Molti, di fronte alla vittoria di Trump, hanno alzato le braccia sconfortati: la sinistra è morta, non c’è alternativa, prepariamoci al peggio. Ma Hillary, la signora Rodham che si faceva chiamare Clinton, rappresentava la sinistra? E poi, la sinistra, in questi anni, è stata davvero così assente? Occupy Wall Street, referendum italiani del 2011 vinti alla grande, Indignados, Syriza che vince in Grecia, Corbin che strappa il Labour al blairismo e, ancora in corso, nuit debut in Francia, non contano? Certo, alla fine, però, vince Trump. Come mai? Proviamo a mettere assieme, uno dietro l’altro, alcuni fatti:
1) Trump da destra attacca la corruzione, la disonestà e il politicamente corretto dei media che, quando non sono governativi, sono di destra (v. sconro con Fox News). La sinistra non disdegna le tribunette che in quei media corrotti riesce a lucrare, nell’illusione che le diano la “rispettabilità” da establishment, che la renda degna di “andare al governo”. Questa è una tipica mentalità subalterna, che invece la destra rigenerata che Trump incarna non ha, così come non l’ha avuta il Comico Penstastelluto, che ha snobbato per anni la tv, arrivando lo stesso al 30% di consensi, con la “lunga marcia” dei Vaffa Day;
2) la sinistra denuncia la “globalizzazione liberistica”, ma non dice una parola sulla svalorizzazione del lavoro su cui si fonda il miracolo del “socialismo alla cinese”, come con sprezzo del ridicolo viene ancora chiamato da alcuni buontemponi. Trump invece non esita ad attaccare la Cina, unendo in un unico fronte tanto i capitalisti rovinati dalla Cina, quanto i lavoratori licenziati dai capitalisti rovinati dalla Cina. Piaccia o meno, questa è capacità egemonica;
3) Trump si oppone a ulteriori tagli alla sicurezza sociale e vuole fare una politica di investimenti pubblici. Da noi, dall’Ulivo in poi, si susseguono governi che prendono voti a sinistra e fanno politiche destrorse di tagli a sanità, pensioni, scuola e a tutto ciò per cui la sinistra si è battuta nei decenni trascorsi. Questa non è egemonia, ma opportunismo degli stati maggiori, tipico di partiti la cui unica ragione sociale è rimasta quella di “andare al governo”, pensando che stando al governo, la sinistra è “egemone”. Questa mentalità machiavellica ha purtroppo contagiato anche la base. Non si spiega altrimenti come tanti ex-Pci si riconoscano nell’attuale PD, che porta all’estremo quel falso teorema. Il machiavellismo è una deteriorie cultura politica che non ha niente a che fare con l’egemonia, ma che anzi la nega alla radice, perché permette agli stati maggiori opportunisti di avere il consenso di una base ridotta a “parco buoi” elettorale;
4) Trump si batte contro la finanza (tasse sui mediatori di hedge fund, ripristino della legge Glass-Steagall). Da noi i governanti che prendono i voti della sinistra, la sera giocano a carte con banchieri, finanzieri e grandi capitalisti, e quando un Bersani si scaglia contro il finanzcapitalista Serra, resta la nota stonata che nessuno capisce, il primo lui: come avrò fatto, io, il Magnifico Lenzuolatore, a dire quella enormità? Su, coraggio, Bersani & Co., è quella la strada, ma il discorso deve essere sviluppato negli anni, non può essere una resipiscienza in articulo mortis;
5) Trump è contro le sanzioni alla Russia e quindi contro l’estensione della Nato sino ai confini russi. L’Italia di centrosinistra lo sarebbe pure, per ragioni di bottega, ma intanto manda truppe in Lituania, e un presidente della repubblica “realista togliatttiano” scavalcò a destra Berlusconi quando si trattò di bombardare la Libia, perché Hillary lo reclamava. Se una sinistra che “viene da lontano e va lontano” produce simili dirigenti, non c’è forse un problema? Si dirà: ma chi li vota più quelli?! Già, ma se il gramscian-leninista Alexis Tsipras fugge a gambe levate dall’esito di un referendum che gli ha dato mandato pieno di sottrarsi all’“ordoliberismo”, non c’è forse un problema ancora più grande, visto che questa nuova sinistra si mostra più infingarda e opportunista di quella appena trascorsa?
Si potrebbe continuare ad accumulare fatti e notazioni, ma per non farla lunga si può concludere dicendo che forse il criterio per distinguere destra e sinistra c’è, e ce lo offre Trump: saper fare una politica egemonica, partendo dal senso comune, ma non per cristallizzarlo a livello di “senso comune”, come fa Trump, facilitandosi le cose, e non per caso è di destra, ma per elevarlo a “buon senso”. È ciò che alcuni chiamano l’uscita dalla condizione di minorità sociale, politica e culturale di coloro che, proprio a causa di quella minorità, votano “populista”. È positivo che riemerga la consapevolezza che questa fuoriuscita non può essere un processo spontaneo, ma organizzato. Ed è positivo che si rivendichi il carattere non meramente identitario ma propositivo del femminismo, ma si potrebbe dire lo stesso dell’ecologismo, del consumo critico, delle classiche lotte per il lavoro, ecc. ecc. Purtroppo, però, le concrete proposte organizzative restano a dir poco vaghe, come quando si auspica una «composizione collettiva di pratiche collegate all’etica dell’affermazione di alternative condivise e situate»1. Si ha l’impressione che dietro queste cortine fumogene verbali c’è il rifiuto, derivato da un comprensibile trauma, ad affrontare il nodo vero del partito, il partito che coordini tutti i fronti della lotta, costringendo effettivamente i singoli movimenti ad autodecentrarsi, per convergere, a partire da una sorta di reciproco “velo di ignoranza”, verso la finalità comune. Quando e chi sarà capace di fare una simile operazione, che evidentemente non è un’operazione logica, ma pratica, nessuno lo può dire. Sappiamo però che l’esigenza è posta, una esigenza resa ancora più pressante dalla urticante lezione egemonica del “deplorevole” Donald Trump.
- R. Braidotti, La storia finisce con Trump? Do not agonize: Organize!, “il Manifesto”, 11.11.2016, p. 19. [↩]