Politica

Ritorno a Ventotene: tanti auguri a Matteo Renzi

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Il prossimo 22 agosto, l’Italia incontrerà Germania e Francia a Ventotene “per ripartire con convinzione sull’Ue dei valori e degli ideali”. Parole di Matteo Renzi all’ultima Direzione del Partito democratico. È un lodevolissimo intento, ma Ventotene, lo spirito di Ventotene, il Manifesto di Ventotene, non sono uno scherzo. Proviamo a rileggerlo nei suoi punti salienti. La missione di un’Europa libera e unita, scrivono Spinelli, Rossi e Colorni, è di sviluppare il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Perciò, non la “politica europea”, non i suoi vertici, non le sue scartoffie che viaggiano quotidianamente tra Bruxelles e Strasburgo, ma la rivoluzione europea dovrà portare avanti questa missione, che è una missione socialista, in quanto si proprone l’emancipazione delle classi lavoratrici, ispirandosi al principio secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma debbono essere da loro dominate. Che fare? Risposta della rivoluzione europea: abolire l’occlusione economica! Questo programma deve essere incarnato non dalla Commissione europea, non dal board dei capi di governo, non dai sacerdoti dell’austerità, ma da un partito rivoluzionario che deve attingere e reclutare nella sua organizzazione solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita. Dunque, non carrieristi, ma rivoluzionari devoti alla causa euroepa. Non sono ammessi quindi Presidenti di Commissione che, cessato il loro mandato, passano a lavorare per Goldman Sachs. Ma andiamo avanti. Questo partito attinge la sicurezza di quel che va fatto, dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Quindi, non è un partito che “prende partito” a priori, arbitrariamente, ma è un partito che raccoglie, accumula, immagazzina le forze che consentono di “prendere partito”. Prendere partito per la rivoluzione europea, che è una rivoluzione socialista fatta da rivoluzionari votati all’idea di Europa. E qui viene il bello. Non con i dinoccolati discorsi nel paludato Parlamento europeo, non con i narcisistici interventi negli infuocati talk show, non con le peregrine Costituzioni che i popoli giustamente spernacchiano, ma tramite la dittatura di questo partito rivoluzionario europeo si forma il nuovo Stato e attorno ad esso la nuova democrazia. Dittatura? Sì, proprio così, con un concetto che, a quanto pare, gli autori del Manifesto non disdegnano di trarre da un Lenin filtrato da Gramsci1, dittatura non della Troika, della finanza, delle grandi banche, che anzi vanno nazionalizzate, come recita il primo punto del programma economico del Manifesto, ma dittatura del partito rivoluzionario che persegue lo scopo di sviluppare il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Grecia, de te fabula narratur. Questo partito non deve girarsi i pollici, aspettando che il processo si compia. Al contrario, esso deve rivolgere la sua operosità anzitutto verso i due gruppi sociali più spontaneamente europeisti, vale a dire la classe operaia e gli intellettuali. Qui, chissà perché, viene ancora in mente Gramsci, ma non sarà per questo che, in tutti questi anni, non di dittatura del partito rivoluzionario europeo, ma di dittatura del capitale, Commissione europea, board dei capi di governo, sacerdoti dell’austerità, globalisti di ogni risma e contrada, hanno lavorato per atterrare e disperdere classe operaia e intellettuali? Ma non cediamo ai sospetti e restiamo al Manifesto. Solo sulla base di questa dittatura del partito rivoluzionario europeo che, come abbiamo detto, è un partito che “prende partito” non arbitrariamente, ma nel divenire del processo storico europeo, che è un processo socialista, cioè egualitario, solo su questa base le libertà politiche potranno veramente avere per tutti un contenuto concreto e non solo formale. E quale sarà questo contenuto di una rivoluzione che qualche supercilioso sta già squalificando come la solita, impossibile, catastrofica, pauperistica, rivoluzione egualitaria? Il contenuto di queste libertà politiche sarà che la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e continuo controllo sulla classe governante. Testuale. E ci si chiede: questo ideale rivoluzionario europeo consistente nella reciprocità tra governanti e governati, tra dirigenti e diretti, non è l’asse portante dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci? Se solo in tutti questi anni, nel nome abusato dell’Europa, fosse stata esercitata non la dittatura del capitale, ma quella del partito rivoluzionario europeo, un partito a quanto pare gramsciano con venature addirittura leniniste, un partito per il quale la riforma economica non è il fine, ma il mezzo per la riforma politica, se solo anche una piccola parte di ciò fosse stato attuato, non avremmo oggi alle porte la minaccia dei “populisti” che urlano contro la “casta”, pronti a subentrarle, non appena l’avranno sloggiata dagli scranni che essa sempre più precariamente ancora occupa. Caro Matteo Renzi, il 22 agosto 2016 prossimo venturo, a Ventotene, sulla portaerei in cui per motivi di sicurezza si svolgerà il vertice europeo da te promosso, riuscirai a iscriverti e a fare iscrivere Hollande e Merkel al partito rivoluzionario europeo? Tanti auguri!

  1. I. Pasquetti, Altiero Spinelli tra Gramsci, Nenni e Berlignuer, “Eurostudium”, ottobre-dicembre 2008, p. 47. []

Golpe in Turchia, se il popolo ama Erdogan

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Chissà se esiste una memoria delle immagini collettiva, ma quel tipo muscoloso che, a torso nudo, si è parato davanti al carro armato, nel corso del tentato golpe in Turchia, pare che non aspettasse altro nella vita che di poter riprodurre il manifestante che, nel 1989, si parò davanti alla fila di tank che avanzavano su Tien An Men. È vero, quest’ultimo era più esile e con la camicia bianca, ma il gesto è uguale, fare la storia in difesa della libertà. Ma i carri armati sono tutti uguali? A Pechino, i carri armati portarono a termine le riforme economiche avviate dieci anni prima da Deng Xiaoping, mettendo in riga un partito dove ancora covava il fuoco di pericolose idealità rivoluzionarie. I carri armati spiegarono bene che era lecito e doveroso arricchirsi, ma bisognava lasciar perdere ogni velleità di socialismo democratico, una confusa miscela che avrebbe portato di lì a poco al tracollo di Gorbaciov. E qui c’è l’altra analogia che il fallito golpe turco richiama. Chi si ricorda più di Jazov, Janaev, Krjučkov, Pugo, Pavlov, Varennikov? Formavano il comitato di salute pubblica che diresse il colpo di stato che, nell’agosto 1991, si riprometteva di ripristinare l’autorità del PCUS, scossa da un decennio di glasnost e perestrojka, la trasparenza e la ristrutturazione con cui Gorbaciov tentò di rendere astemia l’URSS. Anche quello fu un colpo di stato che, tra sparatorie a casaccio e inadeguatezze dei protagonisti, fallì miseramente, finendo per rafforzare chi voleva eliminare. In quel caso, Eltsin che, formidabile bevitore, montato su un carro armato compiacente, arringò la folla in difesa della libertà. La quale prese tosto possesso dei territori dell’ex Unione Sovietica, e nel giro di un decennio ridusse drasticamente l’aspettativa di vita dei suoi abitanti. Erdogan, anche lui autore di crociate contro l’alcool, ha avuto però la vita più facile di Eltsin, perché standosene al coperto, ha potuto occhieggiare da uno smartphone graziosamente sorretto da una vestale della libera informazione. Da lì, mentre il suo aereo volteggiava nei cieli della Turchia, in attesa di atterrare nel punto più affollato di fedeli supporter, ha incitato il popolo a resistere. Ma questi militari turchi i sondaggi non li leggono? Non sapevano che Erdogan ha un buon cinquanta per cento e passa di gradimento? Il popolo lo ama, perché con lui dalla stessa fonte sgorgano la fratellanza musulmana e la possibilità di “guadagnare denaro vero”1. Con lui, i turchi, che la laicità occidentalizzante di Atatürk alienava culturalmente e deprimeva economicamente, possono pregare e arricchirsi. Non era forse Maometto un ricco commerciante? Erdogan è un miscuglio di Eltsin e di Deng Xiaoping, e i militari sono solo i patetici rappresentanti di una antiquata modernizzazione che il popolo rifiuta in blocco. Il “popolo”, questa immensa campagna che, sotto le più varie insegne, ma tutte richiamantesi alla libertà, è attratta da ogni punto del globo nella fornace insaziabile di un modo di produzione che promette ricchezza ma regala stagnazione.

  1. P. G. Brera, “Ora noi studentesse possiamo tenere il velo. Erdogan ci difende”, la Repubblica, 14.7.2016, p. 12. []

Dhaka, arancia meccanica in salsa bengalese

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Nell’Arancia meccanica andata in scena a Dhaka, Dacca, per i semplici di spirito, la trama del racconto è stata rovesciata. Mentre, nel film di Kubrick, Alex prima uccide e stupra, e dopo viene sottoposto ad un lavaggio del cervello per renderlo inoffensivo, nella realtà odierna del Bangladesh, i suoi emuli prima vengono sottoposti al lavaggio del cervello per renderli altamente offensivi, poi torturano e uccidono. Si dirà che il cervello di Alex era esso stesso un prodotto sociale, e il lavaggio lo riporta ad una realtà sociale che è quella stessa che ha prodotto il suo cervello omicida. Ma questa regressio ad infinitum, ottima per la critica cinematografica, rischia di non farci andare oltre il livello meccanico dell’analogia, quando invece bisogna cercare di andare al succo dell’arancia. Che è aspro e amaro. Aspro perché ci ricorda che terrorismo è un termine che non significa niente se non guardiamo in faccia la realtà. Non ci si può illudere che il denaro, avvolto nella carta stagnola del multiculturalismo, possa lubrificare tutti gli scambi mondiali. Ci sono degli inevitabii ritorni di fiamma che inceneriscono ogni volenterosa razionalità strumentale. L’emblema di ciò è l’Arabia Saudita, abilissima tesaurizzatrice del suo petrolio, e principale finanziatrice della fazione più estrema del credo islamico. A quanto pare, sin da subito si seppe che dietro gli aerei stragisti dell’11 settembre 2001 c’era la sua mano, ma gli americani, anziché portarla davanti ad un consesso di giustizia internazionale, che pure, da Norimberga alle false prove contro Saddam, quando vogliono, sanno come allestire, andarono a sfogare la loro furia contro gli afghani e poi gli irakeni. Bisognerà ricostruire tutti i dettagli di questo calcolo, che forse è una sindrome, continuare a fare affari con chi ti vuole morto – non è così che vanno le cose nelle cosche mafiose? Il multiculturalismo ci porta all’amaro della storia. Il multiculturalismo presuppone un interesse reciproco per le reciproche differenze, altrimenti è solo il vecchio esotismo senza più le truppe coloniali. Per fortuna, quel tempo è passato, ma bisogna prendere atto che quest’interesse reciproco, salvo per una ristretta minoranza cosmopolita, si manifesta come un’alienazione che scatena la rabbia omicida. Il terrorismo, e l’immigrazione, sono dunque il secondo tempo del rapporto coloniale, e il multiculturalismo è la risposta di chi non ha più la forza di imporre la propria curiosità sfruttatrice. È un meccanismo incagliato, che rischia di incanaglirsi, se non sopravviene una corrente unificatrice, che dissolva le differenze in un movimento che ha bisogno delle differenze, perchè è dal loro dissolversi che trae energia, ma che per ciò stesso non ristagna nelle differenze. Ciò non ha niente a che fare con la miracolosa autoregolazione del mercato, ma richiede una consapevolezza del divenire che, con una mostruosa alleanza, moralisti e immoralisti dell’ordine sociale esistente hanno deciso di mettere al bando.

Brexit, il nuovo inizio dell’Unione Europea

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L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è quel fulmine che mancava per purificare l’aria ammorbata che da anni soffoca il continente. Essa anzitutto avrà delle positive conseguenze sulla stessa Gran Bretagna, poiché scuoterà dalle fondamenta questa decrepita e altezzosa democrazia che, a dimostrazione della loro fossilizzazione culturale, molti liberali e democratici ad ogni pie’ sospinto additano ancora come modello. Un paese che, con Londra, sopravvive quale roccaforte di quella canaglia sociale che è il capitale finanziario, e che ricatta Scozia, Galles ed Irlanda del Nord in nome di una unità statale sempre meno in grado di assicurare sicurezza e sviluppo, ma ancora abbastanza in grado di condizionarne le dinamiche. Un paese, inoltre, che con il suo violento sistema elettorale maggioritario, che fa andare in brodo di giuggiole gli adepti dell’ortodossia costituzionale liberaldemocratica, per decenni ha reso impossibile l’espressione parlamentare di cospicue e innovative minoranze, dando invece sempre voce alle false “maggioranze” prone all’ideologia del “legame transatlantico speciale” (guerra in Iraq), dell’opportunismo europeo (mance e sovvenzioni economiche) e della più becera conservazione sociale (“la società non esiste” di Margaret Thatcher). È un bene, quindi, che un arcaico modello democratico perda prestigio, perché pone le premesse per un rinnovamento ideale e pratico della stessa democrazia, per non parlare della sinistra, costretta a sopravvivere sotto le spoglie di quella “terza via”, che ha fatto solo le fortune personali di Tony Blair.

Quanto all’Europa, l’uscita della Gran Bretagna dall’UE costringerà Germania, Francia e Italia a venire fuori dagli equivoci, dagli attendismi e dai particolarismi con cui hanno cercato di far fronte alle dinamiche del capitalismo globale. Poiché gli antieuropeisti di ciascuno di quei tre paesi cercheranno di trarre vantaggio dall’esito del referendum inglese, le forze europeiste dovranno cambiare spartito per ritrovare slancio, e questo non potrà che avvenire rimettendo in discussione Maastricht e i suoi principi antisociali monetaristici. L’Unione Europea se vorrà sopravvivere dovrà diventare un’Europa che metta al suo centro non l’astratto sogno federalistico, non l’illusione della potenza finanziaria, ma il benessere della società in tutte le sue componenti, di cui quindi si dovranno stimolare non gli spiriti animali, che da secoli causano all’Europa solo lutti e disastri, ma le forze produttive, in primis quella demografica.

Questo bel quadretto non significa un’Europa ritirata e mansueta, che porge l’altra guancia al primo che passando la schiaffeggia. L’Europa invece dovrà essere estremamente pugnace innanzitutto con la Cina, che con il suo spiccio capitalismo confuciano crede di potersi assicurare l’egemonia mondiale. Ad ogni tavolo di trattativa commerciale con questo grande paese, dovrà stare sempre seduto il Ministro del Lavoro europeo, questo sì urgente necessità istituzionale di una rinnovata Unione Europea, ben più del ministro del tesoro o dell’interno richiesto ormai un giorno sì e uno no dagli europeisti alla Eugenio Scalfari. Alla Cina non dovrà più essere consentito di usare la merce lavoro per alimentare i consumi affluenti della sua classe media, assicurati (per ora) dai decadenti europei. Questi circoli viziosi devono essere spezzati, e la Cina dovrà essere posta di fronte alle sue responsabilità: se vuole il “progresso”, cominci dai diritti sociali, magari ritornando a prendere lezione dal miglior Mao.

La stessa durezza dovrà essere posta nelle trattative per il Trattato di commercio transatlantico, di cui già si conoscono le pecche, per usare un eufemismo, e in generale con gli Stati Uniti, che sfruttando il lascito egemonico della seconda guerra mondiale, tengono l’Europa ad un lungo, ma ben visibile guinzaglio, come si è visto all’epoca della guerra in Iraq del secondo Bush, e soprattutto nella vicenda ucraina. L’Unione Europea non può essere nemica della Russia, poiché tale inimicizia trasforma il comunitarismo russo in pulsione autoritaria e fascista. Putin è un punto di equilibrio assai precario in tal senso, e spingere oltre significherebbe per l’UE trovarsi a convivere con un paese che farebbe da modello per tutti i fascismi che albergano nelle profondità capitalistico-borghesi dell’Europa latina e carolingia. La nuova Unione Europea dovrà quindi essere amica della Russia, e dovrà provvedre da sé alla propria sicurezza, che dovrà tradursi principalmente in una collaborazione a tutti i livelli con i paesi arabi e africani. E affinché questa collaborazione non sia solo una collaborazione tra Stati (basta, casi Regeni!) ma tra popoli, dovranno dialogare le religioni, quella cattolico-romana, quella ortodossa e quella islamica. Il ruolo pubblico delle religioni su cui si arrovellano liberal-democratici onesti come Jürgen Habermas, è questo, favorire la fuoriuscita definitiva dai rapporti coloniali, e incentivare la coesione culturale, morale, economica e sociale dell’Europa e dell’Africa. Se questo dialogo si incardina, Daesh, che la criminale stupidità mediatica qualifica di Stato Islamico, deperirà in poco tempo.

La Brexit, dunque, non è un disastro, ma la possibilità concreta di un nuovo inizio. Certo, a patto di aprire gli occhi, e di svegliarsi da vecchi sogni illusori e sbagliati. Altrimenti è facile prevedere che l’Europa ancora una volta sarà preda di guitti e buffoni, cui poi la storia accaduta attribuirà loro, anche se portavano sotto il naso dei ridicoli baffetti, una grandezza immeritata.

Grillini

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Non giustizia. Né libertà. Non uguaglianza. Né solidarietà. Onestà. Questa la richiesta che sale dal popolo grillino, come si è visto al funerale del Misterioso Leader, e in ogni altra circostanza in cui detto popolo si raduna. Ma cos’è l’onestà? L’onestà è il comportamento corretto, il rispetto delle regole, in breve, il riconoscimento della legittimità dell’esistente e il valore morale che si attribuisce all’adeguarsi volontariamente ad esso. Ma i grillini, con le bisacce piene di voti, adesso proclamano che “tutto cambierà”. Cosa, cambierà? “Loro” rubavano, i grillini non ruberanno. “Loro” si spartivano le cariche, i grillini guarderanno solo al merito e alle competenze. “Loro” governavano a vita, i grillini faranno solo due mandati di seguito. In effetti, sono cose rivoluzionarie, ma che rivoluzione è? Una rivoluzione economica? Non si direbbe. Sociale? Neppure. Politica? Sì, certo, politica, ma in che senso politica? Si può dire che la Casaleggio & Associati è il nucleo dirigente di un movimento spontaneo? Si può dire che i 5Stelle sono un esempio di unità dialettica tra spontaneità e direzione consapevole? Si dirà, ma queste sono domande libresche. Perché libresche? Si può forse dire che il popolo dei 5S è spontaneo? O non si deve forse dire che è stato la costruzione ben riuscita di una lunga opera di sobillazione, attuata con un abile mix di moderne strategie di rete e di comizi ed adunate tradizionali? Non si deve forse dire, soprattutto ora che hanno il vento in poppa, che comizi, adunate e sfoghi identitari sul web, resi realtà reale dai meet-up, sono stati le uniche strutture partecipative stabili dei 5S prima che esplodessero elettoralmente? Non è forse corretto rilevare che non provengono da una rete solidaristica, né economico-sindacale, ma che sin dall’inizio hanno puntato ad espugnare la cittadella della classe politica? È forse lontano dalla realtà affermare che i 5S rassomigliano alla massa di manovra di una (certo, democratica e pacifica) minorannza sovversiva, che comprende il nucleo originario della Casaleggio & Associati, con la sua protesi demagogica del comico Beppe Grillo, allargato poi al “direttorio”, il tutto funzionale alla selezione di personale politico che preme dalla sottostante massa di manovra per accedere alle cariche pubbliche? Non è forse corretto affermare che, in realtà, il M5S è un fenomeno tutto interno alla classe politica, cioè tutto sovrastrutturale, con larvati agganci con la struttura, di cui rivendicano solo il legame con la mitica piccola impresa? Un capitalismo mignon, da popolo minuto, che serve come giustificazione di un’operazione di ricambio politico, favorita dal mandarinismo dei partiti vecchi e nuovi sorti e trasformatisi nel lunghisismo periodo di crisi politico-istituzionale che va dal 1980 ad oggi? La risposta a queste domande la si può trarre da quello che hanno fatto e si apprestano a fare nei comuni in cui governano o governeranno: con una mentalità da contabili, il loro primo pensiero è di mettere a posto i bilanci, poi tirano qualche petardo al potere della banche, e con aria da tartufi provinciali danno lo sfratto a qualche grande opera (no Olimpiadi ma, con la scusa che “il sindaco non la può bloccare”, sì alla Tav!), il tutto condito con la grottesca enfasi propagandistica delle mance alla piccola impresa – vere e proprie mance che tirano dalle loro tasche, devolvendo eroicamente parte del loro stipendio di parlamentari. La piccola impresa, il segmento capitalistico meno funzionale a innovazione, istruzione, cultura. È facile allora prevedere che il loro trionfo politico si tradurrà in una minima ridistribuzione di pesi tra capitalismo grasso e capitalismo minuto, e che tutto si risolverà nella promozione di un nuovo personale politico che a poco a poco riprodurrà i comportamenti del vecchio, perché la matrice strutturale resterà tale e quale, con i suoi squilibri economici, sociali e geografici dei quali il popolo grillino e i suoi Grandi Leader non mostrano di sapere nulla, salvo la nuotata conquistatrice che il Capo Comico a suo tempo riservò alla Sicilia. Nei barbosi libri, un tempo si apprendeva che l’esistenza dei partiti politici, invece di negare la lotta delle classi, si basa interamente su di essa. Il grillismo nasce per negare i partiti e si proclama movimento. In ciò, bisogna riconoscere che è davvero onesto. Con la sua stessa esistenza, esso infatti onestamente ammette che, in quanto movimento, è una edulcorazione della lotta di classe, è fumo negli occhi, casino per trasformare la classe in popolo, da ricondurre docilmente sotto l’immutato comando dei vecchi rapporti di produzione. Il M5S è figlio di un capitale che ha destrutturato il lavoro, spezzettandolo in segmenti con interessi divergenti. Quando e se si produrrà una nuova sintesi del lavoro, il M5S si scioglierà come neve al sole, ivi compreso Rousseau, la piattaforma democratico-digitale in cui il popolo è deciso dalla “volontà collettiva” altrui.