto sola forma di democrazia, con l’argomento che «l’oligarchia è la classe dirigente, a tutti i livelli e in tutte le epoche»1. Seguiva una messe impressionante di fatti storici, da Platone alla Democrazia cristiana, che dimostravano che «oligarchia e democrazia sono la stessa cosa»2. Ora, tutti abbiamo studiato a scuola che, per Platone, l’oligarchia, detta anche da lui timocrazia, era il governo di pochi malvagi. Per non parlare di Aristotele, per il quale l’oligarchia era la degenerazione dell’aristocrazia. Ma Scalfari aveva letto e meditato, e quindi si poteva permettere una simile innovazione, perché in fondo ciò che voleva affermare era che il governo è un affare dei dominanti, che sono tutto, mentre i dominati  sono solo un… – ma Scalfari alludeva a Pareto o al Marchese del Grillo? Come che sia, egli ha martellato con questo argomento durante la sua campagna elettorale a favore del sì, sino all’editoriale del 1° dicembre, con il quale ha completato l’opera, scrivendo che il sì era necessario per l’Europa: «il capitale è una forza fondamentale della storia moderna e può essere una forza positiva o sfruttatrice. Lo dimostrò Marx alla metà dell’Ottocento: riconosceva la forza positiva del capitalismo che era in quel momento il motore della rivoluzione industriale e al tempo stesso delle libertà borghesi, premessa della rivoluzione proletaria. Ecco perché l’Europa federalista è indispensabile e deve essere il principale obiettivo della sinistra moderna»3. Quindi, l’Europa federalista è borghese e capitalista, e siccome il capitalismo borghese è la premessa della rivoluzione proletaria, la sinistra moderna, se vuole la rivoluzione, deve sostenere l’Europa federal-capitalista. Pareto, che era uno scienziato, di fronte a simili ragionamenti, si faceva beffe degli “intellettuali”, definendoli produttori di cannoni dipinti4. Benché dipinti, però, i cannoni di Scalfari non sparano a salve. Con ragionamenti come quello sopra citato, egli a far data almeno da Razza padrona, il massimo della critica dell’economia politica cui i sui profondi studi l’hanno condotto, ha preso in giro la sinistra, una sinistra ovviamente che aveva tutto l’interesse a farsi prendere in giro da un così abile fabbricatore di “derivazioni”, giusto il termine tecnico di Pareto, ovvero di ragionamenti manipolatori con i quali assopire i governati. Prendiamo Giorgio Napolitano. Tutto si può dire di lui tranne che sia uno che si fa manipolare, ma il 2 dicembre scorso, tre mesi dopo l’editoriale con cui Scalfari sconvole la scienza politica, e un giorno dopo in cui Marx fu da lui arruolato per la vittoria del sì, ha testualmente dichiarato che «non esiste politica senza professionalità come non esiste mondo senza élite»5. E qui si capisce a cosa servono le derivazioni: senza di esse Napolitano sarebbe rimasto un forbito compagno della Direzione del fu Partito comunista italiano, invece dipingendo cannoni è salito al Quirinale. Ma Napolitano, che ha una coscienza, cerca anche il conforto della morale. Così, in questi anni si è recato molte volte a Ghilarza, paese natale di Antonio Gramsci, e da ultimo anche a Milano, dove nel maggio scorso gli originali dei Quaderni del carcere sono stati esposti accanto ai quadri di Renato Guttuso. Non siamo certo alle reliquie, perché c’erano anche i dipinti, gli onnipresenti cannoni dipinti, uno dei quali questa volta è servito a Napolitano per emettere i canonici sette colpi a salve, in onore del Gramsci «monumento morale»6. Bene, ma con le élite come la mettiamo? Ecco cosa ne pensava Gramsci, prima di essere moralmente cannoneggiato da Napolitano: «ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico‑morale»7. E se non fosse chiaro, ecco come si esprimeva ancora in proposito il grande sardo: «si vuole che ci siano sempre governati e governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca? cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni?»8. Gramsci, che era un socratico, poneva domande. E Napolitano, che si fa prestare i cannoni da Scalfari, complice il referendum, la risposta finalmente l’ha data: «non esiste mondo senza élite». Domani, vinca il sì o vinca il no, almeno questo, alla faccia di Gramsci, l’abbiamo chiarito.

  1. E. Scalfari, Zagrebelsky è un amico ma il match con Renzi l’ha perduto. Il primo errore è stato la contrapposizione tra oligarchia e democrazia, “la repubblica”, 2.10.2016, http://www.repubblica.it/politica/2016/10/02/news/zagrebelsky_renzi_scalfari-148925679/ []
  2. Ibidem. []
  3. E. Scalfari, Il Quirinale tra Waterloo e Ventotene, “la Repubblica”, 1.12.2016, p. 1 e 31. []
  4. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, Torino, UTET, 1988, 4 voll. vol. IV, § 1923, nota 1, p. 1892 []
  5. “Corriere della sera”, 2.12.2016, p. 6 []
  6. http://www.corriere.it/cultura/16_maggio_23/gramsci-guttuso-gallerie-d-italia-milano-intesa-san-paolo-quaderni-carcere-quadri-bazoli-napolitano-1aa5c18e-211e-11e6-a5a3-c2288e2f54b5.shtml; ma v. anche http://www.sardinews.it/pdf/dossier%204_2007.pdf []
  7. Q. 8, § 179. []
  8. Q. 15, § 4. []

Il sì di Prodi al referendum del 4 dicembre

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L‘annuncio di Prodi che voterà sì al referendum costituzionale del 4 dicembre squarcia anche l’ultimo velo di ipocrisia intorno ad un ventennio in cui la sinistra, a causa della minorità politica e culturale con cui si autorappresenta, e che offre il destro al “sistema” per costringerla in tale paralizzante rappresentazione, è stata usata come serbatoio di voti per puntellare un fronte capitalistico che altrimenti non avrebbe avuto la forza di imporre la sua logica modernizzatrice alle sue frange più riottose. Certo, resta il paradosso di un capitano di ventura come Massimo D’Alema che, per i corsi e ricorsi del gioco politico, schierandosi per il no, si ritrova a poter mantenere la promessa fatta sul letto di morte a Dossetti di difendere la Costituzione del ’48, mentre il mulinista bolognese Romano Prodi le dà la pugnalata finale, in nome di una politica che, quando non è sangue, merda e sedute spiritiche, ha la sua garanzia nelle “scienze sociali” internazionali, nei cui numeri e tabelle svanisce come per magia la lotta di classe. Ma queste sono cose della sfera morale. Cosa accadrà invece dal 5 dicembre in poi? Fioccano le previsioni su governi tecnici, governicchi e governi per tirare a campare, ma su quali basi materiali questi governi di scopo, “per i decimali di Bruxelles”, “per la legge elettorale”, “per la fine naturale della legislatura”, potranno poggiare? La Costituzione che boccheggia, e che anche nel caso della vittoria del no non sarà più la Costituzione del ’48, segnala sommovimenti nella sottostante grammatica ideologica per la cui comprensione non è necessario un master che batta un colpo nelle prodiane scienze degli spiriti. La galassia renziana, che con la vittoria del sì aspira a divenire blocco egemone, propone un neocentralismo che, avocando a Roma poteri degradatisi in questo ventennio di disunione progressiva, mira ad avere più peso in un’Europa dei governi in cui la Brexit offre qualche opportunità in più per il pur sempre gracile capitalismo modernizzato italiano. Il neocentralismo comporta ovviamente una rinnovata politica di mance, che può segnare una nuova stagione di infeudamento del Mezzogiorno ad un potere che da un secolo e mezzo lo estranea da sé, costringendolo a estrinsecarsi principalmente come energia criminale, funzionale sul piano materiale a svolgere i bassi lavori del blocco di potere nordista, e sul piano simbolico a tacitarlo, perché i delinquenti non si invitano a tavola, e al massimo fanno gli stallieri. Il neocentralismo renziano, inoltre, comporta l’assorbimento subalterno di pressoché intera la sinistra (Pisapia docet: extra Piddiem, nulla salus), una sorta di compimento malandrino della dolce fregatura ulivista, portata avanti negli anni addietro dal succitato Prodi, che non a caso vota sì. Tout se tient. L’alternativa viene invece dal centrodestra, dove al neocentralismo che il 4 dicembre gioca tutta la posta, contrappone un sovranismo che comporta anch’esso un rinnovato centralismo romano, ma per scassare gli equilibri di Bruxelles e fare emergere un’Europa dei popoli, formula fascinosa dalla quale possono invece riemergere tutte le Erinni che la sconfitta hitleriana aveva sprofondato negli abissi: sangue, territorio, razza –ma può anche emergere un capitalismo trumpista, che combini assieme le pulsioni profonde con una rinnovata plutocrazia, la quale, dopo avere scorazzato per il mondo, ha bisogno dei vecchi confini nazionali per ricomporre le contraddizioni tra valorizzazione del capitale e scomposizione della forza lavoro. Il duo Salvini-Meloni che con lucidità cerca di mettersi in sintonia con questa impetuosa corrente internazionale, deve fare i conti con i colpi di coda, non tanto del vecchio e patetico separatismo lombardo-veneto, che può essere a sua volta tacitato con opportune mance, ma con il perenne affarismo meneghino, pronto a offrire i propri servizi al blocco vincente, con combinazioni fantasiose che possono anche arrivare ad una completa sostituzione della vecchia mafia siciliana con la performante ndrangheta calabrese. Resta sullo sfondo come un edifico di archeologia politica la mole del movimento anarco-qualunquista dei cinquestelle, condotto con sagacia da un capocomico che però non potrà mai calcare la scena in prima persona, e che perciò è costretto ad affidarsi a figure e figurine che, in un movimento già di per sé composito, si prestano ai trasformismi, con i quali cricche e cerchie sempiterne si riciclano: per assessori della giunta capitolina non si sono forse ricercati i consigli non del popolo, non della rete, ma di ben noti studi legali? Quel che resta di quella sinistra che negli anni Novanta si aggregò intorno alla resistenza rifondista, gioca di sponda con questo movimento che, come afferma il suo mentore, meriterebbe un premio per aver impedito che il malcontento si scatenasse nelle piazze, laddove da un lato si abbassa il conflitto di classe alle piazze turbolente, dall’altro si rivendica un ruolo oppiaceo che è proprio ciò che impedisce al discorso della sinistra di avere una base di massa. Continue sono infatti le lamentazioni circa il fatto che “il discorso anticapitalista” non ha consenso, ma nessuno ha davvero il coraggio di guardare in faccia il problema, e cioè che una sinistra senza partito è un piatto di lasagne dipinto nel muro: fa venire l’acquolina in bocca, ma poi si va a sfamarsi con la minestra che passa il convento. Dunque, neocentralismo, sovranismo, anarco-qualunquismo, queste le tre faglie da cui verrà fuori il terremoto del 4 dicembre, da cui la sinistra cerca di scampare in qualche container sindacale, ricostruendo pezzetti di welfare in fabbriche in cui il capitale invoca il fronte comune per reggere la concorrenza “globale”. Un dignitoso neo-corporativismo dal quale può uscire solo se intraprende quella “lunga marcia” da cui gatti, volpi e zecchini d’oro l’hanno da troppo tempo distolta.